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Autore: Part of the Masterplan    02/11/2013    6 recensioni
Seattle. Un bar. La pioggia grigia che scroscia incessante.
Un ragazzo inglese in un giubbotto di pelle nera ordina una tequila.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alex Turner
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Spingo la porta del bar, la mia mano si attacca al legno per un attimo, complice l’umida patina che la riveste, effetto della pioggia torrenziale che si abbatte su Seattle da qualche giorno a questa parte. Una pioggia grigia, che sembra colare dal cielo come un colore troppo acquoso scivola sulla tela di un pittore. Macchia tutto: la strada, gli edifici, le persone, i volti. I volti, soprattutto. Li rende più pallidi, più spenti, a volte sembrano impolverati.
Il primo sguardo è oltre al bancone, alla mia amica barista tatuata, Jamie.
“Un margarita.” ordino allungando sul bancone la banconota.
“Giornata difficile?”
“Mmm.”
Mi volto a osservare il locale, le luci soffuse nei toni del rosso scuro, l’alternarsi di legno e pelle scura dei divani che hanno ormai assorbito l’odore acre dell’alcol. E’ qua che vengo dopo il lavoro, soprattutto quando finisco tardi e sono troppo malinconica per rinchiudermi nel mio monolocale vista porto di Seattle. Mi manca la mia, di casa. I miei spazi, il mio cielo, il mio accento.
Il cocktail arriva, le labbra incontrano in sale, socchiudo gli occhi bevendone il primo sorso che scorre veloce giù, fino allo stomaco, lo scaldano, lo rinfrancano. Questa pioggia inumidisce anche le ossa.
La porta del bar si apre con il suo solito cigolio, i passi sul parquet si avvicinano a me, ma non ci faccio troppo caso, cercando nuovamente con le labbra la superficie salata del bicchiere.
“Una tequila.”
Riconosco quell’accento. Un tono maschile, certo, ma un accento a me familiare, fin troppo. Mi volto appena per vedere un ragazzo in un giubbotto nero di pelle seduto accanto me, i gomiti quasi a contatto.
“Alex Turner.” scandisco sollevando un sopracciglio.
Si gira verso di me, un sorriso enigmatico, storto, gli occhi rigorosamente nascosti dietro a un paio di occhiali da sole, nonostante siano quasi le dieci di sera.
“In persona.”
La mascella forte, che non avrei potuto non notare, passa in secondo piano rispetto alla carnagione chiara, ai capelli resi lucidi dalla gelatina che ha usato per fissare quella specie di capigliatura in stile Elvis, mentre le braccia magre spuntano dalle maniche del giubbotto. Ha delle belle mani, affusolate, vicino alle unghie ha la pelle arrossata, forse dovuta al fatto che quando è nervoso la tormenta proprio come me. Noi inglesi abbiamo un modo tutto nostro di tormentarci.
Annuisco rivolgendo nuovamente l’attenzione al mio cocktail, ma il suo gomito impercettibilmente tocca il mio, costringendomi a guardarlo di nuovo. A cercare il suo sguardo, almeno, dietro alla stramaledetta superficie riflettente dei Rayban che ha sul naso.
“Tu sei?”
“Keira.”
Distende verso di me la mano, faccio lo stesso. La sua stretta è decisa, ma allo stesso tempo dolce, sfiora con i polpastrelli le mie nocche. La sua pelle è fredda. Chiara e fredda.
“Cosa ci fai qui da sola?”
“La stessa cosa che fai tu. Bevo.”
Ritorno con il busto rivolto verso il bancone ruotando su me stessa. Non mi è mai piaciuta la gente che si intrufola nella mia vita e nei miei spazi, e il fatto che lui sia Alex Turner non cambia le cose.
Lo sento studiarmi mentre passa da una mano all’altra il suo bicchiere di liquido giallognolo.
“Sei inglese.”
Annuisco.
“Anche io.”
“Lo so.” preciso con un tono quasi seccato. “Anche se fai finta di non esserlo.”
