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Autore: Niglia    02/11/2013    6 recensioni
North Yorkshire, settembre 1904.
Dopo la morte della madre, Emma viene spedita ad abitare insieme alla sua istitutrice presso la residenza in campagna acquistata recentemente dal padre, a trascorrere in serenità il lungo periodo del lutto. Qui si ritrova a fare i conti con una realtà ben diversa da quella a cui è abituata: niente servitù, niente distrazioni, nessuno con cui parlare al di fuori della donna che l’ha accompagnata.
Eppure il fascino di Pemberley Manor colpisce positivamente la sua nuova abitante: la magione, infatti, rimasta disabitata a causa di un terribile evento risalente a quindici anni prima, nasconde tra le sue mura molto più di quanto Emma abbia immaginato, e giorno dopo giorno si ritrova a scoprire sconcertanti segreti che sarebbe stato meglio non riportare alla luce.
Quello che non immagina, tuttavia, è che qualcosa di molto pericoloso la spia dall’oscurità…
[Una mia personale rivisitazione del tema Bella/Bestia, con vari accenni e spolverate dei miei adorati romanzi horror ottocenteschi.]
Genere: Dark, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo, Violenza
Capitoli:
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5.
Curiosity Killed the Cat














L’idea le ronzava in testa da quando aveva posato il capo sul cuscino, pronta a godere di un meritato riposo dopo i due giorni di veglia instancabile al capezzale di miss Radcliffe. In realtà, ci aveva rimuginato su sin da quando gliene aveva parlato sir Carlisle per la prima volta, e qualcosa, forse proprio il suo giro di esplorazione del maniero, le aveva fatto prendere la decisione di andare fino in fondo alla faccenda. D’altronde non aveva niente di meglio da fare ora che la sua istitutrice era a letto malata, e non credeva che il rimanere chiusa a Pemberley giorno e notte e in solitudine potesse avere un effetto benefico su di lei.
Giustificò la cosa come semplice curiosità: forse, vedendo il luogo di riposo di coloro che l’avevano preceduta nel possesso di Pemberley, avrebbe potuto rassicurarsi sul fatto di non essere spiata dai loro fantasmi – non che ci credesse davvero, sia chiaro – e avrebbe potuto vivere serenamente fino all’arrivo del padre, atteso, se tutto andava come previsto, per la seconda metà di novembre.
Non potendo contare sull’aiuto di una cameriera – Lydia non aveva né la manualità né l’allenamento sufficiente per aiutarla nelle acconciature, e sfortunatamente neanche miss Radcliffe era disponibile – Emma si risolse a sistemarsi i lunghi capelli corvini in una semplice treccia, che fermò con un nastro scuro e delle forcine, come peraltro aveva fatto negli ultimi giorni; a quell’ora, comunque, non l’avrebbe vista nessuno. Indossò poi dei calzoni da cavallerizza che si era fatta confezionare di nascosto dal padre, dato che la comune tenuta da amazzone che usava durante le battute di caccia ad Hambleton Abbey sarebbe stata ridicola in campagna, e infilò poi un lungo pastrano che strinse in vita con un cinto e che la copriva fin sotto le caviglie. Dopodiché si avvolse una sciarpa intorno al collo, prese i guanti di capretto e uscì finalmente dalla sua stanza.
Benché si fosse sforzata di alzarsi prima dei domestici – e difatti fuori era ancora buio pesto – Emma si accorse con disappunto che questi ultimi sembravano avere una sveglia interna che permetteva loro di abbandonare i letti parecchio tempo prima che il gallo cantasse. Così, confidando che nessuno di loro sarebbe comunque entrato in camera sua prima delle nove, scivolò scalza lungo il corridoio e scese il più silenziosamente possibile le scale, trattenendo quasi il respiro e ringraziando mentalmente il tappeto che attutiva i suoi passi e impediva ai gradini di scricchiolare sotto il suo peso.
Non si stupì nel non trovare Noah Duncan nelle stalle: probabilmente il ragazzo stava ancora dormendo, anche se non poteva fare a meno di chiedersi dove coricasse. Sembrava avere terrore del maniero – e in cuor suo Emma iniziava a non biasimarlo – però dubitava che i suoi genitori gli avrebbero lasciato trascorrere la notte in mezzo ai cavalli, o nel fienile. Ad ogni modo, nella scuderia non c’era alcuna presenza umana: quando aprì la porta gli animali sbuffarono e nitrirono gentilmente come a darle il buongiorno, e lei si diresse a passo sicuro verso l’Andaluso dal manto bianco chiazzato di grigio che aveva catturato il suo interesse sin dal primo giorno. Prima di entrare nella sua cella gli porse la mano aperta sul cui palmo aveva posato un dolciume, e attese pazientemente che il baio accettasse il dono: il suo muso morbido e vellutato contro la propria mano la fece sorridere, e mentre lui masticava si permise di accarezzarlo in mezzo agli occhi.
Purtroppo non era capace di sellarlo: ad Hambleton se ne occupavano gli stallieri, e tutto quello che lei doveva fare era salirgli in groppa e sistemarsi le gonne in modo che le tenessero le gambe coperte. Ma la necessità aguzza l’ingegno, così Emma si limitò a sistemare una coperta piuttosto spessa sul dorso del cavallo e vi montò sopra aiutandosi con uno sgabello, con una gamba su entrambi i lati. Ebbe bisogno di una manciata di secondi per abituarsi alla sensazione del calore pulsante dell’animale tra le sue cosce – le fu inevitabile arrossire, al pensiero di essere vista in quella situazione da occhi indiscreti – ma, dopo aver preso un profondo sospiro, riguadagnò il controllo su di sé e sulla sua cavalcatura, guidando il baio con comandi sicuri fuori dalla scuderia e dalla proprietà.
Ben presto l’imbarazzo venne sostituito da una feroce ebbrezza, e fu con sempre maggiore sicurezza che condusse il cavallo lungo la strada e in mezzo al bosco, presso il vecchio cimitero ormai abbandonato dove, secondo sir Carlisle, le tombe dei conti di Pemberley giacevano dimenticate dal mondo.

