5.
Curiosity Killed
the Cat
L’idea
le ronzava in testa da quando aveva posato il capo sul cuscino, pronta
a godere
di un meritato riposo dopo i due giorni di veglia instancabile al
capezzale di
miss Radcliffe. In realtà, ci aveva rimuginato su sin da
quando gliene aveva
parlato sir Carlisle per la prima volta, e qualcosa, forse proprio il
suo giro
di esplorazione del maniero, le aveva fatto prendere la decisione di
andare
fino in fondo alla faccenda. D’altronde non aveva niente di
meglio da fare ora
che la sua istitutrice era a letto malata, e non credeva che il
rimanere chiusa
a Pemberley giorno e notte e in solitudine potesse avere un effetto
benefico su
di lei.
Giustificò
la cosa come semplice curiosità: forse, vedendo il luogo di
riposo di coloro
che l’avevano preceduta nel possesso di Pemberley, avrebbe
potuto rassicurarsi
sul fatto di non essere spiata dai loro fantasmi – non che ci
credesse davvero,
sia chiaro – e avrebbe potuto vivere serenamente fino
all’arrivo del padre, atteso,
se tutto andava come previsto, per la seconda metà di
novembre.
Non
potendo contare sull’aiuto di una cameriera – Lydia
non aveva né la manualità né
l’allenamento sufficiente per aiutarla nelle acconciature, e
sfortunatamente
neanche miss Radcliffe era disponibile – Emma si risolse a
sistemarsi i lunghi
capelli corvini in una semplice treccia, che fermò con un
nastro scuro e delle
forcine, come peraltro aveva fatto negli ultimi giorni; a
quell’ora, comunque,
non l’avrebbe vista nessuno. Indossò poi dei
calzoni da cavallerizza che si era
fatta confezionare di nascosto dal padre, dato che la comune tenuta da
amazzone
che usava durante le battute di caccia ad Hambleton Abbey sarebbe stata
ridicola in campagna, e infilò poi un lungo pastrano che
strinse in vita con un
cinto e che la copriva fin sotto le caviglie. Dopodiché si
avvolse una sciarpa
intorno al collo, prese i guanti di capretto e uscì
finalmente dalla sua
stanza.
Benché
si fosse sforzata di alzarsi prima dei domestici – e difatti
fuori era ancora buio
pesto – Emma si accorse con disappunto che questi ultimi
sembravano avere una
sveglia interna che permetteva loro di abbandonare i letti parecchio
tempo
prima che il gallo cantasse. Così, confidando che nessuno di
loro sarebbe
comunque entrato in camera sua prima delle nove, scivolò
scalza lungo il
corridoio e scese il più silenziosamente possibile le scale,
trattenendo quasi
il respiro e ringraziando mentalmente il tappeto che attutiva i suoi
passi e impediva
ai gradini di scricchiolare sotto il suo peso.
Non
si stupì nel non trovare Noah Duncan nelle stalle:
probabilmente il ragazzo stava
ancora dormendo, anche se non poteva fare a meno di chiedersi dove
coricasse.
Sembrava avere terrore del maniero – e in cuor suo Emma
iniziava a non biasimarlo
– però dubitava che i suoi genitori gli avrebbero
lasciato trascorrere la notte
in mezzo ai cavalli, o nel fienile. Ad ogni modo, nella scuderia non
c’era
alcuna presenza umana: quando aprì la porta gli animali
sbuffarono e nitrirono
gentilmente come a darle il buongiorno, e lei si diresse a passo sicuro
verso
l’Andaluso dal manto bianco chiazzato di grigio che aveva
catturato il suo interesse
sin dal primo giorno. Prima di entrare nella sua cella gli porse la
mano aperta
sul cui palmo aveva posato un dolciume, e attese pazientemente che il
baio
accettasse il dono: il suo muso morbido e vellutato contro la propria
mano la
fece sorridere, e mentre lui masticava si permise di accarezzarlo in
mezzo agli
occhi.
Purtroppo
non era capace di sellarlo: ad Hambleton se ne occupavano gli
stallieri, e
tutto quello che lei doveva fare era salirgli in groppa e sistemarsi le
gonne
in modo che le tenessero le gambe coperte. Ma la necessità
aguzza l’ingegno,
così Emma si limitò a sistemare una coperta
piuttosto spessa sul dorso del
cavallo e vi montò sopra aiutandosi con uno sgabello, con
una gamba su entrambi
i lati. Ebbe bisogno di una manciata di secondi per abituarsi alla
sensazione
del calore pulsante dell’animale tra le sue cosce –
le fu inevitabile
arrossire, al pensiero di essere vista in quella situazione da occhi
indiscreti
– ma, dopo aver preso un profondo sospiro,
riguadagnò il controllo su di sé e
sulla sua cavalcatura, guidando il baio con comandi sicuri fuori dalla
scuderia
e dalla proprietà.
Ben
presto l’imbarazzo venne sostituito da una feroce ebbrezza, e
fu con sempre
maggiore sicurezza che condusse il cavallo lungo la strada e in mezzo
al bosco,
presso il vecchio cimitero ormai abbandonato dove, secondo sir
Carlisle, le
tombe dei conti di Pemberley giacevano dimenticate dal mondo.
Il
vecchio camposanto di Heatherfield era, come Emma comprese una volta
giuntavi,
il luogo di riposo dei nobili che si erano succeduti nel corso dei
decenni a
capo della proprietà di Pemberley Manor e dei territori
circostanti – era, in
poche parole, un piccolo cimitero di famiglia, il che spiegava per
quale motivo
fosse ormai abbandonato e anche perché si trovasse
così lontano dal villaggio.
Un basso muretto a secco, le cui pietre ricoperte di muschio erano
crollate in
più punti arrendendosi all’arrancare inesorabile
delle piante selvatiche, ne
circondava il perimetro in un vano tentativo di tenere a bada
l’avanzare del
bosco.
Non
c’era un cancello – o perlomeno non c’era
nel lato da cui era giunta Emma –
così la giovane si risolse di scavalcare semplicemente il
muretto, non prima di
aver assicurato le redini del cavallo al ramo più vicino. Le
erbacce avevano
ormai divorato ogni cosa – di tanto in tanto qualche lapide
riusciva a sbucare sbilenca
dalla vegetazione, ma il tempo era stato impietoso e ormai era
pressoché
impossibile scoprire i nomi di coloro che giacevano avvolti dalla
terra,
proprio sotto di lei. Ciò nonostante non fu difficile per
Emma trovare la tomba
degli ultimi ospiti che aveva accolto il cimitero: si trattava di una
cappella
ambiziosa posizionata in un punto d’onore alla fine di
ciò che rimaneva del
vialetto, tra un ombroso cipresso e la statua di un angelo con le ali
spezzate,
con morbidi capelli arricciati alla maniera greca e le pesanti palpebre
abbassate in un’espressione triste e desolata. Il marmo
bianco era macchiato
dalle intemperie, e aggiungeva ulteriore angoscia all’intera
cripta.
Sul
capitello del mausoleo si leggeva, o per meglio dire si intuiva,
ciò che
restava del nome di famiglia:
PE B R Y
Sembrava
che le intemperie si fossero accanite con particolar foga sulle lettere
incise,
quasi che avessero intenzionalmente voluto cancellarle – ed
eliminare, con
esse, anche la memoria del nome che raffiguravano.