Il suo “Perché?” stizzito giunge con una rapidità impressionante, il che mi fa voltare nascondendo a stento l’ilarità. Lascio scivolare il mio sguardo lentamente sulla sua figura, il giubbotto più grande di una taglia, la t-shirt bianca, la gelatina sui capelli.
“Sembri la copia strampalata di Fonzie.” rido. Ride anche lui, un po’ meno spontaneamente, portando alla bocca il bicchiere.
Ha fascino, non si può negare.
Osservo il movimento della sua gola, mentre deglutisce l’alcol che sprigiona un odore intenso.
“Ti ho sentito oggi al KEXP studio. Avevo la radio accesa, in ufficio.”
Una venatura di soddisfazione gli si dipinge sulle labbra, ma abbassa subito lo sguardo verso il bancone disegnandoci figure con l’indice. “Oh...”
“Hai fatto un buon lavoro.” ammetto.
“…Grazie.”
E’ in soggezione, un po’ come quando oggi ha timidamente risposto allo speaker che si complimentava con lui con un “Oh, oh, thanks.”
“Cosa ci fa un’inglese a Seattle?”
“Cerca la propria anima?” ironizzo guardandolo con la coda dell’occhio mentre bevo un po’ di margarita, cercando il tempo necessario per comporre nella mia mente uno schema che mi faccia inquadrare la situazione in cui mi trovo “Sono qui per lavoro, mi sono trasferita qualche mese fa.”
“E che lavoro fai?” si sistema sullo sgabello.
“Lavoro con una band. Sono nel music business… Hai presente, giovani prepotenti con una chitarra al collo?” sorrido piegando la testa di lato. Il suo sopracciglio si inarca, il gomito alto per portare il bicchiere alle labbra e finirne il contenuto.
“Conosco qualcuno di simile.” il suo sorriso storto.
“Le sbronze, le camere d’albergo devastate…”
“… Le droghe.” termina la mia frase ciondolando con il capo a destra e a sinistra, prima di ordinare a Jamie un’altra tequila.
“Già. Ma per chi è cresciuto in Inghilterra, con il Britpop e la sacra tradizione dei Beatles… Tu mi capisci,” cerco la sua attenzione “se ti dico che la prima canzone che ho suonato con la mia scordatissima chitarra acustica è stata Live Forever.”
Mi guarda divertito. “Mi sarei aspettato Wonderwall!”
“Wonderwall sarebbe stato troppo scontato. E, Turner, noi non siamo gente scontata.”
Provoco una risata divertita, ruota il corpo verso di me e intravedo sotto la maglietta bianca il corpo magro. Finisco il contenuto del mio bicchiere e osservando lo spicchio di limone messo come decorazione, penso a quanto Alex assomigli ad un limone. Fuori perfettamente costruito, movimenti calmi, ampi, che difficilmente lo tradiscono. Ma dentro, è ancora aspro. Acido, forse. Sicuramente è magnificamente e britannicamente agrodolce, come mi sono sempre sentita io. L’ho percepito nella sua voce, oggi, quando cantava con quel tono così profondo e sensuale di quel tipo di baci in cui i denti collidono. Solo un inglese simile a un limone avrebbe potuto cogliere quella sfumatura così dura e allo stesso tempo dolce. Così viva e così poco comune. Alex è così, l’ho percepito a pelle. E’ un misto ancora non ben definito di sentimenti contrastanti, di aspirazioni, di autolesionismo, amore maturo e infatuazione adolescenziale, voglia di sesso e bisogno di riflessione, alcol e the inglese. Siamo la perfetta commistione degli opposti, una miscela ruvida, grumosa, piena di imperfezioni. Imperfezioni come quel lieve rossore sulle guance quando qualcuno gli fa un complimento, gli occhi abbassati, le dita che nervose tamburellano sulla prima superficie disponibile.
Il bar è semivuoto questa sera, e Jamie canticchia nel retro Kurt Cobain, da brava nativa di Seattle.
