In
the Skin
“Hinata-sama”
Lei aveva chiuso gli occhi al suono della
sua voce, incapace di affrontarne lo sguardo. Avrebbe voluto dirgli di
andarsene, di lasciarla in pace, di smetterla di farle del male a quel modo.
Avrebbe voluto, ma solo per sentire poi le sue braccia sulla propria pelle e il
suo profumo invaderle le narici fino a cristallizzarsi nei suoi polmoni
trafitti. Allora che senso aveva parlare?
“Hinata-sama”
Smettila
di parlarmi, smettila di chiamarmi. Smettila, smettila, smettila…
“Hinata-sama, vi state comportando da
sciocca”
La voce di lui era dura, come sempre, e le
ferì il cuore peggio di un kunai affilato. Avrebbe voluto picchiarlo, ma non
riusciva neppure a muoversi dalla rigida posizione assunta. Come faceva ad
essere così freddo anche allora? Anche in quei momenti? Dopo aver visto come
era ridotta lei e sapere che era tutta colpa sua…
“Non ha senso questo mutismo, lo sapete,
vero?”
Hinata strinse spasmodicamente gli occhi,
rifiutandosi di collaborare. Era sbagliato, anche lui lo sapeva. Era
terribilmente sbagliato e lui era quello che rischiava di più in quella storia,
perché non riusciva a capirlo? Perché continuava ad insistere? Perché non si
sforzava di essere distaccato come prima?
Neji
ti prego, và via. Vattene, và via.
Ma il cugino non lasciò la stanza
nonostante le sue mute preghiere, a voler sfidare con la sua incombente
presenza quella magra volontà di resistergli. Stava rendendo tutto più
difficile. Lei non poteva sopportarlo. Lei non ce la faceva a sopportare tutto
quello, le costava già parecchio essere quello che era. Lei…
“Hinata”, la sua mano scivolò sulla pelle
del collo diafano nello stesso istante in cui lei si rese conto di aver
distrutto ogni barriera.
Neji era arrivato al suo cuore. Tutte le
sue difese, tutti gli stupidi tentativi di ignorarlo erano morti trascinati via
dalla sua mano che adesso, spietata, indugiava sulla guancia liscia. Era la sua
tortura. La sua dolce e amara tortura, che l’avrebbe buttata giù nelle fiamme
dell’Inferno. Perché lo sapeva Hinata, anche mentre riapriva gli occhi per
tuffarli in quelli bianchi di Neji, che quello era sbagliato.
È
peccato.
Ma il peccato sapeva essere la più dolce ed
irresistibile delle tentazioni alle volte.
“Neji”, il suo corpo si strinse a quello
del cugino in modo meccanico, come se non avesse fatto altro per tutta la vita,
e lei sentì qualcosa scoppiarle nel petto mentre chiudeva gli occhi in attesa.
Lui rimase ancora per un istante a bearsi
dell’immagine di Hinata tra le sue braccia, tremante come una foglia in
autunno. Era così bella, lei, che aveva paura di romperla con la sua freddezza.
Ed era così maledettamente fragile che la stava già uccidendo un pezzettino
alla volta con quei suoi baci peccaminosi. Ma non poteva fermarsi, non poteva
vivere senza di lei e questo l’aveva capito già da diverso tempo. L’aveva
sempre saputo, in effetti, anche quando si sforzava di odiarla. Perché Hinata
era migliore di lui, lo sapeva, e questo non poteva accettarlo perché la
rendeva ogni secondo più distante. Inafferrabile come il vento che scuote le
foglie.
“Hinata”, di nuovo il suo nome a salire
prepotente su quelle labbra indegne di pronunciarlo (labbra che aveva portato entrambe alla perdizioni e all’oblio
dell’Inferno).
La mano di Neji si fermò sul collo pallido
di lei, ancora, e gli occhi soppesarono per l’ultima volta quel volto etereo.
Davvero aveva il diritto di baciare quelle labbra rubino? La sua mano le
sfiorava la pelle, eppure il contatto era così delicato da risultare
evanescente. Voleva tenerla sempre per sé, come un fiore raro e
d’ineguagliabile bellezza. I suoi occhi non si sarebbero mai stancati di
catturarne l’immagine. Senza accorgersene era diventato un rapace che,
approfittando di ogni minima distrazione, scendeva in picchiata a rubare un
pezzo della sua essenza. Insaziabile. Inappagabile. Il peccato, si sa, non è
mai tenue.
Scusami,
Hinata.
Neji chiuse gli occhi e solo quando le sue
labbra si poggiarono su quelle della cugina, l’irrequietudine nel suo petto
scemò via ed ogni pensiero logico volò via nel cielo come quel rapace che nel
becco adesso serbava una particella in più di Hinata.
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La prima volta che aveva aperto gli occhi,
era stata anche la prima volta che l’aveva vista danzare.
Lui era uscito dopo una notte insonne a
rigirarsi nel letto e la sua vista ancora una volta non l’aveva tradito quando
aveva scorto un movimento verso la parte interna del giardino. Si era
precipitato pronto al combattimento ma una volta lì, non era stato un ninja da
vincere che aveva trovato. Tutt’altro.
Il fisico sinuoso di Hinata riluceva
bagnato dai raggi lunari mentre si costringeva in un’articolata danza sensuale
e leggiadra che la equiparava al livello di una ninfa dei boschi. Ogni suo
gesto, ogni movenza, ogni passo sull’acqua complice dello stagno, sembrava
essere fatto soltanto per il gusto di rapire il suo cuore in un vortice dal
quale, Neji, non sarebbe mai più stato in grado di uscire. Neppure volendo.
Con l’eleganza di una geisha e la
leggerezza di una naiade, Hinata si era fatta largo nel suo cuore indurito dal
tempo e dagli avvenimenti, sconvolgendo tutto ciò che aveva incontrato al suo
passaggio. Ma non era stata un’esperienza drammatica, né dolorosa. Il semplice
fatto di associare quelle parole a lei, era impossibile (con Hinata anche la peggiore tortura diventava dolce come il nettare
delle api). Semplicemente, lei era entrata con la sua fragranza di fiori e
di primavera, soverchiando ogni traccia di dolore al proprio instancabile
sorriso. E lui non se n’era nemmeno accorto, in un primo momento, tanto era
stato gentile e discreto quell’attracco. La consapevolezza era arrivata poi,
dopo quella notte fatta di sguardi rapiti e danze ammaliatrici.
Neji stava semplicemente camminando per le
vie di Konoha quando aveva capito.
Aveva appena terminato un altro allenamento
in compagnia di Rock Lee e di Tenten, e stava per fare ritorno al clan Hyuga
per esercitarsi ancora un po’ in completa solitudine. Ma passando, proprio
davanti al chiosco del ramen, i suoi occhi attenti avevano intercettato la
figura della cugina che si nascondeva ad un affamato Naruto ed allora qualcosa
era scattato.
Il che era patetico, considerando che
Hinata non l’aveva neppure visto (ancora
una volta).
Prima ancora di accorgersene, Neji si era
ritrovato a correre per le vie affollate di Konoha, zigzagando tra i passanti
nel tentativo di mettere a tacere il grido nel petto. Era stato allora,
nell’esatto momento in cui si era fermato stremato e i suoi occhi si erano
posati su quella cosmee appena sbocciata, che aveva capito.
Volente o nolente, Hinata era entrata nella
sua vita, nel suo cuore sofferente, curando le ferite con i suoi modi
impacciati e un po’ goffi. Ed era lì, proprio lì, in quelle braccia rigide
nello sforzo di controllarsi.
Nella sua pelle.
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Jungo era sempre stato un ottimo membro
della Casata Cadetta. Come tutti gli altri membri, del resto, il suo compito
era sempre stato quello di vegliare sulla Casata Principale, assicurandosi in
special modo di preservare la vita della progenie.
Quando Hinata aveva compiuto il suo terzo
compleanno ed era stata rapita, Jungo aveva assistito terrorizzato allo
spietato colpo che Hiashi Hyuga aveva inferto allo shinobi del Paese del
Fulmine riparandosi dietro una grossa quercia. Di anni all’epoca ne aveva tre
ma il ricordo era rimasto talmente scolpito nella sua giovane memoria, da aver
inevitabilmente condizionato la sua condotta futura. Da allora, al contrario
del suo insolente compagno Neji, non aveva più osato disubbidire anche solo ad
uno dei membri della Casata Principale.
Tutta la sua vita, fino a quel momento,
aveva ruotato attorno alla famiglia Hyuga di cui lui stesso faceva parte, nel
bene o nel male.
Jungo non aveva tuttavia mai raccontato a
nessuno di aver assistito senza essere visto all’omicidio commesso dal
capoclan. Era il suo piccolo segreto che di sicuro lo avrebbe accompagnato
nella tomba, perché se c’era una cosa che aveva capito in quegli anni era che
avere un segreto era cosa assai rara in quella famiglia. E lui non voleva
rischiare di perdere il proprio. Soprattutto, non voleva incorrere nelle ire
del capoclan o nell’attivazione del sigillo maledetto impresso a fuoco sulla
sua fronte.
