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Autore: orocea    02/11/2013    1 recensioni
Castiel vede spesso suo padre.
In realtà non ci ha mai parlato e oggi che ha trent’anni, probabilmente, quell’uomo misterioso di cui ha sempre saputo immaginare solo l’ombra sarà già morto. Però lui lo vede: suo padre è in tutti gli angoli, si riflette in tutti gli specchi del reparto psichiatria.
[... ]
Dean Winchester è un ragazzo ben piazzato, con un bel paio di occhi verdi, una discreta fortuna con le ragazze e assolutamente nessuna voglia di operarsi di peritonite.
AU!destiel
Genere: Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester
Note: AU | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Nessuna stagione
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Questo capitolo è un po’ più ampio rispetto al solito. Mi spiace di aver solo questo da dire, ma quando termino un capitolo mi sento sempre un po’ svuotata, ah ah! Spero che vi piaccia, e ringrazio dal profondo del mio cuoricino tonto tutti voi che seguite e recensite la mia storia. Grazie di cuore.
 
Hey Jude, don’t be afraid
 
 
L’ultima volta che Castiel era davvero uscito di testa era stato un paio di mesi prima.
Ora che vive di nuovo quel momento di crisi vorrebbe davvero cercare di prendere il controllo di se stesso, ma è come se il paziente Novak – scosso da convulsioni, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca paralizzata in una linea piatta – e la sua mente – che assiste a tutta la scena da un angolo della stanza, come una telecamera di sicurezza – fossero due entità differenti, totalmente scollegate.
Castiel-mente guarda una nebbiolina rossa uscire dai condotti dell’aria e strisciare tra i corpi del dottore e delle infermiere, due o tre, che si agitano e si compattano nel tentativo di impedire che il paziente Novak salti giù dal letto come una molla, spinto all’aria dai suoi stessi sussulti.
Oh, merda.
Ricorda che due mesi prima tutto sembrava abbastanza tranquillo prima che gli capitasse di crollare nel bel mezzo del corridoio. Come oggi.
Esattamente come oggi, la mente e il paziente che costituiscono la persona di Castiel Novak passeggiavano congiunti pacificamente nello stesso corpo lungo il corridoio del reparto, rallentando in prossimità delle porte aperte per sbirciare all’interno delle stanze. Era di buonumore. Pensava a una canzone che aveva sentito tanto tempo fa alla radio con sua madre, in uno di quei lunghi pomeriggi invernali della sua infanzia in cui la cosa migliore da fare era accucciarsi sul divano a leggere fumetti e ad ascoltare musica. Sua madre accendeva la radio e si faceva la pedicure, beveva caffè, sfogliava quotidiani e quando era davvero di buonumore preparava dei dolci per la merenda. Era piccolo e ascoltava la musica solo perché piaceva a lei, ma la cosa lo rendeva comunque immensamente felice. E quella canzone, proprio quella canzone, suonava quando sua madre tornò a casa con un cuccioletto di cane tra le braccia il pomeriggio del giorno del suo compleanno. Castiel aveva acceso la radio e preparato il tè migliore, quello nascosto nella credenza dietro un paio di vassoi vecchi che era riuscito a conquistare solo salendo su una sedia. Quel giorno compiva otto anni e sentiva di dover fare qualcosa per mostrare alla sua mamma che stava crescendo buono, forte e capace addirittura di cambiare le stazioni della radio e di preparare il tè. Era stato tanto tempo fa e il cagnolino era scappato la primavera successiva, ma la canzone ancora risuonava nella sua testa come la colonna sonora dei suoi momenti più sereni, e diceva di prendere una canzone triste e di renderla migliore.
In un impeto di allegria che quel ricordo scaturiva, Castiel aveva agguantato le spalle di un’infermiera che passava lì in quel momento e si era accorto che si trattava proprio della sua preferita. Era bionda, minuta e morbida, con i capelli corti, il seno prosperoso disciplinato dal camice, le guance spruzzate di lentiggini arancioni e gli occhi castani piccoli e inquadrati in una grossa montatura nera con due lenti dello spessore di fondi di bottiglia. Doveva essere molto miope e non era certo un tipo di bellezza convenzionale, ma emanava un fascino gentile e una sensualità pudica e nascosta che le arrochiva la voce quando rideva e le metteva in evidenza il biancore del collo quando alzava la testa all’indietro o la girava di scatto.
Era rimasto molto tempo a osservarla da lontano.
Così, quando l’ebbe presa per le spalle, la guardò dritto negli occhi come se la conoscesse da sempre. Lei sorrise – un misto di imbarazzo, stupore e sincero divertimento – quando lui le disse, sgranando gli occhi vivi di bambino: «Ricordati di cambiare le canzoni tristi in canzoni migliori».
«Ah!» esclamò lei. E poi rise con la sua voce roca. A Castiel sembrò di sentire qualcosa muoversi nei pantaloni e provò la gioia incredula di poter finalmente provare una bella sensazione. «Ti piacciono i Beatles, vero?».
«Chi sono i Beatles?».
«La band che canta quella canzone… Hey Jude, no?».
Arrossirono entrambi perché all’improvviso lo spazio tra di loro era diventato molto poco e le altre infermiere avevano cominciato a pizzicarli con occhiate preoccupate. Castiel, investito da un’ondata di vergogna, le lasciò andare le spalle e abbassò la testa, ma non smise di sorridere. «Be’, suppongo di sì».
«Già». La ragazza si schiarì la gola, alla ricerca di qualcosa da dire. Poi alzò la testa, nonostante fosse ancora un po’ rossa in viso, e disse: «Allora tu sei Castiel, giusto? Passo spesso davanti alla tua…».
Ma Castiel già non la stava più ascoltando. In realtà, non sorrideva neanche più, ma aveva la bocca immobile e stretta in una linea pallida e gli occhi spalancati.
Cadde in avanti, sul petto dell’infermiera carina di cui non conosceva neppure il nome, che lo sorresse gentilmente mentre alzava il capo e urlava che qualcuno l’aiutasse, per favore, il paziente Novak ha una crisi.
Tremava.
Come oggi.
 
