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Autore: shanna_b    16/04/2008    4 recensioni
“Dottore, dove va l’amore? Me lo dica, per favore. Adesso. Me lo dica. Dove va l’amore che si prova? I sentimenti che ci sono dove vanno? Sono perduti? Si dissolvono come ombre al sole? O l’amore va da qualche parte? E dove?”
“Non lo sappiamo. E non lo sapremo mai. Per questo vogliamo morire.”
La Shannonite è una malattia pericolosa che cambia la vita in maniera radicale e può, in certi casi, diventare cronica. Scoprite come.
Dedicata a mia cognata Deborah e a tante mie amiche che hanno un attacco di questa malattia (vale anche come Jaredite, eh...). Ho provato a scrivere quello che si prova in questi casi e questo ne è uscito. Ed ovviamente mi sono inventata tutto!! Shannon+Jared Leto non mi appartengono (acc...), non li conosco (acc...) e non ho la minima idea di come siano (acc...). Non l'ho scritta a scopo di lucro, ma solo per me e per chi la voglia leggere. Grazie a chi la leggerà e lascerà un commento.
Questa ff ha visto il Best Male, Best Plot, Best Romance e il Readers' Choice nel Contest "Never Ending Story Awards" primo turno.
Genere: Romantico, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Shannon Leto
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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DOMANI – parte prima

 

“No.”

“Invece sì.” La voce di Jared attraverso il telefono era insopportabile.

Shannon sospirò, prima di rispondere, pensando che doveva stare calmo: “E invece no. Jay, quella copertina è assolutamente penosa; non ho mai visto in vita mia un obbrobrio simile. E se pensi per un solo momento che io possa mettere il mio nome lì dietro, beh… ti sbagli di grosso.”

“Shan, ci è costata dodicimila dollari questa copertina.”

“E allora? E’ costosa, ma rimane uno schifo. E poi chi ti aveva detto di commissionarla a quel demente?”

“Ho deciso io.”

“Appunto. Senza chiedere a nessuno! E allora la paghi tu. E poi la metti dentro un cassetto e ce la lasci, perché non voglio mai più vederla.”

“A Tomo piace.”

“A Tomo piace sempre tutto, pur di darti ragione. A Tim  no, invece, pensa.”

“Siamo due pari.” 

“Guarda, mi verrebbe voglia di assumere nuovamente Solon soltanto per vedere che faccia fai quando anche lui ti dice che è una merda.”

“Eh sì, magari ritornasse Solon.”

“Ci hai litigato tu, ricordi? Non io. E adesso lo vorresti indietro?”

“Era così per dire…”

“Sì sì, ‘così per dire’ un corno. In realtà se ritornasse sarebbe meglio. Con lui suonavamo un bel rock, altro che questo… questo… non voglio nemmeno definirlo va’… con i critici in rivolta perenne contro di noi, per non parlare di tutti gli altri musicisti.” Shannon si passò una mano tra i capelli, nel ripensare alle terrificanti recensioni musicali che ricevevano.

“Ma suoniamo quello che vogliamo noi, no?”

“No. Suoniamo quello che vuoi TU; non è la stessa cosa.”

“Non è vero…”

“Senti: se tu potessi, licenzieresti tutti e suoneresti da solo.” Ecco, l’aveva detto.

“Ma che cazzo stai dicendo? Non fosse per me che so scrivere le canzoni, tu faresti il fotografo a Bossier City, nel negozio di mamma, non saresti un divo rock pieno di donne.”

“Senti, non ricominciare con la tiritera del divo rock, che ne ho le palle piene visto che me lo rinfacci ogni volta, ma poi non mi lasci andare via. Ne discutiamo in un altro momento, ok? Stasera no.”

“Dove sei?”

“Sono in taxi e sto arrivando in albergo, mancheranno cinque minuti ancora… credo, non so.” Shannon guardò fuori: non si sapeva orientare.