“E’ inutile che giochi a fare il piccolo yankee, Turner, non ti riesce.” afferro tra le dita il lembo del suo giubbotto nero con un’audacia scaturita forse dall’alcol appena terminato.
“Cioè?”
“Mettiti l’anima in pace, sei un inglese e sempre lo sarai. Lo si percepisce in tutto. Nel tuo modo di parlare, di muoverti, di alzare il sopracciglio, di bere e di spostare lo sguardo. E anche nel modo che hai di scrivere le canzoni. Quindi arrenditi.”
“Non ho mai detto di voler essere un americano.”
“Se ti attaccassi al collo un cartello con scritto “Voglio essere americano.” saresti più discreto.”
Ride di nuovo, dopo aver finito la seconda tequila.
“Posso offrirti qualcosa, da gentiluomo inglese?”
“Un gintonic. E togliti gli occhiali, non siamo più negli anni ’90.” mi alzo dalla mia postazione afferrando il mio, di giubbotto di pelle.
“Dove vai?” domanda squadrandomi dalla testa ai piedi.
“A fumare una sigaretta. Cerca un tavolo che ti piaccia, non vorrai mica rimanere qui al bancone.” mostro il mio miglior sorriso estraendo una Benson&Hedges dal pacchetto e posandola tra le labbra. Mi osserva languidamente in ogni gesto.
“Benson&Hedges.” commenta “Sei proprio un’inglese incorreggibile.”
Il freddo di Seattle calma parzialmente il caldo che sento alla bocca dello stomaco grazie al cocktail, ma soprattutto al galantuomo Alex Turner che mi ha appena offerto da bere. Me le sarei aspettate tutte, tranne questa.
Il fumo bianco che esce dalla mia bocca si mischia alla luce opaca che proviene dalla lanterna sopra la mia testa e sembra fondersi con il paesaggio, colorarlo così come fa la pioggia. Vorrei fare la scrittrice e in giorni come questi avere la possibilità di rimanere seduta ad un caffè a giocare con la mente guardando le gocce di pioggia che rigano il vetro e si rincorrono, si fanno prendere e modellano figure d’altri tempi, figure immaginarie con cui i bambini giocavano quando si annoiavano di stare chiusi in casa. Con un quaderno, una biro che rilascia inchiostro profumato, di quello che ti macchia le dita. Con una tazza di the e un pacchetto di sigarette che sta per finire. Con i ricordi del primo amore che tanto mi ha fatto sospirare e di un vestito color rosa antico che avevo da bambina. Questa pioggia torrenziale fa rumore, è uno scroscio continuo che ti si infila pian piano dentro, tra l’anima e la pelle. Guardo le pesanti gocce cadere sulla strada, martoriare una pozzanghera grigia che riflette il plumbeo manto del cielo.
Seattle è anche questo, e mi ci fermo a pensare quando Jamie riporta alla mente le canzoni di Kurt, con quel tono di voce profondo e incantevole che ha lei.
La fine della sigaretta mi distoglie dai pensieri e mi ricorda che c’è qualcuno che, seduto a un tavolo, mi sta aspettando con un gintonic.
La porta cigola e un giovane inglese senza occhiali da sole mi aspetta in fondo al locale. Lo raggiungo, il rumore dei miei stivali scandisce ogni mio passo sul parquet ormai rovinato.
“Eccomi.” sfrego le mani una contro l’altra osservando il mio bicchiere, posto strategicamente davanti a lui. Avrò finalmente l’onore di guardarlo negli occhi. Occhi liquidi, stanchi, persi in un mondo che conosce solo lui e nel quale difficilmente mi farà entrare. Una barriera che conosco e che accetto.
“Come ti trovi a Seattle?”
Una domanda diretta, semplice, pronunciata fissandomi negli occhi.
“Bene. Mi manca casa, ma sono una malinconica, in pieno stile britannico.”
Annuisce come chi la sa lunga e riprende a giocare con il suo bicchiere.
“Sai, mi piace il modo che hai di fare.”
“Quale?” scuote la testa, interessato.
