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Autore: Hotaru_Tomoe    02/11/2013    9 recensioni
Raccolta di oneshot ispirate dalle fanart o prompt che ho trovato in rete su questa bellissima serie. Per lo più Johnlock centriche, con probabile presenza di slash.
Aggiunta la storia I'll be home for Christmas:Sherlock è lontano da casa per una missione, ma durante questo periodo il legame con John si rinforza. John gli chiede di tornare a casa per Natale, riuscirà Sherlock ad accontentarlo?
Questa storia, in versione inglese, partecipa alla H.I.A.T.U.S. Johnlock challenge di dicembre.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Premessa: difficilmente Benedict raggiungerà mai il record di Sean Bean, però con alcune amiche notavamo che anche lui ha al suo attivo una corposa serie di morti tristi e dolorose. Ecco da dov'è partita l'idea per questa... boh... cosa grottesca credo sia il termine più appropriato.


LA MORTE TI FA BELLO


Il primo incubo, senza troppa sorpresa, è incentrato sulla sua caduta. Solo che questa volta non c'è nessuno a sorreggerlo, a consolarlo e ad allontanarlo dal corpo del suo migliore amico schiantato sul marciapiede. Non c'è nessuno attorno a loro, non si sente alcun rumore, come se Londra fosse deserta, come se l'intero pianeta fosse deserto.
C'è solo lui, inginocchiato di fianco al corpo di Sherlock, che ripulisce con le mani il sangue dal suo viso immobile e percepisce le ossa del cranio che si spostano sotto la pressione delle sue dita ed è così sbagliato che si sveglia di soprassalto, terrorizzato, e con un possibile principio di infarto.
John trattiene a stento un singhiozzo contro il palmo della mano premuto sulla bocca e, sebbene siano solo le quattro di mattina, accende la luce sul comodino e legge, nel tentativo di scacciare quel sogno orribile.

Sono passate poche settimane da quando Sherlock è tornato a Londra e, quando scende la mattina a far colazione e apre la porta che dà sul salotto, ogni tanto John è ancora attraversato dal dubbio che tutto questo non sia reale, che sia solo frutto della sua fantasia e che troverà il salotto vuoto.
Invece Sherlock è lì, seduto sul telaio della finestra aperta e nascosto dietro al giornale alla ricerca di qualche notizia interessante, mentre la signora Hudson apparecchia la colazione e parla delle condizioni di salute di sua sorella.
Il dottore risucchia l'aria in un respiro rumoroso, alla vista di Sherlock in quella posizione precaria e gli altri due si accorgono della sua presenza.
La padrona di casa gli chiede se abbia dormito bene, ma John la ignora, ordinando con voce dura a Sherlock ti togliersi da lì.
Stupito, il consulente investigativo abbassa il quotidiano: non c'è sangue a rigare il suo volto e le ossa del cranio sono al loro posto, ma vederlo seduto lì fa venire a John voglia di afferrarlo per un gomito e tirarlo via a forza dalla finestra, magari assestandogli uno scapaccione, come si fa con un bambino particolarmente capriccioso e disobbediente.
Sherlock probabilmente intuisce alcune di queste intenzioni omicide negli occhi del suo coinquilino, perché si alza, accomodandosi al tavolo. "Qualcosa non va?" vuole sapere.
"No, assolutamente no." mente lui, chiudendo la finestra così forte da far tremare i vetri e guadagnarsi un'occhiata di disappunto da parte della signora Hudson.
"Niente che non vada, se non il fatto che ho ancora davanti a me l'immagine della tua morte come se fosse passato un giorno e non tre anni."
Gli occhi di Sherlock lo seguono con attenzione per qualche istante ancora e, anche se deve aver già dedotto il motivo del suo malcelato disagio, non dice nulla, e di questo John gli è grato.
"Vado dal signor Carlton. - gli annuncia Sherlock finita la colazione - Ci vediamo questa sera." Normalmente non fa visite a domicilio ai suoi clienti, ma il signor Carlton, che è convinto che i parenti stiano cercando di farlo fuori, ha passato la novantina, è immobilizzato a letto e quindi Sherlock farà un'eccezione.
John quel giorno non è di turno all'ambulatorio e, non appena il suo amico è uscito, afferra l'elenco telefonico e cerca un fabbro.
Quando Sherlock torna a casa quella sera, un operaio sta finendo di montare un parapetto di sicurezza in ferro battuto, alto una trentina di centimetri, sul davanzale delle due finestre del salotto, e rivolge uno sguardo interrogativo al suo blogger.
"Le finestre di questo appartamento sono troppo basse, non sono a norma di legge - spiega, senza guardarlo in faccia - se un bambino si sporgesse troppo, rischierebbe di cadere giù."
Sherlock non gli fa notare che in quella casa non ci sono bambini e, con buona probabilità, mai ce ne saranno, invece compone il numero di telefono del loro ristorante cinese preferito e ordina la cena per entrambi.
"Dividiamo la spesa per l'inferriata." propone, mentre si impadronisce del portatile di John.
"Non occorre, è stata un'idea mia."
"Ma la casa è di entrambi, dividiamo." insiste.
"Va bene." concede John con un'alzata di spalle, come se l'idea di quella installazione non sia stata nemmeno sua.
Quando il fabbro se ne va, testa la resistenza del parapetto scuotendola con le mani ed annuisce soddisfatto.
La cosa, comunque, si rivela una spesa inutile, perché da quel giorno, Sherlock non siederà più a cavalcioni della finestra quando vuole leggere il giornale.