“Ma sei sicuro di quello che vuoi fare?”

“Sì, mollami.”

“Davvero?”

“Ne abbiamo parlato, no? Sono sei anni che non pubblichiamo un album, nell’ultima settimana hai arrangiato le stesse canzoni in modo diverso almeno tre volte. Tutte e dodici. Un delirio. E io non ne posso più. Voglio suonare, hai capito? S-U-O-N-A-R-E e non passare il mio tempo a tenerti la mano mentre piangi sulla copertina dell’album. Il CD doveva andare in produzione due settimane fa e invece siamo da capo.”

“Ma pensi davvero che ti prenderanno?”

“Non so, non credo, ma almeno lasciami provare.”

“Shan, sei un bastardo ostinato.”

“Oddio, senti da che pulpito viene la predica, addirittura da Mr ‘facciotuttoiochevoinonsapetefareuncazzo’! Ti tirerei un pugno in testa se fossi qui, stronzo.”

Jared, all’insulto, si fermò un attimo e poi disse: “Vabbé fa un po’ quello che vuoi, ma se ti prendono, quando torni non so se riuscirò a perdonarti.”

“Il melodramma tienilo per i tuoi film, capito? Metto giù che sono arrivato.”

Shannon riattaccò il telefono e già che c’era lo spense e lo buttò dentro il suo zainetto con rabbia. Non era arrivato in albergo: aveva spudoratamente mentito, ma non ne poteva più di parlare con Jared, quella sera. Non aveva fatto in tempo a scendere dall’aereo a Linate e ad accendere il blackberry, che suo fratello lo aveva chiamato e, come al solito, avevano cominciato a litigare. E ormai accadeva sempre più di frequente che le loro discussioni finissero in accese litigate. Un continuo rinfacciarsi colpe e misfatti, veri o presunti, l’uno con l’altro. Una tortura.

E per cosa, poi? Alla fine per non concludere niente. Come ogni volta, come quella sera: Jared ad arrangiare per l’ennesima volta le canzoni del presunto nuovo album e a bestemmiare su una copertina da buttare, l’ennesima, e Shannon dall’altra parte del mondo in cerca di un’occasione musicale praticamente impossibile.

Shannon sbuffò e si sistemò sul sedile posteriore del taxi, ripensando alla litigata con il fratello. Gli tornavano in mente parole sparse: una copertina indecente (“Ma che diavolo è saltato in testa a Jared? Vallo a sapere…”), Solon (sì, buono anche quello, arrosto, però…), Bossier City (quanto tempo era che non ci tornava? Secoli!), la mamma (“Quando l’ho vista l’ultima volta? Due mesi fa? Boh… Chissà come sta…”) e poi…

E poi cosa gli aveva detto Jay? “Pieno di donne”? Ma che cazzo voleva dire “pieno di donne”? Avere tante donne era come non averne nessuna. Poterne avere una diversa ogni notte non voleva dire niente. Niente di niente. Scopate e basta. E forse era stanco anche di quello: non voleva una famiglia, però. Una moglie? Per carità! Figli? No davvero: la sua famiglia naturale non era stata una bella esperienza e per quanto lo riguardava non si sentiva di ripetere la cosa. Ma forse ormai non gli andava bene nemmeno di vivere così…

Insomma che diavolo voleva? Si chiese, mentre guardava le luci dei lampioni accendersi una dopo l’altra.

Non si rispose: non lo sapeva nemmeno lui.

Il taxi si fermò davanti all’albergo e Shannon, con un cattivo umore da antologia, guardò l’orologio: le sette di sera. Pagò e scese, entrando in albergo, tirandosi dietro il trolley, e dirigendosi verso la lussuosa hall. Gli rimaneva ancora un’ora per farsi una doccia e prepararsi, visto che soltanto alle venti aveva appuntamento con il suo amico Jason Bonham, al concerto milanese dei Led Zeppelin.