Il vecchio camposanto di Heatherfield era, come Emma comprese una volta giuntavi, il luogo di riposo dei nobili che si erano succeduti nel corso dei decenni a capo della proprietà di Pemberley Manor e dei territori circostanti – era, in poche parole, un piccolo cimitero di famiglia, il che spiegava per quale motivo fosse ormai abbandonato e anche perché si trovasse così lontano dal villaggio. Un basso muretto a secco, le cui pietre ricoperte di muschio erano crollate in più punti arrendendosi all’arrancare inesorabile delle piante selvatiche, ne circondava il perimetro in un vano tentativo di tenere a bada l’avanzare del bosco.
Non c’era un cancello – o perlomeno non c’era nel lato da cui era giunta Emma – così la giovane si risolse di scavalcare semplicemente il muretto, non prima di aver assicurato le redini del cavallo al ramo più vicino. Le erbacce avevano ormai divorato ogni cosa – di tanto in tanto qualche lapide riusciva a sbucare sbilenca dalla vegetazione, ma il tempo era stato impietoso e ormai era pressoché impossibile scoprire i nomi di coloro che giacevano avvolti dalla terra, proprio sotto di lei. Ciò nonostante non fu difficile per Emma trovare la tomba degli ultimi ospiti che aveva accolto il cimitero: si trattava di una cappella ambiziosa posizionata in un punto d’onore alla fine di ciò che rimaneva del vialetto, tra un ombroso cipresso e la statua di un angelo con le ali spezzate, con morbidi capelli arricciati alla maniera greca e le pesanti palpebre abbassate in un’espressione triste e desolata. Il marmo bianco era macchiato dalle intemperie, e aggiungeva ulteriore angoscia all’intera cripta.
Sul capitello del mausoleo si leggeva, o per meglio dire si intuiva, ciò che restava del nome di famiglia:

PE B R Y

Sembrava che le intemperie si fossero accanite con particolar foga sulle lettere incise, quasi che avessero intenzionalmente voluto cancellarle – ed eliminare, con esse, anche la memoria del nome che raffiguravano.
Con un brivido e un sospiro, Emma si strinse addosso il mantello e si affrettò ad entrare nella cappella per ripararsi dall’aria gelida del mattino.
L’interno era umido, ma asciutto. Lo scricchiolio del portone aveva rimbombato cupamente tra le quattro pareti del mausoleo, e il fischio del vento che penetrava dagli spifferi pareva quasi il debole sussurro dei morti che ancora stavano a guardia della loro ultima dimora. Emma frugò nelle tasche dei propri calzoni e tirò fuori una scatoletta di fiammiferi che aveva avuto il buonsenso di portare, e che utilizzò per accendere una vecchia lampada in attesa su un ripiano impolverato. La fiammella tremò timidamente, e, al riparo dal soffio d’aria dietro la mano della giovane, finalmente brillò rischiarando il buio; e così Emma poté guardarsi intorno.
Sotto di lei giaceva l’ossario, dove erano state conservate le generazioni precedenti dei Rochester: una grata quadrangolare, larga il tanto sufficiente da farci passare un uomo, ne indicava l’accesso. Sembrava una voragine nera e infinita, ed Emma, inquieta per la prima volta da quando aveva varcato la soglia del mausoleo, l’aggirò con attenzione per non dover essere costretta a verificare di persona se le sbarre di ferro reggessero il suo peso.
Passò lentamente accanto alle quattro tombe più recenti, notando l’assenza di foto o ritratti e dispiacendosene: era un dettaglio che avrebbe donato personalità e calore all’ultima dimora dei conti di Rochester, ma evidentemente nessuno li aveva amati abbastanza da pensarci. Certo il mausoleo dei Pemberley era assai diverso da quello in cui adesso riposava sua madre, perennemente circondata da fiori e candele sempre accese… Sfiorò con reverenza le lettere di ottone dorato della contessa (Isobel Du Maurier, in Pemberley, contessa di Rochester, amata sposa e madre, possa risorgere nella gloria divina. 1841-1873), e poi proseguì con quelle, incise e assai più semplici, del conte (Edgar J. Pemberley, conte di Rochester, 1832-1889) e dei suoi tre figli, Elijah (1864-1889), Evan (1867-1889) ed Eleanore (1871-1889), tutti scomparsi nell’incendio di quindici anni prima.
A quanto pareva gli abitanti del villaggio non si erano sprecati in complessi epitaffi, per loro.
Ma ciò che attirò davvero l’attenzione di Emma fu un’altra stele, più piccola e assai insignificante, poggiata ad un angolo della cappella e ricoperta di un sottile strato di muschio secco, come se fosse stata portata là dall’esterno. Era uno di quei dettagli fuori posto che non si può fare a meno di notare, visto come alterano l’equilibrio di un determinato luogo. Incuriosita si avvicinò e, accucciandovisi di fronte, lesse solo un nome e una data: Adam, 1873-1889.
«Adam», ripeté a bassa voce, perplessa, sfiorando con la punta delle dita l’iniziale appuntita del nome. Una stranezza che si aggiungeva alle numerose altre che aveva incontrato da quando si era trasferita a Pemberley… Chi era quell’Adam senza nome, e che cosa ci faceva la sua lapide priva di una tomba a cui fare la guardia? Che fosse un figlio illegittimo, morto giovane e sistemato nella cripta di nascosto, così che almeno nella morte potesse far parte di quella famiglia? Nessuno pareva prestare attenzione a ciò che accadeva in quel piccolo cimitero, d’altra parte… Una curiosa coincidenza, poi, che la data della morte corrispondesse a quella degli altri membri della famiglia.
Un momento, però. Edgar J. Pemberley… Edgar? Il nome le era familiare. Dove l’aveva già sentito? Si spostò nuovamente davanti alla lastra del conte, e si sforzò di ricordare. Era come cercare di riagguantare i residui di un sogno, i cui contorni sfuocati continuano a sfuggire man mano che si cerca di rammentarli, per poi sparire nell’oblio alla minima disattenzione. Eppure, facendo mente locale e passando al setaccio ciò che aveva fatto nell’ultima decina di giorni, quel nome riuscì infine a far suonare un campanello: se non ricordava male, lo aveva trovato nel diario del dottor Murray – di cui ormai aveva praticamente memorizzato ogni singola parola – il quale ne parlava come se fosse stato un suo amico. Ora, in una situazione normale questo non avrebbe significato niente – quanti uomini potevano chiamarsi così in Inghilterra? Non era certo una prova. Ma il semplice fatto che il diario di un apparente estraneo si trovasse nel castello, e che citasse qualcuno che casualmente si chiamava come l’allora conte… Non poteva trattarsi di un’altra coincidenza.
Solo che non capiva come questo dovesse avere una qualche valenza interessante. E poi, su che cosa stava indagando? Su una famiglia scomparsa in un tragico incidente quindici anni prima? Per quale motivo? Era davvero tanto annoiata da vedere complotti e misteri in un nonnulla?
Solo che non si trattava di un semplice nonnulla: c’erano parecchie note stonate nella melodia di Pemberley, che si traducevano nel fastidioso presentimento che qualcosa di brutto dovesse accadere da un momento all’altro. C’era Noah, il figlio dei signori Duncan, terrorizzato alla sola idea di entrare in casa; c’erano proprio i signori Duncan, con il loro atteggiamento arrogante e ambiguo, di chi cela un segreto terribile; c’era stata quella musica notturna, ricomparsa poi in un carillon apparso all’improvviso nella sua camera da letto, il cui solo pensiero la faceva ancora rabbrividire; c’era stato il divieto di aggirarsi nell’Ala Ovest, divieto che lei aveva bellamente ignorato per poi scoprire il cuore abbandonato e decadente della dimora, con strane stanze di cui non si capiva il senso come il laboratorio e lo studio del pittore misterioso; c’era il diario del dottor Murray, con le sue teorie inquietanti sulla creazione di una nuova specie; c’era il fatto che gli abitanti del villaggio si rifiutassero di giungere a Pemberley, come se il maniero fosse uno dei portali dell’inferno; e c’era stata persino la malattia incomprensibile di miss Radcliffe.
Forse erano solo vaneggiamenti, tentativi testardi da parte sua di far quadrare i conti e far convergere tutti quegli avvenimenti in un’unica spiegazione, o forse no: ma non poteva dimenticare che la sua istitutrice era tornata dalla sua breve gita al villaggio stranamente pallida, con tutta l’intenzione di parlarle di qualcosa di molto importante appena prima di cadere nella sua inspiegabile infreddatura. Sì, indubbiamente c’era un qualche segreto che le mura secolari di Pemberley stavano nascondendo, e lei diventava ogni giorno più curiosa di scoprirlo. Si lasciò alle spalle la cripta, chiudendo con cura la porta e ripercorrendo a ritroso il vialetto del camposanto mentre con la mente tornava alla sua nuova casa e al desiderio sempre più invadente di svelarne ogni mistero.
Emma era già parecchio lontana quando una mano solitaria sbucò dalla grata, sollevandola e spostandola con un fastidioso stridio da un lato del pavimento. Una figura, grossa e nera, si issò faticosamente sul bordo della botola, sgorgando dall’ossario con un gemito inquietante. Nessuno la vide e nessuno la udì, se non le mute salme di coloro che un tempo erano stati la sua indesiderata famiglia.