* * * * *

Risolto il problema di una caduta accidentale del suo coinquilino dalla finestra del salotto, John spera in un sonno privo di incubi, ma il suo subconscio non è dello stesso parere, dal momento che gli propone la visione di Sherlock, intrappolato in un antico vascello di legno in preda alle fiamme. John cerca di raggiungerlo per portarlo fuori da lì, ma è bloccato da un muro di fiamme che gli impedisce di avanzare oltre: alla fine il suo amico non muore, ma emerge dal rogo con il viso e le mani deturpati dall'ustione e, ancora una volta, il suo sonno si interrompe bruscamente.

Sherlock si è alzato presto quella mattina, con in testa l'idea di dedicare la giornata ai suoi strampalati e pericolosi (nemmeno c'è bisogno di specificarlo, vero?) esperimenti chimici ed il tavolo della cucina è invaso da provette e becher e la fiammella azzurra del becco di Bunsen [1] sta già bruciando. John si irrigidisce ogni volta che Sherlock si avvicina a più di mezzo metro dallo strumento.
Sa che il consulente investigativo non è uno stupido e maneggia quei composti da tutta una vita, però la sua mente non è in grado di cancellare l'immagine della pelle piagata e bruciata dalle ustioni del sogno di quella notte e l'odore di carne bruciata che gli fa contrarre lo stomaco e minaccia di fargli vomitare la colazione, così all'ennesimo passaggio troppo ravvicinato di Sherlock dalle parti del bruciatore (ma lo fa apposta? Lo dicesse, se lo fa apposta per mandarlo fuori di testa), John tira a sé l'attrezzo con un gesto stizzito, proclamando che ha deciso di assisterlo in quell'esperimento.
"Perché?"
"Sono o non sono il tuo aiutante?"
"Sei di turno in ambulatorio, questa mattina."
"Recupererò con un doppio turno domenica. Cosa devo fare?" Il tono di John è irremovibile: ora come ora non si alzerebbe da quella sedia nemmeno se cercassero di schiodarlo con un piede di porco; Sherlock sospira, si stringe nelle spalle e gli passa un piatto di metallo che contiene alcuni cristalli violetti. "Sciogli questa sostanza, per favore."
L'esperimento si rivela assai meno pericoloso di quanto John avesse immaginato e, oltretutto, permette al detective di venire a capo di un delitto irrisolto risalente a più di dieci anni prima.
Il suo sorriso soddisfatto è così contagioso da far dimenticare a John le sue inquietudini notturne.

* * * * *

Rabdomiosarcoma.
A pronunciarlo, sembra quasi uno scioglilingua, come supercalifragilistichespiralidoso.
Ma questo non il film di Mary Poppins, non c'è lieto fine, non avverrà alcun miracolo, non c'è alcuno zucchero ad addolcire l'amara pillola della consapevolezza che Sherlock sta morendo a causa di questo tumore.
Con molta fatica, perché il suo amico non riusciva a camminare, John lo ha portato in braccio fin sulla spiaggia di Barafundle Bay; i piedi affondavano nella sabbia umida, rischiando di far cadere entrambi e Sherlock ha pure riso un paio di volte, lagnandosi della sua goffaggine.
"Forse la sua ultima risata." pensa John, gli occhi che bruciano, e non per via della salsedine.
Ora sono seduti entrambi in riva al mare e John gli ha poggiato la sua giacca sulle spalle, perché è autunno, è una giornata fredda e nebbiosa, la sabbia è spiacevolmente fredda sotto di loro ed il vento tagliente si insinua sotto i vestiti.
Senza dire una parola, Sherlock fa scivolare via la giacca ed il cappotto e si slaccia lentamente le scarpe. John, al suo fianco, china la testa sulle ginocchia e chiude gli occhi; vorrebbe fermarlo, perché è troppo presto, perché non è pronto a lasciarlo andare, ma ha giurato ed ora non può venire meno al suo impegno.
Il giorno prima, mentre John gli somministrava una dose di morfina per calmare il dolore, Sherlock ha alzato su di lui i suoi occhi chiari e gli ha detto con fermezza "Domani andrò a nuotare nella baia e non tornerò indietro. So che ti sto chiedendo molto, ma devi lasciarmi nuotare."
"Va bene." ha risposto lui, premendo lo stantuffo della siringa.
Ha promesso, ma questo non significa che lo lascerà andare a morire da solo, quindi anche lui si slaccia gli scarponi, si sfila il maglione dalla testa e lo segue.
"Tu però devi tornare indietro." sussurra Sherlock senza voltarsi.
"Sì."
Il moro si alza e cammina deciso verso l'acqua, che sotto il cielo plumbeo, ha l'aspetto di una desolante distesa di mercurio liquido; quando la prima onda lambisce i piedi nudi di John, il primo istinto dell'uomo è quello di tirarsi indietro, sibilando tra i denti: l'acqua è gelida al punto da provocare i crampi e proprio non sa da dove il suo amico stia attingendo le forze per compiere quelle energiche bracciate che lo portano al largo, dove non si tocca il fondo.
Stringe i pugni per darsi coraggio e lo raggiunge, ignorando i brividi e la sensazione di essere punto da mille spilli, man mano che si immerge nel mare. Quando lo raggiunge, Sherlock ha già delle difficoltà a tenersi a galla ed istintivamente John lo sorregge, ma il moro fa leva sulle sue spalle per allontanarlo.
"Ricorda... - sussurra, ma il freddo lo ha semiparalizzato, balbetta ed incespica sulle parole ed è difficile capire cosa stia dicendo - ricorda che ti ho voluto bene e che hai reso la mia felice. Felice, John, e non c'è alcuna tragedia in questo."
Ma la tragedia c'è e consiste nelle sue mani che lentamente lasciano andare i fianchi di Sherlock e nel suo amico che sprofonda da solo nell'acqua.