 

RRR

 

Stella, scalza, passeggiava su e giù nervosamente per il CED, masticando un chewingum che ormai era diventato un pezzo di legno. Erano ben dieci ore consecutive che era chiusa lì dentro, in quel luogo buio e rumoroso, pieno di server in attività, spie luminose lampeggianti, dati che si rincorrevano per i cavi, e non aveva ancora sciolto l’enigma che la tormentava.

Un problema improvvisamente esploso una settimana prima, quando un  pedante direttore amministrativo si era accorto che la fatturazione ed il calcolo del bilancio, conteggiati  in automatico da un programma di contabilità, non tornavano per niente. Il fornitore del software, ditta presso cui lavorava Stella, si era subito attivato mettendo a disposizione due programmatori, che però non ne erano venuti a capo.

E alla fine era toccato a lei.

“Deve andare lei, vista la sua esperienza con i programmi.” Le aveva detto il suo capo. “Nel programma c’è un errore che non si riesce a trovare e lei è la nostra ultima speranza. Lo so che di solito non vuole allontanarsi dalla sede, ma questa è una questione di vita o di morte per  noi, visto che rischiamo di perdere la commessa. E poi  non saprei chi altro mandare.”

Era bello e, nello stesso tempo, piuttosto raggelante sentirsi considerare l’ultima spiaggia, aveva pensato Stella, accettando l’incarico.

“E mi raccomando, si vesta elegante perché è un cliente di una certa qualità.” Aveva aggiunto il suo capo, squadrandole i semplici jeans e felpa che portava.

E così, munita di manuali, portatile e tailleur nero nuovo di zecca completo di borsa e scarpe in tinta, era partita.

Ma in quel momento non si sentiva affatto la salvatrice della patria: aveva passato il programma riga per riga, lo aveva messo in debug una mezza dozzina di volte e l’errore non era saltato fuori. Si guardò attorno preoccupata, sospirando: sembrava che il programma fosse stregato. Se lo metteva in debug, l’errore non si presentava, se lo faceva andare normalmente invece sì e in tal modo non riusciva ad individuare la linea in cui l’errore si creava. E poi sembrava casuale: qualche volta compariva nella colonna del dare, qualche volta nell’avere, qualche volta era dell’ordine di grandezza dei centesimi di euro, talvolta di qualche centinaio. Insomma, nemmeno a fare una statistica degli errori si riusciva a capire che cosa lo generasse.

Alcune ore prima, nel tentativo di esserle d’aiuto, il direttore dell’amministrazione, assieme ad un vassoio di pastine e caffè caldo, le aveva portato tutta la documentazione di due anni di fatturazione e di bilanci aziendali, tre faldoni di centinaia di pagine ciascuno, mostrandole dove l’errore appariva, e ora Stella doveva guardarsi pure quelli.

Si risedette di peso sulla sedia davanti al PC sbuffando, sputò il chewingum nel cestino (“Alla faccia del galateo!”, si disse), mangiò una pastina e guardò l’orologio: erano le sette di sera, era a metà del secondo faldone, al quinto (o sesto? Boh…) caffé e non aveva scovato niente.

Le sue idee si stavano velocemente esaurendo e la sua pazienza era finita già da un po’.

Ripassò a mente tutta una serie di imprecazioni: chissà che ora avrebbe fatto prima di finire: le due, tre di notte? Il giorno dopo c’era la fatturazione mensile e l’errore non avrebbe dovuto esserci, in nessuna forma. In tutti modi doveva risolvere il problema, anche a costo di riscrivere il programma da zero.

Decise di darsi una tempistica: se entro le dieci non avesse trovato il problema, avrebbe riscritto il programma, in modo tale da finire non oltre mezzanotte, anche perché era stanca, era dalle sei del mattino in piedi, e voleva ritornare al suo albergo per farsi una doccia e riposarsi.