Castiel-mente sa bene che questi sussurri non sono veri. Li sente all’orecchio destro e sembrano il vocio di una tv accesa in un’altra stanza. All’orecchio sinistro, invece, sente bene i dottori. Va tutto bene, Novak, devi calmarti. Novak, stai calmo, dicono. E lui vorrebbe dire loro: non ditelo a mia madre, si preoccuperebbe. Adesso mi calmo, ma non ditelo a mia madre.
Il paziente Novak, però, non dà ascolto ai suoi comandi e non increspa neanche un po’ le labbra piatte né socchiude gli occhi.
C’è fumo nella stanza, anche se l’aria non è rarefatta.
E probabilmente i vetri della finestra sono fatti di gelatina.
Dio, non ditelo a mia madre.
Chissà come si chiamava quella ragazza con le lentiggini, si è trasferita tre settimane fa e non mi ha neanche salutato.
Chissà se anche a lei piacevano i Beetals. O come si chiamano.
A Dean piacciono? Dovrei chiederglielo.
Gli avevo detto che sarei andato a trovarlo e non ci sono ancora andato.
Qualcosa vola sulla sua testa. Sarà un’aquila. Vorrebbe allungarsi e sfiorarne l’ombra, ma sa che forse si sta lasciando troppo andare, che chissà per quale motivo il suo cervello è un ricettacolo di falsità a cui non deve dare ascolto. Tutti complottano contro di me. Qualcuno mi ha odiato molto per decidere di farmi questo. Già. E lo so che dovrei ringraziare il cielo di riuscire ancora a elaborare frasi di senso compiuto. Non c’è bisogno che nessuno me lo dica. Gesù. Sono proprio fortunato.
Poi Castiel-mente e il paziente Novak si ricongiungono nel momento esatto in cui una mano guantata di lattice preme una siringa sul loro braccio. «Ah», riesce a dire Castiel.
E dopo più niente.