*



Non rientrò subito a Pemberley – c’era qualcos’altro che aveva in mente di fare, adesso che aveva la possibilità di muoversi senza l’onnipresente sguardo inquisitore dei domestici. Aveva ormai iniziato ad albeggiare, tenui raggi rosati penetravano le nubi plumbee e facevano brillare la rugiada sull’erba; nel momento in cui, al rientro dal camposanto, avrebbe dovuto prendere la strada per il castello, Emma decise di voltare il cavallo e andare nella direzione opposta, verso, come si era informata, la casa di sir Carlisle.
Non fu un tragitto eccessivamente lungo, forse una ventina di minuti al massimo. Procedeva ad una andatura sostenuta ma non esagerata – amava andare a cavallo, ma dal tragico incidente di sua sorella Lizzie non le sembrava il caso di sfidare la sorte – così, quando giunse finalmente in vista dell’abitazione dei Carlisle, conservava ancora un aspetto sufficientemente presentabile. Il cancello in ferro battuto della tenuta era aperto, così Emma fece fermare il suo baio e scivolò a terra, reggendo con mano salda le redini per evitare che il cavallo si innervosisse in un ambiente estraneo. Notò un cartello di ottone sul pilastro destro del cancello, dove era scritto, in caratteri gotici, il nome della proprietà: Ashfield.
La casa era una tipica villa in stile georgiano: la facciata ricoperta di mattoncini rossi, avvolti qua e là da spire di edera fiorita, gli infissi bianchi, un portico elegante il cui tetto pareva ricordare il frontone dei templi greci e una bassa siepe che percorreva il profilo della casa in tutta la sua superficie. Il sorriso nacque spontaneo sulle sue labbra: il cambiamento rispetto a Pemberley era talmente evidente che le parve quasi di essere in un altro angolo di mondo, in un’altra vita: quella si poteva definire davvero una casa accogliente, pensò, una nella quale le sarebbe piaciuto abitare.
Fu un cameriere a venire ad accoglierla, con sua grande sorpresa: oramai era pressoché disabituata a dei domestici in divisa ineccepibili e professionali come la servitù di Hambleton.
«Posso fare qualcosa per voi, signorina?» Le domandò il giovane, fermandosi a pochi passi da lei e spostando uno sguardo perplesso e leggermente ostile dalla sua cavalcatura alla sua persona e viceversa.
Emma sapeva di non essere in condizioni eccellenti per fare una visita mattutina al suo vicino di casa, ma era pur sempre la figlia di un conte e non c’era nessuna ragione che permettesse a quel domestico di fissarla con così tanta insolenza, come se fosse stata l’ultima sguattera della cucina, o peggio. Probabilmente l’essere arrivata in groppa ad un cavallo privo di sella e finimenti doveva avergli dato l’impressione sbagliata. «Mi auguro proprio di sì, desidero vedere sir Carlisle», affermò con un tono deciso, sforzandosi di non spazzolare via la polvere e la terra dal proprio vestito. «Sono sicura che si ricorderà di me: sono lady Emma Moore, la proprietaria di Pemberley Manor.»
Gli occhi chiari del ragazzo parvero allargarsi leggermente, eppure non le diede la soddisfazione di riconoscerla: non sembrava fidarsi della prima fanciulla che si vantava di un titolo simile, come se quel luogo dimenticato da Dio pullulasse di numerosi impostori. «Date a me il cavallo, m’lady», fu la sua replica forzata – non si diede neppure pena di scusarsi. «Mr. James, il maggiordomo, vi farà accomodare in casa.» Ciò detto, le diede le spalle e si diresse sul retro, trascinandosi un animale piuttosto innervosito che scalpicciava sulla ghiaia del vialetto.
Emma lo fissò a corto di parole: ma cos’avevano che non andava tutti i domestici di Heatherfield?
Trattenendo a stento l’irritazione fece per avvicinarsi all’ingresso e annunciarsi da sola, ma venne bloccata a metà vialetto da un forte colpo di tosse. Volse appena gli occhi verso quel rumore, con nessuna intenzione di fermarsi per verificarne la fonte, ma purtroppo vide qualcun altro andarle incontro, e per forza di cose si vide costretta a mostrarsi cordiale anche con il nuovo arrivato.
«Perdonate, m’lady, non ho potuto fare a meno di udire il vostro scambio con Alfie. Vi chiedo scusa anche da parte sua, non è stato molto gentile», esordì pacato, con la voce greve di chi trascorre molto tempo a fumare. Da una mano gli pendevano delle cesoie e con l’altra si sfilò educatamente il cappello in cenno di saluto; tutto il suo abbigliamento indicava chiaramente il suo lavoro di giardiniere. Emma decise che doveva avere all’incirca l’età di Mr. Duncan, se non addirittura qualche lustro in più.
«Non posso biasimarlo, dopotutto è un orario inconsueto per delle visite. Tuttavia ho urgenza di parlare con sir Carlisle, per cui, se posso…» Fece, cercando di liberarsi dell’uomo con delicatezza.
Egli tuttavia non parve capirlo. «Siete davvero lei, mh? La nuova padrona di Pemberley. Vivete lì? Con i Duncan?» Aggiunse, sputando quel nome come se fosse stato insieme un insulto e una maledizione.
Parlare male della propria servitù con il domestico di un’altra famiglia non rientrava nell’educazione che le era stata imposta: come diceva sempre miss Radcliffe, utilizzando un accorto proverbio contadino, i panni sporchi andavano lavati in casa. «Sì, e per vostra informazione non c’è nulla di riprovevole nel modo in cui i Duncan gestiscono la tenuta, per cui vi suggeriscono di moderare i toni.»
Egli tuttavia ignorò sfacciatamente quel prudente consiglio. «Se così fosse, che cosa vi porta qui ad Ashfield appena dopo l’alba e senza alcun preavviso, con l’aria di chi fugge dall’Inferno?»
Emma rimase sconvolta dall’insolenza di quell’uomo, ma per sua fortuna le venne risparmiata la fatica di pensare ad una risposta abbastanza tagliente da metterlo a tacere.
«Tom! Occupatevi dei cespugli e non importunate milady», sbottò difatti una voce severa che interruppe il loro breve scambio. Emma si voltò per vedere quello che doveva essere il maggiordomo, irto sulla soglia del portico con un’espressione contrariata e algida su un viso segnato dal tempo.
Il giardiniere si raddrizzò, infastidito. «State attenta a chi concedete la vostra fiducia, m’lady», fece allora, prima di rivolgerle un rigido cenno col capo e tornare al suo lavoro senza più aggiungere una sola parola.
Emma lo osservò sparire in mezzo alla vegetazione, perplessa: quasi rimpiangeva di non avergli fatto più domande – quel tale, Tom, forse era a conoscenza di qualcosa che avrebbe dovuto sapere anche lei… C’era forse dell’altro sui Duncan, oltre alla storia che le aveva già raccontato sir Carlisle?
«Prego, milady, accomodatevi dentro casa. Se avessimo saputo del vostro arrivo avremmo organizzato un’accoglienza assai più adatta», stava dicendo Mr. James cercando di ottenere la sua attenzione, in un tono finalmente educato e professionale che non pareva accusarla di essere capitata in casa loro come un bandito. «Il signore è in sala da pranzo. Vi fermate per colazione?»
