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Autore: radioactive    02/11/2013    6 recensioni
CAP. 6 Il cigolio del legno si mischiava al battito del cuore del ragazzo tanto da confondergli le idee, non capiva più se il suo cuore era malandato come quelle travi o se l’Arena era viva quanto il suo cuore, aveva il terrore che ciò che lo teneva sospeso in aria crollasse sotto i suoi piedi.
Ma Ariel si bloccò di colpo, Lyosha avrebbe voluto chiederle che diamine stesse facendo, che erano inseguiti!. Ma lei non si muoveva, immobile, fissava ciò che solo in un secondo istante il fratello identificò come Sean, quello che li aveva derubati.
«Ciao, otto»
[...] Stavano per morire, stavano per morire!
CAP. 10 Caesar Flickerman trattava tutti i tributi come validi concorrenti, Lyosha invece, agli occhi del presentatore, era già morto.
| 72esimi Hunger Games ● Lyosha e Ariel Isaacs ● DISTRETTO 8 |
EDIT - testo in via di revisione e betaggio (01 capitoli su 14) + cambio grafica [in data 11/11/2013]
→ I capitoli 15, 16 e 17 sono degli SPINOFF di Die on the front page, just like the stars.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovi Tributi, Nuovo personaggio, Tributi edizioni passate
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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EPILOGO

                my heart aches when i think of you.

 

 

 

Nella mente di Lyosha vagava l’immagine tenue dell’hovercraft sopra di lui, il sangue colargli dalle dita e un senso di arrendevolezza addosso, come se non fosse più capace a fare qualcosa.

Non ricordava a cosa pensava quando lo avevano recuperato dall’Arena – e a dirla tutta non aveva molta voglia di ponderarci sopra, si limitava a bearsi della comodità del letto su cui era appoggiato, dei capelli puliti che gli solleticavano la fronte, delle ciglia non più incrostate di sporco e sangue – sentiva i talloni rilassati sul materasso, ancora gonfi, probabilmente. Attorno a lui una tiepida temperatura che imitava il tepore casalingo lo avvolgeva tutto, facendo crescere il lui la voglia di ritornare a dormire, ma una voce cercò di strapparlo dal suo dormiveglia.

«Lyosha» mormorò la stilista, il ragazzo spostò il viso verso il suono di quelle labbra, aprendo piano gli occhi e incontrando il viso bronzeo dai lineamenti fini di Vilette, incorniciati da un’acconciatura mossa che le ricadeva in due ciocche sulle spalle, perfettamente immobili in due boccoli – i suoi occhi bicromatici splendevano nel bianco della stanza, apparendo come due gemme.

«Sei stato bravo» commentò la figura affianco alla Capitolina – era Lloyd, e la sua presenza lo avrebbe lasciato di stucco, se fosse stato nel pieno delle sue capacità, delle sue emozioni, stava seduta con dei jeans ed una maglia larga, color vino, che le ricadeva morbida sui fianchi – sembrava fatta di seta, o qualcosa del genere, «non molti di noi ritornano vivi» disse piano, abbassando lo sguardo, «in realtà, alcuni non ci arrivano proprio, al cuore dei Giochi».

Il ragazzo si ritrovò a sospirare quasi esasperato, alzò le coperte con la destra mentre cercava di girarsi di lato – in quel momento la miriade di piccoli tagli che aveva sul corpo sembrarono tirare all’unisono tutti i nervi che possedeva, facendolo bloccare sul posto e ritornare in posizione supina.

«Devi stare fermo ancora per un po’, non tutte le ferite si sono chiuse» lo informò Vilette, accavallando le gambe, un fruscio di gonne riempì la stanza e Lyosha dedusse che portasse un abito lungo – come quello di Lexi.

Lexi, gli occhi si riempirono di lacrime, iniziando a bruciare, senza aspettare il consenso del ragazzo caddero lungo le sue guance. Che figura avrebbe fatto, ammettendo a stesso che, in un modo o nell’altro, quella ragazza aveva suscitato in lui qualcosa come un interesse particolare? Erano gli Hunger Games, dannazione! E, cosa peggiore, era stata lei ad aver ucciso sua sorella.

Un fazzoletto gli carezzò la guancia, profumava di lavanda e zucchero, cercò di respirare profondamente, chiudendo gli occhi.

Non voleva pensare, non voleva ricordare. Cercò di ritornare sull’hovercraft, laddove le sue memorie si erano interrotte.

In pochi istanti, si riaddormentò, ricadendo nel baratro.

 

Lyosha guardava sbigottito le protesi delle due dita che aveva perso, deglutì sonoramente fissando il vassoio d’acciaio su cui erano posti gli automi.

