▪ EPILOGO ▪
my heart aches when i think of you.
Nella mente di Lyosha vagava l’immagine tenue
dell’hovercraft sopra di lui, il sangue colargli dalle dita e un senso di
arrendevolezza addosso, come se non fosse più capace a fare qualcosa.
Non ricordava a cosa pensava quando lo avevano recuperato dall’Arena –
e a dirla tutta non aveva molta voglia di ponderarci sopra, si limitava a
bearsi della comodità del letto su cui era appoggiato, dei capelli puliti che
gli solleticavano la fronte, delle ciglia non più
incrostate di sporco e sangue – sentiva i talloni rilassati sul materasso,
ancora gonfi, probabilmente. Attorno a lui una tiepida temperatura che imitava
il tepore casalingo lo avvolgeva tutto, facendo crescere il lui la voglia di
ritornare a dormire, ma una voce cercò di strapparlo dal suo dormiveglia.
«Lyosha» mormorò la stilista, il ragazzo
spostò il viso verso il suono di quelle labbra, aprendo piano gli occhi e
incontrando il viso bronzeo dai lineamenti fini di Vilette,
incorniciati da un’acconciatura mossa che le ricadeva in due ciocche sulle
spalle, perfettamente immobili in due boccoli – i suoi occhi bicromatici
splendevano nel bianco della stanza, apparendo come due gemme.
«Sei stato bravo» commentò la figura affianco alla Capitolina – era
Lloyd, e la sua presenza lo avrebbe lasciato di stucco, se fosse stato nel
pieno delle sue capacità, delle sue emozioni,
stava seduta con dei jeans ed una maglia larga, color
vino, che le ricadeva morbida sui fianchi – sembrava fatta di seta, o qualcosa
del genere, «non molti di noi ritornano vivi» disse piano, abbassando lo
sguardo, «in realtà, alcuni non ci arrivano proprio, al cuore dei Giochi».
Il ragazzo si ritrovò a sospirare quasi esasperato, alzò le coperte con
la destra mentre cercava di girarsi di lato – in quel momento la miriade di
piccoli tagli che aveva sul corpo sembrarono tirare all’unisono tutti i nervi
che possedeva, facendolo bloccare sul posto e ritornare in posizione supina.
«Devi stare fermo ancora per un po’, non tutte le ferite si sono
chiuse» lo informò Vilette, accavallando le gambe, un
fruscio di gonne riempì la stanza e Lyosha dedusse
che portasse un abito lungo – come quello
di Lexi.
Lexi, gli occhi si riempirono di lacrime,
iniziando a bruciare, senza aspettare il consenso del ragazzo caddero lungo le
sue guance. Che figura avrebbe fatto, ammettendo a sé
stesso che, in un modo o nell’altro, quella ragazza aveva suscitato in lui
qualcosa come un interesse particolare? Erano gli Hunger
Games, dannazione! E, cosa peggiore, era stata lei ad aver ucciso sua sorella.
Un fazzoletto gli carezzò la guancia, profumava di lavanda e zucchero,
cercò di respirare profondamente, chiudendo gli occhi.
Non voleva pensare, non voleva ricordare.
Cercò di ritornare sull’hovercraft, laddove le sue memorie si erano interrotte.
In pochi istanti, si riaddormentò, ricadendo nel baratro.
Lyosha guardava sbigottito
le protesi delle due dita che aveva perso, deglutì
sonoramente fissando il vassoio d’acciaio su cui erano posti gli automi.
«Farà male» disse Lloyd, e il ragazzo si girò a fissarla come per dire
che non lo stava confortando affatto, «ma questi automail – così
si chiamavano – sono i migliori in commercio: con una innovativa lega
metallica, è stato costruito secondo le tue esigenze, tenendo conto del tuo
corpo: dimensioni, peso e via dicendo. Hanno ricostruito tutte le nervature
delle dita ed è per questo che non sarà piacevole: i
nervi del tuo sistema nervoso devono collegarsi con quelli della protesi; ora
non fare storie e porgi la mano all’infermiera».