Quando riemerge dal sonno, John è tentato di svegliarlo e chiedergli dov'è la sua scorta segreta di sigarette, perché ha bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa per calmare i nervi, prima di decidere di ripiegare su una più innocua camomilla bollente, che però al momento sembra introvabile.
Apre e chiude con rabbia ogni sportello e cassetto della cucina alla ricerca dei filtri, incurante che non siano ancora le cinque di mattina e che sta svegliando non solo il suo coinquilino, ma con buona probabilità anche i vicini del palazzo di fronte con tutto quel fracasso.
"John?"
Il dottore non si volta udendo la voce roca di sonno del suo coinquilino, perché non è sicuro di essere in grado di fronteggiarlo e farsi dedurre, in questo momento.
"Dove accidenti è la camomilla?"
"Per quanto io possa essere definito un individuo poco ordinato, dubito fortemente che la riporrei mai nel cassetto delle posate. John, cosa...?"
"Non ho nulla - lo precede - ho solo bisogno di qualcosa di caldo."
"Non abbiamo camomilla in casa, non l'abbiamo mai tenuta." osserva Sherlock.
"E' tutta colpa tua!" sbotta John, e non si sta riferendo all'infuso mancante, ma questo Sherlock non può saperlo e alza al cielo le braccia, esasperato "A me non piace, è una colpa adesso?"
"Dimmi un po' - John cambia bruscamente argomento, abbandonando quella conversazione delirante - da quando non ti sottoponi ad un controllo medico come si deve?"
Sherlock cerca brevemente quell'informazione nel suo Mind Palace, ma non la trova. "Non lo so." risponde serafico.
"Disgraziato incosciente." John lo afferra per le braccia e lo fa sedere su una sedia della cucina, sotto la luce fredda del neon, poi inizia a tastargli il collo con attenzione, alla ricerca di ghiandole o linfonodi ingrossati. "Non puoi trascurare in questo modo la tua salute."
"Non accuso sintomi di alcun genere, sto bene."
"Ci sono malattie che non danno sintomi immediati. Okay - John recupera il blocco delle ricette dalla sua valigetta - appena apre il Barts, andiamo lì per un checkup completo." ed iniziò a stilare una lista degli esami.
"E hai bisogno che ti accompagni? John, sei un medico e ritengo che tu sia perfettamente in grado di-"
"No, Sherlock, non hai capito: la visita è per te, non per me."
Nemmeno se John gli avesse appena confessato di essere innamorato di Anderson, Sherlock lo guarderebbe con lo stesso sguardo carico di orrore con cui lo sta guardando adesso.
"Non vedo alcuna ragione per sprecare una intera giornata sottoponendomi ad esami clinici inutili ed invasivi." Si muove a disagio sulla sedia, leggendo sull'elenco di John parole quali 'gastroscopia' ed 'esame della prostata'.
"La prevenzione non è una cosa inutile - John ignora volutamente gli occhi alzati al cielo del suo amico - se tu avessi qualcosa, sarebbe fondamentale scoprirlo prima che sia troppo tardi." La parola tumore proprio non riesce a pronunciarla.
"Io non passerò il mio tempo-"
John, incurante del tono oltraggiato dell'altro, non demorde "Non hai casi per le mani e, per annoiarti, un posto vale l'altro: puoi farlo qui come in ospedale."
Sherlock si scompiglia i capelli, alza le braccia al cielo ed esclama un frustrato "Va bene", che lascia soddisfatto il dottore, ma solo per poco tempo. Perché non c'è nulla di peggio che avere a che fare con uno Sherlock infastidito ed annoiato, che deduce la vita sentimentale dell'infermiera che gli pratica il prelievo (la quale si vendica, com'era prevedibile, facendogli più male possibile) e che entra impunemente nelle stanze riservate al personale alla ricerca di nuove attrezzature per il suo laboratorio casalingo, mentre John cerca di convogliarlo verso le sale esami, ed è solo minacciandolo di farlo tornare il giorno dopo per una colonoscopia, che riesce a farlo stare zitto e buono per i quaranta minuti della TAC total body [2].
Per vendetta, comunque, Sherlock decide di non mangiare per i due giorni successivi e, quando arrivano i referti clinici a casa che dimostrano che è sano come un pesce, non si trattiene dall'esclamare "Te l'avevo detto" e John inizia a sentirsi leggermente ridicolo.

* * * * *

Che Sherlock sia pazzo, John lo sa perfettamente da tempo, ma che fosse pazzo a tal punto, nemmeno la sua fervida immaginazione di blogger poteva arrivare a concepirlo.
Un pazzo suicida. Come altro definireste un uomo che, a cavallo e armato della sola sciabola, decide di attaccare un accampamento di tedeschi dotati di fucili e mitragliatori?
Eppure è proprio quello che si apprestano a fare perché c'è anche lui, John, in quel reparto di cavalleria, perché nel bene e nel male, lui è un guardaspalle leale e fedele e quando Sherlock sguaina la spada e dà il via alla carica, lui è al suo fianco.
E' tutto finito nel giro di pochi minuti, esattamente come aveva previsto. Anzi, peggio: perché mentre giace agonizzante, , ha il tempo di vedere un soldato tedesco che finisce con un colpo di rivoltella alla testa il suo migliore amico, schiacciato sotto il peso del suo cavallo caduto.