Così aveva iniziato a passare i giorni
guardando la famiglia principale, sia alle spalle che dinanzi, come era suo
dovere d’altronde. Senza mai perdere d’occhio colei che avrebbe un giorno
ereditato tutto quello, la giovane Hinata, sorridendo segretamente (oh, un altro segreto) quando inciampava
nel suo kimono nuovo, piangendo sommessamente quando la vedeva soffrire per la
propria debolezza. L’aveva vista crescere e trasformarsi presto da bruco a
crisalide a splendida farfalla, ancora ottenebrata dall’ingenuità per
accorgersi fino in fondo della sua estrema bellezza.
Prima ancora di rendersene conto, aveva
iniziato ad attendere con trepidazione i suoi rientri dalle missioni che si
andavano facendo sempre più difficili, stringendo i pugni ad ogni piccola
ferita che aveva osato scalfire quel fisico perfetto. I suoi occhi vigili non
l’avevano persa neppure quando lei si sforzava di migliorare, dando il meglio
di se stessa per rendere orgoglioso un padre dannatamente testardo. In certi
momenti, Jungo avrebbe volentieri ucciso quel capoclan che un tempo aveva tanto
venerato, ma lui rimaneva pur sempre un codardo e così rimaneva al suo posto.
In silenzio, soffrendo per le sofferenze di Hinata. Senza avere il coraggio di
farle sapere quanto guardarla, avesse iniziato a significare per lui.
Poi all’improvviso il pensiero di lei si
era trasformato in ossessione. Il corpo serpeggiante di sua cugina aveva preso
a provocarlo la notte, a stuzzicarlo il giorno, a martoriare il suo animo con
la ferocia di una pantera, avventandosi su di lui a voler comprometterne i
neuroni. Jungo aveva provato a resisterle, ma ben presto si era accorto che la
sete si acquietava solo quando poteva poggiare gli occhi su quel seno torpido o
su quelle gambe flessuose. Aveva così iniziato a scrutarla mentre si allenava
con Neji, il volto un po’ vacuo oltre quella maledetta quercia a separarlo da
lei. Ma gli bastava. Davvero, gli bastava.
Hinata era troppo per lui. Era troppo per
tutti. Hinata rappresentava l’incarnazione di una divinità e in quanto tale,
sarebbe dovuta rimanere intatta. Non avrebbe permesso a nessuno, mai, di
corrompere la sua adorabile cugina. E quella era una promessa.
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“Basta così, Hinata-sama”
La voce di Neji era autorevole come sempre
mentre fermava il colpo giusto l’attimo prima di prenderle il viso. Hinata
chinò il capo di lato, perplessa, fissando il cugino con aria smarrita.
“Ma io non sono stanca”, protestò,
ingenuamente, mettendosi in attesa di scorgere una qualche espressione nel
volto criptico di lui.
“Avete già fatto abbastanza per oggi”,
replicò con calma Neji, dandole le spalle e chiudendo gli occhi in modo
meccanico.
Dannazione. Allenarsi con lei stava
diventando una vera lotta psichica. Ogni volta che lei si avvicinava per
colpirlo, si faceva sempre più difficile combattere la tentazione di stringerla
tra le proprie braccia. Quando poi era lui a dover colpire lei, in quegli
attimi in cui Hinata si distraeva e gli lasciava campo aperto per una
controffensiva, le cose si complicavano ulteriormente. Il solo pensiero di
ferirla, seppure in forma lieve, lo dilaniava. Non poteva toccarla senza avere
la bramosia di carezzarla e lui sapeva bene che non era nel ruolo per poterlo
fare. Almeno, non in pieno giorno, quando il sole brillava alto nel cielo e il
clan Hyuga si popolava di silenziose spie.
Prima ancora di accorgersene, i suoi colpi
diventavano lievi fruscii impregnati di prevedibilità che lei riusciva a parare
senza troppo impegno. Neji si odiava per quella sua debolezza, il suo credo
Ninja gli imponeva di prendere con costanza e precisione quegli allenamenti
privati. Ma se seguire un credo equivaleva a ferire Hinata, allora la guerra
scattava in modo automatico. Non avrebbe potuto continuare così ancora a lungo,
lo sapeva. Ogni giorno, dopo quegli allenamenti, era lui ad uscirne sempre più
stanco. Di una stanchezza psicologica, mentale, che gli faceva bruciare i
neuroni e scoppiare la testa. Ogni colpo che lanciava doveva scontrarsi prima
contro l’irrefrenabile tentazione di allentare l’effetto in modo tale da non
doverle fare del male, e quando giungeva a destinazione era talmente impotente
da risultare ridicolo.
Non poteva continuare a quel modo, stava
impazzando. Eppure allo stesso tempo non poteva neppure pensare di rinunciare a
quegli allenamenti che gli davano sempre un’ottima scusa per godere ancora di
momenti passati con lei, seppur per qualche ora. Anche perché, nel caso avesse
gettato la spugna, Hinata avrebbe trovato qualche altro modo per continuare gli
allenamenti di sicuro. E avere anche solo il sospetto di poter essere
soppiantato da qualcun altro che l’avrebbe ferita senza remore, incurante del
suo sguardo di ghiaccio relegato in un angolo (impotente) ad osservare – senza possibilità di intervento – un
altro uomo, che non fosse stato lui, mettere le mani addosso a sua cugina.
Anche se solo per combattere.
“Neji!”, lei lo fermò prima ancora di
accorgersene, trattenendolo per un braccio con la sua presa gentile ma determinata.
Lui si voltò, gettando uno sguardo ambiguo,
e Hinata intercettandolo levò immediatamente la mano dal suo braccio.
“C- Cioè, N- Neji-niisan”, bofonchiò,
arrossendo allarmata quasi fosse stata colta in flagrante reato.
Neji strinse i pugni a quelle parole, ma
non mostrò nessuna emozione particolare mentre si guardava attorno con
circospezione. Una volta appurato che non ci fosse nessuno, il suo sguardo si
posò ancora sulla cugina che adesso aveva preso a tormentarsi le mani in
maniera ansiosa. Qualcosa nel suo cuore aveva smesso di funzionare a quella
visione o forse, semplicemente, aveva ripreso a farlo dopo anni d’inattività.
Lei non avrebbe dovuto chiamarlo semplicemente Neji, questo lo sapeva bene, ma
sentirle utilizzare quel maledetto suffisso (-niisan,
fratello) gli dava fastidio. Terribilmente fastidio. Equivaleva ad
ammettere che la loro storia era improbabile, impossibile. Non poteva, non voleva tollerarlo.
“Hinata”
Lei sobbalzò a quel cambiamento, a quella
mancanza di suffissi, e quando alzò lo sguardo per inabissarlo in quello del
cugino stava già tremando. Eppure, il sole brillava alto nel cielo (brividi di un tormento vorace).
Neji.
Disse, salvo poi accorgersi di averlo solo
pensato. Il suo corpo, il suo cuore, il suo respiro… La vita le si era fermata
dentro, semplicemente. Neji non si lasciava mai andare. Lui non era fragile
come lei. Neji era forte, sapeva come tenere a bada le emozioni. Neji non
dimenticava mai di utilizzare il maledetto ‘-sama’ in pubblico, il giorno. La
notte era diversa. Nella notte non c’erano mai occhi né orecchie indiscrete e
lui poteva permettersi di essere ciò che era. Ma il giorno Neji non dimenticava
mai il suo ruolo.
Eppure, adesso, Neji l’aveva chiamata
‘Hinata’ (Hinata soltanto, senza stupidi
suffissi a dividerli).
“Scusami”, le disse, in un sussurro
trasportato dal vento, e la sua voce parve diversa per un istante.
Lei alzò lo sguardo, perplessa, e il suo
cuore perse un battito nell’incrociare di nuovo il bianco dei suoi occhi. Neji
era tormentato. Come chi è consapevole di stare per fare una cosa sbagliata e
deve combattere contro di sé per farla. I suoi occhi bruciavano, ora, in preda
ad un combattimento interiore che lei non riusciva a capire ma poi lui
inaspettatamente avvicinò la sua mano alla propria e tutto perse di
consistenza. Gli alberi, i possibili occhi indiscreti, il terreno sotto i suoi
piedi…
C’era solo Neji, adesso.
Occhi che si cercavano, affamati.
Labbra che si desideravano, distanti.
Cuori che palpitavano, all’unisono.
Respiri che si mozzavano, nel petto.
Mani che si intrecciavano, inquiete.
“N- Neji”
E la sua bocca a cercare la propria,
tremante ed intrepida insieme, fino a risucchiarne l’essenza sotto un sole che
non avrebbe davvero dovuto esserci (che
sembrava guardarti e bruciare, perché quello era peccato – peccato! – e loro lo
sapevano).
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Bastardo.
Jungo strinse i pugni, così forte da
scorticare la pelle sensibile dei palmi con le proprie unghie.
