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Autore: Barbara97    03/11/2013    0 recensioni
"Io non avevo mai vissuto. "
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una voce elettronica che annuncia i prossimi voli. Una valigia nella sedia accanto. Un libro sulle ginocchia intitolato “Genetica umana: dal problema clinico ai principi fondamentali”. Centinaia di persone di corsa e un'assurda sensazione di sentirsi sola. Mille sogni nelle mani, mille speranze nel cuore e tante delusioni in testa. Aspettavo mia cugina nella sala di attesa dell'aeroporto di Milano. Milano: una città e tante aspettative. Per una come me che veniva dal Palermo era difficile immaginare una così grande città, talmente moderna da sembrare futurista, così incredibilmente dinamica da stupire immaginandola solamente. Erano le 10.10 di un caldo giorno di settembre. O almeno io pensavo che fosse caldo. A Palermo era così. Mia sorella mi mandava su Whatsapp le foto di lei al mare con il suo ragazzo. Ma a Milano non c'era mare. Non c'era neanche sole. Il freddo mi sorprese quasi quanto la città stessa e la nebbia rispecchiava i miei pensieri. Vidi arrivare mia cugina di corsa e confusa. -A Milano è sempre così, Gioia! Devi abituarti ai ritardi.- mi disse. In realtà io ai ritardi c'ero abituata. Caratteristica di Palermo è proprio l'immenso traffico. Salimmo su un Opel Astra lucida e profumata. -E' nuova questa macchina?- le chiesi. -No, è già vecchia!- Da qui capii la mania di perfezione dei milanesi, o forse di mia cugina solamente.

Giada era figlia di mio zio e, quando seppe che avevo ottenuto il posto in un laboratorio d'analisi lì a Milano, non esitò ad offrirmi una camera. Diceva di essere sempre fuori casa e che le serviva proprio qualcuno che si prendesse cura del suo cane quando lei non c'era. Io accettai subito la proposta. Ero a corta di denaro e a Milano non è facile trovare un appartamento poco costoso. Arrivammo a casa un'ora dopo. Giada parlò per tutto il tempo, ripetendo ininterrottamente quanto fosse felice di avermi lì. Io annuivo e sorridevo ogni tanto. -Io vado da Filippo. Tu puoi darti una sciacquata e ordinarti una pizza. Trovi i numeri di telefono nella rubrica sul tavolo.- E uscì. Mi gettai sul divano, con un sentimento che non riuscivo a spiegare, misto fra malinconia e speranza. Pensavo alla vita che stava per iniziare e a ciò che mi aspettava. A 25 anni è difficile stravolgere tutto.

La casa era bianca, tutta bianca. C'erano decine di fotografie di Giada e di Filippo, il suo ragazzo, a giudicare dai baci. Io non credevo nell'amore. Avevo vissuto esperienze così deludenti da farmi rinunciare a tutto. Avevo avuto ragazzi belli e stupidi, ricchi e brutti, intelligenti ma apatici. Mi avevano fatto soffrire troppo. Ma l'amore non è dolore. L'amore per me avrebbe dovuto essere con un' alba a mezzanotte, lo zucchero nel caffè amaro, una coperta in mezzo alla neve, il segnalibro in un romanzo di mille pagine. Ma avevo perso le speranze di trovare un amore così. D'altronde mi ero sempre giudicata sognatrice.

Mi feci un po' di latte e lo mangiai con dei cereali integrali che trovai in dispensa. Mia cugina doveva essere un tipo molto attenta alla linea. Da piccola la odiavo. Era bellissima. Tutti i ragazzi le andavano dietro e a scuola era bravissima nonostante il suo studio era limitato a un'ora pomeridiana in cui copiava i miei di compiti. Ma prese 110 e lode alla laurea e adesso lavorava come avvocato in un'agenzia. Nella mia vita ne avevo incontrate tante come lei. Ai giorni d'oggi la bellezza è sopra il mondo.