"Ti intendi di cavalli?" è la domanda che gli rivolge Sherlock l'indomani a colazione e John è sicuro di aver sputato caffè non solo dalla bocca e dal naso, ma anche dalle orecchie.
Il suo coinquilino, a un certo punto, prova pietà per lui e gli allunga due vigorose pacche sulla schiena per smetterlo di farlo tossire, o forse sta solo pensando che se John morisse nel loro salotto, sarebbe molto difficile convincere Greg che si è semplicemente soffocato con la colazione.
"Dunque?" incalza Sherlock, una volta che il dottore si è ricomposto.
"No, non mi piacciono i cavalli."
A dire il vero le povere bestie, fino alla notte prima, gli erano del tutto indifferenti, ma quando schiacciano il tuo migliore amico, sei portato a guardarli con molta meno benevolenza.
"Nemmeno io li conosco bene, ma dovremo documentarci: ho appena ricevuto una interessante mail di un potenziale cliente a cui hanno rubato un cavallo da corsa." [3]
"Va bene, purché tu non ti debba travestire da fantino e cavalcarlo." borbotta John, finendo quel che resta del suo caffè.
"Non essere ridicolo, John, non ho la taglia adatta per essere un fantino."

* * * * *

Questa notte la morte di Sherlock è al limite del surreale, ma non per questo meno dolorosa.
Sherlock è un drago ed è appena stato colpito da una freccia nera che gli ha trapassato il petto, ma ora che giace a terra in fin di vita, non ha più l'aspetto di un mostro maestoso color del fuoco, è quasi umano, se non fosse per le scaglie ramate che gli chiazzano qua e là la pelle, le lunghe corna che si allungano sopra le orecchie e gli color dell'oro.
Sherlock il drago, una delle creature più intelligenti di quell'era, amante del mistero e degli enigmi, perirà per colpa della lingua lunga di John, che non è stato capace di custodire il suo segreto.
Attorno a lui strane creature ballano e festeggiano, nani e uomini intonano canti di festa e una schiera di algidi elfi si raduna attorno al corpo del drago caduto, sorridendo compiaciuti di fronte al venir meno di una così grande minaccia.
John invece crolla in ginocchio al fianco di Sherlock e con le sue minuscole, inutili mani cerca di fermare la fuoriuscita del sangue.
"Mi dispiace. Mi dispiace, Sherlock." balbetta, poi la vista si offusca e le sue lacrime cadono sul volto del drago.
"Non rattristarti, piccolo Hobbit - rantola il drago - in questa vita non eravamo destinati a vivere insieme."
"Come fai a dirlo con tale sicurezza?"
"Perché, John della Contea, non sono io il tuo tesoro più prezioso." mormora, prima di chiudere gli occhi per sempre.
La mano di John corre al taschino del panciotto, dove è rinchiuso quell'anello maledetto e si odia, si odia così tanto in questo momento, perché Sherlock ha ragione: per quanto lo rattristi la morte del drago, sarebbe infinitamente più disperato se avesse perso quel pesante cerchio dorato che ora stringe nella mano.
"Maledetto, devi sempre avere l'ultima parola."

John non ha la più pallida idea di cosa dire a Sherlock questa mattina: non trasformarti in un drago? hai un punto debole come Achille o come Smaug?
Negli ultimi giorni si è messo in ridicolo tante di quelle volte che una in più o in meno non cambierebbe nulla, se non fosse che ha notato una crescente insofferenza del consulente investigativo verso le sue paranoie, quindi non dice nulla.
Quella sera, di ritorno da Scotland Yard, Sherlock porta a casa un dvd.
"Era in saldo." spiega e a John viene da sorridere davanti al suo bisogno di giustificarsi, solo perché ha voglia di trascorrere una serata normale, come fanno tutte le persone ordinarie dal cervello inferiore.
"La trama è ridicola, la recitazione penosa, ma per l'epoca ha degli effetti speciali notevoli: da bambino ne rimasi conquistato." e preme il tasto di avvio.
Si tratta de "I Visitors".
Visitors.
Uomini lucertola dalla pelle a scaglie.
John scoppia in una risata alta, quasi isterica e continua a ridere per interminabili minuti sotto lo sguardo allibito e anche un po' preoccupato del suo coinquilino.
"Non è nulla - vorrebbe dirgli - probabilmente sto solo perdendo la ragione." ma il riso che lo scuote gli impedisce di parlare.