I suoi occhi vagarono per il giardino
ancora un altro po’, irrequieti, prima di soffermarsi sulla figura della
cugina. Hinata si stava togliendo le scarpe sul porticciolo della sua dimora,
canticchiando una canzone con la sua voce melodiosa e intimidita. Le sue labbra
erano rivolte all’insù in un delizioso sorriso in grado di farle brillare gli
occhi marmorei di una luce iridescente che li rendeva paragonabili alla
bellezza dell’opale nobile. I suoi capelli scuri, invece, vagavano leggeri
sulla sua schiena, spostati dalla brezza aizzatasi da quella mattina.
Era così bella, che faceva male.
Non poteva accettarlo. Sua cugina andava
preservata, protetta dalle insidie del mondo, e avrebbe dovuto farlo Neji.
Eppure, ironia della sorte, era stato proprio quello scellerato ad intaccare la
purezza di Hinata con le sue parole ammaliatrici e le sue mani viziose. La
stava plagiando, trascinando in un vortice di peccati che lei non meritava.
Ogni suo gesto, ogni sua parola la rendeva un passo alla volta più lontana
dalla perfezione. La stava portando verso la strada della perdizione, in un
tunnel dal quale lei non sarebbe mai stata capace di uscire perché per natura Hinata
non diffidava di nessuno. Neji l’avrebbe indotta al peccato senza che lei se ne
rendesse conto e una volta all’Inferno, l’avrebbe abbandonata.
Ma Hinata non doveva temere. Lui non
avrebbe mai permesso a quello scellerato di un cugino di portare a termine il
suo folle piano. L’avrebbe salvata lui, Jungo, prima che fosse troppo tardi.
Hinata-sama
deve rimanere pura.
Doveva farle aprire gli occhi, prima che
fosse troppo tardi. Per una volta, la sua adorabile ingenuità sarebbe stata
messa da parte per il suo stesso bene. Hinata doveva aprire gli occhi.
“Hinata-sama”
Lei sussultò, presa in contropiede, ma
appena intercettò il suo sguardo non riuscì a celare un sorriso.
“J- Jungo-niichan”, balbettò arrossendo
Hinata, forse imbarazzata per essere stata sorpresa a canticchiare.
“Avete finito di allenarvi, Hinata-sama?”,
alla domanda di lui, la ragazzina sembrò impallidire paurosamente.
Jungo istintivamente strinse ancor più i
pugni delle mani. Era colpa di quel maledetto. Accidenti.
“S- Sì. N- Neji-niisan ha interrotto gli
allenamenti p- prima oggi”
Nel rispondere, gli occhi di Hinata si
erano come dilatati, impauriti, quasi fosse stata una cerbiatta in pericolo.
Cercava di scrutargli il volto, di recepire una qualunque cosa in grado di
mettere a tacere il crescente dubbio che adesso le animava il volto, ma senza
tuttavia avere il coraggio di affrontare di petto la questione. Come se allo
stesso tempo avesse avuto paura di saperne di più.
“Peccato. Mi sarebbe piaciuto venire ad
assistervi”, replicò pacato Jungo e ai suoi occhi vigili non scappò il sospiro
che lei si lasciò sfuggire a quella confessione.
“Oh. L- La prossima volta ma- magari”,
biascicò impacciata Hinata, abbassando il capo arrossito per nascondere
l’espressione sollevata apparsa sul suo volto diafano.
“Sì, magari”
“Jungo, cosa ci fai qui?”, ad interrompere
il loro breve dialogo, sopraggiunse una voce fredda come la calotta polare.
Jungo si voltò e i suoi occhi si
assottigliarono nel riconoscere la figura in avvicinamento. Neji. Quel
bastardo. Che c’è, era geloso che qualcuno rapisse Hinata al suo posto? O forse
era preoccupato che le dicessero la verità sul suo conto (demonio tentatore)?
“Niente d’importante”, rispose, secco ma
controllato come sempre, sforzandosi di accennare ad un sorriso prima di
voltarsi per andarsene.
Anche se non poteva vederli, Jungo lo
sapeva che adesso si stavano guardando. E che lui, con i suoi maledetti occhi,
la stava assoggettando fino a rapirne tutta la bellezza. Senza che Hinata
alzasse muscolo per impedire quello scempio.
Ormai
è troppo tardi. Le ha già deviato la mente.
Si disse, continuando ad avanzare nel fitto
del giardino. Doveva fare qualcosa, assolutamente. Prima che fosse troppo
tardi. Prima che Hinata perdesse tutta la sua sfolgorante bellezza. Prima che
mani umani e perverse corrompessero quel corpo perfetto di una dea.
Neji
deve scomparire.
Prima ancora di rendersene conto, gli occhi
di Jungo avevano puntato ad un obiettivo preciso (la fine del tormento della sua dea).
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“Non mi piace”
Hinata si voltò, stupita da quell’insolito
commento, e i suoi occhi un po’ sgranati affondarono nella severa figura del
cugino provocandole come al solito tanti piccoli brividi lungo tutta la colonna
vertebrale. Era sciocco sentirsi a quel modo, dopotutto lo conosceva da una
vita. Ma la verità era che con i sentimenti tutto diventava diverso, ogni
sfumatura s’ingrandiva fino a divenire una percezione quasi vibrante. I suoni,
le sensazioni, i tocchi, tutto si colorava di gradazioni diverse, più forti. E
faceva battere il cuore, anche se era sciocco, in un modo al quale non sarebbe
mai stata capace di abituarsi.
“Devi stargli lontana, Hinata”
Lei sobbalzò a quelle parole, guardandosi
attorno con aria guardinga prima ancora di accorgersene. Non era tanto per lei
che si preoccupava. Lei non si preoccupava mai
di se stessa, Kiba non perdeva occasione di ricordarglielo. Ma per lui. Il clan
Hyuga nascondevano mille insidie per lui, che apparteneva alla Casata Cadetta.
Anche solo il sentirgli pronunciare il suo nome senza suffissi onorifici,
poteva costargli caro.
Non poteva permettere che fosse lui a
pagarne tutte le spese. Se solo avesse potuto, si sarebbe estirpata il cuore e
gettato via. Ma l’avrebbe salvato?
“D- Di chi stai parlando?”, gli domandò
dopo un istante di silenzio Hinata, gli occhi a cercare tormentosi quelli del
cugino.
“Di Jungo. Non mi piace. Devi stargli
lontana”, ripeté, lo sguardo fisso davanti a sé a guardare qualcosa
d’indefinito.
Lei invece non aveva occhi che per lui,
sperando di carpire attraverso quel volto una valida spiegazione a quella nuova
direttiva (così sbagliata, per uno che
invece avrebbe dovuto riceverle le direttive). Ma Neji era uno specchio,
come sempre, scivoloso e trasparente sulle proprie emozioni. Un tempo lei aveva
avuto paura di lui proprio per quella sua sfuggevolezza che lo rendeva sempre
così inafferrabile e ad un gradino al di sopra di tutto – e di tutti. Ma poi
aveva aperto gli occhi e oltre a quel velo di finta indifferenza aveva trovato
un cuore che batteva, per quanto tenuamente. E lei lo aveva accarezzato, così,
senza neppure accorgersene, desiderando soltanto di sanare le ferite di una
vita. Ed era entrata in lui ancor prima che tutto quello avesse avuto inizio,
prima che lui la inchiodasse a sé con un bacio peccaminoso (i baci di Neji erano sempre peccaminosi, perché un cugino non baciava
una cugina a quel modo).
“È gentile, invece. Forse tu non lo sai,
ma- Lui è sempre gentile con tutti. Anche- Anche con me”
Hinata arrossì a quella confessione, quasi
avesse appena detto qualcosa di fuori posto, ma Neji stava già guardando oltre
la patina di rossore.
I suoi occhi diafani, infatti, avevano
catturato gelosi l’intera immagine della cugina soffermandosi in particolare
sulle sue mani che adesso si tormentavano impacciate. Neji adorava le sue mani
perché erano piccole e dal modo in cui le muoveva riusciva sempre a capire
quanto Hinata tenesse a qualcosa. Quando ad esempio era imbarazzata, le muoveva
in modo spasmodico cercando di controllare la sudorazione che le rendeva
scivolose. Quando invece era preoccupata, si tormentava soprattutto i pollici.
Quando era sulla difensiva, le intrecciava in movimenti continui. Come in quel
momento. Forse per questo la mascella di Neji si contrasse, rigida.
Hinata era sulla difensiva, il che
equivaleva a dire che non la pensava affatto come lui e che sarebbe stata
pronta a dimostrarlo se ne fosse stato necessario.
Dannazione.
Neji serrò i pugni, le labbra ormai ridotte
ad una linea sottilissima.