Con
un brivido e un sospiro, Emma si strinse addosso il mantello e si
affrettò ad
entrare nella cappella per ripararsi dall’aria gelida del
mattino.
L’interno
era umido, ma asciutto. Lo scricchiolio del portone aveva rimbombato
cupamente
tra le quattro pareti del mausoleo, e il fischio del vento che
penetrava dagli
spifferi pareva quasi il debole sussurro dei morti che ancora stavano a
guardia
della loro ultima dimora. Emma frugò nelle tasche dei propri
calzoni e tirò
fuori una scatoletta di fiammiferi che aveva avuto il buonsenso di
portare, e
che utilizzò per accendere una vecchia lampada in attesa su
un ripiano
impolverato. La fiammella tremò timidamente, e, al riparo
dal soffio d’aria
dietro la mano della giovane, finalmente brillò rischiarando
il buio; e così
Emma poté guardarsi intorno.
Sotto
di lei giaceva l’ossario, dove erano state conservate le
generazioni precedenti
dei Rochester: una grata quadrangolare, larga il tanto sufficiente da
farci
passare un uomo, ne indicava l’accesso. Sembrava una voragine
nera e infinita,
ed Emma, inquieta per la prima volta da quando aveva varcato la soglia
del
mausoleo, l’aggirò con attenzione per non dover
essere costretta a verificare
di persona se le sbarre di ferro reggessero il suo peso.
Passò
lentamente accanto alle quattro tombe più recenti, notando
l’assenza di foto o
ritratti e dispiacendosene: era un dettaglio che avrebbe donato
personalità e
calore all’ultima dimora dei conti di Rochester, ma
evidentemente nessuno li aveva
amati abbastanza da pensarci. Certo il mausoleo dei Pemberley era assai
diverso
da quello in cui adesso riposava sua madre, perennemente circondata da
fiori e
candele sempre accese… Sfiorò con reverenza le
lettere di ottone dorato della
contessa (Isobel Du Maurier, in
Pemberley, contessa di Rochester, amata sposa e madre, possa risorgere
nella
gloria divina. 1841-1873), e poi proseguì con
quelle, incise e assai più
semplici, del conte (Edgar J. Pemberley,
conte di Rochester, 1832-1889) e dei suoi tre figli, Elijah (1864-1889),
Evan (1867-1889) ed Eleanore (1871-1889),
tutti scomparsi nell’incendio di quindici anni prima.
A
quanto pareva gli abitanti del villaggio non si erano sprecati in
complessi
epitaffi, per loro.
Ma
ciò che attirò davvero l’attenzione di
Emma fu un’altra stele, più piccola e
assai insignificante, poggiata ad un angolo della cappella e ricoperta
di un
sottile strato di muschio secco, come se fosse stata portata
là dall’esterno. Era
uno di quei dettagli fuori posto che non si può fare a meno
di notare, visto
come alterano l’equilibrio di un determinato luogo.
Incuriosita si avvicinò e,
accucciandovisi di fronte, lesse solo un nome e una data: Adam,
1873-1889.
«Adam»,
ripeté a bassa voce, perplessa, sfiorando con la punta delle
dita l’iniziale
appuntita del nome. Una stranezza che si aggiungeva alle numerose altre
che
aveva incontrato da quando si era trasferita a Pemberley…
Chi era quell’Adam
senza nome, e che cosa ci faceva la sua lapide priva di una tomba a cui
fare la
guardia? Che fosse un figlio illegittimo, morto giovane e sistemato
nella
cripta di nascosto, così che almeno nella morte potesse far
parte di quella
famiglia? Nessuno pareva prestare attenzione a ciò che
accadeva in quel piccolo
cimitero, d’altra parte… Una curiosa coincidenza,
poi, che la data della morte
corrispondesse a quella degli altri membri della famiglia.
Un
momento, però. Edgar J. Pemberley… Edgar? Il nome
le era familiare. Dove
l’aveva già sentito? Si spostò
nuovamente davanti alla lastra del conte, e si
sforzò di ricordare. Era come cercare di riagguantare i
residui di un sogno, i
cui contorni sfuocati continuano a sfuggire man mano che si cerca di
rammentarli, per poi sparire nell’oblio alla minima
disattenzione. Eppure,
facendo mente locale e passando al setaccio ciò che aveva
fatto nell’ultima
decina di giorni, quel nome riuscì infine a far suonare un
campanello: se non
ricordava male, lo aveva trovato nel diario del dottor Murray
– di cui ormai
aveva praticamente memorizzato ogni singola parola – il quale
ne parlava come
se fosse stato un suo amico. Ora, in una situazione normale questo non
avrebbe
significato niente – quanti uomini potevano chiamarsi
così in Inghilterra? Non
era certo una prova. Ma il semplice fatto che il diario di un apparente
estraneo si trovasse nel castello, e che citasse qualcuno che
casualmente si
chiamava come l’allora conte… Non poteva trattarsi
di un’altra coincidenza.
Solo
che non capiva come questo dovesse
avere una qualche valenza interessante. E poi, su che cosa stava
indagando? Su
una famiglia scomparsa in un tragico incidente quindici anni prima? Per
quale
motivo? Era davvero tanto annoiata da vedere complotti e misteri in un
nonnulla?
Solo
che non si trattava di un semplice nonnulla:
c’erano parecchie note stonate nella melodia di Pemberley,
che si traducevano
nel fastidioso presentimento che qualcosa di brutto dovesse accadere da
un
momento all’altro. C’era Noah, il figlio dei
signori Duncan, terrorizzato alla
sola idea di entrare in casa; c’erano proprio i signori
Duncan, con il loro
atteggiamento arrogante e ambiguo, di chi cela un segreto terribile;
c’era
stata quella musica notturna, ricomparsa poi in un carillon apparso
all’improvviso nella sua camera da letto, il cui solo
pensiero la faceva ancora
rabbrividire; c’era stato il divieto di aggirarsi
nell’Ala Ovest, divieto che
lei aveva bellamente ignorato per poi scoprire il cuore abbandonato e
decadente
della dimora, con strane stanze di cui non si capiva il senso come il
laboratorio e lo studio del pittore misterioso; c’era il
diario del dottor
Murray, con le sue teorie inquietanti sulla creazione di una nuova
specie; c’era il fatto che gli abitanti del
villaggio si
rifiutassero di giungere a Pemberley, come se il maniero fosse uno dei
portali
dell’inferno; e c’era stata persino la malattia
incomprensibile di miss
Radcliffe.
Forse
erano solo vaneggiamenti, tentativi testardi da parte sua di far
quadrare i
conti e far convergere tutti quegli avvenimenti in un’unica
spiegazione, o
forse no: ma non poteva dimenticare che la sua istitutrice era tornata
dalla
sua breve gita al villaggio stranamente pallida, con tutta
l’intenzione di
parlarle di qualcosa di molto importante appena prima di cadere nella
sua
inspiegabile infreddatura. Sì, indubbiamente c’era
un qualche segreto che le
mura secolari di Pemberley stavano nascondendo, e lei diventava ogni
giorno più
curiosa di scoprirlo. Si lasciò alle spalle la cripta,
chiudendo con cura la
porta e ripercorrendo a ritroso il vialetto del camposanto mentre con
la mente
tornava alla sua nuova casa e al desiderio sempre più
invadente di svelarne
ogni mistero.
