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Autore: Marge    04/11/2013    3 recensioni
Scritta per il contest "La torre di Babele" di GenGhis;; sul forum di EFP, è, come richiesto dal regolamento, un esercizio di stile in cui ho cercato di interpretare tre diversi punti di vista mantenendo la narrazione in prima persona. In particolare il primo personaggio è qualcosa che immagino da tempo, e che spero di aver reso in maniera fedele ma anche interessante. La trama? Estremamente banale: diverse vedute su l'incompatibilità di una coppia di oggi; il gioco è nel "come" e non nel "cosa".
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ritratti al chiaro di luna


Questa sera la luna è particolarmente grande, e la sua luce mi investe completamente; mi sento come se galleggiassi nel bianco accecante che emana, ed è sicuramente meglio di quando si galleggia in acqua, perché almeno non sono tutto bagnato. Odio essere bagnato.
Quando la luna è così grande in cielo mi accorgo di essere estremamente piccolo. Sono piccolo: voglio dire, il mondo, per quel poco che lo conosco, è pieno di creature decisamente più grandi di me, e sono sicuro ve ne siano di alcune così gigantesche che io non potrei neanche riconoscere che siano esseri viventi - potrebbero sorprendermi al primo movimento come se vedessi saltellare un albero o spostarsi una montagna; ma ve ne sono anche di più piccole, di quelle che a volte vedo correre a terra ma non riesco a seguire con lo sguardo, di quelle che riesco ad afferrare ma prima ancora che possa gioire della mia preda mi sgusciano via, e quindi mi sento in pace con l’universo attorno a me, come essere non troppo grande né troppo piccolo, tronfio e pago del mio posto in questa confusione.
Eppure stasera mi sento minuscolo, sarà perché sono stato cacciato qui fuori contro la mia volontà, cosa che di recente accade sempre più spesso, sarà perché la luna è così grande. Nonostante il senso di abbandono devo riconoscere che è una buona serata da passare all’aperto, e quasi soddisfatto mi lecco un polpastrello e lo strofino ripetutamente dietro l’orecchio. Cosa potrei volere di più? Forse una mano che mi gratta il collo, o un posticino caldo, visto che tra poco pioverà di nuovo.
Mi stiracchio per bene e cammino su e giù in cerca di un luogo per acciambellarmi: sarà sorto il sole prima che io sia riammesso nuovamente dentro, tanto vale fare un pisolino.
Una mosca! Mi lancio al suo inseguimento scordando seduta stante i miei pigri propositi, e saltello beato. Più su! Devo andare più su, dove lei vola! Maledetta, si posa su una foglia e mi osserva, si lava il capino con le zampe anteriori senza curarsi più di me, che frustrato la osservo dal basso, con la coda impazzita a spazzolare a terra. Mi fremono i baffi per la voglia che ho di prendere la rincorsa e provare ad arrampicarmi, ma se muovo un solo muscolo lei se ne accorgerà e volerà ancora più in alto. Che fare? Finché rimane lì non potrò mai smettere di fissarla, impensabile addormentarsi ora. Forse, se mi accuccio sulle zampe anteriori e carico per bene quelle posteriori, riesco a saltare fin lassù anche da fermo, potrei sorprenderla con una zampata ed artigliarla a terra prima che abbia il tempo di accorgersi di cosa sta accadendo…
Tutto fiero della mia geniale idea mi appresto a caricarmi di potenza, quando vengo interrotto dal noto rumore che sancisce la fine del mio esilio; la mosca vola via, ma io quasi non me ne accorgo, precipitandomi a strusciarmi sulle gambe di Lui, che mi chiama con quel suo strano verso.
Si accoccola di fronte a me e sporge una mano ad accarezzarmi la testa; ma trema, non ha voglia di dare un piacere a me, cosa a cui invece è solito dedicarsi con attenzione; continua ad emettere versi acuti, saltellanti, diversi dalla voce che gli è propria abitualmente; mi strizza le orecchie e mi tira il pelo, ed ad un tratto mi tira su quasi con violenza. Siamo di nuovo dentro, il rumore secco sancisce l’impossibilità a tornar fuori, almeno per stasera, ed un momento dopo mi scaraventa sul morbido. Spaesato mi guardo intorno, chiedendomi cosa accadrà ora: c’è forse un pericolo incombente? E dov’è l’altro essere umano, quello che così spesso giunge qui nel nostro territorio ed è la causa per cui vengo sbattuto a passare le notti fuori? Non c’è odore di accoppiamento nell’aria e questo mi stupisce molto: non va mai via senza lasciare la sua traccia.
Strane abitudini, gli umani. Lui si butta sul morbido accanto a me e si lamenta articolando più suoni di quanti io possa comprendere, mi guarda, mi tocca, sicuro che io lo capisca.
Certo, capisco tutto. Non preoccuparti, so che voi esseri umani siete così strambi da dover utilizzare tutti questi suoni per comunicare, che sia felicità o tristezza; non vi basta miagolare un pochino o fare due fusa, avete bisogno di starvene per ore a parlarvi ed ascoltarvi, come neanche due cani ringhiosi sanno fare. Personalmente trovo che sia piuttosto inelegante dar libero sfogo a qualsiasi refolo d’aria passi per le vostre gole, ma ora sono appagato e mi acciambello contro la sua pancia. Sono sicuro che le mie fusa serviranno a calmare anche Lui.