Hinata era troppo buona per accorgersi
della cattiveria negli occhi delle persone che la circondavano. La bontà,
quella, la individuava subito anche in chi non sembrava esserci affatto. Nella
sua estrema sensibilità aveva sempre cercato e alla fine scovato nel prossimo
quella scintilla in grado di convertire anche il peggior peccatore (ma che, ironia della sorte, non era
riuscita a purificare anche la sua anima ormai corrotta). Proprio per
questo i suoi occhi erano chiuse a forme di cattiveria. Semplicemente, Hinata
non le vedeva. Lui sì, invece. Lui era bravo a vedere la cattiveria salire
negli occhi delle persone. Come con Jungo.
“Soprattutto
con te, Hinata”, ribatté aspro Neji, rifiutandosi di guardarla in volto.
Se solo l’avesse fatto, avrebbe scorto in
quegli occhi tanto simili ai suoi eppure così differenti, tutta la perplessità
che vi regnava. Ma era proprio per evitare che quegli occhi lo ingannassero,
facendogli perdere ogni forma di razionalità e rendendolo burattino del suo
sguardo delicato. Se solo l’avesse guardata negli occhi, tutto l’astio per
Jungo sarebbe scivolato via e lui avrebbe inevitabilmente abbassato le difese,
lasciandogli campo per colpire. Non poteva permetterselo. Hinata era così
fragile ed ingenua che il minimo colpo l’avrebbe spezzata. Non poteva
permetterlo. Non poteva vivere senza di lei, ormai lo sapeva (infondo, l’aveva sempre saputo).
“Devi stargli lontana, Hinata-sama”, ribadì
per la terza volta Neji, prima di alzarsi e scivolare via sotto lo sguardo
stupito della cugina che adesso protendeva una mano verso di lui a volerlo
afferrare, senza sapere che era già diventato un’ombra in una casa di ombre.
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Neji camminava a passo lento ma deciso, il
portamento maestoso di un’aquila reale che vigile sorvegliava l’immensa tenuta
del clan degli Hyuga. Gli occhi, fermi su un’immagine imprecisa dinanzi a sé,
avevano cristallizzato in sé le sfumature carminio del vespro fino ad
assimilarle e ad amalgamarle in un unico inscindibile col bianco candido delle
iridi. Eppure, contrariamente alle aspettative, anziché addolcirne il riflesso
quelle deliziose scintille mattone contribuivano a valorizzare la postura
austera ma elegante del Cadetto.
Rock Lee lo aveva accusato di essere
freddo talmente tante di quelle volte, da averne perso il conto ormai. E già
non importava più perché lo sapeva lui e lo sapevano tutti che era soltanto
sublime apparenza. La realtà era così lontana da come si presentava da
spaventare per l'abisso enorme di emozioni e di sentimenti che invece sapevano
infiammare un cuore stanco di soffrire (ma che ineluttabilmente
portava gli altri alla sofferenza).
Il Quinto Hokage aveva appena comunicato, a
lui e al suo team, che l’indomani sarebbero dovuti partire per un’altra
missione. Presumibilmente, sarebbe stata la solita missione con fatica tanta e
rischio zero. La cosa lo scocciava e parecchio anche, perché non gli piaceva
rimanere lontano da casa. Che cosa bizzarra, poi, a ben pensarci. Lui aveva
sempre odiato rimanere in quella casa che non era mai stata veramente casa sua.
Almeno fino a quando non aveva capito che avere una casa, non significava
soltanto possedere un tetto sopra la testa (avere
una casa era molto di più, davvero). Avere una casa significava avere una
persona disposta ad accettarti nella sua vita, nella sua routine, nei piccoli
gesti. Significava ritrovarsi nei suoi sorrisi, rispecchiarsi nei suoi occhi,
affiorare sulle sue labbra. Avere una casa, per lui, significava semplicemente
avere accanto Hinata.
Ma lei non c’era. Hinata era partita quella
mattina e assieme al suo team avrebbe fatto ritorno di lì a breve.
Anche quello gli seccava, in effetti. Più
del resto. Più del dover impegnarsi nell’ennesima missione di basso livello.
Eppure non sapeva se era più perché ci fosse Kiba con lei – così maledettamente
innamorato di lei da non fingere neppure indifferenza – o perché
indipendentemente dal tipo di missione, uscire da Konoha con quel tipo di occhi comportava dei
rischi. Non che non si fidasse di lei o che non avesse capito le sue
potenzialità, al contrario. Semplicemente non poteva sopportare di non esserle
accanto semmai ce ne fosse stato bisogno (avrebbe
dato la vita per lei, ma non perché gli era stato ordinato di farlo).
Strinse i pugni, istintivamente, e accelerò
l’andatura. Prima ancora di rendersene conto, aveva già deciso di allenarsi.
Tenersi in allenamento, dopotutto, gli impediva di pensare e di crogiolarsi in
tutti quegli infruttuosi pensieri (Hinata
era con Kiba, Hinata era fuori Konoha, Hinata non era con lui).
Ma prima ancora di riuscire a superare la quercia
secolare alla sua sinistra, Jungo si era già parato sulla sua strada
impedendogli di proseguire.
“Neji”
“Jungo”
I loro occhi s’incontrarono, si
scontrarono, si studiarono. E rimasero così per un tempo infinito, forse,
soltanto ad osservare le mosse dell’altro e a fiutare qualsiasi cosa ci fosse
da fiutare, nell’aria. Prima che Jungo ghignasse, prima che Neji si ferisse i
palmi con le unghie, prima che il serpente avvelenasse (irrimediabilmente?) l’aquila reale per costringerla a planare.
“È bella Hinata-sama, non è vero? Così
bella, che ci si illude quasi di possederla, la notte”
Provocante, strisciante, invadente come il
sibilo dell’aspide pronto a sbranare il suo avvoltoio (ma d’altronde, quella era la legge per sopravvivere, giusto?).
Mentre l’aquila cascava in picchiata, le ali tarpate dal veleno che,
lentamente, aveva iniziato ad infiltrarsi nella sua pelle. Indelebilmente.
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Era successo tutto così, all’improvviso.
Metà clan Hyuga si era riunito scalpitante attorno a lui prima ancora di
riuscire a metabolizzare la sequenza di avvenimenti. Sentiva le grida, ma senza
ascoltarle davvero.
Incredibilmente tutto si era fatto sfocato,
informe, sotto ai suoi occhi fissi su un’unica preda (vittima del suo kunai insanguinato). Jungo era lì, steso a terra,
a godersi le attenzioni di tutti e a stringersi in modo convulso (bugiardo) la sua spalla ferita. Proprio
lì, all’altezza di quel cuore che aveva mancato soltanto per un soffio – e già
si pentiva di averlo volontariamente mancato.
Qualcuno gli aveva afferrato le braccia e
incrociate dietro la schiena, senza premura, ma il suo corpo era ormai del
tutto estraneo alla sua mente.
Jungo
lo sa. Sa tutto. L’hai sempre saputo, vero bastardo?
Avrebbe voluto gridare, a sua volta,
frustrato da quella foga di pensieri che a stento gli concedeva la possibilità
di respirare. Però non ci riusciva, quasi che le parole fossero scivolate via
dal pugno della sua mano assieme a quel kunai che adesso giaceva insanguinato
ai piedi della sua preda. La prova che lo inchiodava, in via definitiva. Ma non
gli importava, non così tanto da pentirsi di ciò che aveva fatto. La sua mente
geniale era ormai del tutto presa da ciò che era successo, dalle lame affilate
che velenose gli avevano colpito le orecchie.
“È
bella Hinata-sama, non è vero? Così bella, che ci si illude quasi di
possederla, la notte”
Jungo gridava, davanti a Neji, fingendo un
dolore che non sarebbe mai stato abbastanza per uno come lui.
Neji strinse i pugni, ancora di più,
sforzandosi di mantenere il controllo. Le parole che ancora gli ronzavano
attorno, fastidiose e tediose come uno sciame di api impazzite.
Ma come aveva fatto a non accorgersi del
pericolo? Salutandolo quasi distrattamente, mentre il serpente aveva giù
puntato al cuore per colpire.
“Ma
tu lo sai di cosa sto parlando, dico bene Neji-niisan? – sorriso maligno e
occhi da serpe, mentre l’aquila si sforzava di rimanere in volo – Quante volte
sei riuscito a toccarla, eh?”
“Non capisco, ma perché l’ha fatto?”
“Jungo, come ti senti?”
“Qualcuno ha chiamato Hiashi-sama?”
“Quante
volte hai baciato le sue labbra perfette? Senza mai sentirti inadeguato –
stupore. Bastardo – per lei?”
“Sta
zitto”
“Scommetto
che lo sai anche tu – l’ultimo morso del serpente, quello letale – che lei è
troppo per tutti. Per te. Per me”
“Zitto
ti ho detto!”
“E
allora perché non provare a trascinarla all’Inferno, con te? È questa la tua
vendetta, non è vero?”
“Z
i t t o”
“Ma
non ci riuscirai mai, Neji. Mai”
“J- Jungo-niichan!”
Nonostante il chiacchiericcio, nonostante
il corpo atrofizzato, nonostante l’odio salire viscerale, Neji la distinse
subito la sua voce.
Hinata!
E il cuore perse mille battiti quando i
suoi occhi fermarono l’immagine che gli si parò dinanzi.