Emma
era già parecchio lontana quando una mano solitaria
sbucò dalla grata,
sollevandola e spostandola con un fastidioso stridio da un lato del
pavimento.
Una figura, grossa e nera, si issò faticosamente sul bordo
della botola,
sgorgando dall’ossario con un gemito inquietante. Nessuno la
vide e nessuno la
udì, se non le mute salme di coloro che un tempo erano stati
la sua
indesiderata famiglia.
*
Non
rientrò subito a Pemberley – c’era
qualcos’altro che aveva in mente di fare,
adesso che aveva la possibilità di muoversi senza
l’onnipresente sguardo
inquisitore dei domestici. Aveva ormai iniziato ad albeggiare, tenui
raggi
rosati penetravano le nubi plumbee e facevano brillare la rugiada
sull’erba;
nel momento in cui, al rientro dal camposanto, avrebbe dovuto prendere
la
strada per il castello, Emma decise di voltare il cavallo e andare
nella
direzione opposta, verso, come si era informata, la casa di sir
Carlisle.
Non
fu un tragitto eccessivamente lungo, forse una ventina di minuti al
massimo.
Procedeva ad una andatura sostenuta ma non esagerata – amava
andare a cavallo,
ma dal tragico incidente di sua sorella Lizzie non le sembrava il caso
di
sfidare la sorte – così, quando giunse finalmente
in vista dell’abitazione dei
Carlisle, conservava ancora un aspetto sufficientemente presentabile.
Il
cancello in ferro battuto della tenuta era aperto, così Emma
fece fermare il
suo baio e scivolò a terra, reggendo con mano salda le
redini per evitare che
il cavallo si innervosisse in un ambiente estraneo. Notò un
cartello di ottone
sul pilastro destro del cancello, dove era scritto, in caratteri
gotici, il
nome della proprietà: Ashfield.
La
casa era una tipica villa in stile georgiano: la facciata ricoperta di
mattoncini rossi, avvolti qua e là da spire di edera
fiorita, gli infissi
bianchi, un portico elegante il cui tetto pareva ricordare il frontone
dei
templi greci e una bassa siepe che percorreva il profilo della casa in
tutta la
sua superficie. Il sorriso nacque spontaneo sulle sue labbra: il
cambiamento
rispetto a Pemberley era talmente evidente che le parve quasi di essere
in un
altro angolo di mondo, in un’altra vita: quella si poteva
definire davvero una
casa accogliente, pensò, una nella quale le sarebbe piaciuto
abitare.
Fu
un cameriere a venire ad accoglierla, con sua grande sorpresa: oramai
era
pressoché disabituata a dei domestici in divisa ineccepibili
e professionali
come la servitù di Hambleton.
«Posso
fare qualcosa per voi, signorina?» Le domandò il
giovane, fermandosi a pochi
passi da lei e spostando uno sguardo perplesso e leggermente ostile
dalla sua
cavalcatura alla sua persona e viceversa.
Emma
sapeva di non essere in condizioni eccellenti per fare una visita
mattutina al
suo vicino di casa, ma era pur sempre la figlia di un conte e non
c’era nessuna
ragione che permettesse a quel domestico di fissarla con
così tanta insolenza,
come se fosse stata l’ultima sguattera della cucina, o
peggio. Probabilmente l’essere
arrivata in groppa ad un cavallo privo di sella e finimenti doveva
avergli dato
l’impressione sbagliata. «Mi auguro proprio di
sì, desidero vedere sir Carlisle»,
affermò con un tono deciso, sforzandosi di non spazzolare
via la polvere e la
terra dal proprio vestito. «Sono sicura che si
ricorderà di me: sono lady Emma Moore,
la proprietaria di Pemberley Manor.»
Gli
occhi chiari del ragazzo parvero allargarsi leggermente, eppure non le
diede la
soddisfazione di riconoscerla: non sembrava fidarsi della prima
fanciulla che
si vantava di un titolo simile, come se quel luogo dimenticato da Dio
pullulasse di numerosi impostori. «Date a me il cavallo, m’lady»,
fu la sua replica forzata – non si diede neppure pena di
scusarsi. «Mr. James, il maggiordomo, vi farà
accomodare in casa.» Ciò detto,
le diede le spalle e si diresse sul retro, trascinandosi un animale
piuttosto
innervosito che scalpicciava sulla ghiaia del vialetto.
Emma
lo fissò a corto di parole: ma cos’avevano che non
andava tutti i domestici di
Heatherfield?
Trattenendo
a stento l’irritazione fece per avvicinarsi
all’ingresso e annunciarsi da sola,
ma venne bloccata a metà vialetto da un forte colpo di
tosse. Volse appena gli
occhi verso quel rumore, con nessuna intenzione di fermarsi per
verificarne la
fonte, ma purtroppo vide qualcun altro andarle incontro, e per forza di
cose si
vide costretta a mostrarsi cordiale anche con il nuovo arrivato.
«Perdonate,
m’lady, non ho potuto fare a meno di udire il vostro scambio
con Alfie. Vi
chiedo scusa anche da parte sua, non è stato molto
gentile», esordì pacato, con
la voce greve di chi trascorre molto tempo a fumare. Da una mano gli
pendevano
delle cesoie e con l’altra si sfilò educatamente
il cappello in cenno di
saluto; tutto il suo abbigliamento indicava chiaramente il suo lavoro
di
giardiniere. Emma decise che doveva avere all’incirca
l’età di Mr. Duncan, se
non addirittura qualche lustro in più.
«Non
posso biasimarlo, dopotutto è un orario inconsueto per delle
visite. Tuttavia
ho urgenza di parlare con sir Carlisle, per cui, se
posso…» Fece, cercando di
liberarsi dell’uomo con delicatezza.
Egli
tuttavia non parve capirlo. «Siete davvero lei, mh? La nuova
padrona di
Pemberley. Vivete lì? Con i Duncan?» Aggiunse,
sputando quel nome come se fosse
stato insieme un insulto e una maledizione.
Parlare
male della propria servitù con il domestico di
un’altra famiglia non rientrava
nell’educazione che le era stata imposta: come diceva sempre
miss Radcliffe,
utilizzando un accorto proverbio contadino, i panni sporchi andavano
lavati in
casa. «Sì, e per vostra informazione non
c’è nulla di riprovevole nel modo in
cui i Duncan gestiscono la tenuta, per cui vi suggeriscono di moderare
i toni.»
Egli
tuttavia ignorò sfacciatamente quel prudente consiglio.
«Se così fosse, che
cosa vi porta qui ad Ashfield appena dopo l’alba e senza
alcun preavviso, con
l’aria di chi fugge dall’Inferno?»
Emma
rimase sconvolta dall’insolenza di quell’uomo, ma
per sua fortuna le venne
risparmiata la fatica di pensare ad una risposta abbastanza tagliente
da
metterlo a tacere.
«Tom!
Occupatevi dei cespugli e non importunate milady»,
sbottò difatti una voce
severa che interruppe il loro breve scambio. Emma si voltò
per vedere quello
che doveva essere il maggiordomo, irto sulla soglia del portico con
un’espressione contrariata e algida su un viso segnato dal
tempo.
