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Autore: whitemushroom    05/11/2013    4 recensioni
Alcuni anni prima delle vicende di FF IX, Kuja si trova per conto di Garland in una missione in apparenza semplice. La realtà è molto più complessa, perché l'osservatore stellare ha già iniziato a far girare la ruota che condurrà l'angelo della morte a trionfare su tutta Gaya. L'ignaro Jenoma scoprirà che i mostri peggiori sono quelli contro cui non si può combattere, ma farà anche un incontro che cambierà per sempre il suo destino...
Questa storia può essere letta in modo totalmente autonomo ma può anche essere considerata come il seguito della one-shot "Non un Jenoma"
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Kuja
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Non un Jenoma - e altri racconti.'
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Capitolo III


Luce.
Fu la prima cosa che vide.
La lama di luce gli ferì gli occhi. Quando sollevò un braccio per proteggersi, tutte le ossa dalla spalla alla mano gli lanciarono delle fitte di dolore. Lasciò cadere il braccio lungo i fianchi e chiuse gli occhi.
Era vivo.
Respirò piano, sentendo tutte le costole ribellarsi a quell’ordine. Si passò la lingua sul palato, sulla mandibola, sui denti: il sapore del sangue permeava qualunque cosa, dalle ferite ancora aperte ad altre che si erano richiuse lasciandogli frammenti di sangue rappreso alla base della gola. Aprì la bocca per prendere aria, ma ne uscì solo un suono inarticolato.
Era vivo. La bestia se n’era andata.
La luce svanì. Sentì un rapido movimento d’aria proprio sopra di lui e qualcosa si mise tra il suo viso ed il cielo. L’odore di muffa impregnava quel posto. Quando inspirò per la terza volta fu assalito da un odore pungente di escrementi, sangue e qualcosa di andato in decomposizione; ma mentre già stava per rimettere, lo raggiunse il profumo di un’anima.
“Quando dicevano che i Jenoma fossero virtualmente indistruttibili non credevo che parlassero in senso così … letterale”.
Era una voce bella. E strana. Tintinnava come tanti campanelli d’argento, diversa da qualsiasi altra voce avesse mai sentito in tutta la sua vita. E non veniva dall’esterno: le parole sembravano risuonare dentro la sua stessa testa, allontanando il dolore ed il senso di pressione che gli sconvolgeva il cranio. Delicata. Femminile.
“Io n-non …” mormorò come flebile protesta, ma la parola gli morì in gola, soffocata dall’ennesimo fiotto di sangue. Quando tossì sembrò che decine di lame gli si fossero conficcate nel petto, e la frase si trasformò in gorgoglio privo di senso. “Fammi il piacere di non schiattare proprio adesso. Se proprio devi parlare, chiudi gli occhi e attacca il cervello. Ammesso che tu ne abbia uno, cosa su cui ho i miei profondi dubbi”.
Qualcosa scivolò lungo il suo corpo. Era un tocco leggero ma dotato di forza, leggermente ruvido contro la sua pelle. Risalì lungo la gamba e si adagiò sul petto. Emanava un senso di calore. Inspirò una volta, poi una seconda, ascoltando il suono del suo stesso respiro mentre gli incantesimi di rigenerazione continuavano a lavorare, attraversando ogni fibra del suo corpo ed attenuando il dolore.
“Non sei proprio come mi aspettavo, sai?” riprese la voce risuonando nella sua testa. Kuja si sforzò al massimo per capire ogni parola, come se anche agguantare le semplici lettere e dar loro una forma fosse un’impresa impossibile. “Quando ho saputo che Garland aveva sguinzagliato il suo angelo della morte mi immaginavo qualcosa più … come dire … Alto? Maestoso? Imponente? Una creatura dalla chioma fluente e da un’ala sola che arriva, spacca tutto accompagnata da un coro angelico e con una spada lunga da qui ad Alexandria? Insomma, qualcosa su quello stampo!”
Mi hai sguinzagliato, eh …?
Pur nella nebbia che avvolgeva i suoi pensieri, un particolare guizzò verso di lui, come una candela nel buio di una cella. Strinse gli occhi, cercando di dare una forma ai suoi pensieri, di toccare la voce argentina con delle parole che avessero un senso oltre la morsa di dolore che gli stringeva le ossa. “Come sai … come sai chi sono?” mormorò, colpito come una frusta al pensiero che tutto il piano di Garland fosse stato scoperto. E che lui ne avrebbe pagato le conseguenze.