«Non credo, signor James, ma vi ringrazio. Ho solo bisogno di parlare con sir Carlisle, non mi tratterrò a lungo», rispose un poco più a suo agio, raggiungendolo sul portico. Intimamente cercò di consolarsi – forse non indossava un abito elegante, ma perlomeno portava il nero.
«Molto bene. Se volete seguirmi…»
Sir Carlisle sedeva al tavolo della sala da pranzo, neanche lontanamente grande o sfarzosa quanto quella di Pemberley, ma non per questo meno accogliente, immerso nella lettura di un quotidiano – evidentemente il servizio di posta era più efficiente ad Ashfield di quanto non fosse al castello – mentre il cameriere che lei aveva incontrato poco prima nel cortile gli gironzolava intorno pronto ad esaudire qualunque richiesta. Era già vestito di tutto punto, il che le fece sentire per un attimo nostalgia di casa, di Hambleton – Emma non credeva che le potesse mancare così tanto fare colazione con suo padre, quando solo raramente si scambiavano qualche parola durante il primo pasto della giornata. Probabilmente associava un’abitudine così semplice a un capitolo della sua vita che non si sarebbe più potuto ripetere, vista la scomparsa della madre…
Quando lei e il signor James si affacciarono sulla porta, il primo annunciandola con aria pomposa, il padrone di casa sollevò gli occhi su di lei e si alzò rapidamente in segno di cortesia, sorridendole e posando il giornale sul tavolo per andarle incontro.
«Lady Moore, questa sì che è una piacevole visita inaspettata!» Esordì con entusiasmo, prendendole la mano e sfiorandola con un baciamano impeccabile. Se anche era infastidito per il suo arrivo non annunciato, egli seppe mascherarlo alla perfezione.
«Vi chiedo infinitamente scusa per essere piombata così all’improvviso in casa vostra, sir Carlisle», si scusò immediatamente, per l’ennesima volta, seguendolo mentre le faceva strada verso la sedia accanto alla sua, capotavola.
«Via, credevo avessimo abolito le formalità. Le trovo così pompose e forzate, qui in campagna… Chiamatemi pure Arthur», la corresse gentilmente, riuscendo a metterla del tutto a suo agio anche malgrado l’abbigliamento poco consono e l’orario decisamente vergognoso. «Scommetto che non avete ancora fatto colazione. Gradite del tè, o preferite forse del caffè? Con latte, magari? E i pasticcini? Mrs. Mills, la nostra cuoca, li ha sfornati proprio qualche ora fa. Sono ancora caldi.»
Adesso che la colazione le veniva offerta dal padrone di casa le sembrava maleducato rifiutare, senza considerare che, in effetti, la lunga cavalcata mattutina le aveva messo un certo appetito. «Grazie, sir… Arthur. Il tè andrà benissimo», capitolò con un mezzo sorriso, sfilandosi i guanti e posandoseli in grembo.
«Jimmy, del tè per milady, grazie.» Ordinò, rivolgendosi al cameriere. Poi tornò a lei, riprendendo a sorridere. «Non credevo che amaste le passeggiate così mattiniere, lady Emma. Posso chiamarvi per nome, sì? Vi piace ammirare l’alba?»
«Una cosa del genere. In realtà ho colto un vostro suggerimento, ci pensavo dalla vostra visita… Sono andata alla cripta dei conti di Rochester», ammise, abbassando leggermente la voce.
«Siete stata al vecchio cimitero?» Sir Arthur sembrò davvero sorpreso, e una sottile ruga di apprensione si formò tra le sue sopracciglia aggrottate. «Oh, milady, non vorrei sembrarvi arrogante o invadente, ma non penso che sia stata la migliore delle idee quella di spingersi così lontano, da sola, e a un orario così insolito…»
«Sì, certo, ne sono consapevole, ma la curiosità è stata tanta che non sono riuscita a trattenermi», replicò brevemente; in tutta sincerità, era imbarazzante ammettere ad alta voce quella sua scappatella – alle orecchie di un estraneo doveva sembrare talmente ridicola!
L’uomo annuì, mentre lasciava che un’espressione grave si facesse largo sul suo volto e ne annullasse l’istintiva giovialità. «Comprendo benissimo, milady, e non mi permetterei mai di giudicare una fanciulla così assennata come immagino siate voi», fu tuttavia la sua garbata e sincera risposta. «E avete ottenuto ciò che speravate di trovare?»
«In realtà credo che sia piuttosto difficile placare la curiosità di una donna», ribatté Emma con un mezzo sorriso, cercando di spostare la questione su un terreno più leggero e che, al momento, le stava più a cuore. «Tuttavia, sir Arthur, non sono venuta a quest’orario così barbaro solo per approfittare della vostra ospitalità, ma per osare chiedervi una cortesia», proseguì piano, posando la tazza sul piattino e sollevando lo sguardo sul padrone di casa.
Egli la osservò attentamente, e le fece cenno di andare avanti. «Prego, milady, chiedete pure. Farò quanto è in mio potere per aiutarvi.»
Emma sospirò, leggermente imbarazzata per il fatto di dover fare una richiesta tanto singolare a un gentiluomo che era, in fondo, ancora uno sconosciuto. «Come vi ho accennato, la mia istitutrice non sta bene. È a letto da giorni, ormai, e non accenna a migliorare… Ho fatto chiamare il medico, ma la mia governante dice sempre che non può e non vuole venire, perché a quanto pare la gente del villaggio nutre uno strano terrore nei confronti di Pemberley, e preferisce non metterci piede. Se servisse a qualcosa andrei io stessa da lui, ma che senso ha parlare con un dottore se egli non vuole visitare la paziente? Per cui, ecco, mi domandavo se voi poteste intercedere presso di lui, a nome mio. Credo che voi siate più conosciuto di me al villaggio, e sicuramente nessuno si rifiuterebbe di venire ad Ashfield…»
«In poche parole, milady, mi state chiedendo di rapire il dottor Carew e di portarlo a sua insaputa a Pemberley Manor?» Malgrado l’improvviso rossore di Emma a quel rapido sunto, sir Carlisle scoppiò a ridere, sinceramente divertito. «Ma certo, certo, è più che fattibile! Andrò a Heatherfield subito dopo colazione, e vi posso assicurare che prima di pranzo il dottore avrà visitato la vostra miss Radcliffe.»
«Non so come ringraziarvi, sir Arthur», rispose lei sinceramente, non osando quasi sorridere per timore di fargli cambiare idea. «Sarò molto più tranquilla una volta che il signor Carew l’avrà vista. Dubito che con latte caldo e miele si possa curare altro che non sia un semplice raffreddore…»
Sir Arthur annuì, comprensivo. «A voler essere franco, milady, mi delude che un uomo di scienza come Brandon Carew si sia lasciato suggestionare dalle storie dei contadini al punto di privarvi del diritto di una visita», aggiunse poi, con un’aria improvvisamente risentita – quasi che il torto fosse stato fatto a lui in prima persona. «Lo conosco da tanti anni, e vi assicuro che è la prima volta che assisto a un simile comportamento. Non so davvero come spiegarlo…»
«Se anche la metà di ciò che mi avete raccontato durante la vostra visita a Pemberley è del tutto vera, sir Arthur, non posso sentirmi di biasimare il dottor Carew», replicò Emma, sentendosi quasi in dovere di difendere il recalcitrante dottore: il maniero, era ora che lo ammettesse, stava iniziando a spaventarla, e poteva forse iniziare a capire i sentimenti degli abitanti del villaggio al riguardo. «E comunque mi auguro che accetti di farci visita in vostra compagnia. Non credete che il mio gesto sia inopportuno, vero?»