Non ubbidì subito, ma sapeva che senza quelle dita non sarebbe andato
da nessuna parte, e tantomeno le due donne – Vilette
e Lloyd – lo avrebbero lasciato solo o fatto uscire. Senza contare che tutti
quei antibiotici, antidolorifici, morfine e anestesie lo avevano
parecchio rimbambito e tantomeno si sentiva capace di prendere delle decisioni
come quella di contestare ciò che diceva
Porse quindi la mano fasciata da una benda già sporca di sangue, la
ferita era stata riaperta volutamente dai medici: cicatrizzata, non era
possibile collegare le protesi al corpo. Strinse con la mano buona il lenzuolo
e piantò i talloni sul materasso, meno gonfi dall’ultima volta che si era
svegliato.
Un’infermiera gli teneva bloccata la mano con due mani, fissando la compagna che
afferrava le dita d’acciaio, prima che il Vincitore potesse mandare un segnale
per informare che era pronto psicologicamente, la capitolina unì la carne di Lyosha al metallo che sembrarono congiungersi alla
perfezione. Una scossa gli colpì violentemente il braccio che fu preso dagli
spasmi, ma la mano era ancora immobile nella stretta dell’infermiera.
La gola di Lyosha vibrò e le sue labbra
cacciarono un urlo tremendo, Lloyd sorrise.
«C’è una cosa che devi sapere…» Vilette sembrava
preoccupata mentre gli appoggiava la giacca grigio scuro
sulle spalle, lisciandogliela. Le maniche erano troppo lunghe, avrebbe dovuto
appuntarle.
«Cosa?» chiese retorico, fissandosi allo
specchio mentre l’altra gli faceva provare il vestito per l’intervista da
Vincitore.
La stilista si fermò, mettendo lo spillo sull’apposito
bracciale che teneva al polso, cosa doveva dirgli in un momento come quello? Il
viso della Capitolina era rigido sotto una smorfia di dolore e dispiacere.
«Lloyd ha detto che avrei dovuto dirtelo io perché lei ha poco tatto
però…»
«…Però?»
«Però non c’è un modo con molto o poco tatto!»
un verso isterico le salì dalla gola, alzò le braccia come per scaricare
l’ansia e si sedette sul divano, mettendosi le mani tra i capelli. Lyosha si girò verso di lei, fermo sul piedistallo.
«Me lo dici?» domandò flebilmente, sempre meno convinto di volerlo
sapere.
Vilette alzò gli occhi,
lucidi da lacrime che stavano per scendere – sembrava stesse mantenendo un
segreto troppo pesante da sopportare, «tua madre… è
morta di crepacuore, subito dopo aver visto… Ariel, ecco. Era con un’amica, la
signora Villalobos, ha detto che non ha fatto in
tempo a vederti vincere».
Uscì dallo studio di Caesar allentandosi la
cravatta al collo, fu accolto da Vilette che portava
ancora l’acconciatura dei due boccoli sulle spalle e da Lloyd che lo scortarono
nella camera dove avrebbe passato la notte.
«Tutto bene, ti vedo stanco» commentò la stilista, sfilandogli il laccio
che gli circondava il collo.
«Mi fa male la gola, ma i dottori mi hanno detto che è normale…»
rispose l’altro, massaggiandosi il mignolo e l’anulare della sinistra laddove
la carne si legava al metallo. Erano cose che non sentiva sue: le dita, la voce,
quel sorriso che aveva fatto con l’intervistatore…
«Andrà meglio, adesso» disse
Lloyd, sfiorandogi la schiena in un gesto affettuoso,
abbandonando poi gli altri due e uscendo dal palazzo mentre estraeva da una
tasca seminascosta una sigaretta e l’accendino.
Andrà meglio – quelle parole lo inseguirono per tutto il viaggio in
ascensore, mentre si spogliava da quell’abito grigio che Vilette gli aveva
promesso e mentre scivolava sotto le calde coperte. Si aspettava di sognare
l’Arena, e invece non successe nulla.
Andrà meglio.
Il treno slittava sui binari senza produrre nessun rumore – Lyosha si spalmava su una fetta di pane della confettura
dorata e Lloyd fumava chinata sul posacenere, come se fosse stanca.
«Posso chiederti una cosa?» azzardò lui, azzannando il suo spuntino e
alzando appena gli occhi dal suo piatto, cercando di incrociare lo sguardo con
quello dell’altra che non si degnò di sollevare il mento.