* * * * *

"Perché vuole scalare l'Everest?"
"Perché è lì." [4]
Solo Sherlock avrebbe potuto rispondere in quel modo sicuro ed arrogante alla domanda di un giornalista.
Quell'uomo ed altri colleghi, tutti esperti alpinisti, lo hanno sconsigliato, lo hanno implorato di non imbarcarsi in quell'impresa: Sherlock Holmes ha scalato il Monte Bianco e le maggiori cime d'Europa, ha portato a termine con successo alcune spedizioni in Asia, è uno scalatore rispettato e affermato e nessuno capisce perché si sia impuntato nel voler scalare l'Everest a tutti i costi.
John invece lo capisce. Lei è La Montagna. Non c'è Bianco o Cerro Torre [5] che tenga, lei è la cima più alta del mondo.
Lei è lì, maestosa, indifferente ai venti che ne sferzano la cima con violenza, sollevando sbuffi di neve, si staglia in tutta la sua maestosa bellezza contro un cielo così azzurro che fa lacrimare gli occhi.
Lei è lì, è lì da sempre e osserva indifferente e forse leggermente divertita i tentativi di quei minuscoli e patetici esseri umani che tentato l'assalto alla sua vetta.
John la odia per questo, la odia per il fascino che esercita sul suo migliore amico, ma allo stesso tempo la rispetta, perché lei è La Montagna.
Aspira una profonda boccata d'ossigeno dalla sua bombola, poi tira la corda, segnalando al suo compagno che può riprendere a salire. La piccozza di Sherlock affonda nella neve ghiacciata ed i due avanzano di altri tre passi.
Non è lontana la vetta, mancheranno sì e no 240 metri, ma hanno molto rallentato e sono in ritardo sulla tabella di marcia che hanno studiato la sera prima. Eppure Sherlock non ha alcuna intenzione di rinunciare, anche se questo li costringerà a scendere col buio e a cercare riparo in un buco nella neve da qualche parte lungo la cresta di nord est; passo dopo passo prosegue implacabile nella sua scalata.
E d'improvviso, Lei cambia umore; non è più divertita, ora è infastidita dalla loro presenza e così dense nubi calano repentinamente su di loro, oscurandoli alla vista dei compagni che li seguono dal campo base. John vede soltanto dove affondano i suoi piedi nella neve vergine ed inviolata, ma ha perso ogni punto di riferimento e, venti minuti più tardi, tira nuovamente la corda che lo tiene legato al compagno di cordata "Torniamo indietro: proseguire in queste condizioni è una follia."
"No! - urla Sherlock - Fidati di me, John, so perfettamente dove stiamo andando."
E probabilmente è così: Sherlock ha preparato quella spedizione meticolosamente, ha passato giorni a studiare le fotografie scattate all'Everest da ogni sua angolazione, forse sarebbe capace di arrivare in cima anche ad occhi chiusi, ma il freddo, che i vestiti di lana e seta non sono in gradi di combattere, sta sottraendo loro anche le poche forze rimaste e le bombole d'ossigeno, di questo passo, non basteranno per la discesa.
"Se vuoi tornare indietro, fallo. Io proseguo." annuncia.
John scuote la testa, perché sapeva perfettamente che la sua risposta sarebbe stata quella.
"Risparmia il fiato, idiota, e datti una mossa."
"Sei stato tu a cominciare." ribatte il Signor Ultima Parola con un sorriso.
E alla fine ce la fanno, dopo altre due ore di sofferenza, nonostante le dita congelate ed insensibili che faticano a reggere chiodi e piccozza, la nausea del mal di montagna che ha colpito entrambi, Sherlock e John sono in cima all'Everest. Poco importa che le nuvole impediscano loro di scorgere il panorama tutto attorno, poco importa che al vento si sia unita una bufera di neve. Sherlock e John sono sul tetto del mondo, La Montagna è conquistata.
E' durante la discesa che accade: trionfanti, esaltati dal successo dell'impresa, peccano di arroganza, pensando di aver vinto la guerra: Lei gli ha semplicemente concesso una battaglia, ma ora è pronta a prendersi la sua rivincita.
Un rumore sordo alle loro spalle li blocca sul posto: non hanno bisogno di parlarsi per capire di cosa si tratti e sanno bene che è del tutto inutile cercare un riparo o mettersi a correre nella nebbia.
Un attimo prima che lo spostamento d'aria della valanga li investa, Sherlock si rivolge a John un'ultima volta "E' stato un piacere scalare insieme a te."

"Intanto che eri via, sei stato anche in Nepal, vero?"
John non parla volentieri del periodo di assenza di Sherlock e quest'ultimo ha sempre evitato di entrare in argomento, quindi risponde con un cauto "Sì." ma non aggiunge altro.
"Dalle parti dell'Everest?"
"No, non ero in vacanza, non potevo permettermi di fare il turista."
"Meglio così." borbotta il dottore, nascosto dietro le notizie sportive del giornale.
"Cioè secondo te è più sicuro inseguire criminali che scalare montagne?" domanda Sherlock, per assicurarsi di aver inteso bene il ragionamento di John.
"Solo per il fatto che le montagne siano lì, non significa che debbano essere scalate. - sbotta - Se non si ha la giusta preparazione non dovresti avvicinarti ad una collina alta più di cento metri."
"Cosa che non ho alcuna intenzione di fare." mormora Sherlock, sempre più perso.
"Ottimo." conclude John con un ringhio, senza metterlo a parte dei motivi del suo malumore.

* * * * *

"Tutto il lavoro che ho fatto per voi, per la Nazione, in definitiva, non conta nulla. Anni spesi a servizio di questo Paese, senza mai chiedere nulla in cambio, se non di portare avanti i miei studi, non dovrebbero venir ripagati in questo modo.
Non è giusto.
Mi avete giudicato come il peggiore dei criminali, io che in vita mia non ho mai alzato un dito contro il mio prossimo, mi avete disprezzato come si disprezza un sadico assassino, avete cercato in ogni modo di distruggere ciò che sono, ma sapete cosa vi dico? Io non mi ritengo colpevole, non ho fatto nulla di male.
Siete voi, ai miei occhi, i torturatori.
E da oggi, gli assassini.
Perché oggi io mi chiamo fuori: non ho più intenzione di sottopormi ai vostri trattamenti di normalizzazione, non ho più intenzione di restare qui ed essere chiamato mostro da voi. Da oggi, io mi dichiaro uomo libero e da uomo libero prendo questa decisione."
Sherlock pronuncia questo lungo discorso davanti al piccolo specchio del salotto, poi afferra una mela ed una siringa ed inietta qualcosa nel frutto ed infine lo addenta.
Pochi minuti dopo crolla a terra, ma sulle labbra ha finalmente un sorriso sereno.