Andai a letto presto, consapevole di dovermi svegliare all'alba per disfare le valigie. Mi svegliai alle 9. Ero abituata a svegliarmi al sorgere del sole, che timido entrava dalle imposte della mia camera già alle otto del mattino. Ma a Milano il sole sembrava non esserci mai stato. Trovai sul frigorifero un biglietto di mia cugina che diceva “Sono a lavoro. Porta fuori Lala. Buona giornata!” Bevvi un caffè e mi precipitai nella mia camera. Aprii le valigie e fui travolta dalla mia vita. È incredibile la quantità dei pensieri che possano essere racchiusi in una valigia così piccola. Uscii i vestiti e cominciai a sistemarli nell'armadio. I miei leggins colorati, le mie larghe camicie, i jeans, le mille sciarpe, gli stivaletti, il costume da bagno -pensandoci, avrei potuto lasciarlo a casa-. Poi presi i miei libri. Amavo leggere. Mi creavo un mondo parallelo in cui vivevo con i personaggi e gli scrittori al mio fianco. Tra i tanti libri c'erano anche quelli sulla mia amata Biologia, materia che avevo odiato e amato e che mi aveva permesso di essere lì. Dopo la laurea ne avevo letto pochi. Non ne potevo più di cellule. Ma decisi di portarmene un paio a Milano. D'altronde avrei dovuto ricominciare a trattare di cellule al laboratorio. Nella valigia era rimasta solo una foto. La mia famiglia. Ciò che mi aveva fatto riflettere prima di decidere di andare a vivere a Milano era proprio il fatto che non li avrei più rivisti tutte le mattine. I miei genitori mi amavano e io amavo loro e mia sorella era la mia bambina. Erano la mia vita, il mio unico conforto. Dio solo sa quanto mi sarebbero mancati. Posai la foto sul comodino. Ogni mattina li avrei visti almeno in foto.

Portai fuori il cane e ne approfittai per vedere un po' la città. Milano era il sogno di tutti. Nonostante la nebbia, il freddo e quel cupo grigiore, la vitalità di quella città è incredibile. Il vecchietto alla fermata, lo straniero ben vestito, il mendicante, la donna in carriera, la mamma di corsa, l'avvocato al telefono. A Milano trovi di tutto. Nessuno può sentirsi diverso perchè tutti lì sono diversi. Tornai a casa e trascorsi la giornata ascoltando i Coldplay e leggendo “Cime tempestose” per la ventesima volta probabilmente.

Il giorno dopo mi svegliai prestissimo. Era il mio primo giorno di lavoro e dovevo prendere la metropolitana alle 7.30. In metro ero nervosa. Lì era l'inizio di tutto. Arrivai in laboratorio e mi presentarono come “quella nuova”. Bell'inizio! Mi misero ad analizzare le cellule dell'occhio di una donna ceca. Le avevano fatto un trapianto ma non era riuscito. E adesso “speravano di trovare la soluzione”. Soluzione alla cecità? Magari! Probabilmente volevano mettermi alla prova. Le mattine al laboratorio erano piatte e monotone. Ero circondata da gente espertissima che faceva di tutto per trovare il pelo nell'uovo delle mie ricerche. Lavoravo sodo ma non ero mai apprezzata. Proprio come a scuola. Mia madre diceva sempre che sarebbe arrivato il momento in cui quella gente si sarebbe ricreduta.

Una sera Giada mi invitò a una cena con le sue amiche. Si sentiva in colpa perchè stavo sempre a casa e uscivo solo per il lavoro. Ma a me non era mai piaciuta la vita mondana. A Palermo uscivo raramente e solo quando dovevo fare spese. Le amiche di Giada mi fecero una buona impressione. Erano gentili, dolci e parlavano di tutto. Io non avevo mai avuto delle vere e proprie amiche. Quelle che avevo conosciuto erano sempre pettegole, ignoranti, incapaci e gli unici argomenti che sapevano trattare riguardavano Clio Makeup o Grey's Anatomy. Non credevo tanto nell'amicizia, proprio come nell'amore. Avevo avuto una grande amica ai tempi del liceo. Si chiamava Stella, e per me lo era di nome e di fatto. Con lei mi sentivo bene. Potevo parlarle di tutto: dei miei genitori che litigavano, del ragazzo che mi piaceva, dei miei sogni, del prof di Fisica che mi odiava. E anche lei mi raccontava tutto. Ma il destino non sempre è dalla nostra parte. Suo padre era americano e aveva perso il lavoro qui in Italia. Perciò decisero di tornare negli Stati Uniti con la speranza di una vita migliore. Ci promettemmo amicizia eterna. Ma non è vero, come tutti dicono, che la distanza non conta. Raccontarsi le proprie vite via Skype che non funziona mai o via email non è come parlarne guardandosi negli occhi. Perciò, nonostante continuassimo a sentirci, lei mi mancava, e questa mancanza portò ad allontanarci più che ad avvicinarci.