«Ribadisco che è nel vostro pieno diritto richiedere la visita del medico della contea, milady, è che il torto sia suo per avervelo negato», la rassicurò sir Carlisle, con il suo caldo sorriso. Poi si voltò appena di lato, attirando l’attenzione del maggiordomo che attendeva ordini in paziente attesa alle sue spalle, presso l’arazzo che ricopriva buona parte della parete. «Per favore, James, fate preparare la mia automobile. Lady Emma, venite al villaggio insieme a me?»
«Oh no, sir Arthur, se non vi dispiace preferirei precedervi a Pemberley. Devo avvisare i miei domestici e cercare un abbigliamento più adatto per ricevere ospiti», disse subito, ricordandosi delle condizioni in cui si era presentata alla sua porta. Si domandò se con dei simili indumenti avrebbe rischiato di più le ire di suo padre o della sua istitutrice… Sorrise, cercando di non pensarci, e si alzò da tavola subito imitata dal padrone di casa.
Quest’ultimo scosse il capo, palesemente divertito. «Per quanto non mi senta molto tranquillo nel lasciarvi rientrare da sola e a cavallo, posso comprendere la vostra premura. Ma lasciatemi dire che siete elegante anche in questa eccentrica tenuta da amazzone.»
«L’auto è pronta, sir», li interruppe in quel momento Mr. James, appena rientrato nella sala da pranzo.
«Bene, grazie James. Milady, permettete?» La scortarono galantemente nell’ingresso, dove sir Arthur l’aiutò a infilare il soprabito e istruì il maggiordomo di avvisare la signora Carlisle che era dovuto scappare subito dopo colazione per un impegno improrogabile. Dopodiché egli salì nel suo trabiccolo moderno, come lo avrebbe definito miss Radcliffe, ed Emma montò a cavallo aiutata da un assai meno arrogante Alfie.
Proseguirono insieme fino all’incrocio, dove si dovettero separare: sir Arthur le promise che in una o due ore al massimo sarebbe giunto al castello con il suo amico, e così accadde.
Il dottor Brandon Carew varcò la soglia di Pemberley Manor con l’aria del condannato a morte che si appresta a compiere gli ultimi passi prima del patibolo. Era un signore di media altezza e media corporatura, la cui età pareva ondeggiare tra i cinquanta e i sessant’anni, che non possedeva alcun segno particolare che potesse distinguerlo in mezzo ad una folla, salvo la consunta valigetta che stringeva nella mano sinistra come se aggrappandovisi sarebbe stato al sicuro dai fumi maligni del maniero. Era un uomo comune, e di sicuro non si era ancora ripreso dall’improvviso tradimento di sir Carlisle, che lo aveva trascinato in quella tenuta di nascosto nonché contro il suo volere.
Emma ignorò il palese disaccordo che leggeva in viso a Mrs. Duncan – la quale non aveva digerito bene la cavalcata segreta della padrona e che pareva tanto restia ad avere ospiti in giro per il maniero quanto lo erano questi ultimi di far loro visita – e andò ad accogliere il dottore, sforzandosi di metterlo a suo agio con tutte le buone maniere che poteva sfoderare. La sua tranquilla serenità certo mascherava alla perfezione la breve discussione che aveva avuto con la governante al suo ritorno a Pemberley, dove poche ore prima era stata accolta quasi come una prigioniera che non si sarebbe mai dovuta permettere di uscire dai confini della proprietà senza domandare il permesso o farsi accompagnare da qualcuno. Per la prima volta Emma aveva minacciato la donna di raccontare tale condotta a suo padre e di farla dunque cacciare, e per quanto si fosse vergognata l’attimo dopo aver parlato in quel modo, non poté fare a meno di notare che quelle maniere sembravano aver portato qualcosa di buono: Mrs. Duncan appariva ancora contraria a ciò che faceva lei, ma perlomeno teneva per sé le sue considerazioni.
Il dottor Carew, dal canto suo, pareva essersi innamorato di Emma dal momento in cui i suoi occhi si erano posati su di lei. Si era subito prodigato in mille scuse e salamelecchi inframmezzati da mezzi inchini, si era giustificato per il suo comportamento e le aveva promesso che mai più avrebbe osato ignorare gli appelli di Sua Signoria – Emma gli aveva ripetuto tre volte che non doveva chiamarla in quel modo, ma alla quarta si era limitata ad alzare gli occhi al cielo e a lasciar correre[1] – a favore di altro che poteva aspettare. Lo aveva accompagnato in camera di miss Radcliffe mentre sir Arthur, con impeccabile delicatezza, si era offerto di attendere in biblioteca che la visita terminasse; in cuor suo Emma non poté che essergli grata, dato che così poteva liberarsi di Mrs. Duncan ordinandole di portargli del tè per non averla tra i piedi durante il consulto.
La diagnosi del dottore era stata, tuttavia, poco soddisfacente: l’uomo non aveva saputo determinare con certezza a cosa fosse dovuto il malore di miss Jane, anche se aveva escluso a priori le malattie più gravi. A giudicare da ciò che gli aveva spiegato Emma e da ciò che aveva avuto modo di esaminare da sé, pensò che almeno in un primo momento doveva essersi trattato di un’intossicazione alimentare. Forse qualcosa che aveva mangiato al villaggio, visto che si era sentita male il giorno stesso? Emma non seppe rispondere. Ad ogni modo, il fatto che non fosse abbastanza cosciente per potersi nutrire in modo appropriato aveva fatto peggiorare la sua salute, e fu per questo che le prescrisse, insieme a delle pastiglie che facessero calare la febbre, una dieta rigorosa da seguire passo per passo a costo di imboccare a forza la paziente.
«Inoltre, se posso permettermi l’ardire, Sua Signoria», le sussurrò l’uomo guardandosi intorno con aria circospetta, forse temendo che le pareti lo ascoltassero, «vi consiglio di controllare tutto quello che viene fatto ingurgitare alla signorina Radcliffe, qualora… Dio non voglia, per carità, ma la prudenza, sapete come si dice… ecco, in caso di un avvelenamento prolungato.»
Emma aveva ascoltato quelle parole più con fare sorpreso che indignato, dato che una simile possibilità non le era neanche passata per la testa. Perché mai qualcuno avrebbe voluto avvelenare miss Radcliffe, che non aveva fatto del male a nessuno e di certo era a Heatherfield per troppo poco tempo per potersi essere fatta dei nemici così agguerriti?
Parlarono ancora un poco di come sarebbe stato meglio prendersi cura di miss Radcliffe – impacchi di erbe balsamiche per liberare le vie respiratorie, pezzuole bagnate di acqua gelida da posarle sulle tempie, e via dicendo – dopodiché Emma fece strada al dottore fino alla biblioteca per raggiungere sir Arthur. Rimasero entrambi fino all’ora di pranzo, quando i due uomini dovettero declinare di pari accordo l’invito di fermarsi a mangiare al maniero, con palese soddisfazione di Mrs. Duncan.
Anche più tardi, mentre sedeva al capezzale della sua istitutrice, Emma non riuscì a togliersi dalla testa la terribile idea che il dottor Carew vi aveva fatto radicare.