Nella prossima vita voglio essere un gatto. Dormire venti ore al giorno e aspettare che ti diano da mangiare. Starsene seduti a leccarsi il culo.
Non è affatto semplice come possa sembrare ritrovarsi alla soglia dei trenta senza aver ancora capito nulla del mondo e di come funzioni. Le persone intorno a me mi giudicano allegro, spensierato, uno capace di gestire la propria vita con facilità, e tutto questo solo perché ho avuto la fortuna di trovare un lavoro decente, con il quale posso permettermi una casa tutta per me e perfino un gatto che ogni sera mi aspetta miagolando dal davanzale della finestra. È una gatta, l’ho chiamata Maracaibo perché trovo abbia un atteggiamento da zoccola non indifferente (probabilmente tutte le gatte ce l’hanno), ed è l’unico essere vivente al mondo con il quale parlo in libertà. Tutti mi considerano una persona felice, ma la realtà è che non sono né felice, né infelice: mi trovo ancora sospeso in quella terra di mezzo, tipicamente adolescenziale, che fa di me un ragazzo insulso e del tutto poco appetibile; per questo Maracaibo è venuta a stare da me: non teme concorrenza alcuna. Alcune sere mi chiedo come sia stato possibile che io sia finito così: eppure, intorno ai diciotto anni, ero un ragazzino abbastanza normale, avevo i brufoli e qualche pelo in faccia, alternavo ragazze con un ritmo del tutto normale, giocavo a calcio la domenica pomeriggio con gli altri del quartiere.
Per quanto mi sforzi di ricordare, non riesco a trovare un momento della mia vita in cui, invece di imboccare la via sicura che dall’adolescenza porta verso la giovinezza ed infine alla maturità, io abbia deciso di rimanere immobile in questo stato. Attorno a me le persone sono cresciute, e non solo perché, ahimè, è sopraggiunto il tempo dei matrimoni e di conseguenza della figliolanza, il che mi obbliga a costosissimi regali ed altrettanto noiosi ed interminabili pomeriggi a guardare foto di piccoli esseri che altro non sanno fare che urlare e cagare; gli altri ora pensano ad altro, hanno la mente impegnata, discorrono fra loro di responsabilità, fanno progetti per il futuro, ed io, invece, parlo con Maracaibo di nulla, d’un fiore che cresce sul davanzale, di una macchia sul muro di fronte a forma di baobab, sul cappellino della vecchia signora che mi abita sotto, un’orrenda scodella verde acido contornata di finti fiori arancioni.
Qualcuno potrebbe forse obiettare che un lavoro implica una serie di responsabilità, ed anche il pagare un mutuo tutti i mesi, nonché mandare avanti la casa, come diceva mia nonna un tempo, far sì che nel cassetto vi sia sempre biancheria pulita e la pattumiera non si ribelli davanti ad un’immane quantità di rifiuti; ed io, perfino, faccio la raccolta differenziata, per cui si potrebbe dire che sono una persona responsabile.
La verità, che nessuno coglie, è che sono bravissimo a portare a termine i miei compiti, qualsiasi essi siano, ma dentro non sento nulla; se non avessi il mio lavoro, e la carta da porre in un apposito contenitori, ben lontana dalla plastica, forse la mattina non mi alzerei dal letto.
Ah, c’è Maracaibo. Per lei mi alzerei sempre, per darle da mangiare, cambiarle la lettiera, ma soprattutto per parlarle e tenderle una mano, su cui lei si struscia, contenta di carezzarsi da sola contro la mia propaggine immobile. Maracaibo, sei tutta la mia vita!