“Oh, allora qualcosa del cervello è rimasto! Non che mi servisse per forza, però … Beh, non puoi pensare che il tuo padrone possa fondere due pianeti, regolare il Flusso di Anime, solcare i cieli con le sue aereonavi da guerra e mandare uno come te a fare il bello ed il cattivo tempo senza che noi ce ne accorgessimo. E anche se fossimo sordi, ciechi, muti ed anche zoppi non ti credere che la magia che porti dentro fino a scoppiare passi proprio inosservata. Passi per gli umani ed i burmesiani, che non percepiscono un’Ultima nemmeno quando gli esplode davanti, ma con noi il giochetto non funziona”.
Un’ondata di paura lo attraversò. Si mise a sedere come attraversato da una scossa; l’istinto, la violenta sensazione che qualcosa non andasse gli prese le gambe, ma quando cercò di puntare i piedi ed alzarsi fu colpito da una fitta dietro la nuca, ed il mondo ondeggiò. Si ritrovò in ginocchio, con sotto le mani soltanto la roccia gelida, ma in quel momento la piacevole sensazione di calore tornò. Stavolta gli risalì lungo la schiena, scaldandogli i muscoli fino al collo. Tutto in lui gli diceva di scappare, e quando aprì gli occhi capì il perché.
Oltre il velo di sangue e nebbia c’era un drago.
Le mani si mossero in maniera istintiva, alla ricerca del potere per sollevare una barriera difensiva; non riuscì però nemmeno a sollevare le braccia. Cercò di allontanarsi, ma dalla sua posizione finì solo per rovinare un’altra volta a terra, vanificando qualsiasi processo di rigenerazione. Il suo respiro successivo fu un misto di sangue, aria e schiuma. “Oltre ad essere scemo sei pure sordo? Ti avevo detto di startene fermo …” sussurrò la creatura, e la sua coda si estese verso di lui, sostenendogli la schiena. Kuja riconobbe la sensazione di calore che lo aveva confortato fino a qualche secondo prima, ma in quel momento avrebbe dato qualunque cosa per il gelo ed il dolore del pavimento della grotta. Perché, nascosta dietro al dolore, si era risvegliata la fame. Il potere del drago lo stava chiamando, e sapeva che il proprio corpo non voleva altro che rispondere. Nonostante le ossa spezzate il suo addome iniziò a contrarsi.
La creatura si mosse con un movimento fluido, e l’attimo dopo i suoi occhi diventarono tutto il suo mondo. I due globi di oscurità privi di qualunque pupilla si mossero al di sotto delle squame, e si vide riflesso in quelle gigantesche pozze nere più grandi della sua testa. Una creatura piccola, debole. Rotta.
“Sì, stai messo davvero uno schifo, lasciatelo dire”.
La frase arrivò con un mormorio, ma il mostro non aveva emesso alcun suono. L’enorme mandibola non si era abbassata, e solo una fila di denti bianchi sporgeva dalla porzione bassa del muso; le parole fluivano dolcemente dalla mente del drago alla sua. “Se tu sei l’angelo della morte, Gaya può dormire sonni tranquilli almeno per i prossimi cinquant’anni. Come predatore sei pessimo”.
“Non sono un predatore”.
“Già, e io non sono un drago. Adesso mi dirai anche che hai mangiato una delle nostre uova per fare lo spuntino di mezza giornata … Tu ringrazia solo che non fossero le mie, altrimenti ti troveresti nel mio stomaco” disse, ed il suo tono si fece serio. Ma a Kuja non importava. Il ricordo delle uova si stava facendo di nuovo strada nella sua testa e si scoprì di nuovo con le labbra umettate e la saliva lungo tutta la bocca. Si morse l’interno delle guance fino a farle sanguinare, ordinando ad ogni muscolo del suo corpo di rimanere contratto, di non cadere, di non cedere al desiderio. Gli sarebbe bastato rimanere immobile, rigenerare qualche altro minuto ed avrebbe avuto abbastanza forze per aprire il ventre molle, tuffarsi negli organi e poi …
Le mascelle si aprirono di scatto, saettarono verso di lui e si chiusero con un clangore secco a meno di un palmo dal suo naso. Mandò un grido, fa fu soffocato dal suo stesso sangue. “Fai un altro pensiero del genere, Jenoma, e giuro che sarò il primo drago a scoprire che sapore hanno le bianchissime chiappe di un angelo della morte. Ed a pensarci bene ho ancora fame, visto il cibo scadente che mi hai portato …”
A quelle parole si voltò verso un angolo della grotta, attirato dall’odore marcescente che i suoi sensi avevano cercato in ogni modo di evitare. Cercò di non rimettere alla vista dei cumuli di sterco accumulati dall’animale, ma quando i suoi occhi incrociarono le ossa spolpate di un burmesiano il suo stomaco si contrasse con uno spasmo. E non ve ne era soltanto uno.