Con questa nuova determinazione, si concesse, per un momento, di pensare a suo marito e a suo figlio: a quell’ora se ne stavano a casa, seduti a tavola per la cena, tranquilli e beati, mentre lei era chiusa, a centinaia di  chilometri di distanza da loro, in un CED di un albergo di lusso di Milano, alla ricerca di un errore fantasma.

 

RRR

 

Luci, colori, suoni.

Gente che si muoveva al ritmo della musica. E che musica.

“Stairway to heaven”.

A Shannon passò un brivido sulla schiena: era stato per suonare questa canzone che aveva preso per la prima volta in mano le bacchette di una batteria presa in prestito da un suo amico, in Louisiana. Era la sua canzone preferita.

Appoggiato nel backstage ad una cassa di strumenti, Shannon non perdeva una mossa di quello che accadeva sul palco. Erano tre anni che non facevano concerti, i 30 Seconds To Mars, e gli mancava moltissimo. Gli mancava l’atmosfera dell’evento, il colpo al cuore quando il telo bianco cadeva e si vedeva la folla urlante, l’assurda paura di sbagliare qualche passaggio, l’intesa con i compagni e perfino il sudore che gli colava addosso. Tutto. Proprio tutto.

La musica era la sua vita e senza musica la vita non aveva granché sapore. 

Ora Jimmy Page stava suonando l’assolo di “Since I’ve been lovin’ you.”: Shannon si perse nelle note e si mise a pensare a come potesse essere suonare con i Led Zeppelin e a quanto fosse fortunato Jason a poterlo fare.

Si mise a guardarlo mentre suonava e senza volerlo incrociò le dita… fosse mai che…

 

RRR

 

Ce l’aveva fatta: non poteva credere ai suoi occhi. L’aveva trovato: l’errore era lì, nel posto meno pensabile, sotto gli occhi di tutti, ma accanitamente invisibile. Quante volte aveva visto quella formula? Quanti programmatori l’avevano letta senza notare quell’errore?

Per fortuna a Stella era venuto in mente che l’imprecisione doveva essere così banale da non vedersi, così semplice che nessuno ci aveva pensato, così plateale da essere invisibile. Così era stato: una banalità aveva generato un disastro, proprio come avveniva nelle teorie del caos.

Stella sorrise, contenta. Corresse l’inesattezza e ricompilò immediatamente il programma. Prese gli estremi della prima fattura che non tornava e lanciò il programma solo per quella.

Per un momento trattenne il fiato mentre il server elaborava il risultato.

“Eureka!” esultò, quando l’elaborazione finì, sentendosi un novello Archimede che esce dalla vasca gridando. La correzione era perfetta, i conti tornavano e lei… aveva finito.

Doveva soltanto stampare le fatture non corrette, rilanciare l’elaborazione dei bilanci e mettere il tutto a posto nei faldoni; l’indomani mattina, se tutto andava per il meglio e lo sbaglio era scomparso, poteva chiudere definitivamente la pratica dell’errore fantasma e tornare finalmente a casa, sperando in un aumento.

 

RRR

 

Shannon, schiacciando il pulsante per chiamare l’ascensore dell’albergo, decretò ufficialmente e senza ombra di dubbio, che quella era stata una delle serate più merdose di tutta la sua vita. Una serata nella quale non gliene era andata dritta una, anzi, manco mezza, e tutte le sue, troppe, aspettative erano svanite come neve al sole.

Era deluso, amareggiato e frustrato e, come se  non fosse sufficiente, era profondamente arrabbiato con sé stesso per essersi illuso di una cosa sulla quale non aveva alcun controllo.

L’ascensore arrivò e lui vi salì, scegliendo il suo piano e continuando a rimuginare: ma come aveva fatto a pensare che Jason Bohnam l’avesse chiamato per farsi sostituire nei Led Zeppelin? Ma da dove gli era venuta questa insana idea? Jason non gli aveva mai detto niente apertamente, lo aveva soltanto invitato al concerto a Milano come amico e perché mai lui si era invece messo in testa di poter suonare con quel mitico gruppo?