Jungo ghignava nella sua direzione, attento
a farsi scorgere solo da lui, mentre Hinata piangeva per la ferita che lui gli
aveva impresso.
“Anche
se l’hai macchiata, io saprò redimerla dai suoi peccati. Rassegnati e scompari,
Neji-niisan, lei non sarà mai tua. Hinata deve essere mia. Mia, mia, mia. Mia”
“No!”
Neji si tuffò verso di loro, ma prima
ancora di rendersene conto era già rivolto con la faccia verso terra,
trattenuto da qualcuno della folla di Hyuga adunatasi.
“Ne- Neji-niisan”, Hinata singhiozzava ma
lui non poteva rassicurarla con lo sguardo perché la presa sulla sua testa gli
impediva i movimenti. “Ma, io no- Non capisco. Per- Perché?”
“Mi dispiace, Hinata-sama”
Maledetto.
Neji serrò la mascella, furente. La stava
deviando, forse l’aveva già deviata. Un flash. Era un piano, come aveva fatto a
non capirlo prima? Jungo l’aveva fatto apposta, aveva studiato tutto a
pennello. L’aveva provocato, sicuro della controffensiva, e quando lui gli
aveva lanciato quel kunai contro era stato attento che qualcuno li vedesse (ma non sentisse, il bastardo). Ed aveva
finto stupore nel poggiare di nuovo il suo sguardo su di lui, quasi che non
conoscesse il motivo di quella pugnalata. Come se fosse stato Neji, il pazzo.
“Che sta succedendo?”, e la voce di
Hiashi-sama a sovrapporsi alle altre, imponendo il silenzio con la sola
presenza.
“Neji ha attaccato Jungo, signore”, e
l’inizio dell’Inferno sottoforma di menzogna (ma l’Inferno nasce sempre come menzogna, o no?).
###
Hinata piangeva. Singhiozzava e piangeva,
fragile come una bambola rotta. Jungo la guardava, in silenzio, e il suo cuore
piangeva con lei ma senza rimpianto.
Mi
dispiace Hinata-sama. Ma era necessario. Era vitale.
“P- Perché?”, chiese ancora, verso un muto
ascoltatore, prima di soffocare l’ennesimo gemito in un singhiozzo strozzato.
Jungo le si avvicinò, un’ombra sinistra a
scivolare verso la luce, e la sua mano si poggiò delicata sulla spalla di lei.
“Hinata-sama”, la chiamò, la voce
trasudante un’emozione che a stento riusciva a tenere sottocontrollo mentre lei
sobbalzava, impaurita.
“J- J- Jungo-niichan”, balbettò,
impreparata alla sua visita che l’aveva trovata disperatamente fragile.
Ma Jungo già non l’ascoltava più, la mente
rapita dal turbinio indescrivibile che l’aveva colto. Era così strano sfiorarle
la spalla nonostante il kimono floreale a frapporsi al contatto diretto. Era piccola,
Hinata, come l’aveva sempre immaginata. Ed era così bianca che davvero non poteva essere una ragazzina qualunque. Era
stata perfetta, sul serio. In ogni suo gesto, in ogni sguardo o in ogni
sorriso, Jungo l’aveva vista perfetta. Fino a quando quel maledetto non era
arrivato a macchiarla, a trascinarla sempre più in giù, profanando la
consacrata bellezza della cugina. E anche se adesso Neji non era con loro,
anche se aveva fatto in modo di liberarsene, il suo tocco rimaneva impresso su
quella pelle avorio in modo marcato.
Non poteva tollerarlo.
Anche quelle lacrime, che lei si ostinava
ad asciugare con l’ampia manica del kimono, erano un segno del suo passaggio.
Neji l’aveva infangata.
Dannazione.
“S- Scusa. N- Non dovrei pi- piangere, è
solo che…”, lei abbassò il capo, mortificata, prima di alzarlo di nuovo
ricordandosi della sua ferita. “C- Come va la spalla?”
Jungo per tutta risposta rimase come
incantato a fissarla per un lungo istante, incurante di metterla in soggezione
attraverso i suoi sguardi (insani, malati
come la sua anima sibilante).
Era così bella, la sua preziosa cugina.
Così fragile eppure così forte allo stesso tempo. Non poteva sopportare che
altre mani avessero già toccato la sua spalla minuta e che altre labbra si
fossero già cibate del suo sapore. Hinata doveva rimanere illibata, ma Neji
aveva calpestato anche quello. Lui l’aveva toccata e chissà quale altro peccato
l’aveva indotta a perseguire.
Ma per sua fortuna, Hinata aveva la
possibilità di redimersi.
Il
peccato si cancella con altro peccato. Due negazioni affermano. Non temete
Hinata-sama, vi aiuterò io a raggiungere la perfezione di un tempo.
“Andrà meglio, adesso. Ve lo prometto,
Hinata-sama”, assicurò e dai suoi occhi scintillò una luce sinistra che,
istintivamente, la fece fremere.
“A- Adesso devo a- andare”, farfugliò,
tentando di rialzarsi dal cuscino su cui era accovacciata.
Si impose di stare calma mentre faceva
scivolare la spalla dalla presa un po’ troppo salda di Jungo e si rimetteva in
piedi. Si sforzò di sorridere quando finalmente ebbe raggiunto la porta,
dandosi della stupida per aver anche solo lontanamente pensato cose cattive. Ma
quando si voltò nella sua direzione, il cuore si fermò e il terrore le aprì gli
occhi tenuti chiusi fino a quel momento (Neji
aveva ragione, Neji non l’aveva colpito per gelosia, Neji aveva capito tutto,
tutto! Come aveva fatto a non accorgersene? A dubitare di lui?).
Jungo le teneva una mano sulle labbra per
impedirle di parlare e l’altra aveva già afferrato artiglia il suo braccio, mentre
il respiro caldo di lui bruciava sulla sua pelle irritata dalle lacrime.
“È per il vostro bene, Hinata-sama. Non
dovete aver paura. Non vi farò del male, è una promessa”
La sua voce le riempiva la testa,
sgradevole e melliflua come non era mai stata. Il suo corpo a comprimere il
suo, schiacciato alla parete. I suoi occhi, malvagi, nei propri a volerne
catturare l’essenza – la stava mangiando.
E lei piangeva e pregava, impossibilitata nei movimenti (avvolta dalle spire che le facevano dimenticare di essere una ninja),
invocando un unico nome – il solo nome che le sue labbra avrebbero mai
pronunciato.
Neji,
Neji, Neji!
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Il primo bacio che aveva dato ad Hinata,
era stato incerto, quasi tremante.
Non ricordava nemmeno più come ci fosse
finito, lui, tanto vicino a lei. Forse l’aveva fatto di proposito, o forse ci
si era ritrovato e basta, senza accorgersene. Non lo ricordava, ma il bacio –
oh, quello! – lo rimembrava alla perfezione. Scolpito in modo indelebile nella
sua memoria, nella sua anima.
All’inizio, si era trattato di un ingenuo
poggiarsi di labbra. Lei aveva spalancato gli occhi, stupita da quel gesto, e
lui aveva tentennato, spaventato dal suo gesto. Ma quando aveva incrociato
quelle iridi lattee in cerca di qualcosa (potevo?),
tutta l’incertezza era sparita: dissolta nel tempo e nello spazio. Il suo posto
era quello, lui era nato per lei.
Soltanto per lei.
“Ascolta
Neji, tu vivi per proteggere Hinata-sama della Casata Principale e le abilità
degli Hyuga” (*)
E allora l’aveva baciata, di nuovo, ma con
più decisione stavolta. Assaporando ancora il sapore delle sue labbra lampone,
perdendosi nel tocco della sua mano tra i capelli lisci della cugina,
annullandosi nella carezza esitante che lei aveva rivolto alla sua guancia
austera. Attento a non osare troppo, a non interferire nella sua fragilità con
la durezza dei suoi modi per non spaventarla, come in passato aveva sempre
fatto. Ma anche allora era stato per lei, dopotutto, per cercare
quell’attenzione che gli era stata negata sin troppo presto. Per avere i suoi
occhi su di sé, almeno una volta, anche se animati di spavento. Per sentire il
suo nome sulle sue labbra e i suoi occhi cristallizzarsi sulla sua figura
sempre un po’ troppo severa. E l’aquila si era trasformata in usignolo, così,
all’improvviso.
Soltanto per lei, ancora una volta.
Vivendo per Hinata.
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“La- Lasciami andare, ti prego. J- Jungo,
lasciami andare”
Hinata singhiozzava, implorante, mentre la
mano del cugino era già arrivata sulla sua spalla scoperta dal kimono. Ormai il
suo corpo era scosso da brividi di terrore e di orrore per quello che stava
accadendo, che la rendevano debole e fragile come cristallo.