Al termine della serata, Stefania, una delle amiche di Giada, mi diede il suo numero e mi disse che lei non lavorava, che era in attesa di laurearsi e che avrei potuto chiamarla per uscire con lei, se avessi voluto. Era simpatica Stefania. Capelli ricci, occhiali grandi, vestiti alla moda e una Nikon sempre in borsa. Stava per laurearsi in grafica pubblicitaria. La chiamai il giorno dopo e ci demmo appuntamento davanti al Duomo. Da quel giorno io e Stefania diventammo grandi amiche. Somigliava molto a Stella e a me. Mi ascoltava e mi raccontava di tutto. La aiutai persino a studiare per la tesi. D'altronde il laboratorio non mi impegnava molto e stare a casa tutto il giorno con Lala era diventato annoiante quanto inutile. Stefania mi insegnò che dovevo farmi valere e che ero capace di diventare qualcuno se solo avessi voluto. Non mi piaceva essere al centro dell'attenzione ma capii che era l'unica soluzione per far capire che in laboratorio c'ero anche io. Qualche settimana prima avevo osservato al microscopio la cellula di un pastore tedesco che era morto per una malattia sconosciuta e che mi avevano affidato. Pensavo di aver trovato la soluzione. La cellula era stata contaminata da piombo, forse contenuto nel cibo ingerito. Lasciai perdere la ricerca, tanto non mi avrebbero ascoltata. Ma un giorno il cane di Stefania, Yoyo, cominciò a stare male e mi disse che aveva cominciato a stare così da quando aveva iniziato a mangiare questo nuovo tipo di croccantini che andava di moda. Il veterinario le aveva detto che non si capiva quale fosse la causa di questo male e aveva dato al cane pochi mesi di vita. Mi feci dare da Stefania questi croccantini e li analizzai. Al laboratorio mi presero per pazza. Ma io pensai che i grandi geni erano tutti considerati pazzi. Nei croccantini c'era del piombo. Ne parlai con il direttore del laboratorio e mi disse che aveva appena appreso la notizia che queste cellule stavano diffondendosi in molti animali e che i padroni erano disperati. Mi propose quindi di organizzare un incontro per la comunità scientifica di Milano e di esporre le mie ricerche, per denunciare la casa produttrice dei croccantini e per cercare di trovare una possibile soluzione.

Tornai a casa e comincia a pensare. Mai iniziare a pensare in certi casi. Mi sentivo confusa. Adesso che avevo ricevuto l'occasione di farmi avanti pensavo di tirarmi in dietro. Non mi ci vedevo a condurre una conferenza tanto importante. Ero troppo timida, impacciata, avrei detto delle sciocchezze e lì sarebbe finita la mia vita da ricercatrice. Immersa in questi pensieri, mi arrivò un'email. Era di un certo Marco. Diceva di aver avuto il mio indirizzo dal laboratorio, che aveva saputo della mia ricerca e che disperato chiedeva aiuto perchè il suo cane era appena stato contaminato dalle cellule di piombo e non voleva lasciarlo morire. Mi chiese un appuntamento la mattina seguente alle 10.30 al Duomo. Io accettai. Parlare con una sola persona non sarebbe stato difficile. La mattina seguente misi i leggins gialli, una camincia bianca e presi la metro. Arrivai al duomo e cominciai a domandarmi come avrei riconosciuto Marco. Poi mi sentii chiamare. Mi girai ed era lì. Cavolo, quanto era bello Marco. Non lo immaginavo così. Mi aspettavo un incontro di lavoro come gli altri. Ma quello fu l'incontro più importante di tutta la mia vita. Marco aveva gli occhi verdi e i capelli castani. Marco non era altissimo. Marco era vestito trasandato. Marco sembrava dolce. Lui mi parlò del suo cane. Io guardavo solo i suoi occhi e ogni tanto annuivo. Gli spiegai la mia ricerca e cosa mi aveva proposto il direttore e mi disse di accettare la proposta. Detto da lui, era come un obbligo da rispettare. Probabilmente anche a lui piacqui subito. Ci scambiammo i numeri e cominciammo a sentirci ogni giorno. Stefania era più felice di me. Diceva che avevo cambiato visto, che i miei occhi brillavano. Anche io mi sentivo diversa. Milano sembrava risplendere di luce propria quando ero con lui. Il suo cane morì presto e questo mi convinse ad organizzare la conferenza. Mi aiuto lui. Mandò inviti a giornalisti e ad associazione animaliste.

Il giorno dell'incontro mi portò la colazione alle 7 del mattino. Mi venne a svegliare con un bacio sulla fronte e l'odore di caffè. Con lui tutto poteva essere più semplice, anche il mio esordio. L'incontro andò benissimo. Tutti si complimentarono con me. Anche io mi complimentai con me stessa. Mi scoprii. Non ero impacciata, non ero timida, non diventai rossa. Ma ero io. Era Gioia. Era la Gioia che nessuno aveva mai visto. La Gioia felice e soddisfatta. Adesso avevo tutto. Milano. L'amore. Stefania. Cosa mi mancava? Spesso mi chiedevo come avevo potuto vivere senza queste cose che per me erano diventate essenziali. In realtà, una risposta me l'ero già data. Io non avevo mai vissuto.

Io e Marco affittammo una casa e cominciammo a vivere insieme. Stefania si laureò e cominciò a lavorare. Io fui promossa e Marco ottenne un posto all'Università di Lettere. La mia vita iniziava lì, a 25 anni, con delusioni alle spalle e un futuro eccellente tutto da scoprire.

 

 

  
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