Almeno cinque sorci avevano incontrato la stessa fine. Le lance erano abbandonate per terra, ma dai cumuli di vestiti stracciati e pezzi di armatura si vedevano ossa, sangue ed arti staccati di netto; il tanfo degli organi si mescolava a quello dello sterco, e la vista del sangue fresco non fece altro che aumentare la sua fame. Quei burmesiani erano stati uccisi da poco, ed in un lampo rivide se stesso, no, non ero io, scaraventare i soldati nemici che lo assalivano giù nell’abisso cercando di levarseli di torno. La frenesia delle anime, la magia, il potere, tutto assalì la sua mente come un caleidoscopio e si portò le mani alle tempie nel tentativo di fermare quel pulsare violento che sembrava voler esplodere. “Però non mi hai mangiato …”
“La tua perspicacia inizia a sorprendermi, sai?”
“Quindi cosa vuoi da me?”
“Vorrei il potere per dominare il mondo ed essere la regina del mio stormo. Anche quello di bruciare Burmesia e Cleyra con un solo soffio e farla pagare a questi ratti schifosi. E perché no, anche la forza di sconfiggere a duello il leggendario Bahamut ed incenerire le ali di Alexander, visto che ci siamo … Ma perché non provi a guardare meglio e ad usare un po’ di immaginazione?”
Il drago allontanò la testa da lui e sollevò il collo. Nonostante le ferite Kuja rimase senza fiato, ammirando la bellezza di quella creatura. Tutto il suo corpo sembrava scolpito nell’argento più fino, e la luce che scendeva dall’alto disegnava delle sottili strie bianche lungo le squame grigie, piccole e luminose che la rivestivano dalle zampe fino alla testa ed al collo lungo e flessuoso. Non era enorme come si raccontava nei libri: aveva sempre pensato che un drago fosse grande almeno quanto un’aereonave, ma la schiena della creatura era di poco più alta della sua testa.
Ma la cosa magnifica erano le ali.
Il tempo si fermò mentre faceva scorrere i suoi occhi lungo quelle estremità, le stesse che lo avevano avvolto quando era ferito, che avevano schermato per lui l’implacabile luce del risveglio. Erano composte da centinaia di piume.
Provò l’irrefrenabile bisogno di sfiorarle. Di affondare le dita e trovare qualcosa di morbido in cui perdersi. Qualcosa di bianco, di azzurro, di viola, qualcosa che sembrava un arcobaleno in attesa di essere preso. Qualcosa che il suo creatore non gli aveva mai fatto vedere in tutte le loro noiose lezioni.
Il drago mandò un suono poco piacevole, e con un secondo movimento lo costrinse a sollevare gli occhi da quello spettacolo. Kuja la osservò a malincuore, e fu in quel momento che vide il collare. Fu assalito da una sensazione di gelo, la stessa che aveva provato quando i burmesiani avevano cercato di incatenarlo; il collare che si stringeva intorno al collo del drago era dello stesso materiale, di un bianco così intenso da accecare. C’era qualcosa di vivo, di pulsante in quel metallo, perché tutto il suo corpo riprese ad agitarsi, vibrando insieme alla magia di rigenerazione: era stretto intorno alle squame argentate, che in quel punto erano striate di sangue rappreso. Una catena dagli anelli giganteschi univa il collare alle pareti della grotta, ed in quel punto la roccia era consumata, graffiata, colpita senza dubbio dalla potente creatura con tutta la sua furia. Kuja ricordò la spiacevole sensazione della catena bianca vicino ai suoi polsi, e l’idea di averne una simile stretta intorno al collo …
“Bravissimo, vedo che hai capito!” mormorò la voce squillante, entrando di nuovo senza permesso dentro la sua testa. “Su, da bravo, adesso riprenditi per bene e distruggimi questo collare. Sai, ha l’antipatica tendenza a nutrirsi della magia della sua vittima e vedi … io ne ho un bel po’. Occorrerebbe qualcuno che abbia un potere anche maggiore del mio e tu capiti proprio a fagiolo, mio dolce e coccoloso Jenoma”.
“Non … non credo di poterlo fare …”
“E perché no?” stavolta con un verso poco piacevole dal fondo della gola.
“Perché non ho tutto quel potere”.