Il
giardiniere si raddrizzò, infastidito. «State
attenta a chi concedete la vostra
fiducia, m’lady», fece allora, prima di rivolgerle
un rigido cenno col capo e
tornare al suo lavoro senza più aggiungere una sola parola.
Emma
lo osservò sparire in mezzo alla vegetazione, perplessa:
quasi rimpiangeva di
non avergli fatto più domande – quel tale, Tom,
forse era a conoscenza di
qualcosa che avrebbe dovuto sapere anche lei…
C’era forse dell’altro sui Duncan,
oltre alla storia che le aveva già raccontato sir Carlisle?
«Prego, milady, accomodatevi dentro casa. Se
avessimo saputo del vostro arrivo avremmo organizzato
un’accoglienza assai più
adatta», stava dicendo Mr. James cercando di ottenere la sua
attenzione, in un
tono finalmente educato e professionale che non pareva accusarla di
essere
capitata in casa loro come un bandito. «Il signore
è in sala da pranzo. Vi
fermate per colazione?»
«Non
credo, signor James, ma vi ringrazio. Ho solo bisogno di parlare con
sir
Carlisle, non mi tratterrò a lungo», rispose un
poco più a suo agio,
raggiungendolo sul portico. Intimamente cercò di consolarsi
– forse non
indossava un abito elegante, ma perlomeno portava il nero.
«Molto
bene. Se volete seguirmi…»
Sir
Carlisle sedeva al tavolo della sala da pranzo, neanche lontanamente
grande o
sfarzosa quanto quella di Pemberley, ma non per questo meno
accogliente,
immerso nella lettura di un quotidiano – evidentemente il
servizio di posta era
più efficiente ad Ashfield di quanto non fosse al castello
– mentre il cameriere
che lei aveva incontrato poco prima nel cortile gli gironzolava intorno
pronto
ad esaudire qualunque richiesta. Era già vestito di tutto
punto, il che le fece
sentire per un attimo nostalgia di casa, di Hambleton – Emma
non credeva che le
potesse mancare così tanto fare colazione con suo padre,
quando solo raramente
si scambiavano qualche parola durante il primo pasto della giornata.
Probabilmente associava un’abitudine così semplice
a un capitolo della sua vita
che non si sarebbe più potuto ripetere, vista la scomparsa
della madre…
Quando
lei e il signor James si affacciarono sulla porta, il primo
annunciandola con
aria pomposa, il padrone di casa sollevò gli occhi su di lei
e si alzò
rapidamente in segno di cortesia, sorridendole e posando il giornale
sul tavolo
per andarle incontro.
«Lady
Moore, questa sì che è una piacevole visita
inaspettata!» Esordì con
entusiasmo, prendendole la mano e sfiorandola con un baciamano
impeccabile. Se
anche era infastidito per il suo arrivo non annunciato, egli seppe
mascherarlo
alla perfezione.
«Vi
chiedo infinitamente scusa per essere piombata così
all’improvviso in casa
vostra, sir Carlisle», si scusò immediatamente,
per l’ennesima volta,
seguendolo mentre le faceva strada verso la sedia accanto alla sua,
capotavola.
«Via,
credevo avessimo abolito le formalità. Le trovo
così pompose e forzate, qui in
campagna… Chiamatemi pure Arthur», la corresse
gentilmente, riuscendo a
metterla del tutto a suo agio anche malgrado l’abbigliamento
poco consono e
l’orario decisamente vergognoso. «Scommetto che non
avete ancora fatto
colazione. Gradite del tè, o preferite forse del
caffè? Con latte, magari? E i
pasticcini? Mrs. Mills, la nostra cuoca, li ha sfornati proprio qualche
ora fa.
Sono ancora caldi.»
Adesso
che la colazione le veniva offerta dal padrone di casa le sembrava
maleducato
rifiutare, senza considerare che, in effetti, la lunga cavalcata
mattutina le
aveva messo un certo appetito. «Grazie, sir… Arthur.
Il tè andrà benissimo»,
capitolò con un mezzo sorriso,
sfilandosi i guanti e posandoseli in grembo.
«Jimmy,
del tè per milady, grazie.» Ordinò,
rivolgendosi al cameriere. Poi tornò a lei,
riprendendo a sorridere. «Non credevo che amaste le
passeggiate così
mattiniere, lady Emma. Posso chiamarvi per nome, sì? Vi
piace ammirare l’alba?»
«Una
cosa del genere. In realtà ho colto un vostro suggerimento,
ci pensavo dalla
vostra visita… Sono andata alla cripta dei conti di
Rochester», ammise,
abbassando leggermente la voce.
«Siete
stata al vecchio cimitero?» Sir Arthur sembrò
davvero sorpreso, e una sottile
ruga di apprensione si formò tra le sue sopracciglia
aggrottate. «Oh, milady,
non vorrei sembrarvi arrogante o invadente, ma non penso che sia stata
la
migliore delle idee quella di spingersi così lontano, da
sola, e a un orario
così insolito…»
«Sì,
certo, ne sono consapevole, ma la curiosità è
stata tanta che non sono riuscita
a trattenermi», replicò brevemente; in tutta
sincerità, era imbarazzante
ammettere ad alta voce quella sua
scappatella – alle orecchie di un estraneo doveva sembrare
talmente ridicola!
L’uomo
annuì, mentre lasciava che un’espressione grave si
facesse largo sul suo volto
e ne annullasse l’istintiva giovialità.
«Comprendo benissimo, milady, e non mi
permetterei mai di giudicare una fanciulla così assennata
come immagino siate
voi», fu tuttavia la sua garbata e sincera risposta.
«E avete ottenuto ciò che
speravate di trovare?»
«In
realtà credo che sia piuttosto difficile placare la
curiosità di una donna»,
ribatté Emma con un mezzo sorriso, cercando di spostare la
questione su un
terreno più leggero e che, al momento, le stava
più a cuore. «Tuttavia, sir
Arthur, non sono venuta a quest’orario così
barbaro solo per approfittare della
vostra ospitalità, ma per osare chiedervi una
cortesia», proseguì piano,
posando la tazza sul piattino e sollevando lo sguardo sul padrone di
casa.
Egli
la osservò attentamente, e le fece cenno di andare avanti.
«Prego, milady,
chiedete pure. Farò quanto è in mio potere per
aiutarvi.»
Emma
sospirò, leggermente imbarazzata per il fatto di dover fare
una richiesta tanto
singolare a un gentiluomo che era, in fondo, ancora uno sconosciuto.
«Come vi
ho accennato, la mia istitutrice non sta bene. È a letto da
giorni, ormai, e
non accenna a migliorare… Ho fatto chiamare il medico, ma la
mia governante
dice sempre che non può e non vuole venire,
perché a quanto pare la gente del
villaggio nutre uno strano terrore nei confronti di Pemberley, e
preferisce non
metterci piede. Se servisse a qualcosa andrei io stessa da lui, ma che
senso ha
parlare con un dottore se egli non vuole visitare la paziente? Per cui,
ecco,
mi domandavo se voi poteste intercedere presso di lui, a nome mio.