**



Il giorno successivo, dopo aver congedato il dottore che aveva ormai accettato di tornare periodicamente per far visita alla sua paziente, a patto di essere accompagnato di nuovo da un disponibile sir Carlisle, Emma trovò un libro posato sulla poltroncina che usava occupare in biblioteca, quella accanto al camino, come se qualcuno lo avesse dimenticato lì di proposito. Incuriosita, lo prese e se lo rigirò tra le mani, finché i suoi occhi non vennero catturati dal titolo: Le sei mogli di Barbablù.
Era un libricino sottile, con la copertina blu logora e il dorso usurato, ma l’immagine dipinta sul frontespizio mostrava la chiara rappresentazione di una fanciulla dall’espressione terrorizzata che teneva tra le mani coperte di sangue una piccola chiave d’oro. Emma conosceva la favola – la conosceva bene, a dirla tutta, grazie al suo particolare interesse per il gotico e per l’orrore – e pertanto trovò di cattivo gusto che qualcuno le avesse lasciato quel volume in particolare a portata di mano, quasi sperando che lei lo trovasse e lo leggesse.
La cosa non le piacque. Volevano forse ricordarle cosa accadde alle mogli curiose di Barbablù? Eppure credeva che fosse in suo diritto esplorare il maniero in lungo e in largo. Avrebbe dovuto parlarne con Mrs. Duncan una volta per tutte, decise; quella storia stava andando troppo per le lunghe. A meno che, certo, non fosse stata lei a mettere in giro quel libro…
Il pendolo ticchettava cupo e monotono, e un ceppo si spaccò in due tra una miriade di scintille. Tutta la biblioteca pareva immersa in un’atmosfera di pacata attesa, come se qualcosa di inevitabile dovesse accadere da un momento all’altro e fosse impossibile impedirlo: Emma dubitava che tale sensazione potesse avere un’accezione positiva, dato che quella sensazione di quiete stava trasformandosi via via in una di angoscia.
«Milady, è arrivata una lettera per voi con la posta serale», esordì più tardi Mrs. Duncan, entrando nella biblioteca con il vassoio del tè. «Da parte di vostro padre. Ho pensato che avreste voluto leggerla subito.»
Emma mise da parte la sua lettura e sollevò lo sguardo sulla governante. Stava forse cercando di essere più gentile, così di punto in bianco? «Sì. Grazie, Mrs. Duncan», rispose, con una fredda gentilezza che non aveva più abbandonato da quando aveva ripreso i domestici per la loro insolenza pochi giorni prima.
Decidendo tuttavia che avrebbe aperto la lettera una volta rimasta sola, si limitò a prendere la tazzina e addolcire la bevanda con due zollette di zucchero. «Sapete per caso chi potrebbe aver lasciato questo libro sulla mia poltrona, signora Duncan?» Domandò con noncuranza, ruotando il cucchiaino per sciogliere lo zucchero e indicando con un cenno del capo il libricino di Barbablù che giaceva sul tavolino di fronte. La donna abbassò lo sguardo su di esso e aggrottò la fronte, perplessa; eppure a Emma non sfuggì il tremito delle sue labbra, né il suo improvviso e ormai troppo frequente pallore.
«Sinceramente no, milady», rispose piano, a mezza voce.
Emma riprese la parola come se Mrs. Duncan non avesse risposto. «Potrebbe essere uno scherzo di Lydia? O di Noah? Forse dovreste tenere più sotto controllo vostro figlio, signora.»
«Vi assicuro che non è stato Noah, milady!» Sbottò la donna, la paura che diventava ira in un battito di ciglia. Ma bastò una fredda occhiata di Emma per placarla. «Io… Vi chiedo di perdonarmi, milady. Voglio solo dire che mio figlio non toccherebbe mai qualcosa che non gli appartiene, e soprattutto non oserebbe entrare nel castello.»
Con un cenno della mano, Emma interruppe le sue giustificazioni. «Non voglio trattenervi oltre, Mrs. Duncan. Avrete sicuramente di meglio da fare che rimanere ad annoiarvi qui insieme a me», fece, congedandola. Avrebbe avuto altre domande da farle, in realtà, ma ormai tollerava la governante sempre meno – e sempre di più desiderava che suo padre ne mandasse un’altra al suo posto. E c’era quella faccenda del veleno… Ma rovinare la vita di un’intera famiglia solo per un’antipatia passeggera e un sospetto privo di fondamenta poteva essere considerato un capriccio, e a Emma piaceva ritenersi superiore a cose del genere.
Con un affilato tagliacarte ruppe il sigillo della lettera – suo padre amava ancora utilizzare la ceralacca con il suo timbro, ma solo per la posta privata entre eux, giacché sarebbe stato davvero troppo eccentrico per la posta quotidiana – dopodiché si mise a leggere. La carta odorava di tabacco, ed Emma riuscì a immaginare suo padre scriverla tra una boccata e l’altra dei suoi sigari, alla calda luce del suo studio.