“Ah no? Per la coda di Bahamut, quel buco nella grotta lo hai aperto tu, non io!” disse, indicando con la testa il soffitto. La crepa sopra di loro, quella che inondava il fondo del baratro con la sua incredibile luce, si apriva come un taglio nel buio. Ricordava benissimo come lo aveva creato. Il potere che lo aveva scosso. E tutto quello che non voleva più diventare. Rivide l’immagine del mostro dalla criniera rossa fare a pezzi con gioia i suoi nemici ed il potere della luce sacra e delle anime che faceva battere il suo cuore all’impazzata. “Proprio quello!” tintinnò il drago. “Trasformati un’altra volta, spacca questa catena e prometto che ti darò un disinteressato passaggio fino all’uscita. Sempre che tu non voglia rimanere qui con …”
“SCORDATELO!”
Non riuscì a capire da dove gli fossero venute le forze. L’attimo prima era lì, in ginocchio davanti alla creatura. Quello successivo era distante, dall’altra parte della caverna, tutti i suoi muscoli si erano contratti ed aveva corso, quasi volato contro la parete opposta, spinto da qualcosa che aveva bruciato in un attimo il suo cuore. Le fitte e lo spasmo ripresero e lo piegarono in due, ma era lontano dal cono di luce, lontano dalla bestia, lontano da tutto. “BASTA! SMETTILA! NON SONO QUELLO CHE DICI TU! NE HO ABBASTANZA DI TUTTI VOI!”
La creatura si mosse nella sua direzione, ma la catena la trattenne. Mandò un clangore delicato, musicale, ed il drago fu costretto ad osservarlo da distante, con gli occhi neri privi di espressione ma con tutto il corpo che si agitava, soffiava, le ali che si aprivano ritmicamente. Tirò, e nel punto in cui il collare si univa alle scaglie uscì un lieve rivolo di sangue che disegnò una scia rossa lungo la meravigliosa trama d’argento.
Si morse le guance con tutta la forza che aveva, lottando contro se stesso. Era ferito, ma gli sarebbe bastato poco per ritornare nel pieno delle sue forze, e con la preda legata alla catena avrebbe potuto benissimo lanciargli contro tutti gli incantesimi che desiderava e poi banchettare con il sangue e le viscere di una delle creature più potenti di Gaya. Un essere che faceva sembrare le sue preziose uova niente più che un pasto momentaneo, uno sfizio che si era dimostrato il preludio a qualcosa di unico, inarrestabile. La sinfonia di potere iniziò a suonare nelle sue orecchie, chiedendogli di agguantarla e danzare con lei.
Taci.
Si accucciò in un angolo buio, stringendosi la testa tra le mani. Coprì le orecchie per non sentire, ma tutto era dentro di lui. Puntò i piedi e strinse le palpebre, cercando di isolare il pensiero del drago e del sangue fino ad implorare le sue gambe e le sue braccia di non muoversi, di non trasformarsi, di non diventare qualcosa di diverso da lui. Ormai conosceva la bestia e sapeva cosa la eccitava.
Se prima la paura di essere catturato dai burmesiani aveva preso il sopravvento, adesso c’erano solo lui ed il buio.
Ed il drago …
No. Lui ed il buio.
Lui ed il buio.
Non si era buttato nell’abisso per trasformarsi una terza volta.
Ancora con le mani premute sulle orecchie si alzò, quasi rigenerato del tutto, e senza sollevare la testa verso la preda iniziò a camminare verso l’ingresso della grotta, quello che aveva notato quando era ancora tra le grinfie del mostro. L’odore del drago invase le sue narici e le labbra erano umettate di saliva. Guardò fisso la punta di quello che rimaneva dei suoi stivali, concentrato solo sul mettere un piede davanti all’altro. La creatura si agitava, poteva sentire il tintinnio della catena, ma non poteva fare nulla. Continuò a camminare, con davanti agli occhi l’immagine del cipiglio di Garland. “Santo cielo, ma proprio a me doveva capitare l’unico Jenoma in piena crisi d’identità?”
La ignorò, e la porta era sempre più vicina.
“Dove stai andando? Guarda che non sono un’ingrata, saprei essere molto riconoscente!”
Il battente del portone era freddo sotto le sue dita. Ma in quel momento era la cosa più rassicurante che avesse mai sfiorato negli ultimi giorni. Il contatto sembrò placare il vortice del suo sangue ed il battere forsennato del cuore, e l’improvvisa soddisfazione lo spinse a girarsi verso la bestia in catene, protesa verso di lui. “Lontano da te e da quelle uova maledette! E dovresti anche ringraziarmi, sono certo che non vuoi vedere quello che posso diventare …” sibilò furioso. “E poi cosa sento, il grande drago che inizia a supplicare?”