Credo che
voi siate più conosciuto di me al villaggio, e sicuramente
nessuno si
rifiuterebbe di venire ad Ashfield…»
«In
poche parole, milady, mi state chiedendo di rapire il dottor Carew e di
portarlo a sua insaputa a Pemberley Manor?» Malgrado
l’improvviso rossore di
Emma a quel rapido sunto, sir Carlisle scoppiò a ridere,
sinceramente
divertito. «Ma certo, certo, è più che
fattibile! Andrò a Heatherfield subito
dopo colazione, e vi posso assicurare che prima di pranzo il dottore
avrà
visitato la vostra miss Radcliffe.»
«Non
so come ringraziarvi, sir Arthur», rispose lei sinceramente,
non osando quasi
sorridere per timore di fargli cambiare idea.
«Sarò molto più tranquilla una
volta che il signor Carew l’avrà vista. Dubito che
con latte caldo e miele si
possa curare altro che non sia un semplice
raffreddore…»
Sir
Arthur annuì, comprensivo. «A voler essere franco,
milady, mi delude che un
uomo di scienza come Brandon Carew si sia lasciato suggestionare dalle
storie
dei contadini al punto di privarvi del diritto di una
visita», aggiunse poi,
con un’aria improvvisamente risentita – quasi che
il torto fosse stato fatto a
lui in prima persona. «Lo conosco da tanti anni, e vi
assicuro che è la prima
volta che assisto a un simile comportamento. Non so davvero come
spiegarlo…»
«Se
anche la metà di ciò che mi avete raccontato
durante la vostra visita a
Pemberley è del tutto vera, sir Arthur, non posso sentirmi
di biasimare il
dottor Carew», replicò Emma, sentendosi quasi in
dovere di difendere il
recalcitrante dottore: il maniero, era ora che lo ammettesse, stava
iniziando a
spaventarla, e poteva forse iniziare a capire i sentimenti degli
abitanti del
villaggio al riguardo. «E comunque mi auguro che accetti di
farci visita in
vostra compagnia. Non credete che il mio gesto sia inopportuno,
vero?»
«Ribadisco
che è nel vostro pieno diritto richiedere la visita del
medico della contea,
milady, è che il torto sia suo per avervelo
negato», la rassicurò sir Carlisle,
con il suo caldo sorriso. Poi si voltò appena di lato,
attirando l’attenzione
del maggiordomo che attendeva ordini in paziente attesa alle sue
spalle, presso
l’arazzo che ricopriva buona parte della parete.
«Per favore, James, fate preparare
la mia automobile. Lady Emma, venite al villaggio insieme a
me?»
«Oh
no, sir Arthur, se non vi dispiace preferirei precedervi a Pemberley.
Devo
avvisare i miei domestici e cercare un abbigliamento più
adatto per ricevere
ospiti», disse subito, ricordandosi delle condizioni in cui
si era presentata
alla sua porta. Si domandò se con dei simili indumenti
avrebbe rischiato di più
le ire di suo padre o della sua istitutrice… Sorrise,
cercando di non pensarci,
e si alzò da tavola subito imitata dal padrone di casa.
Quest’ultimo
scosse il capo, palesemente divertito. «Per quanto non mi
senta molto
tranquillo nel lasciarvi rientrare da sola e a cavallo, posso
comprendere la
vostra premura. Ma lasciatemi dire che siete elegante anche in questa
eccentrica tenuta da amazzone.»
«L’auto
è pronta, sir», li interruppe in quel momento Mr.
James, appena rientrato nella
sala da pranzo.
«Bene,
grazie James. Milady, permettete?» La scortarono galantemente
nell’ingresso, dove
sir Arthur l’aiutò a infilare il soprabito e
istruì il maggiordomo di avvisare
la signora Carlisle che era dovuto scappare subito dopo colazione per
un
impegno improrogabile. Dopodiché egli salì nel
suo trabiccolo moderno, come lo
avrebbe definito miss Radcliffe, ed Emma montò a cavallo
aiutata da un assai
meno arrogante Alfie.
Proseguirono
insieme fino all’incrocio, dove si dovettero separare: sir
Arthur le promise
che in una o due ore al massimo sarebbe giunto al castello con il suo
amico, e
così accadde.
Il
dottor Brandon Carew varcò la soglia di Pemberley Manor con
l’aria del
condannato a morte che si appresta a compiere gli ultimi passi prima
del
patibolo. Era un signore di media altezza e media corporatura, la cui
età
pareva ondeggiare tra i cinquanta e i sessant’anni, che non
possedeva alcun
segno particolare che potesse distinguerlo in mezzo ad una folla, salvo
la
consunta valigetta che stringeva nella mano sinistra come se
aggrappandovisi
sarebbe stato al sicuro dai fumi maligni del maniero. Era un uomo
comune, e di
sicuro non si era ancora ripreso dall’improvviso tradimento
di sir Carlisle,
che lo aveva trascinato in quella tenuta di nascosto nonché
contro il suo
volere.
Emma
ignorò il palese disaccordo che leggeva in viso a Mrs.
Duncan – la quale non
aveva digerito bene la cavalcata segreta della padrona e che pareva
tanto
restia ad avere ospiti in giro per il maniero quanto lo erano questi
ultimi di
far loro visita – e andò ad accogliere il dottore,
sforzandosi di metterlo a
suo agio con tutte le buone maniere che poteva sfoderare. La sua
tranquilla
serenità certo mascherava alla perfezione la breve
discussione che aveva avuto
con la governante al suo ritorno a Pemberley, dove poche ore prima era
stata
accolta quasi come una prigioniera che non si sarebbe mai dovuta
permettere di
uscire dai confini della proprietà senza domandare il
permesso o farsi
accompagnare da qualcuno. Per la prima volta Emma aveva minacciato la
donna di
raccontare tale condotta a suo padre e di farla dunque cacciare, e per
quanto
si fosse vergognata l’attimo dopo aver parlato in quel modo,
non poté fare a
meno di notare che quelle maniere sembravano aver portato qualcosa di
buono:
Mrs. Duncan appariva ancora contraria a ciò che faceva lei,
ma perlomeno teneva
per sé le sue considerazioni.
Il
dottor Carew, dal canto suo, pareva essersi innamorato di Emma dal
momento in
cui i suoi occhi si erano posati su di lei. Si era subito prodigato in
mille
scuse e salamelecchi inframmezzati da mezzi inchini, si era
giustificato per il
suo comportamento e le aveva promesso che mai più avrebbe
osato ignorare gli
appelli di Sua Signoria – Emma gli
aveva ripetuto tre volte che non doveva chiamarla in quel modo, ma alla
quarta
si era limitata ad alzare gli occhi al cielo e a lasciar correre[1]
–
a favore di altro che poteva aspettare. Lo aveva accompagnato in camera
di miss
Radcliffe mentre sir Arthur, con impeccabile delicatezza, si era
offerto di
attendere in biblioteca che la visita terminasse; in cuor suo Emma non
poté che
essergli grata, dato che così poteva liberarsi di Mrs.
Duncan ordinandole di
portargli del tè per non averla tra i piedi durante il
consulto.