Shannon si guardò alla parete specchiata dell’ascensore e si grattò una guancia perplesso.

S-U-O-N-A-R-E-C-O-N-I-L-E-D-Z-E-P-P-E-L-I-N? LUI?

Non poteva essere possibile, no, decisamente. Non era un cattivo batterista, ma suonare al posto del suo idolo John Bonham non era scritto nel suo destino. No. Proprio no. Era il suo sogno segreto, certo, lo aveva coltivato fin da bambino, ma non si poteva realizzare in alcun modo. Jason, il figlio di John, era saldamente al suo posto e Shannon non poteva far altro che farsela passare a breve, molto a breve, cioè subito.

Quando l’ascensore arrivò a destinazione, Shannon sbuffò e scese. L’orologio sulla parete indicava l’una e un quarto di notte, ma considerando il jet lag e il fatto che in aereo non aveva chiuso occhio, l’uomo era in piedi da quasi ventiquattro ore.

Forse era il caso di andare a dormire e scordare la serata.

Mentre si incamminava lungo il corridoio, il blackberry segnalò l’arrivo di un sms. Era di Jared e diceva: “Com’è andata?”

Shannon avrebbe voluto avere un martello a portata di mano e fare a pezzi il dannato apparecchio, invece con molta nonchalanche e sapendo che suo fratello aveva sicuramente gufato contro di lui tutto il tempo, gli scrisse: “Vaffanculo!”. Poi lo spense e, immaginandosi la faccia sorpresa di Jared, lentamente si avviò verso la sua camera.

 

RRR

 

Finito. Stella aveva finito. Stampato tutto, sistemato tutto, preparato tutto per il giorno successivo. Poteva lasciare il CED quando voleva. Una e un quarto della notte. Perfetto.

Si rimise le scarpe, infilò tutte le sue cose in borsa, spense e mise via il portatile ed impilò i tre faldoni. Spense il PC su cui aveva lavorato e si rimise la giacca.

La stanchezza si faceva sentire, ma accompagnata da una leggera euforia per essere riuscita nella sua piccola impresa. Si posizionò la borsetta a tracolla, si mise la borsa del portatile appesa per la cinghia ad una spalla e raccattò i tre giganteschi faldoni. Si avviò verso la porta e la aprì, poi spense le luci del CED, chiuse a chiave la porta e si avviò verso il corridoio. Se non fosse stato così tardi, le sarebbe venuto quasi da fischiettare. Ora le sarebbe bastato consegnare i documenti, che pesavano come macigni, e la chiave del CED alla reception, come concordato con il capo contabile, farsi chiamare un taxi e quella giornata sarebbe finita, archiviata nel database del tempo. Un bagno caldo la attendeva e forse un veloce saluto di  buonanotte in chat con le sue amiche della rete, se già non dormivano. 

Mentre avanzava per il corridoio illuminato, all’estremità dello stesso, Stella vide camminare verso di lei, silenziosamente sulla moquette, come se fosse apparso dal nulla, un uomo.

Non era a più di una decina di metri e, sebbene parzialmente coperta dai faldoni, Stella riusciva a vederlo abbastanza bene.

Completamente vestito di nero, jeans, maglietta e giacca in pelle.

Andatura sicura.

Capelli corti castani arruffati.

Barba sfatta di un paio di giorni.

Zainetto in spalla.

Occhiali da sole appesi alla maglia.

Blackberry  e berretto in mano.

Bocca a cuore.

Naso perfetto.

Espressione da gatto sornione.

Occhi verdi. No, forse no. Marroni. No. Come quelli di…

Il cuore di Stella si fermò e lei pure.

E forse anche il mondo, le orbite planetarie, l’universo intero.

Era lui, senza ombra di dubbio.

Non poteva sbagliarsi, non dopo tutto quello che aveva passato.

Era lui.

Era Shannon.

 

   
 
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