John è al limite: non ne può davvero più dell'angoscia e della tristezza che permeano i suoi sogni, non ne può più di svegliarsi con gli occhi lucidi ed un groppo in gola, perciò bisogna capirlo se, scendendo in cucina e trovandosi davanti Sherlock sul punto di addentare una mela, si avventa su di lui e schiaffeggia via il frutto, che rotola lontano.
Tuttavia, bisogna comprendere anche Sherlock, che da giorni è alle prese con i gesti inconsulti di John ed un malumore di cui non riesce a cogliere l'origine. Ha cercato di essere paziente, di assecondarlo, si è morsicato la lingua in più di una occasione, quando fremeva dalla voglia di dirgli di smetterla di comportarsi come un perfetto idiota, ma quella mela è la goccia che fa traboccare il vaso.
"Basta! - esclama e la sua voce profonda fa tremare i vetri della vetrinetta alle spalle di John - Non ne posso più delle tue bizze, perciò adesso mi spieghi cosa ti è preso."
John non risponde subito, limitandosi a stare davanti a Sherlock in silenzio e con gli occhi bassi.
"Muori." sussurra infine.
"Come?"
"Continui a morire. - confessa John, guardandosi la punta delle scarpe - Nei miei sogni continui a morire nei modi più assurdi ed impensati. E' patetico, lo so, ma..." allarga le braccia, senza sapere come proseguire.
Altro silenzio si allunga tra loro e John è sul punto di scusarsi, perché a benissimo che si è comportato in modo ridicolo senza alcuna ragione, ma è Sherlock a parlare per primo.
"Scusami."
John lo guarda, incredulo "Tu ti scusi? Sono io che mi sono comportato come uno squilibrato."
"Per colpa mia. Non immaginavo che il mio finto suicidio ti avesse segnato fino a tal punto. Avrei dovuto prevederlo, dato che in passato avevi già subito un evento traumatico che aveva lasciato uno strascico psicologico, sono stato poco previdente."
John si stropiccia gli occhi col palmo delle mani e prova a scherzarci sopra "E' già abbastanza strano quando ti scusi per qualcosa che hai fatto, ma sentirti scusare per qualcosa che non hai fatto mette i brividi."
Sherlock sbuffa una risatina, ma poi torna serio "Dico davvero. Avrei dovuto prevedere che avresti avuto di nuovo incubi."
"Anche così, cosa avresti potuto fare?"
"Ti avrei detto fin da subito di venire a dormire nel mio letto."
Dice proprio così Sherlock, "ti avrei detto", non "chiesto" o "proposto", che già sarebbe stato fin troppo per una proposta così inappropriata, ma "detto", come se quella sia l'unica linea d'azione perseguibile e John è contento, davvero contento di non stare bevendo un tè o un caffè, o si troverebbe a ripetere la performance di qualche giorno prima.
"Non puoi essere serio. Oddio, lo sei. - aggiunge, dopo aver dato uno sguardo allo sguardo imperturbabile dell'altro - Io... io non... come puoi pensare che questo risolva i miei problemi?"
"E' ovvio."
"Ovvio, come no." rantola John, con tutto il sarcasmo che riesce a mettere insieme.
Sherlock alza gli occhi al cielo e si appresta a spiegare "Il problema è la mia assenza: poiché non ti sei ancora riabituato al fatto che io sia qui di nuovo, nel momento in cui sono lontano dalla tua presenza, la tua mente reagisce a livello inconscio, riportandoti indietro a tre anni fa, al momento in cui mi hai visto morire e sei rimasto solo. Per questo ritengo che, dormendo vicino a me, il tuo cervello dovrebbe uscire da questo circolo vizioso."
Nonostante la logica ferrea ed inappuntabile delle sue argomentazioni, John si ritrova a scuotere la testa con tale veemenza da procurarsi uno sgradevole capogiro "Ti ringrazio per l'offerta, ma noi non possiamo dormire insieme."
"Perché?" chiede Sherlock, inclinando la testa da un lato, come un piccolo allocco curioso.
"Perché ci sono dei limiti di natura morale. Questo lo capisci, vero? - ma di nuovo l'espressione di Sherlock lo smentisce - Insomma... dormire insieme è una cosa da fidanzati, non da coinquilini." John si sta odiando perché sta balbettando come una ragazzina di quattordici anni e nemmeno lui sa perché si senta così imbarazzato.
"Non ti sto chiedendo di fare sesso." puntualizza Sherlock.
"Vorrei vedere. Ah! Senti, devo andare in ambulatorio, ci vediamo questa sera." gli comunica, prima di battere in ritirata.
Ciò che propone Sherlock non è fattibile, continua a ripetersi: se gli incubi non cesseranno, ricorrerà nuovamente alle sedute con lo psicologo.
"Quelle che in passato ti hanno dato risultati tanto brillanti?" chiosa una vocina fastidiosa dentro di lui, la stessa che è convinta che l'idea di Sherlock, da un punto di vista prettamente scientifico, non sia affatto pellegrina: probabilmente percepire la presenza dell'altro accanto a sé lo aiuterebbe a tranquillizzarsi.
"Non si tratta né di logica, né di scienza: è una questione di pudore." pensa, scompigliandosi i capelli: l'idea di dividere il letto con Sherlock gli provoca un brivido di eccitazione del quale si rifiuta di prendere atto.
La giornata sembra non passare mai, i pazienti sono più del solito e, non appena John mette piede in casa, crolla sulla sua poltrona e si assopisce.