La
diagnosi del dottore era stata, tuttavia, poco soddisfacente:
l’uomo non aveva
saputo determinare con certezza a cosa fosse dovuto il malore di miss
Jane,
anche se aveva escluso a priori le malattie più gravi. A
giudicare da ciò che
gli aveva spiegato Emma e da ciò che aveva avuto modo di
esaminare da sé, pensò
che almeno in un primo momento doveva essersi trattato di
un’intossicazione
alimentare. Forse qualcosa che aveva mangiato al villaggio, visto che
si era
sentita male il giorno stesso? Emma non seppe rispondere. Ad ogni modo,
il
fatto che non fosse abbastanza cosciente per potersi nutrire in modo
appropriato aveva fatto peggiorare la sua salute, e fu per questo che
le
prescrisse, insieme a delle pastiglie che facessero calare la febbre,
una dieta
rigorosa da seguire passo per passo a costo di imboccare a forza la
paziente.
«Inoltre,
se posso permettermi l’ardire, Sua Signoria», le
sussurrò l’uomo guardandosi
intorno con aria circospetta, forse temendo che le pareti lo
ascoltassero, «vi
consiglio di controllare tutto quello che viene fatto ingurgitare alla
signorina Radcliffe, qualora… Dio non voglia, per
carità, ma la prudenza,
sapete come si dice… ecco, in caso di un avvelenamento
prolungato.»
Emma
aveva ascoltato quelle parole più con fare sorpreso che
indignato, dato che una
simile possibilità non le era neanche passata per la testa.
Perché mai qualcuno
avrebbe voluto avvelenare miss Radcliffe, che non aveva fatto del male
a
nessuno e di certo era a Heatherfield per troppo poco tempo per potersi
essere
fatta dei nemici così agguerriti?
Parlarono
ancora un poco di come sarebbe stato meglio prendersi cura di miss
Radcliffe –
impacchi di erbe balsamiche per liberare le vie respiratorie, pezzuole
bagnate
di acqua gelida da posarle sulle tempie, e via dicendo –
dopodiché Emma fece
strada al dottore fino alla biblioteca per raggiungere sir Arthur.
Rimasero
entrambi fino all’ora di pranzo, quando i due uomini
dovettero declinare di
pari accordo l’invito di fermarsi a mangiare al maniero, con
palese
soddisfazione di Mrs. Duncan.
Anche
più tardi, mentre sedeva al capezzale della sua istitutrice,
Emma non riuscì a
togliersi dalla testa la terribile idea che il dottor Carew vi aveva
fatto
radicare.
**
Il
giorno successivo, dopo aver congedato il dottore che aveva ormai
accettato di
tornare periodicamente per far visita alla sua paziente, a patto di
essere
accompagnato di nuovo da un disponibile sir Carlisle, Emma
trovò un libro
posato sulla poltroncina che usava occupare in biblioteca, quella
accanto al
camino, come se qualcuno lo avesse dimenticato lì di
proposito. Incuriosita, lo
prese e se lo rigirò tra le mani, finché i suoi
occhi non vennero catturati dal
titolo: Le sei mogli di Barbablù.
Era
un libricino sottile, con la copertina blu logora e il dorso usurato,
ma
l’immagine dipinta sul frontespizio mostrava la chiara
rappresentazione di una
fanciulla dall’espressione terrorizzata che teneva tra le
mani coperte di
sangue una piccola chiave d’oro. Emma conosceva la favola
– la conosceva bene,
a dirla tutta, grazie al suo particolare interesse per il gotico e per
l’orrore
– e pertanto trovò di cattivo gusto che qualcuno
le avesse lasciato quel volume
in particolare a portata di mano, quasi sperando che lei lo trovasse e
lo
leggesse.
La
cosa non le piacque. Volevano forse ricordarle cosa accadde alle mogli
curiose
di Barbablù? Eppure credeva che fosse in suo diritto
esplorare il maniero in
lungo e in largo. Avrebbe dovuto parlarne con Mrs. Duncan una volta per
tutte,
decise; quella storia stava andando troppo per le lunghe. A meno che,
certo,
non fosse stata lei a mettere in giro quel libro…
Il
pendolo ticchettava cupo e monotono, e un ceppo si spaccò in
due tra una
miriade di scintille. Tutta la biblioteca pareva immersa in
un’atmosfera di
pacata attesa, come se qualcosa di inevitabile dovesse accadere da un
momento
all’altro e fosse impossibile impedirlo: Emma dubitava che
tale sensazione
potesse avere un’accezione positiva, dato che quella
sensazione di quiete stava
trasformandosi via via in una di angoscia.
«Milady,
è arrivata una lettera per voi con la posta
serale», esordì più tardi Mrs.
Duncan, entrando nella biblioteca con il vassoio del tè.
«Da parte di vostro
padre. Ho pensato che avreste voluto leggerla subito.»
Emma
mise da parte la sua lettura e sollevò lo sguardo sulla
governante. Stava forse
cercando di essere più gentile, così di punto in
bianco? «Sì. Grazie, Mrs.
Duncan», rispose, con una fredda gentilezza che non aveva
più abbandonato da
quando aveva ripreso i domestici per la loro insolenza pochi giorni
prima.
Decidendo
tuttavia che avrebbe aperto la lettera una volta rimasta sola, si
limitò a
prendere la tazzina e addolcire la bevanda con due zollette di
zucchero. «Sapete
per caso chi potrebbe aver lasciato questo libro sulla mia poltrona,
signora
Duncan?» Domandò con noncuranza, ruotando il
cucchiaino per sciogliere lo
zucchero e indicando con un cenno del capo il libricino di
Barbablù che giaceva
sul tavolino di fronte. La donna abbassò lo sguardo su di
esso e aggrottò la
fronte, perplessa; eppure a Emma non sfuggì il tremito delle
sue labbra, né il
suo improvviso e ormai troppo frequente pallore.
«Sinceramente
no, milady», rispose piano, a mezza voce.
Emma
riprese la parola come se Mrs. Duncan non avesse risposto.
«Potrebbe essere uno
scherzo di Lydia? O di Noah? Forse dovreste tenere più sotto
controllo vostro
figlio, signora.»
«Vi
assicuro che non è stato Noah, milady!»
Sbottò la donna, la paura che diventava
ira in un battito di ciglia. Ma bastò una fredda occhiata di
Emma per placarla.
«Io… Vi chiedo di perdonarmi, milady. Voglio solo
dire che mio figlio non
toccherebbe mai qualcosa che non gli appartiene, e soprattutto non
oserebbe
entrare nel castello.»
Con
un cenno della mano, Emma interruppe le sue giustificazioni.
«Non voglio
trattenervi oltre, Mrs. Duncan. Avrete sicuramente di meglio da fare
che
rimanere ad annoiarvi qui insieme a me», fece, congedandola.
Avrebbe avuto
altre domande da farle, in realtà, ma ormai tollerava la
governante sempre meno
– e sempre di più desiderava che suo padre ne
mandasse un’altra al suo posto. E
c’era quella faccenda del veleno… Ma rovinare la
vita di un’intera famiglia
solo per un’antipatia passeggera e un sospetto privo di
fondamenta poteva
essere considerato un capriccio, e a Emma piaceva ritenersi superiore a
cose
del genere.
Con
un affilato tagliacarte ruppe il sigillo della lettera – suo
padre amava ancora
utilizzare la ceralacca con il suo timbro, ma solo per la posta privata
entre eux, giacché sarebbe stato davvero
troppo eccentrico per la posta quotidiana –
dopodiché si mise a leggere. La
carta odorava di tabacco, ed Emma riuscì a immaginare suo
padre scriverla tra
una boccata e l’altra dei suoi sigari, alla calda luce del
suo studio.