“Dimentica Neji, Hinata-sama. Lui non vi
merita. Non vedete come vi ha ridotta? Vi ha macchiata, Hinata-sama, per
vendicarsi di voi. Ma io non gliel’ho permesso, io vi redimerò, Hinata-sama, e
lo cancellerò solo per voi”
La sua mano si era insinuata verso il suo
petto, strisciante, ma non fu quello a farle ritrovare la forza per opporsi a
quello scempio.
“Non ti permetterò di fare del male a Neji,
mai!”, gridò, con quanto più fiato aveva in gola, raccogliendo le forze per
scostarlo brutalmente da sé.
Jungo barcollò sulle gambe, impreparato da
quel rinnovato vigore, ma il suo sguardo anziché stupirsi s’infuriò. I suoi
occhi, ridotti a fessure, la guardavano con distacco adesso a volerne esaminare
ogni minima contrazione del corpo. Hinata rabbrividì, ma non si mosse dalla
posizione difensiva assunta. Doveva stare calma, ragionare a mente lucida come
le era stato insegnato. Doveva farlo, ma per Neji.
“Non dovete prendere le sue difese, lui vi
ha fatto del male!”, la aggredì verbalmente Jungo, furente.
“No, tu mi stai facendo del male!”, strinse
i pugni Hinata, d’istinto, cercando in quegli occhi qualcosa del vecchio Jungo.
Era lì, ne era certa. Era ancora lì quel
ragazzo gentile che l’aiutava a medicarsi. Il vecchio Jungo… Era ancora lì,
doveva esserci per forza.
“Mi dispiace, Hinata-sama”, lui abbassò lo
sguardo, all’improvviso, pentito.
La furia cieca di qualche secondo prima era
scomparsa, eclissata dalla consapevolezza forse di aver fatto un errore. Hinata
si rilassò subito, nonostante il tremore a ricordarle la paura temuta.
Istintivamente, la sua mano si era allungata verso il braccio del cugino a
volerlo rassicurare, nonostante tutto. Perché Jungo era buono, era buono lo
sapeva. Aveva solo perso la testa, ma il pentimento era segno di rimorso e già
lei sentiva di poterlo perdonare (Hinata
tendeva a vedere solo il meglio delle persone, dopotutto).
“Mi dispiace… Davvero”, ripeté lui, la voce
intinta di una nota di rammarico che a stento le faceva ricordare ciò che era
appena successo.
Hinata sorrise, appena, ma l’incertezza era
scomparsa perché Jungo era veramente
dispiaciuto e non si infierisce su chi si è già pentito.
“Non p-”
Le dita si aggrapparono con forza al
braccio di Jungo, mentre la vista le si annebbiava e lei, stremata, si lasciava
andare senza volerlo contro il corpo di lui.
###
“Neji, ti hanno visto colpire un tuo
compagno di Casata”
La voce di Hiashi era dura, inflessibile.
Il Cadetto abbassò il capo, la testa persa in ben altri pensieri, mentre i
pugni rimanevano con ostinazione sigillati.
“Così vicino al cuore che avresti potuto
facilmente ucciderlo. Non hai nulla da dire a tua discolpa?”
Il capoclan Hyuga lo fissava ieratico,
scrutando nel viso del nipote alla ricerca di una qualche forma di risposta. Ma
Neji si intestardiva in quel silenzio infruttuoso, gli occhi fermi a terra
senza tuttavia scorgere nulla. Le labbra strette in una linea sottilissima.
“No”, rispose solo, il tono reverente come
al solito nonostante lo sguardo ad alzarsi per puntarsi in quello dello zio.
Hiashi lo esaminò ancora per un lungo
istante, lasciandosi scrutare a sua volta da Neji. Era bravo ed un ottimo
ninja, che di sicuro non sapeva cosa significasse mancare il bersaglio. Ed era
proprio quello a trattenerlo dal ripudiarlo (o
era il senso di colpa che si trascinava da secoli?).
Aveva analizzato lui stesso lo stato della
ferita di Jungo e, per quanto vicina al cuore, l’aveva magistralmente evitato.
Qualcuno aveva detto che era stata mera fortuna, ma Hiashi lo sapeva che non
poteva trattarsi solo di una fatalità. Neji non sbagliava mai un colpo, l’aveva
allenato lui stesso, sapeva come combatteva. I kunai erano sempre andati a
segno, sempre. Centrando il
bersaglio, senza mai mancarlo nemmeno di un soffio. Dunque, per quanto
irrazionale, ci poteva essere soltanto un motivo per quello: Neji aveva
volutamente mancato il cuore. Neji l’aveva salvato di sua spontanea volontà,
non per sfortuna, e questo in qualche modo faceva del nipote una persona degna
di perdono.
Dopotutto, capitava a tutti di sbagliare
ogni tanto.
“Sta lontano da Jungo. Ti terrò d’occhio,
Neji. Che non si ripeta mai più, o verrai ripudiato da questo clan per sempre”,
proclamò alla fine, abbassando il capo come gli era insolito fare.
Neji non rispose, né annuì, limitandosi
invece ad osservarlo ancora un po’ e a chiedersi quanto di suo padre dovesse
vederci, in lui, per perdonarlo a quel modo.
###
“Bastardo!”, Neji urlò e Hinata, anche se
aveva chiuso gli occhi, la distinse subito la sua voce.
Forse perché, aveva coinciso con la
rinascita del suo cuore ferito.
“Non la toccare‼”
Le mani di Neji avevano afferrato Jungo per
le spalle e con uno scatto felino l’avevano scaraventato a terra con facilità,
complice la sorpresa di quello di ritrovarselo ancora tra i piedi.
“Hinata, stai bene? Ti ha fatto del male?”
Jungo lo stava ancora fissando con occhi
sgranati che Neji già si era rivolto alla sua amata cugina per assicurarsi che
stesse bene. L’aveva cercata per tutta la casa una volta uscito dallo studio
dello zio, messo in guardia dalle minacce che Jungo gli aveva rivolto prima che
il kunai gli s’impiantasse nella spalla. E, in un crescendo di emozioni,
l’aveva scorta piangere sulla spalla del bastardo
mentre quello ne approfittava per far scorrere la sua lurida mano verso
l’interno del kimono a voler macchiare la candida pelle di Hinata.
Non c’aveva visto più. Come un toro che,
nell’arena, scorge il rosso, era partito in quarta pronto a sbranarlo e ad
ucciderlo, dimentico dell’ultimatum impostogli dal suo capoclan. Solo quando
Jungo era caduto a terra e i suoi occhi erano scivolati su Hinata, la collera
era in parte scemata per venire sostituita dalla preoccupazione, e
dall’angoscia, e dal dolore per averla trovata in quello stato quasi
catatonico, il viso mortalmente pallido e gli occhi svuotati di ogni vitalità.
La stava uccidendo, quel maledetto.
Per la prima volta in vita sua, mentre con
mani incerte le risistemava il kimono sulle spalle, Neji si ritrovò a pregare.
A pregare per lei. A pregare di non essere arrivato quando ormai era troppo
tardi per la sua anima ingenua (Hinata
non lo meritava, lei che aveva sempre cercato nel cuore delle persone la
scintilla di bontà).
“Hinata”, il suo richiamo era un sussurro
di dolore e di carezze insieme, le sue mani ferme all’altezza delle spalle
ormai completamente coperte dal kimono.
I suoi occhi, spenti a sua volta per il
male che riusciva a leggere in quelli di lei, persi nel volto angelico e
spossato della cugina. Come si poteva infierire a quel modo sul suo animo
caritatevole?
“È
gentile, invece. Forse tu non lo sai, ma- Lui è sempre gentile con tutti.
Anche- Anche con me”
Hinata era stata sciocca ad impedirsi di
vedere la cattiveria, ma Neji non si sentiva di fargliene una colpa. Non era
colpa sua, dopotutto, se si sforzava sempre di capire tutti. Anche lui che un
tempo aveva cercato di ucciderla (idiota).
Se lei non fosse stata così, forse lui non avrebbe mai capito cosa significasse
avere una casa, essere amati. Ma il
fatto stesso che lei fosse così docile, faceva nascere negli altri il desiderio
di ferirla e questo lui non riusciva ad accettarlo. Se solo non fosse arrivato
in tempo, se solo non avesse corso, se solo non…
Strinse i pugni, come aveva imparato a fare
negli ultimi tempi, e il suo sguardo saettò di nuovo su Jungo, steso a terra
con espressione spaesata.
“Tu”, ringhiò Neji, pronto ad ammazzarlo
con le sue stesse mani per quello che aveva tentato di fare.
Ma la presa gentile attorno al suo polso
glielo impedì. Il Cadetto girò di nuovo la testa a rincontrare di nuovo gli
occhi della cugina che, stavolta, sembravano essere ritornati a vedere. Il
cuore, di nuovo, a fermarsi per quella dolcezza che nonostante tutto sapeva
leggerle dentro.
“No”, scosse il capo Hinata, nuove lacrime
a riempirle lo sguardo. “Ti prego, non farlo. Non- Non farlo”
Neji sgranò gli occhi a quella richiesta,
basito. Come poteva chiedergli quello? Come poteva non volerlo morto dopo
quello che le aveva fatto? Come poteva impedire alla sua ira di sfogarsi?