Mayfair Street, n. 15. Londra
Martedì 4 ottobre.

Mia cara Emma,
Ormai iniziavo a credere che non mi avresti scritto fino a Ognissanti. Posso interpretare questo silenzio come il buon segno che infine hai gradito la campagna, e che sei così impegnata da non trovare qualche minuto da dedicare al tuo vecchio padre? No, tesoro mio, non aggrottare in quel modo la fronte – non è un rimprovero: mi sto solo burlando di te.
Come ben sai sono a Londra da più di una settimana, e gli impegni tengono lontani i pensieri più tristi e cupi – e mi auguro con tutto il cuore che sia così anche per te. Sono lieto che la signorina Radcliffe ti sia accanto in questo momento, la sua presenza dovrebbe rendere il tutto assai meno miserabile e più sopportabile. A proposito, mi auguro che si riprenda al più presto: non credo di averla mai vista prendere un’infreddatura, siamo sicuri che non sia nulla di grave? Forse l’aria di campagna non è stata molto misericordiosa con lei, povera donna.
Se può esserti di una qualche consolazione, in città il tempo è orribile: piove dalla mattina alla sera, e quando non piove tira vento, e se non tira vento le strade sono immerse in quella fastidiosa nebbia che rende sempre assai poco piacevole uscire di casa per andare a partecipare ai ricevimenti che offre l’inizio della Stagione. Ho sentito che lady Edith Campell, non era forse una tua amica?, si sposa in primavera con un tale che possiede una fabbrica di sali e profumi, e contro il volere dei genitori. Un vero scandalo! Ti lascio immaginare. A Londra per il momento è il pettegolezzo più succulento, non si parla d’altro – ho pensato che potessi gradire notizie simili, laggiù in campagna.
Ho anche avuto il piacere di incontrare lord George Herbert[2] – forse lo rammenti, è stato ospite a casa nostra qualche anno fa, durante la stagione di caccia – ed è stato tanto gentile da domandarmi della mia spedizione in Egitto; ha fatto mostra di volerci andare a sua volta, prima o poi, giacché la nostra collezione privata di tesori egizi l’aveva a suo tempo profondamente ammaliato. Anch’io sto prendendo in considerazione l’idea di partire, mia cara, e mi domandavo se potessi essere interessata ad accompagnarmi: forse viaggiare verso terre lontane potrebbe aiutarci nel placare il nostro dolore, e benché io sappia che è impossibile fuggire da esso so anche che è in nostro dovere provare comunque a farlo. Non devi prendere una decisione subito – lasciamo tutto a dopo Capodanno. Riesci a immaginare la meraviglia delle coste del Nilo, in primavera?
Ora permettimi di mettere da parte per un momento le chiacchiere frivole, e lascia che mi comporti come il padre severo che dovrei essere: mi auguro che tu abbia scritto a Caledon. Visto il legame che condividete sei tenuta a contattarlo personalmente, non solo perché sono le più semplici regole della società a imporlo ma soprattutto per una questione di delicatezza; benché io lo abbia già avvisato in precedenza della tua partenza verso il nord, è comunque preferibile che gli faccia avere tue notizie di tuo pugno. Povero ragazzo, credo non abbia preso molto bene la mia decisione – sì, ho ribadito più volte che tu non hai potuto astenerti dall’obbedirmi, e ciò ha trasferito la sua delusione su di me anziché su di te – ma malgrado ciò si è comportato da vero gentiluomo e ha promesso di rispettare il tuo periodo di lutto. L’ho incontrato proprio tre giorni fa al club ma mi è parso di capire che non l’avessi ancora contattato, per cui ti consiglio di rimediare al più presto – qualora tu non l’abbia già fatto nel tempo che questa lettera impiegherà per arrivarti. Vi conoscete da una vita, mia cara, e so che adesso lui è l’ultimo dei tuoi pensieri, ma molto presto diventerà il primo tra essi, e non voglio che il tuo matrimonio inizi su basi così poco stabili. Ti supplico di non usare l’attuale situazione come espediente per allontanarti ancora di più da lui.
Mia cara, perdonami; so che non sono discorsi da fare per lettera, ma al momento è l’unico modo che abbiamo per comunicare. Devo informarmi se a Heatherfield esiste già una linea telefonica – in tal caso potrei far installare un apparecchio a Pemberley Manor, non sarebbe una buona idea? Pensavo comunque di investire in una ristrutturazione del castello, tanto vale cominciare al più presto.
Ah, un’ultima cosa: non so dirti quando riuscirò a raggiungerti in campagna. Mi auguro il prima possibile, ma ti darò notizie più dettagliate nella prossima lettera. Te lo prometto.
Intanto ti stringo forte, adorata, e che Dio ti benedica. Tuo,
Papà.