Mayfair Street, n. 15. Londra
Martedì 4 ottobre.
Mia cara Emma,
Ormai iniziavo a
credere che non mi avresti scritto fino a Ognissanti. Posso
interpretare questo
silenzio come il buon segno che infine hai gradito la campagna, e che
sei così
impegnata da non trovare qualche minuto da dedicare al tuo vecchio
padre? No,
tesoro mio, non aggrottare in quel modo la fronte – non
è un rimprovero: mi sto
solo burlando di te.
Come ben sai sono a
Londra da più di una settimana, e gli impegni tengono
lontani i pensieri più
tristi e cupi – e mi auguro con tutto il cuore che sia
così anche per te. Sono
lieto che la signorina Radcliffe ti sia accanto in questo momento, la
sua
presenza dovrebbe rendere il tutto assai meno miserabile e
più sopportabile. A
proposito, mi auguro che si riprenda al più presto: non
credo di averla mai
vista prendere un’infreddatura, siamo sicuri che non sia
nulla di grave? Forse
l’aria di campagna non è stata molto
misericordiosa con lei, povera donna.
Se può esserti di
una qualche consolazione, in città il tempo è
orribile: piove dalla mattina
alla sera, e quando non piove tira vento, e se non tira vento le strade
sono
immerse in quella fastidiosa nebbia che rende sempre assai poco
piacevole
uscire di casa per andare a partecipare ai ricevimenti che offre
l’inizio della
Stagione. Ho sentito che lady Edith Campell, non era forse una tua
amica?, si
sposa in primavera con un tale che possiede una fabbrica di sali e
profumi, e
contro il volere dei genitori. Un vero scandalo! Ti lascio immaginare.
A Londra
per il momento è il pettegolezzo più succulento,
non si parla d’altro – ho
pensato che potessi gradire notizie simili, laggiù in
campagna.
Ho anche avuto il
piacere di incontrare lord George Herbert[2]
– forse lo rammenti, è stato ospite a casa nostra
qualche anno fa, durante la
stagione di caccia – ed è stato tanto gentile da
domandarmi della mia
spedizione in Egitto; ha fatto mostra di volerci andare a sua volta,
prima o
poi, giacché la nostra collezione privata di tesori egizi
l’aveva a suo tempo
profondamente ammaliato. Anch’io sto prendendo in
considerazione l’idea di
partire, mia cara, e mi domandavo se potessi essere interessata ad
accompagnarmi: forse viaggiare verso terre lontane potrebbe aiutarci
nel
placare il nostro dolore, e benché io sappia che
è impossibile fuggire da esso
so anche che è in nostro dovere provare comunque a farlo.
Non devi prendere una
decisione subito – lasciamo tutto a dopo Capodanno. Riesci a
immaginare la
meraviglia delle coste del Nilo, in primavera?
Ora permettimi di
mettere da parte per un momento le chiacchiere frivole, e lascia che mi
comporti come il padre severo che dovrei essere: mi auguro che tu abbia
scritto
a Caledon. Visto il legame che condividete sei tenuta a contattarlo
personalmente,
non solo perché sono le più semplici regole della
società a imporlo ma
soprattutto per una questione di delicatezza; benché io lo
abbia già avvisato in
precedenza della tua partenza verso il nord, è comunque
preferibile che gli
faccia avere tue notizie di tuo pugno. Povero ragazzo, credo non abbia
preso
molto bene la mia decisione – sì, ho ribadito
più volte che tu non hai potuto
astenerti dall’obbedirmi, e ciò ha trasferito la
sua delusione su di me anziché
su di te – ma malgrado ciò si è
comportato da vero gentiluomo e ha promesso di
rispettare il tuo periodo di lutto. L’ho incontrato proprio
tre giorni fa al
club ma mi è parso di capire che non l’avessi
ancora contattato, per cui ti
consiglio di rimediare al più presto – qualora tu
non l’abbia già fatto nel
tempo che questa lettera impiegherà per arrivarti. Vi
conoscete da una vita,
mia cara, e so che adesso lui è l’ultimo dei tuoi
pensieri, ma molto presto
diventerà il primo tra essi, e non voglio che il tuo
matrimonio inizi su basi
così poco stabili. Ti supplico di non usare
l’attuale situazione come espediente
per allontanarti ancora di più da lui.
Mia cara, perdonami;
so che non sono discorsi da fare per lettera, ma al momento
è l’unico modo che
abbiamo per comunicare. Devo informarmi se a Heatherfield esiste
già una linea
telefonica – in tal caso potrei far installare un apparecchio
a Pemberley
Manor, non sarebbe una buona idea? Pensavo comunque di investire in una
ristrutturazione del castello, tanto vale cominciare al più
presto.
Ah, un’ultima cosa:
non so dirti quando riuscirò a raggiungerti in campagna. Mi
auguro il prima
possibile, ma ti darò notizie più dettagliate
nella prossima lettera. Te lo
prometto.
Intanto ti stringo
forte, adorata, e che Dio ti benedica. Tuo,
Papà.
***
Venne
svegliata nel cuore della notte dal feroce abbaiare di Aramis
proveniente da un
punto imprecisato nella stanza, forse ai piedi del letto. Socchiuse gli
occhi,
sbattendo le palpebre e guardandosi intorno per cercare di capire che
cosa
stesse succedendo: la finestra si affacciava ancora sul buio pesto,
segno che
l’alba era parecchio lontana, e poiché non stava
piovendo né tuonando si
domandò per quale diavolo di motivo il suo cucciolo si fosse
messo a fare tutto
quel rumore, quasi che avesse il preciso compito di svegliarla.
«Ssht, Aramis, buono… Non è
ora»,
biascicò, cercando di calmarlo per poter tornare a dormire.
Le sembrava di non
riuscire a riposarsi da giorni, il che era pericolosamente vicino ad
essere la
verità.
Tuttavia il cane non pareva
intenzionato ad obbedire agli ordini della padrona, e al latrare
sostituì un
furioso e determinato ringhiare. Maledicendo prima lui e poi
sé stessa, per non
aver dato retta a Mrs. Duncan e aver lasciato dormire Aramis nelle
stalle, Emma
scostò la coperta e arrancò faticosamente tra le
coltri annodate fino a
raggiungere il bordo del letto, dal quale scivolò sul
pavimento posandovi i
piedi nudi. Allungò una mano alla cieca sul comodino e,
quando trovò lo
stoppino della lampada ad olio, lo ruotò finché
una tenue luce non ebbe
rischiarato le tenebre.
A quel punto Aramis la raggiunse
e gironzolò nervosamente intorno ai suoi piedi, continuando
a guaire e
ringhiare: aveva le orecchie tese e il muso aperto a mostrare
minacciosamente
le zanne, e per un attimo Emma ebbe paura di lui. «Cosa
c’è, bello? Non riesci
a dormire?» Mormorò, cercando di parlargli con un
tono dolce e rassicurante per
rilassarlo. Lui abbaiò ancora una volta e
strofinò il muso contro il suo
polpaccio, cercando di farla alzare; obbedendo a quel strano
comportamento,
Emma si alzò e seguì l’animale fino
alla poltrona accanto alla finestra nella
quale aveva letto quel vecchio diario prima di andare a dormire.