«Farà male» disse Lloyd, e il ragazzo si girò a fissarla come per dire che non lo stava confortando affatto, «ma questi automail – così si chiamavano – sono i migliori in commercio: con una innovativa lega metallica, è stato costruito secondo le tue esigenze, tenendo conto del tuo corpo: dimensioni, peso e via dicendo. Hanno ricostruito tutte le nervature delle dita ed è per questo che non sarà piacevole: i nervi del tuo sistema nervoso devono collegarsi con quelli della protesi; ora non fare storie e porgi la mano all’infermiera».

Non ubbidì subito, ma sapeva che senza quelle dita non sarebbe andato da nessuna parte, e tantomeno le due donne – Vilette e Lloyd – lo avrebbero lasciato solo o fatto uscire. Senza contare che tutti quei antibiotici, antidolorifici, morfine e anestesie lo avevano parecchio rimbambito e tantomeno si sentiva capace di prendere delle decisioni come quella di contestare ciò che diceva la Mentore.

Porse quindi la mano fasciata da una benda già sporca di sangue, la ferita era stata riaperta volutamente dai medici: cicatrizzata, non era possibile collegare le protesi al corpo. Strinse con la mano buona il lenzuolo e piantò i talloni sul materasso, meno gonfi dall’ultima volta che si era svegliato.

Un’infermiera gli teneva bloccata la mano con due mani, fissando  la compagna che afferrava le dita d’acciaio, prima che il Vincitore potesse mandare un segnale per informare che era pronto psicologicamente, la capitolina unì la carne di Lyosha al metallo che sembrarono congiungersi alla perfezione. Una scossa gli colpì violentemente il braccio che fu preso dagli spasmi, ma la mano era ancora immobile nella stretta dell’infermiera.

La gola di Lyosha vibrò e le sue labbra cacciarono un urlo tremendo, Lloyd sorrise.

 

«C’è una cosa che devi sapere…» Vilette sembrava preoccupata mentre gli appoggiava la giacca grigio scuro sulle spalle, lisciandogliela. Le maniche erano troppo lunghe, avrebbe dovuto appuntarle.

«Cosa?» chiese retorico, fissandosi allo specchio mentre l’altra gli faceva provare il vestito per l’intervista da Vincitore.

La stilista si fermò, mettendo lo spillo sull’apposito bracciale che teneva al polso, cosa doveva dirgli in un momento come quello? Il viso della Capitolina era rigido sotto una smorfia di dolore e dispiacere.

«Lloyd ha detto che avrei dovuto dirtelo io perché lei ha poco tatto però…»

«…Però

«Però non c’è un modo con molto o poco tatto!» un verso isterico le salì dalla gola, alzò le braccia come per scaricare l’ansia e si sedette sul divano, mettendosi le mani tra i capelli. Lyosha si girò verso di lei, fermo sul piedistallo.

«Me lo dici?» domandò flebilmente, sempre meno convinto di volerlo sapere.

Vilette alzò gli occhi, lucidi da lacrime che stavano per scendere – sembrava stesse mantenendo un segreto troppo pesante da sopportare, «tua madre… è morta di crepacuore, subito dopo aver visto… Ariel, ecco. Era con un’amica, la signora Villalobos, ha detto che non ha fatto in tempo a vederti vincere».

 

Uscì dallo studio di Caesar allentandosi la cravatta al collo, fu accolto da Vilette che portava ancora l’acconciatura dei due boccoli sulle spalle e da Lloyd che lo scortarono nella camera dove avrebbe passato la notte.

«Tutto bene, ti vedo stanco» commentò la stilista, sfilandogli il laccio che gli circondava il collo.

«Mi fa male la gola, ma i dottori mi hanno detto che è normale…» rispose l’altro, massaggiandosi il mignolo e l’anulare della sinistra laddove la carne si legava al metallo. Erano cose che non sentiva sue: le dita, la voce, quel sorriso che aveva fatto con l’intervistatore…

«Andrà meglio, adesso» disse Lloyd, sfiorandogi la schiena in un gesto affettuoso, abbandonando poi gli altri due e uscendo dal palazzo mentre estraeva da una tasca seminascosta una sigaretta e l’accendino.

Andrà meglio – quelle parole lo inseguirono per tutto il viaggio in ascensore, mentre si spogliava da quell’abito grigio che Vilette gli aveva promesso e mentre scivolava sotto le calde coperte. Si aspettava di sognare l’Arena, e invece non successe nulla.

Andrà meglio.

 

Il treno slittava sui binari senza produrre nessun rumore – Lyosha si spalmava su una fetta di pane della confettura dorata e Lloyd fumava chinata sul posacenere, come se fosse stanca.