“Come suoni, come scrivi, cosa scrivi. Mi piaci, Alex Turner. Perché sei più di quello che nascondi lì sotto. Sai, di giubbotti di pelle me ne passano davanti parecchi. Ma quando ascolto un acustico, quello mi dà la percezione di chi ho davanti.”
“E chi hai davanti, Keira?” incalza.
“Ho davanti un ragazzo che ha avuto molto, meritato, successo. Ma che in fondo non se n’è ancora reso totalmente conto. Insomma, l’alcol, le modelle e la droga sono la parte tangibile che ce l’hai fatta, ma la malinconia, la tristezza e il senso di inadeguatezza… Beh, quelli ti fanno sentire un fottuto mortale, vero?”
“Come… Come fai?” domanda, questa volta senza guardarmi negli occhi.
“Parlo a te, come parlo a me stessa. Spesso si conosce la storia degli altri solo riflettendo su chi siamo noi davvero. Stanotte usciremo da quella porta e tu domani non ti ricorderai neanche più il mio nome, ma in fondo mi avrai conosciuta.”
“Mi piacciono i tuoi occhi.” si morde il labbro.
Vorrei baciarlo, ora. Per mostrargli che quello che pensa di aver perso, qualunque cosa sia, ce l’ha ancora tra le mani. E che il fare finta che tutto ciò che c’è stato prima non sia mai esistito non se ne va via con due chili di gel.
“Tu arrossisci, Alex. So che lo sai e che a volte vorresti evitarlo, ma tu arrossisci. Sai quanti – e sono sicura che lo sai – quanti dopo il primo cd che va bene si credono i padroni del mondo? Tu invece oggi, alla radio, dopo i complimenti che ti hanno fatto sembrava quasi che ti volessi scusare. Tu non sei strafottente, è tutta una maschera. E chiunque te l’abbia costruita e messa addosso è bravo, ma non abbastanza.”
Si avvicina a me sporgendosi sul tavolo. “A volte c’è bisogno di staccare, no? Tu come stacchi?”
“Bevendo. Ascoltando musica.”
“Che musica?”
“In mancanza di altro, Arctic Monkeys.”
Sorride sornione. “E’ un modo per adularmi?”
“Non sono il tipo. E tu come stacchi?”
“Solite cose. Bevendo, suonando… Facendo sesso.”
“Tutti modi nobili.” sono io a sorridere, adesso.
“Quando tornerai a Londra?”
“Un giorno.”
“Quando avrai trovato la tua anima?”
“E’ un concetto parecchio astratto. Potrei morire qui. Ma ci sto lavorando.”
“E’ quello che conta.”
Passiamo mezz’ora, un’ora, due ore, chi lo sa, a parlare. Di tutto e di niente. Dell’anima, dell’amore, dell’Inghilterra, del mercatino di Camden, della metro che arriva con un rombo dal tunnel buio, della traversata oceanica in aereo, della spiaggia di San Diego, della pioggia, della scuola, dei Beatles, della prima chitarra acustica, del suo anello al mignolo, del mio tatuaggio.
Dopo qualche cocktail aggiuntivo ci ritroviamo all’uscita del locale, nonostante non ricordi esattamente come sono arrivata qui, davanti a lui, con lo sguardo fisso a terra senza sapere cosa dire. Il rumore della pioggia è solo un sottofondo attutito. Sento i nostri respiri, però, forti, decisi.
“Beh…”
“Buonanotte, Alex Turner. E’ stato un piacere.” tendo il braccio verso di lui, la mano aperta. La stringe appena tirandomi verso di sé. Il suo viso, le sue labbra sottili, i suoi occhi finalmente non ostacolati da delle stupide lenti riflettenti sono fissi nei miei.
“Buonanotte, Keira. E’ stato un piacere.”
Le sue labbra sono sulle mie, il sapore della tequila si mischia a quello del gin, il mio rossetto al bianco della sua carnagione. Le mie mani scivolano sul suo viso, le sue stringono i miei fianchi.
 
The type of kisses where teeth collide.
  
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