Qua, grazie alla luce, vide che
il diario era sparito e che al suo posto qualcuno aveva messo il
carillon che,
giorni prima, aveva trovato accanto al letto e che aveva nascosto
furiosamente
nell’armadio come se il fatto di non averlo davanti agli
occhi potesse aiutarla
a farglielo dimenticare. Non c’era dunque motivo per cui quel
carillon si
trovasse lì: non c’era quando si era coricata, e
la porta della sua camera era
chiusa dall’interno – la chiave era ancora inserita
nella serratura, dunque
nessuno, da fuori, sarebbe potuto entrare.
Abbassò lo sguardo su Aramis, il
cui comportamento finalmente era stato spiegato, osservandolo mentre
ringhiava
a bassa voce contro l’oggetto misterioso. Osservandolo
meglio, il sonno ormai
del tutto evaporato, Emma notò la presenza di un piccolo
biglietto, della
dimensione di quelli da visita, posato sopra il coperchio preziosamente
intarsiato. Sospirò, cercando di calmarsi – non
c’era ragione di avere paura –
e allungò una mano per prenderlo.
Dietro, scarabocchiata
frettolosamente con un inchiostro rosso e una calligrafia spigolosa,
c’era una frase
familiare: Padrona di aprir tutto, di
andar dappertutto: ma in quanto alla piccola stanzina, vi proibisco
d'entrarvi
e ve lo proibisco in modo così assoluto, che se vi accadesse
per disgrazia di
aprirla, potete aspettarvi tutto dalla mia collera[3].
Conosceva la citazione e aveva
compreso da dove proveniva ancor prima di giungere al punto: Barbablù.
Con le mani che tremavano
leggermente, e irritata dalla sua stessa incomprensibile reazione, Emma
gettò
il biglietto nelle braci del camino, attizzandole fin quando una
fiammella non
si fu sprigionata dalla carta incenerendola lentamente. C’era
in effetti un
luogo del castello che le era stato proibito visitare, ossia
l’Ala Ovest: e
invece vi era entrata, vi aveva curiosato e aveva addirittura portato
via un
diario… Che fosse, quella, la prima avvisaglia di una futura
punizione?
Ma no, che sciocchezza; non c’era
nessun altro, a Pemberley, salvo lei e i domestici.
«È solo uno scherzo di
cattivo gusto», mormorò, osservando il biglietto
bruciare. Era Mrs. Duncan che
la tormentava, ormai ne era convinta: quella donna la tollerava a
malapena e
non faceva cenno di nasconderlo, visto che il resto della
servitù era dalla sua
parte. E da quando l’aveva richiamata all’ordine,
umiliandola davanti al marito
e alla sguattera, quel sentimento doveva essersi acuito. Ma per quale
motivo
arrivare a terrorizzarla così, rischiando di perdere il
lavoro – giacché non
aveva dubbi che suo padre l’avrebbe cacciata, una volta
scoperto in che modo si
era comportata?
Eppure, malgrado questa teoria e benché
si fosse poi coricata con il corpo caldo e confortante di Aramis
accucciato ai
suoi piedi, a farle la guardia, quella notte Emma trovò
difficile riprendere
sonno.
[1]
Il
titolo “Sua Signoria”, o “His
Lordship”,
viene utilizzato riferito a un conte (in questo caso il padre di Emma)
e non a sua
figlia.
[2]
Lord Carnarvon,
il finanziatore della spedizione archeologica che ha portato alla luce
la tomba
di Tutankhamon.
________________________________________________________________________
Angolo Autrice.
Dieci pagine di capitolo piene piene... e quando mai le ho scritte? Godetevela finché ce n'è, non posso dirvi altro. xD
Okay, e anche questa è cosa fatta! Devo ammettere che sto amando questa storia sempre di più man mano che si va avanti... e il momento della verità (ossia il fatidico incontro tra la nostra eroina e il nostro cattivone) si fa sempre più vicino! Chiedo scusa se vi sembra che la stia tirando inutilmente per le lunghe e se questi capitoli vi sembrano noiosi - so che c'è poca azione, ma sto cercando di attenermi il più possibile a quei bei romanzi ottocenteschi dove il mistero e l'atmosfera vengono costruiti lentamente, mattone dopo mattone, dove l'autore si prende tutto il tempo che vuole per curare i dettagli e plasmare i vari personaggi come creta tra le mani (o, in questo caso, dovrei dire tra le dita e i tasti del piccì!) in modo che nulla sia campato per aria e tutto abbia uno scopo e un fine... Spero di essermi spiegata xD E anche di riuscire nel mio ambiziosissimo intento!
Nel frattempo, mi prendo anche il tempo di ringraziare tutti coloro che leggono e recensiscono, coloro che ci sono dall'inizio e coloro che sono saltati a bordo in corso d'opera! In particolar modo ci tengo a dire un enorme grazie alle fantastiche Sylphs, Homicidal Maniac, Jolly J e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo - siete davvero troppo buone, grazie davvero per la fiducia che mi state danto! ♥
[Grazie inoltre alla mia alfabetaomegareader kenjina e alla mia geme per essersi imbarcate a loro volta in questa odissea, belle che siete *_*]
Orbene, ora vado! Ci si legge presto, spero - incrociate le dita :D
Baci e abbracci a tutte, vostra
Niglia.
Angolo Autrice.
Dieci pagine di capitolo piene piene... e quando mai le ho scritte? Godetevela finché ce n'è, non posso dirvi altro. xD
Okay, e anche questa è cosa fatta! Devo ammettere che sto amando questa storia sempre di più man mano che si va avanti... e il momento della verità (ossia il fatidico incontro tra la nostra eroina e il nostro cattivone) si fa sempre più vicino! Chiedo scusa se vi sembra che la stia tirando inutilmente per le lunghe e se questi capitoli vi sembrano noiosi - so che c'è poca azione, ma sto cercando di attenermi il più possibile a quei bei romanzi ottocenteschi dove il mistero e l'atmosfera vengono costruiti lentamente, mattone dopo mattone, dove l'autore si prende tutto il tempo che vuole per curare i dettagli e plasmare i vari personaggi come creta tra le mani (o, in questo caso, dovrei dire tra le dita e i tasti del piccì!) in modo che nulla sia campato per aria e tutto abbia uno scopo e un fine... Spero di essermi spiegata xD E anche di riuscire nel mio ambiziosissimo intento!
Nel frattempo, mi prendo anche il tempo di ringraziare tutti coloro che leggono e recensiscono, coloro che ci sono dall'inizio e coloro che sono saltati a bordo in corso d'opera! In particolar modo ci tengo a dire un enorme grazie alle fantastiche Sylphs, Homicidal Maniac, Jolly J e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo - siete davvero troppo buone, grazie davvero per la fiducia che mi state danto! ♥
[Grazie inoltre alla mia alfabetaomegareader kenjina e alla mia geme per essersi imbarcate a loro volta in questa odissea, belle che siete *_*]
Orbene, ora vado! Ci si legge presto, spero - incrociate le dita :D
Baci e abbracci a tutte, vostra
Niglia.