Lo scantinato è buio, illuminato solo da una lama di luce che filtra da sotto la porta chiusa, ma John riesce a distinguere la sagoma di un uomo raggomitolato sul pavimento e già il suo cuore inizia a battere violentemente. Non ha bisogno che la porta si apra o che gli aguzzini lo sollevino da terra per sapere che quell'uomo è Sherlock.
E' stato picchiato con inaudita ferocia, la canottiera bianca è talmente zuppa di sangue vecchio e nuovo che in alcuni punti è nera, il viso è coperto di tagli, le labbra sono gonfie e a malapena riesce a tenere gli occhi aperti.
"Allora? - domanda uno degli uomini che lo tengono prigioniero - Hai avuto abbastanza tempo per riflettere?"
"In realtà ho fatto una bella dormita." scherza Sherlock; l'altro non apprezza e gli afferra rudemente una ciocca di capelli per sollevargli il volto. "Non ho tempo da perdere: dimmi chi cazzo sei e cosa stavi cercando nei nostri uffici o giuro su dio che questa volta ti ammazzo."
"Non ho nulla da dire ad un idiota come te." sibila il consulente investigativo e subito gli altri gli sono addosso, lo buttano a terra e lo massacrano di calci e-

John si sveglia di scatto: è a Baker Street, Sherlock è chino su di lui, lo sguardo preoccupato, e gli ha posato una mano sulla spalla.
"Ti stavi agitando, ho pensato che stessi avendo un altro incubo."
"Sì, sì infatti."
"Vuoi un tè?"
"Meglio un bicchier d'acqua, grazie."
Sherlock annuisce appena e va in cucina; gli porge il bicchiere senza dire una parola anche se John è convinto che sarebbe tornato immediatamente alla carica con la sua proposta e, in queste condizioni, con le mani e le ginocchia che tremano ed il cuore che batte ancora fortissimo, avrebbe avuto molte meno riserve ad accettare.
Invece il consulente investigativo si limita a recuperare il bicchiere vuoto dalla sua mano malferma e riportarlo in cucina. John preferisce non chiedersi se sia una tattica o se Sherlock abbia deciso di rispettare la sua decisione, sa solo che ha una fottuta paura di riaddormentarsi di nuovo, quindi gli arriva silenziosamente alle spalle e mormora, la voce appena udibile "La proposta di stamattina è ancora valida?"
Quando Sherlock si volta con un sorriso trionfante, John capisce che era una tattica, ma non ha la forza di arrabbiarsi: dopotutto Sherlock sta solo cercando di aiutarlo.
Nel modo meno ortodosso possibile, ma altrimenti non sarebbe lui.

Sherlock si chiude in bagno per farsi la doccia e John prova a rilassarsi e a mettere a tacere una piccola parte del suo cervello che ancora insiste nel chiedergli che accidenti stia facendo.
"Sto cercando di dormire tranquillamente." si risponde. Il materasso di Sherlock è più morbido del suo, ma è molto comodo ed anche la stanza è più calda.
Quando finalmente sente la porta del bagno aprirsi John è fortemente tentato di fargli notare che nemmeno una donna impiega così tanto tempo a prepararsi per andare a dormire, ma ogni pensiero è stato formattato dalla sua mente nel momento in cui ha posato gli occhi su di lui. Sulla sua pelle candida, per la precisione, perché in questo momento Sherlock gli si è parato davanti completamente nudo e senza un briciolo di vergogna.
"Sherlock!" vorrebbe esclamare, ma la lingua si arriccia su se stessa e tutto quello che esce dalla sua bocca è un buffo "Slok", forse perché, in quella posizione, i suoi occhi sono esattamente a livello con il punto meno appropriato da osservare, in un corpo umano maschile.
"Potresti spostarti? - lo invita cortesemente Sherlock - Di solito dormo da questo lato del letto."
John gli fa posto in un baleno e in questo momento è del tutto propenso a spostarsi altrove, possibilmente fuori da quella camera da letto. Anche passando attraverso la porta chiusa, se serve a fare più in fretta.
Solo quando parte del corpo di Sherlock viene opportunamente coperto dal lenzuolo, il suo cervello riesce a riavviarsi.
"Cosa ti salta in mente? - urla, avvampando come un pomodoro - Mettiti il pigiama."
"Perché dovrei? - domanda lui, con tutto il candore del mondo - Dormo sempre nudo, non vedo perché dovrei cambiare le mie abitudini solo perché divido il letto con qualcuno."
"Perché? Sherlock, è-"
L'altro alza gli occhi al cielo "John, è inutile che affatichi i neuroni alla ricerca di una risposta che coinvolga concetti di ordine morale, perché sai benissimo che non avrebbero alcuna presa su di me."
"Ma-"
"Sdraiati e rilassati, altrimenti non riuscirai mai ad addormentarti." Sherlock si gira su un fianco e batte una mano sul materasso.
"E di chi è la colpa?" domanda John, ancora incredulo davanti alla totale mancanza di pudore del consulente investigativo.
"Tua - sentenzia Sherlock - tua e del tuo cervello che continua a rimuginare su cose inutili e prive di qualsivoglia importanza."
"Ti pareva." sospira John, che ha già rinunciato a combattere: la determinazione e l'assoluta tranquillità dell'altro gli hanno tolto le energie per farlo. A lui un briciolo di decenza è rimasta, quindi sa che dovrebbe voltarsi dall'altra parte e cercare di chiudere gli occhi, invece resta anche lui voltato sul fianco a guardarlo. Lascia scivolare gli occhi sul viso, sulle spalle, sul torace che il lenzuolo lascia scoperto.
"Mentre eri all'estero, sei mai stato ferito?"
"A volte."
John allunga una mano verso di lui, gli tasta il braccio, le clavicole e lo sterno alla ricerca di vecchie fratture, finché Sherlock non gli prende la mano con la sua e la posa sul fianco, all'altezza dell'ultima costola fluttuante, dove le dita esperte di John faticano a riconoscere la presenza di un callo osseo.
"E' stata una brutta frattura." osserva il dottore. Le costole fluttuanti [6], le più pericolose, quelle che, inclinandosi all'interno, possono perforare i polmoni. La mano di John è attraversata da un tremito e quella di Sherlock torna ad appoggiarsi sulla sua "Va tutto bene - lo rassicura - sono guarito e sono qui."
"Lo so." risponde lui, ma non solleva la mano dal fianco, continuando ad accarezzarlo adagio, risalendo verso il costato, o spostandosi avanti e indietro, verso l'addome e la schiena; trova incredibilmente rassicurante il calore della pelle di Sherlock sotto le sue dita, la prova tangibile che è ancora vivo.
"Non vado più da nessuna parte." lo rassicura ancora Sherlock.
"Ed io - mormora John facendo risalire la mano verso il centro del petto - resterò qui per verificare che tu dica la verità."
"Davvero?" per la prima volta nel corso della serata, Sherlock ha la decenza di arrossire e la cosa fa aggrovigliare lo stomaco di John in maniera inaspettata ma decisamente piacevole.
"Davvero. E, fra cent'anni, quando sarà, devi promettermi che non te ne andrai per primo. Un'altra volta io... non potrei sopportarlo..."
"John..."
"Promettimelo, Sherlock." lo implora, avvicinandosi lentamente a lui. Si aspetta una fredda risposta scientifica sull'impossibilità di prevedere un simile evento, invece Sherlock gli passa una mano sulla nuca e lo attira a sé, posando la fronte contro la sua "Va bene."
E poi basta chiudere gli occhi, per suggellare la promessa con un bacio.