“Oh, perdonami se mi preme la mia libertà!” risuonò la voce, ma stavolta fu accompagnata da un ruggito profondo. Kuja si mosse il labbro e resistette, fissando gli occhi neri, il corpo scintillante, le ali che si aprivano e si chiudevano ad esprimere tutta la sua furia. L’odore di muffa scomparve, trascinato dal vento creato dalle forti ali, ed un secondo guizzo si formò dentro di lui all’idea del potere selvaggio racchiuso nella creatura incatenata; lo combatté di nuovo, nella mente soltanto l’uscita e la bestia rossa che premeva per sfuggire al suo controllo. “Se vuoi la libertà, prenditela senza di me!”
“Parole grosse per un pupazzo!” gridò, lasciando che le parole gli esplodessero dentro la testa. Fissò gli occhi neri, e per un attimo gli sembrò che la lunga bocca fosse piegata in un sorriso crudele. Strinse di nuovo il battente, ma non riuscì a volgere gli occhi. “Forza, esci di lì! Torna dal tuo padrone, da bravo! Vai a ballare per lui, inchinati davanti al suo pubblico quando tira i fili, distruggi pure tutta Gaya ad uno schiocco delle sue dita! Sai la novità? Preferisco marcire altri sette anni qui dentro che uscire e raccontare al mio stormo che mi ha liberato una marionetta!”
Cercò di risponderle, ma l’ondata di parole attraversò di nuovo la sua mente. “Continua pure questa patetica farsa. Piagnucola, lamentati, buttati pure di nuovo in un fosso! Ma non cambierai mai nulla. Sarai solo una bambola che Garland tiene al guinzaglio in attesa di crearne una migliore!”
“Non sono l’unico qui dentro ad avere un guinzaglio … o sbaglio?”
“Meglio il mio. Almeno si vede”.
Si accorse di tremare. Non voleva. Scacciò la voce della testa, ma la melodia di quelle parole continuava a scivolargli tra le orecchie, proprio come la risacca dopo una violenta tempesta; un’esplosione di immagini gli comparve davanti, ma prima che potesse controllare quel flusso inarrestabile vide le proprie mani screziarsi di rosso e sentì la coda sfuggire al suo controllo ed agitarsi contro la veste. Si gettò contro il portone con tutte le forze che gli erano rimaste, mentre gli occhi sembravano volergli esplodere dalle orbite.
Fu avvolto da un boato. Schegge di legno volarono in ogni direzione, e quando la schiena impattò contro la roccia sentì tutte le ferite appena rimarginate riaprirsi con violenza, lasciandolo tramortito. Ci fu solo un enorme muro di rumori, sempre più forti e frenetici: il metallo delle armi, squittii, passi ritmati sul pavimento, le grida di combattenti … La grotta, fino a qualche attimo prima quasi buia, fu illuminata da decine di fiamme che si levavano da delle torce come tanti occhi rossi in un velo di oscurità e nebbia. Il ruggito del drago si levò oltre quella confusione, ma quando cercò di capire cosa fosse appena successo vide una sagoma avvicinarsi a lui e sollevarlo per i vestiti come se pesasse poco più di una bambola. Le sue forme erano eleganti per appartenere ad un burmesiano, ma non nascondevano affatto l’odore pungente di quei ratti. Aveva il muso sottile, la pelliccia chiara e le orecchie leggermente appuntite, ma questi furono gli unici particolari che riuscì a mettere a fuoco prima che quello lo strattonasse lontano dalla parete e lo scagliasse a terra, al centro della caverna. Una pioggia di squittii lo accolse e capì che i suoi nemici lo avevano circondato di nuovo, ma stavolta stavano lasciando il passo al burmesiano dalla pelliccia candida, che si mosse contro di lui con una lancia di foggia strana, dalla lunga asta rossa.
L’eccitazione di qualche istante prima stava tornando a galla, riscaldandogli la spina dorsale alla vista di tante prede. Si fece ancora più forte quando la lama ricurva gli venne puntata addosso. Non ci sarebbero state altre occasioni. Sollevò la testa, fissando gli occhi scuri del suo nemico quasi nascosti dalle ampie falde del cappello. Ogni fibra del suo corpo chiedeva solo di immergere le unghie nel suo collo, ma mosse le dita e le strinse convulsamente contro l’asta della lancia guidandone la punta verso il proprio petto, all’altezza del cuore che stava bruciando quanto il nucleo ardente di Tera.
“Uccidimi. E fai presto.” disse, scandendo le parole nella lingua di Burmesia. “O strapperò il cuore a tutti voi”.
  
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