“Ti scongiuro, Ne- Neji”, singhiozzò lei,
stringendo la presa un po’ più forte mentre lo sguardo affondava nel suo per
imprimergli la calma.
Non voleva altro sangue, non voleva altra
vendetta. Non voleva niente, solo dimenticare. Solo cancellare ogni cosa e, e,
e…
NEJI!
Il suo cuore gridò e il fiato le si gelò
nei polmoni quando i suoi occhi scorsero il movimento fulmineo di Jungo alle
spalle di Neji. Il kunai macchiato pronto ad infierire e gli occhi, pazzi,
pieni di un odio mai consumato.
“Non l’avrai mai!”, ringhiò incattivito il
Cadetto, folle come non lo era mai stato (come
lei non aveva mai voluto vederlo), mentre l’arma s’impiantava nel petto.
Le gocce di sangue colarono sul pavimento
aprendosi in una sempre più larga chiazza scura. Il tempo, lo spazio, il mondo,
sembrava che tutto avesse smesso di andare avanti. Si era fermato tutto, tutto,
persino il respiro, persino il cuore, persino la vita. Salvo poi riprendere a
scorrere, impazzita, sotto il peso di un corpo che lentamente scivolava a
terra, imbrattandosi nel suo stesso sangue. Gli occhi ancora aperti a guardare
un punto che ormai già non vedevano più e le labbra, immobili, socchiuse in un
urlo che però non avevano avuto la forza di lanciare.
Hinata si portò una mano tremante sulla
bocca, incapace di emettere suono. Gli occhi sgranati riempiti del corpo ormai
privo di vita. Il kunai, indelebilmente macchiato del sangue degli Hyuga,
vicino i suoi piedi freddi.
Il sangue porta sempre altro sangue,
avrebbe dovuto ricordarselo, mentre l’altro superstite scivolava a terra senza
forze.
Ucciso.
Ucciso. Ucciso.
Le mani imbrattate del colore del peccato (il rosso) e le pupille diafane che
immobili si erano fossilizzate sul predatore divenuto in un lampo una preda.
Sì, ma una preda morta.
“N- Neji”, ed Hinata barcollò verso di lui,
cadendo a terra solo una volta che gli fu di fronte, stringendo quel corpo
fragile a sé per sentirne ancora il calore.
Ma Neji era freddo ed era rigido come una
statua di ghiaccio, mentre i suoi occhi si fissavano verso quella chiazza di
carne e di sangue. Lei allora provò a ridargli vita tenendolo ancora più
stretto contro di sé, nascondendo la propria fragilità nei suoi capelli scuri e
sigillando le labbra per non dover singhiozzare.
“Neji”, ripeté in un sussurro disperato,
ennesimo tentativo per riportarlo da sé.
Aveva bisogno di lui, aveva bisogno del suo
sguardo per un’ultima volta, aveva bisogno di sentirsi amata attraverso quegli
occhi che da quando si erano aperti la prima volta non avevano mai smesso di
vederla davvero. Aveva bisogno di sentirsi dire che non era colpa sua, almeno
per una volta. Soltanto per stavolta.
“H- Hinata”
La sua voce era roca, il suo nome più
simile ad un farfuglio che ad una vera parola. Ma anche così, era abbastanza.
“Neji!”, ripeté, stringendolo più forte e
lasciandosi sfuggire un singhiozzo dal sorriso di gioia che l’aveva nonostante
tutto attraversata.
La mano di lui scivolò sulla sua schiena,
carezzevole e un po’ fiacca, eppure sufficientemente calda da dirle che era vivo. Nonostante tutto. Era vivo.
“N- Neji, devi andartene. De- devi
scappare”, e poi la razionalità a prevalere sul resto, sul dolore, sul
sollievo, sul corpo morto di Jungo.
L’avrebbero ucciso. Neji: l’avrebbero
ucciso. Sarebbe stato il primo, dopo essere caduto nella tela del ragno già una
volta.
Non poteva permetterlo e questo pensiero,
da solo, bastò a ridarle tutta la forza di cui era capace. Con uno scatto di
reni, Hinata si rimise in piedi e, con veemenza, costrinse Neji a fare
altrettanto. Lui si alzò, più per inerzia che per una reale volontà, ma non
importava. Doveva andarsene, fuggire lontano, il più lontano possibile e…
Le mani di Neji erano macchiate. Di sangue.
Il sangue (malato) di Jungo.
Hinata s’irrigidì e i suoi occhi si
assottigliarono, mentre lo trascinava senza sforzi verso il lavello. L’acqua
era fredda, ma lei non vi badò mentre intrufolava le sue mani e quelle di Neji
sotto il suo getto. Strofinò, strofinò e strofinò ancora con quanta più energia
riusciva a disporre. Sfregò con talmente tanta forza che alla fine le mani di
entrambe erano infiammate e irritate, ma almeno erano pulite. Poi, ritornando sui suoi passi, raccolse il kunai nel punto
in cui l’aveva visto cadere e, ritornando al lavabo dove aveva lasciato un
innaturalmente rigido Neji, si premurò di lavare anche quello fino a quando
delle macchie carminio non rimase che un vago ricordo.
Infine chiuse l’acqua e, girandosi verso di
Neji, gli prese di nuovo le mani tra le sue per consegnargli il kunai ormai
ripulito. Lui non oppose resistenza, i suoi occhi vuoti ed inespressivi, ma lei
sapeva che non c’era tempo per ulteriori indugi e, ricorrendo all’ultima
scintilla di vita rimastale nel corpo, lo trascinò fino all’entrata (o uscita, in quel caso) del clan Hyuga.
Konoha era immobile e buia, segno che la
sera era scesa come un mano protettivo sopra le loro teste. La condizione
ideale, valutò Hinata, per permettere ad un fuggitivo di scappare.
“Corri, Neji. Devi scappare e…”, ma non
riuscì a terminare la frase perché la luce riapparsa negli occhi di Neji la
fece sussultare al punto da risucchiare tutto il resto.
“No. Non posso farlo”, denegò con sincerità
disarmante lui, guardandola dritto in quelle iridi diafane messe in risalto
dalla luce.
Neji era serio, deciso, ed Hinata avrebbe
voluto soltanto scoppiare a piangere, ma non poteva permettersi di essere
fragile anche in un momento come quello. Perciò, scuotendo a sua volta il capo,
si costrinse a mostrarsi inflessibile.
“Sì, puoi. Devi, Neji. Qui… Ti uccideranno”, lei lo fissò decisa, di una
sicurezza che non aveva mai avuto in tutti quegli anni.
E lui se ne sentì toccato, profondamente.
Sarebbe stato impossibile, il contrario.
“Ma…”, tentò di dire, di protestare, però
la mano di Hinata sulle sue labbra gli impedì di aggiungere altro.
“Devi andartene, Neji. De- devi fuggire”,
singhiozzò, nonostante il sorriso ad infondere coraggio.
Stava soffrendo. Forse persino più di lui,
ma lei era sempre stata quel tipo di persona che si preoccupavano un po’ troppo
per gli altri e sempre troppo poco per se stessi.
Neji le strinse con dolcezza una mano,
portandosela alle labbra e baciandogliela con amorevole reverenza.
“Vieni via con me, Hinata”, la implorò
senza remore, occhi negli occhi.
Ma lei scosse il capo a quell’offerta,
forse con fin troppo vigore.
“Non posso farlo. Ti rallenterei il passo
e…”, si mordicchiò il labbro inferiore con i canini, sforzandosi di non
piangere.
Neji non avrebbe capito, ma almeno sarebbe
vissuto. Doveva fingere per lui. Mentire, in quel momento, equivaleva a
salvargli la vita.
“Verrai a riprendermi. Un- un giorno.
Quando le acque si saranno calmate e- e tu potrai rientrare in città senza il
rischio di essere ucciso. O anche prima, ma- ma non adesso. Non adesso, Neji”,
lo fissò, sperando e pregando che lui non insistesse, soffocando per quella
bugia che suo malgrado era stata costretta a dire.
Neji la guardò, perdendosi in quel volto a
volerne ricordare per sempre ogni minima sfumatura. Poi, con invidiabile calma,
si chinò verso di lei e le sue labbra si concessero di saggiare di nuovo il suo
sapore. Il bacio di Hinata era lo stesso della prima volta. Un po’ incerto
all’inizio, ma caldo e deciso poi. Istintivamente le sue dita cercarono quelle
della cugina, impaziente. Ed erano di nuovo mani intrecciate, per un’ultima
volta. E cuori che palpitavano, e respiri che si mozzavano, mentre le prime
grida d’allarme si diffondevano per il clan, per Konoha.