Il mattino seguente il letto sembra un campo di battaglia, i cuscini e le lenzuola sono finiti a terra e l'unica cosa che copre John è il corpo di Sherlock, intento a studiare attentamente la cicatrice del foro di uscita del proiettile che gli colpì la spalla.
"Mi spieghi che ci trovi di tanto affascinante?" si lamenta il dottore.
"Silenzio. - sentenzia Sherlock - Io ti ho aiutato con il problema degli incubi, poter osservare da vicino la tua cicatrice mi sembra un'equa contropartita. Non mi capita quasi mai di poter analizzare del tessuto cicatriziale guarito, i cadaveri sono semplicemente sforacchiati dai proiettili."
"Ma che bella immagine. - sospira John con tono fintamente esasperato - E quanto al mio problema, se stanotte non ho avuto incubi è perché, ehm - si schiarisce la gola - non abbiamo dormito affatto."
"Sul serio? - domanda Sherlock con voce innocente, baciandolo tra i capelli - Eppure mi è sembrato che dopo il secondo orgasmo tu sia crollato addormentato come un sasso."
Non avendo a disposizione un cuscino, John sprofonda la testa nel materasso, mentre le sue orecchie assumono una deliziosa colorazione paonazza e Sherlock si affretta a baciarle. "Se l'esperimento di stanotte non ti ha soddisfatto, allora temo che saremo costretti a ripeterlo."
La domanda non fatta aleggia tra loro, John sorride e si divincola dalla presa di Sherlock solo per potersi girare e rovesciarlo sotto di sé.
"Certamente. Per tutta la vita."
"Sono d'accordo - risponde Sherlock, passandogli le lunghe braccia sulle spalle - non dobbiamo mai abbassare la guardia, o i tuoi incubi potrebbero tornare."

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NOTE

I film/serie tv usati per le morti/ferimenti di Sherlock sono, nell'ordine: Reichenbach Fall, To the ends of earth, Third Star (con citazioni dirette dal film più un omaggio alla meravigliosa fanfiction di Mad Lori, Alone on the water), War Horse, The Hobbit, Everest (film ancora da girare e dove Ben è solo accreditato, ma comunque dovrebbe interpretare Mallory e la fine che ha fatto la conosciamo tutti...) The Imitation Game e Little Favour.
E non sono nemmeno tutti i film in cui lui muore, per dire...

[1] Il primo è un recipiente di vetro ed il secondo un bruciatore a gas, entrambi usati nei laboratori.

[2] La TAC total body è una tomografia dell'intero corpo che cerca tumori presenti in tutto il corpo del paziente.

[3] Il riferimento è al racconto del canone "Silver Blaze".

[4] Frase effettivamente pronunciata da George Mallory durante un'intervista prima della sua impresa.

[5] Una delle montagne più famose della Patagonia.
Non si sa se Mallory e Irvine raggiunsero effettivamente la cima e morirono durante la discesa o furono travolti da una valanga prima di compiere l'impresa. 240 metri, in alpinismo, sono tanti, ma a me piace pensare che ce l'abbiano fatta.

[6] Sono così definite perché non sono collegate allo sterno, ma direttamente alle vertebre e sono le più soggette a rottura.

   
 
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