Stupido idiota!
Sta per piovere, il cielo è greve di nuvole; le luci della città le illuminano di un sinistro bagliore giallastro, ed io non ho con me neanche un ombrellino. Non avevo certo progettato di dover tornare a casa nel bel mezzo della notte!
Ciò che avevo sperato era di passare la nottata con Lui, nel suo grande letto morbido, e svegliarmi di buon’ora domattina al profumo del caffè. Oltretutto, la macchina è parcheggiata piuttosto lontano, e non mi sento sicura ad attraversare al buio tutta la via. Cafone, egoista e pigro!
Mi ha ingannata per bene, avviluppata con arte nella sua intricata rete di citazioni colte, passatempi nobili, buone abitudini. Come non rimanere incantata da un ragazzo che legge Cunningham in un caffè, bevendo thè verde imbacuccato in una grande felpa di Emergency? Talmente sciatto, abbandonato sulla sedia a gambe aperte con noncuranza, da sembrare quasi calcolato. E forse lo era, oggi lo posso dire; forse ogni sua azione era frutto di un preciso piano.
Anche quando fa l’amore, Lui mi dà l’impressione di recitare una parte; peggio, di essere costretto a farlo; peggio ancora, di forzarsi da solo non tanto a compiere alcuni gesti, quanto piuttosto a non farne altri. Che abbia una vocina nella testa ad indicargli la via in ogni momento?
Mentre cammino lungo il marciapiede il cuore sembra sciogliersi in petto, mentre gli occhi, testardi, restano asciutti; nella mia mente scorre un’epifania ingrata, in cui mi prefiguro con disperato piacere che non tornerò mai più in quell’appartamento, non lo vedrò mai più; già mi manca la luce dei suoi occhi quando mi racconta la trama di un racconto letto, le sue mani mentre si sistema i capelli, le scuse imbarazzanti che rivolge alla sua gatta ogni volta che la sbatte fuori in balcone quando arrivo io. Mi manca la sua barba incolta tra le dita, ed il pelo serico di Maracaibo che si struscia sulle mie gambe quando la mattina le apro la finestra.
Sotto la facciata apparente di ragazzo che si mantiene da solo e non vive in un letamaio, Lui in realtà nasconde una solida testardaggine a voler rimanere nel girone degli ignavi; a chiedergli come immagina la sua vita fra qualche anno non sa cosa rispondere, ed il suo sguardo corre rapido alla gatta, che nervosa sul davanzale frusta l’aria con la coda, a perpetuo simbolo dell’immobilità tanto agognata. Il nome che ha scelto per lei sa di esotico, di viaggi per mare ed avventure nelle bettole, di persone dalla pelle diversa da incontrare e scontrare, mentre Lui ripete che forse… sì, forse un giorno partirà, e la sua monotona vita avrà una svolta.
Non voglio rimanere ad aspettarlo.
Devo scegliere tra Lui e la sete che ho.
Non è poi così difficile, ho sempre avuto molto chiaro in mente il mio futuro.
Me ne voglio andare, me ne voglio andare, me lo ripeto nella mente come un mantra sacro.
Finalmente gli occhi si inumidiscono, la gola si serra. Non rimarrò a farmi uccidere, non rimarrò in questo paese così bello e così terribile da spezzarti il cuore in due.
Arrivata alla macchina alzo gli occhi e fisso il suo balcone; la luce all’interno è ancora accesa, starà sicuramente parlando con Maracaibo. Non ho neanche detto addio alla gatta, ma sono sicura che tra pochi giorni entrambi mi avranno dimenticata.
Guardo il cielo, le luci della città che lo rendono violetto e le nuvole nere gonfie di pioggia; questa sera la luna è particolarmente grande.




***
Scritta per il contest “La torre di Babele” di GenGhis;; sul forum di EFP. Grazie davvero tantissimo, è stato uno dei contest più stimolanti a cui abbia mai partecipato.

Note:
- La gatta è femmina, ma ho deciso di utilizzare il maschile quando parla in prima persona di se stessa solamente perché non abbiamo un neutro nella nostra lingua, altrimenti la mia scelta sarebbe sicuramente ricaduta su quest’ultimo. Non credo che gli animali abbiano questa fissazione di dover sottolineare il proprio genere continuamente come facciamo noi, ma ovviamente è solo un punto di vista che ha portato a questa scelta stilistica.
- Sempre per quanto riguarda la gatta, ho cercato, per quanto possibile, di utilizzare solo parole che possano essere presenti nella testa di un animale; non potrei mai metterle in bocca parole come “finestra” o “letto” o “balcone”, mentre ho deciso che possa avere la consapevolezza di una foglia o di una mosca; alcuni concetti concreti sono invece resi da avverbi (dentro/fuori) e da aggettivi (morbido), cioè da ciò che ad un gatto, secondo me, importa veramente. Questo forse rende quel primo paragrafo un po’ piatto, in termini di lessico, ma è voluto e teso a rendere i pensieri di un essere che umano non è. Spero non sia troppo noioso.
- La citazione è: “Nella prossima vita voglio essere un gatto. Dormire venti ore al giorno e aspettare che ti diano da mangiare. Starsene seduti a leccarsi il culo” da Charles Bukowski (Il capitano è fuori a pranzo), e l’ho trovata cercando citazioni e aforismi sui gatti nel web (non è stata una ricerca di chissà quale livello, insomma).
  
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