Quando la fisioterapista si affaccia alla stanza 505, il paziente Winchester sta tentando faticosamente e inutilmente di scendere dal letto con le proprie forze. I globuli bianchi sono già in ribasso, la temperatura regolare e la forza di volontà non manca. «Facciamo progressi rapidi, Dean», annuncia leggendo dalla cartella clinica mentre attraversa l’uscio. Dean, chiamato in causa, solleva la faccia improvvisamente allarmata e cerca di rimettere le gambe in una posizione che non lasci intuire l’appena compiuto tentativo di fuga. Ma la fisioterapista, che sembra a una prima occhiata di poco più piccola di lui in età e statura, è totalmente assorbita dalla lettura di un trafiletto microscopico scribacchiato sull’orlo di un foglio e non sente neanche il suo «Meno male!» biascicato in risposta.
«Oggi è il terzo giorno dopo la tua operazione», dice, sempre leggendo. Fa un paio di passi verso il letto per arrivare alla portata di Dean e poi finalmente solleva la testa e gli tende la mano, sorridendo. «Sono la tua fisioterapista, Anna Milton». Ha la faccia piccola e i capelli rossi. Se Dean non fosse in queste condizioni pietose, ci proverebbe… ma essendo un povero malato può solo sfoggiare il suo sorriso più brillante e sperare di fare colpo comunque. «E’ un piacere», dice, stringendole la mano. «Mi aiuterà a scendere da questo letto, vero?».
«Sono qui per questo. Ma sei giovane, non avrai bisogno di me a lungo», spiega, guardandolo dritto negli occhi. Dean nota la sua vita sottile.
E’ sul punto di dire: il bianco ti dona, dottoressa Milton. Ma poi si trattiene perché la dottoressa gli ha messo una mano dietro la schiena. «Coraggio. Tra mezz’ora devi essere di ritorno per la tua cura di antibiotici», dice, e lo solleva a sedere senza troppi complimenti. Poi gli sposta le gambe finché Dean non si trova in bilico sulla sponda della sua brandina e infine lo tira su in posizione eretta.
La prima cosa che sente Dean è che i lembi della ferita semicicatrizzata tirano l’uno seguendo la forza opposta all’altro, come a voler ricostituire lo squarcio sull’addome aperto durante l’operazione. Ma non ha il tempo di pensarci troppo perché, stretto alla minuta ma forzuta dottoressa Milton, avverte profumo di lavanda salire dai suoi vestiti e comincia a camminare.
Gli fa male la schiena perché fino a questo momento è rimasto sempre disteso supino e quello che sente è una sensazione di calore e scomodità che gli fa storcere la bocca. La fisioterapista se ne accorge e si ferma. «Ti fa male qualcosa?».
Sono a un passo dall’uscita della stanza. «E’ solo fastidio», dice Dean. Vuole andarsene al più presto e dunque ha bisogno di una riabilitazione fulminea. «Vorrei camminare parecchio».
«Per il momento puoi solo percorrere il corridoio».
«Ma…».
«Hai da poco subito un intervento chirurgico e questa è la prima volta che ti muovi, non puoi sforzarti troppo», risponde perentoria. Dean fissa il suo sguardo su di lei nel tentativo di farle cambiare idea. Non voglio stare qui per sempre. Sono stanco di questo pigiamino bianco.
«Oggi pomeriggio, se vuoi, potrai andare più lontano». Continua, trascinando in corridoio Dean. La luce al neon mista a quella del sole macchia le pareti di un bluastro chimico.
Oh. Castiel. Lo 007 psicotico. Non è più venuto a trovarmi.
«Prima però dovremo metterti seduto per farti riabituare alla posizione. Sarà faticoso e sarai stanco a fine giornata, quindi se oggi pomeriggio vuoi andare a passeggiare fatti accompagnare da qualcuno. Non mi piacerebbe sapere un mio paziente stramazzato a terra dalla fatica mentre io non sono di turno».
Forse mi sono aspettato troppa coerenza. In fondo stiamo parlando di uno che ha le visioni.
Dean si rende conto di dover rispondere.
«Be’, io sono una persona obbediente», ammicca distratto.
La dottoressa lo guarda con un sopracciglio fulvo alzato che ha la stessa valenza di un segno rosso su un compito in classe.
 
Dopo pranzo, Dean si alza da solo dalla brandina – non senza fatica – e pianifica due scuse: la prima è da rifilare a se stesso e alla dottoressa Milton nell’eventualità di venire scoperto, ed è che il paziente Winchester non sta disobbedendo, sta solo rielaborando gli ordini ricevuti a modo proprio. La seconda è destinata a dottori e dottoresse, infermieri e infermiere che noteranno i suoi spostamenti insoliti: il paziente Winchester sta cercando un telefono funzionante per chiamare suo fratello.
Quando Dean finisce di attraversare il corridoio, ostentando un’aria svagata e mentendo anche a se stesso sul fatto che non stia assolutamente arrancando verso la sua meta, è già stanco. Ma ha pianificato anche quello. Sa che sulla destra, un paio di sale prima dell’ascensore, c’è un ripostiglio, e ci si infila eludendo un infermiere solitario che sta passando in quel momento. Appoggiato contro la parete, Dean non ha neanche bisogno di accendere la luce perché nella penombra scorge il suo bottino accatastato contro un angolo dello sgabuzzino e avvolto da una busta di plastica. Bingo.
Quello che esce dalla stanza qualche minuto dopo e va a infilare l’ascensore con nonchalance è un bel ragazzo robusto, dai capelli castani e gli occhi verdi, sulla trentina e seduto amabilmente su una sedia a rotelle.
  
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