***



Venne svegliata nel cuore della notte dal feroce abbaiare di Aramis proveniente da un punto imprecisato nella stanza, forse ai piedi del letto. Socchiuse gli occhi, sbattendo le palpebre e guardandosi intorno per cercare di capire che cosa stesse succedendo: la finestra si affacciava ancora sul buio pesto, segno che l’alba era parecchio lontana, e poiché non stava piovendo né tuonando si domandò per quale diavolo di motivo il suo cucciolo si fosse messo a fare tutto quel rumore, quasi che avesse il preciso compito di svegliarla.
«Ssht, Aramis, buono… Non è ora», biascicò, cercando di calmarlo per poter tornare a dormire. Le sembrava di non riuscire a riposarsi da giorni, il che era pericolosamente vicino ad essere la verità.
Tuttavia il cane non pareva intenzionato ad obbedire agli ordini della padrona, e al latrare sostituì un furioso e determinato ringhiare. Maledicendo prima lui e poi sé stessa, per non aver dato retta a Mrs. Duncan e aver lasciato dormire Aramis nelle stalle, Emma scostò la coperta e arrancò faticosamente tra le coltri annodate fino a raggiungere il bordo del letto, dal quale scivolò sul pavimento posandovi i piedi nudi. Allungò una mano alla cieca sul comodino e, quando trovò lo stoppino della lampada ad olio, lo ruotò finché una tenue luce non ebbe rischiarato le tenebre.
A quel punto Aramis la raggiunse e gironzolò nervosamente intorno ai suoi piedi, continuando a guaire e ringhiare: aveva le orecchie tese e il muso aperto a mostrare minacciosamente le zanne, e per un attimo Emma ebbe paura di lui. «Cosa c’è, bello? Non riesci a dormire?» Mormorò, cercando di parlargli con un tono dolce e rassicurante per rilassarlo. Lui abbaiò ancora una volta e strofinò il muso contro il suo polpaccio, cercando di farla alzare; obbedendo a quel strano comportamento, Emma si alzò e seguì l’animale fino alla poltrona accanto alla finestra nella quale aveva letto quel vecchio diario prima di andare a dormire.
Qua, grazie alla luce, vide che il diario era sparito e che al suo posto qualcuno aveva messo il carillon che, giorni prima, aveva trovato accanto al letto e che aveva nascosto furiosamente nell’armadio come se il fatto di non averlo davanti agli occhi potesse aiutarla a farglielo dimenticare. Non c’era dunque motivo per cui quel carillon si trovasse lì: non c’era quando si era coricata, e la porta della sua camera era chiusa dall’interno – la chiave era ancora inserita nella serratura, dunque nessuno, da fuori, sarebbe potuto entrare.
Abbassò lo sguardo su Aramis, il cui comportamento finalmente era stato spiegato, osservandolo mentre ringhiava a bassa voce contro l’oggetto misterioso. Osservandolo meglio, il sonno ormai del tutto evaporato, Emma notò la presenza di un piccolo biglietto, della dimensione di quelli da visita, posato sopra il coperchio preziosamente intarsiato. Sospirò, cercando di calmarsi – non c’era ragione di avere paura – e allungò una mano per prenderlo.
Dietro, scarabocchiata frettolosamente con un inchiostro rosso e una calligrafia spigolosa, c’era una frase familiare: Padrona di aprir tutto, di andar dappertutto: ma in quanto alla piccola stanzina, vi proibisco d'entrarvi e ve lo proibisco in modo così assoluto, che se vi accadesse per disgrazia di aprirla, potete aspettarvi tutto dalla mia collera[3].
Conosceva la citazione e aveva compreso da dove proveniva ancor prima di giungere al punto: Barbablù. Con le mani che tremavano leggermente, e irritata dalla sua stessa incomprensibile reazione, Emma gettò il biglietto nelle braci del camino, attizzandole fin quando una fiammella non si fu sprigionata dalla carta incenerendola lentamente. C’era in effetti un luogo del castello che le era stato proibito visitare, ossia l’Ala Ovest: e invece vi era entrata, vi aveva curiosato e aveva addirittura portato via un diario… Che fosse, quella, la prima avvisaglia di una futura punizione?
Ma no, che sciocchezza; non c’era nessun altro, a Pemberley, salvo lei e i domestici. «È solo uno scherzo di cattivo gusto», mormorò, osservando il biglietto bruciare. Era Mrs. Duncan che la tormentava, ormai ne era convinta: quella donna la tollerava a malapena e non faceva cenno di nasconderlo, visto che il resto della servitù era dalla sua parte. E da quando l’aveva richiamata all’ordine, umiliandola davanti al marito e alla sguattera, quel sentimento doveva essersi acuito. Ma per quale motivo arrivare a terrorizzarla così, rischiando di perdere il lavoro – giacché non aveva dubbi che suo padre l’avrebbe cacciata, una volta scoperto in che modo si era comportata?
Eppure, malgrado questa teoria e benché si fosse poi coricata con il corpo caldo e confortante di Aramis accucciato ai suoi piedi, a farle la guardia, quella notte Emma trovò difficile riprendere sonno.











[1] Il titolo “Sua Signoria”, o “His Lordship”, viene utilizzato riferito a un conte (in questo caso il padre di Emma) e non a sua figlia.
[2] Lord Carnarvon, il finanziatore della spedizione archeologica che ha portato alla luce la tomba di Tutankhamon.
[3] Charles Perrault, Barbablù (1697). Traduzione di Carlo Collodi (1875).









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Angolo Autrice.
Dieci pagine di capitolo piene piene... e quando mai le ho scritte? Godetevela finché ce n'è, non posso dirvi altro. xD
Okay, e anche questa è cosa fatta! Devo ammettere che sto amando questa storia sempre di più man mano che si va avanti... e il momento della verità (ossia il fatidico incontro tra la nostra eroina e il nostro cattivone) si fa sempre più vicino! Chiedo scusa se vi sembra che la stia tirando inutilmente per le lunghe e se questi capitoli vi sembrano noiosi - so che c'è poca azione, ma sto cercando di attenermi il più possibile a quei bei romanzi ottocenteschi dove il mistero e l'atmosfera vengono costruiti lentamente, mattone dopo mattone, dove l'autore si prende tutto il tempo che vuole per curare i dettagli e plasmare i vari personaggi come creta tra le mani (o, in questo caso, dovrei dire tra le dita e i tasti del piccì!) in modo che nulla sia campato per aria e tutto abbia uno scopo e un fine... Spero di essermi spiegata xD E anche di riuscire nel mio ambiziosissimo intento!
Nel frattempo, mi prendo anche il tempo di ringraziare tutti coloro che leggono e recensiscono, coloro che ci sono dall'inizio e coloro che sono saltati a bordo in corso d'opera! In particolar modo ci tengo a dire un enorme grazie alle fantastiche Sylphs, Homicidal Maniac, Jolly J e Se7f per aver recensito lo scorso capitolo - siete davvero troppo buone, grazie davvero per la fiducia che mi state danto! ♥
[Grazie inoltre alla mia alfabetaomegareader kenjina e alla mia geme per essersi imbarcate a loro volta in questa odissea, belle che siete *_*]
Orbene, ora vado! Ci si legge presto, spero - incrociate le dita :D
Baci e abbracci a tutte, vostra
Niglia.
   
 
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