«Posso chiederti una cosa?» azzardò lui, azzannando il suo spuntino e alzando appena gli occhi dal suo piatto, cercando di incrociare lo sguardo con quello dell’altra che non si degnò di sollevare il mento.

«Considerando che non hai mai detto una parola, direi che te lo posso concedere» seguì una breve risata roca della più vecchia, colpì la sigaretta facendo cadere la cenere nel suo apposito contenitore.

«Perché ti chiami Lloyd? Lloyd è un nome da maschio…» azzardò, in circostanze diverse non si sarebbe mai sognato di fare una domanda del genere. Ma ormai aveva perso tutto, quindi una sfuriata dell’altra non gli avrebbe fatto né caldo né freddo – a dir la verità. Morse ancora il pane e abbassò gli occhi, aspettandosi già il mutismo oppure una scenata.

E invece, ottenne una risposta. «La mia era una famiglia benestante, mio padre gestiva una frazione della bachicoltura del distretto, io ero sua figlia ma non di mia madre. Mi spiego: lui si è risposato quando io ero già nata, e ovviamente lei non mi sopportava» aspirò dal filtro e lasciò che il fumo uscisse dalle labbra e dal naso, « fui estratta per i Giochi e, ovviamente, quella lì fu capace di dire davanti a mio padre che non ce l’avrei fatta, forse avrei avuto qualche possibilità se fossi stata un maschio, più grande e più forte».

«Che stronza» il commento gli scappò letteralmente dalle labbra – le buone maniere, dannazione, si riprese. Lloyd ridacchiò.

«In sostanza, volevo dimostrare a quella che sarei potuta tornare, e sono tornata. Ho cambiato nome, se Lloyd lo si da ad un uomo, allora io mi chiamerò Lloyd, come un vero uomo» e scoppiò in una risata sonora, una risata che Lyosha non vide mai sul volto della Mentore.

Quando il momento di ilarità terminò e Lloyd spense la sigaretta nel posacenere, il treno rallentò sensibilmente fino a fermarsi, quando Lyosha rialzò lo sguardo, notò l’altra Vincitrice sorridergli – un sorriso di una Mentore orgogliosa del proprio tributo, di una madre fiera del proprio figlio, «andiamo, Isaacs, il tuo distretto vuole festeggiare con te».

 

E mentre le narici venivano invase dal profumo di casa, la pelle accarezzata dal caldo del sole dell’otto, del rumore lontano delle fabbriche, del profilo lontano delle case del Villaggio dei Vincitori – il cuore di Lyosha si spezzava in due, quattro, otto, mille pezzi.

Era partito per i Giochi con una madre a casa, una sorella tra le braccia, pensieri in testa che non riusciva a esprimere a parole ed era tornato senza niente.

Forse, pensò, è per questo che si chiamano così: i Giochi della Fame.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 






«Quando si muore, si muore soli.»       

[FABRIZIO DE ANDRE’; tratto da “Il Testamento”]

 

 

 

 

 

 

 

Note d’Autrice ◊ «viviamo e respiriamo parole»

 

Oh bhè. Alla fine l’ho pubblicato.

Non c’è molto da dire diciamo che ho preferito fare vari “spezzoni” di quel che succede dopo i Giochi per darvi un assaggio del post-HG di Lyosha, dato che è una cosa assolutamente normale e niente di fantastico come quelli di Katniss… non so se mi spiego.

Insomma, tra un anno Lyosha sarà già scomparso dalla circolazione(…), niente di che.

Anyway, vorrei spendere due parole sulla frase che chiude questa fanfiction.

Lyosha basa i suoi pensieri sulla base della Fame come mancanza di qualcosa che gli serve per sopravvivere, che in questo caso è la madre e la sorella, elementi importanti (per non dire essenziali) della sua vita che sono venute a mancare. I Giochi della Fame, per lui, sono quei Giochi che ti fanno partire con tutto e quando esci - se esci - non hai più nulla, perché o perdi tutto (come lui) oppure te lo toglie Snow (Finnick ci insegna spiegandolo a Katniss). Insomma, è solo questo ;)

Il titolo dell’epilogo è una frase di Start a Riot di Jetta, linkata del primo capitolo e canzone “soundtrack” di tutto questo – o comunque di un futuro molto vicino a questo.

Insomma, ci sentiamo con la prima delle pagine rubate ;D e, come dico a yingsu: avete presente quel povero pazzo nel trailer de Catching Fire che alza il foglio con su la Ghiandaia Imitatrice? Ecco, quello è Lyosha.

 

Au revoir!

radioactive,

 

P.S.: non metto l’angolo spam perchè sono da un pc straniero(...), scusatemi!

 

   
 
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