“D- devi andare”, disse infine Hinata
quando si furono separati, gli occhi chiusi nel disperato tentativo di
conservare quell’ultimo bacio. “Scivola, vai via, Neji”
Lui la fissò e per un istante non sembrò
intenzionato a muoversi, ma poi lei lo spinse con dolcezza verso le strade di
Konoha e lui dovette lasciarla per forza. Non senza averla baciata di sfuggita
ancora una volta. Per l’ultima volta (l’ultima,
davvero). E Hinata lo fissò correre via come un fuggitivo – Neji era un fuggitivo, adesso – e le sue
labbra si sforzavano di mantenere in vita quel sorriso mentre le mani andavano
a toccare un punto preciso all’altezza del ventre.
Neji era già scomparso nella notte quando
la maschera cedette e le luci del clan, di Konoha, iniziarono a riempire la
scena.
Scusami,
Neji.
E il suo ultimo pensiero scivolò a lui, al
suo amato cugino, che adesso correva al riparo (in salvo) ignorando il sangue che intanto macchiava le mani di
Hinata. Di nuovo, sangue di uno Hyuga.
“Che
ragazza carina, padre” (**)
Perdonami.
Il suo corpo si librò come il corpo di una
farfalla e la terra che l’accolse, era la stessa terra che l’aveva vista
crescere per tutto quel tempo (e che non
avrebbe potuto farlo più, mai, mai più).
La vita di una farfalla si distingue per la
sua brevità, ma di certo Hinata non aveva mai pensato che una farfalla sarebbe
mai potuta essere amata da un’aquila reale.
E mentre il suo sangue macchiava la terra e
il suo fiato smetteva di esistere, nei suoi occhi si condensò per un’ultima
volta sul volto di Neji e le sue orecchie sul suono della sua voce, senza
sentire le grida di sua sorella venire nella sua direzione.
Scusami,
Neji. Perdonami.
I suoi occhi erano pieni di lacrime, ma
sorrideva Hinata alla morte. E fu così che la ritrovò Hanabi: la farfalla aveva
spiccato il suo ultimo volo.
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Le luci continuavano ad accendersi, a
macchiare la quiete oscura della notte, ma Neji non si fermò neppure per un
istante a riprendere fiato.
L’aveva promesso ad Hinata, le aveva
giurato di fuggire, per ritornare a riprenderla un giorno. Per riaverla sempre
con sé, finalmente. Senza aspettare la notte, senza preoccuparsi di occhi
indiscreti, senza doversi macchiare del sangue di nessuno per aver commesso il
peccato di amarla. Perché lui l’amava! L’amava, sì. Come non era mai stato
capace di fare. Ed anche quello, infondo, era merito di Hinata. Lei gli aveva
aperto il cuore, lei gli aveva svelato mondi che non sapeva nemmeno
esistessero, e gli aveva insegnato come si faceva ad amare. Ma Neji lo sapeva,
lo aveva sempre saputo, che tutto quell’amore sarebbe stato solo per lei.
Ancora una volta. Solo per lei, capitalista delle proprie emozioni.
Nessun’altra. Mai. In nessun’altra vita.
Verrò
a riprenderti Hinata e saremo felici. Io e te. Solo io e t…
Neji si fermò, così, all’improvviso,
incurante del pericolo che stava correndo. Era ad un passo dalle porte di
Konoha, ormai, a pochi metri dalla salvezza, eppure non accennò ad alcun
movimento per trascinarsi al riparo.
“Vieni
via con me, Hinata”
“Non
posso farlo. Ti rallenterei il passo e… Verrai a riprendermi. Un- un giorno.
Quando le acque si saranno calmate e- e tu potrai rientrare in città senza il
rischio di essere ucciso. O anche prima, ma- ma non adesso. Non adesso, Neji”
Si sfiorò la maglia, meccanicamente, e con
orrore si scoprì la mano insanguinata. Proprio nel punto in cui, il corpo di
Hinata aveva aderito al suo.
“No…”
Neji crollò a terra, un burattino sprovvisto
di fili. Il kunai in una mano e l’altra tremante dinanzi ai suoi occhi
d’avorio. Come aveva fatto, a non capirlo prima?
“Neji-niisan!”
La punta del kunai scintillò nella luce
della luna e le sue lacrime si impreziosirono dell’argento della notte, mentre
la sua mente veniva risucchiata dal vortice di pensieri e di immagini che
portavano un unico nome.
Hinata.
Un lampo e il sangue sgorgò dalla ferita al
petto che cominciava ad alzarsi e ad abbassarsi sempre più lentamente.
Mi
dispiace.
Il corpo di Neji si accasciò al suolo, il
volto a sprofondare sul terreno morbido di Konoha e il naso a respirare per
un’ultima volta gli odori della sua vita. I capelli, scurissimi, si erano
allargati a ventaglio ma i suoi occhi erano totalmente concentrati sul bocciolo
di cosmee a poca distanza da lui.
Neji allungò la mano, per istinto, tentando
di toccare quel fiore candido, ma scivolò a terra qualche centimetro prima di
riuscirci.
Si sarebbe trasformato in un fiore anche
quel bocciolo, lo sapeva. E sarebbe stato forte, nonostante la natura fragile e
l’aspetto delicato. Ed avrebbe amato e sarebbe stato amato incondizionatamente,
perché un fiore di tanta bellezza era rarissimo da trovare. Ma lui l’aveva
trovato, lui aveva avuta quella fortuna. Anche se per poco. Un bellissimo sogno
nato da un fiore (e che sarebbe morto con
un fiore).
Grazie,
Hinata.
E le sue labbra si arricciarono in un
sorriso, di quelli che mostrava sempre troppe poche volte, mentre il soffio
della vita si faceva sempre più fievole di secondo in secondo. Eppure non gli
importava, il pensiero costantemente rivolto verso il fulcro della sua vita. Ed
il sorriso timido di Hinata fu l’ultima cosa che ricordò, prima di sprofondare
nell’oblio (il sangue porta sempre altro
sangue, è inevitabile) portandosi dietro l’essenza di ciò che era stato.
[In
the skin]
Nella pelle.
[I personaggi di Naruto non mi appartengono
ma sono ivi da me utilizzati senza scopo di lucro, eccetto Jungo che invece è
un personaggio di mia invenzione]
(*)
Riprese dall’anime, sono le parole che il padre di Neji gli rivolge durante
l’allenamento di Hinata con Hiashi, prima che quest’ultimo gli attivasse contro
il sigillo maledetto.
(**) Di
nuovo dall’anime, sono le parole di Neji al padre, stavolta, la prima volta che
incontra Hinata.
Note:
Questa fanfiction nasce da un paio di giorni in cui madame Ispirazione aveva
deciso di abbandonarmi. Pur di scrivere qualcosa, chiesi alla mia best Sae di
suggerirmi qualche spunto su cui basare una nuova storia e lei mi diede le
seguenti indicazioni:
·
Inserire la frase “scivola, vai via”
·
Scrivere una NejiHina (tra l’altro la
ringrazio infinitamente per questa ‘restrizione’! *-*)
·
Inserire l’espressione “mani intrecciate”
·
Pensare all’immagine di Hinata che danza
sull’acqua (la scena è ripresa dal manga quando Naruto la scopre di notte senza
sapere che è lei!)
·
Pensare ad un’immagine
Adesso, per quanto riguarda l’ultima cosa,
l’immagine scelta la troverete nel mio account ed è quella a cui mi sono
ispirata nella stesura della prima scena. Per quanto riguarda la trama, mi
rendo conto che forse è un po’ tetra, ecco. Ma sinceramente ce la vedevo solo
così, anzi oserei dire che è nato tutto dal finale. Perciò scusatemi per il
mancato happy ending, spero solo di aver reso bene ciò che intendevo
trasmettere con questa storia. Non mi soffermerò a spiegare ogni singolo
passaggio, credo che tutto sommato sia abbastanza comprensibile. L’unica cosa
che volevo dire a discolpa di Jungo è che si tratta di un personaggio un po’ tormentoso,
ossessionato dalla visione di Hinata come divinità e, in quanto tale, da
rimanere nella sua perfezione. Ovvero, è sbroccato! >.< Ah, ho messo
rating giallo perché a volte ho utilizzato termini un po’ “crudi” per così
dire, e non volevo rischiare.
Comunque ringrazio tutti coloro che
leggeranno questa storia, chiedendovi umilmente di farmi sapere che ne pensate
visto che ci tengo particolarmente a questa fanfiction. E poi, come al solito,
un ringraziamento speciale va alla mia Sae che mi ha spronato a scriverla e mi
ha suggerito gli spunti su cui aggrapparmi (scansandomi dalla mancanza d’ispirazione,
tra l’altro). Grazie, tesoro mio, spero che apprezzerai quello che ne è venuto
fuori. Beh, che dire: c’ho provato! ^-^ E poi volevo lasciare un ultimo
pensiero anche ad arwen5786 che adora questa coppia e grazie a cui, grosso
modo, sono riuscita ad affezionarmene a mia volta. Perché, come sanno tutte le
altre fan sfegatate della coppia, lo Hyugacest “è una fede”! ^.-
Okay, vado prima che inizi a dire cavolate!
Grazie ancora a tutti e alla prossima (eh, vi avevo detto che sarebbe stata una
NejiHina questa!).
Memi J