«Considerando che non hai mai detto una parola, direi che te lo posso
concedere» seguì una breve risata roca della più vecchia, colpì la sigaretta
facendo cadere la cenere nel suo apposito contenitore.
«Perché ti chiami Lloyd? Lloyd è un nome
da maschio…» azzardò, in circostanze diverse non si
sarebbe mai sognato di fare una domanda del genere. Ma ormai aveva perso tutto,
quindi una sfuriata dell’altra non gli avrebbe fatto né caldo né freddo – a dir la verità. Morse ancora il pane e abbassò gli occhi,
aspettandosi già il mutismo oppure una scenata.
E invece, ottenne una risposta. «La mia era una famiglia benestante,
mio padre gestiva una frazione della bachicoltura del distretto, io ero sua figlia ma non di mia madre. Mi spiego: lui si è
risposato quando io ero già nata, e ovviamente lei non mi sopportava» aspirò
dal filtro e lasciò che il fumo uscisse dalle labbra e dal naso, « fui estratta per i Giochi e, ovviamente, quella lì fu
capace di dire davanti a mio padre che non ce l’avrei fatta, forse avrei avuto
qualche possibilità se fossi stata un maschio, più grande e più forte».
«Che stronza» il commento gli scappò letteralmente dalle labbra – le buone maniere, dannazione, si
riprese. Lloyd ridacchiò.
«In sostanza, volevo dimostrare a quella
che sarei potuta tornare, e sono tornata. Ho cambiato nome, se Lloyd lo si da ad un uomo, allora io mi chiamerò Lloyd, come un
vero uomo» e scoppiò in una risata sonora, una risata che Lyosha
non vide mai sul volto della Mentore.
Quando il momento di ilarità terminò e Lloyd
spense la sigaretta nel posacenere, il treno rallentò sensibilmente fino a
fermarsi, quando Lyosha rialzò lo sguardo, notò
l’altra Vincitrice sorridergli – un sorriso di una Mentore orgogliosa del
proprio tributo, di una madre fiera del proprio figlio, «andiamo, Isaacs, il tuo distretto vuole festeggiare con te».
E mentre le narici venivano invase dal profumo
di casa, la pelle accarezzata dal caldo del sole dell’otto, del rumore lontano
delle fabbriche, del profilo lontano delle case del Villaggio dei Vincitori –
il cuore di Lyosha si spezzava in due, quattro, otto,
mille pezzi.
Era partito per i Giochi con una madre a
casa, una sorella tra le braccia, pensieri in testa che non riusciva a
esprimere a parole ed era tornato senza niente.
Forse, pensò, è per questo che si chiamano così: i Giochi della Fame.
«Quando si muore, si muore
soli.»
[FABRIZIO DE ANDRE’; tratto da “Il Testamento”]
Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo
parole»
Oh bhè. Alla fine l’ho
pubblicato.
Non c’è molto da dire― diciamo che ho preferito
fare vari “spezzoni” di quel che succede dopo i Giochi per darvi un assaggio
del post-HG di Lyosha, dato che
è una cosa assolutamente normale e niente di fantastico come quelli di Katniss… non so se mi spiego.
Insomma, tra un anno Lyosha
sarà già scomparso dalla circolazione(…), niente di
che.
Anyway, vorrei spendere due parole sulla frase che chiude
questa fanfiction.
Lyosha basa i suoi pensieri sulla base della Fame come
mancanza di qualcosa che gli serve per sopravvivere, che in questo caso è la
madre e la sorella, elementi importanti (per non dire essenziali) della sua
vita che sono venute a mancare. I Giochi della Fame,
per lui, sono quei Giochi che ti fanno partire con tutto e quando esci - se esci - non hai più nulla, perché o perdi tutto (come lui)
oppure te lo toglie Snow (Finnick
ci insegna spiegandolo a Katniss). Insomma, è solo
questo ;)
Il titolo dell’epilogo è una frase di Start a Riot
di Jetta, linkata del primo capitolo e canzone “soundtrack” di tutto questo – o comunque di un futuro molto
vicino a questo.
Insomma, ci sentiamo con la prima delle pagine rubate ;D e, come dico a yingsu: avete presente quel povero pazzo nel trailer de Catching Fire che alza il foglio
con su
Au revoir!
radioactive,
P.S.: non metto l’angolo spam perchè
sono da un pc straniero(...),
scusatemi!