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Autore: Baby Giant    05/11/2013    1 recensioni
Storia breve, particolarmente ricca di sentimenti e avvenimenti importanti, narrati in circa 2.000 parole.
Genere: Drammatico, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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26 Giugno 1963 “Davvero, lo sto giurando davanti a questa corte americana, qui, in Alabama, il ragazzo processato è mio figlio!”. Urlava, si sbracciava, lo ripeteva allo sfinimento ma nessuno le credeva. O almeno, nessuno voleva crederle, visto che tutti in quel luogo conoscevano la donna sui quarant’anni che era in piedi di fronte alla giuria, in quell’aula di tribunale. Ci furono lunghi istanti di silenzio fino a quando, il giudice, dopo aver ammorbidito il suo sguardo incredulo, le chiese: “Signora, lei è sicura delle affermazioni che sta compiendo dinnanzi a quest’aula di tribunale?” e per l’ennesima volta, dopo essersi asciugata le lacrime con il dorso della mano sinistra, non poté fare altro che confermare, “Glielo giuro Signor Giudice, il ragazzo negro davanti a voi è mio figlio!”. 1942, Dicembre, Seconda Guerra Mondiale Il giorno il cui arrivò quella lettera, nevicava. Alyssa (la donna appena citata sopra) stava rassettando la cucina mentre il marito, Phill, era intento ad aggiornarsi riguardo le ultime battaglie che l’America aveva appena svolto contro il nemico, tramite radio. A volte si trattava di vittorie, altre di confitte; non era importante, bisognava solo continuare a credere nei soldati al fronte, bisognava credere nell’America. Quel giorno il suono del campanello fu più sottile che mai. La signora Alyssa uscì di casa senza neanche mettersi il cappotto. Appena incontrò lo sguardo del postino, lui non poté fare altro che sussurrare un flebile “Mi dispiace”. Alyssa tornò in casa rintronata dal freddo. Si diresse in salotto dove il marito, divenuto quarantaduenne da poco, si trovava. Lei, invece, aveva solo venticinque anni. Non ci furono molte parole se non frasi come “Prima o poi doveva arrivare” oppure “Lo sapevamo”. Lo zaino era già pronto: era il momento del signor Phill Morton di entrare in guerra. Molte famiglie della zona avevano già esposto il classico stemma, quello per i lutti. Si trattava di figli oppure di mariti, in altri casi di entrambi. Gente morta in guerra. La mattina seguente Phill baciò Alyssa sulla fronte. La giovane moglie lo vide scomparire all’orizzonte mentre la neve, che non aveva cessato di cadere dal giorno prima, continuava a ricoprire un’Alabama entrata nel pieno della seconda guerra mondiale. Per circa una settimana la signora Morton non uscì, rimase per giorni in casa, sola, ad ascoltare la radio blaterare a vanvera mentre rimaneva immobile a fissarla. Aveva perso il padre quando era ancora piccola e, da sempre, Phill era stato l’unico uomo in grado di farla sentire al sicuro, era l’unico uomo che era riuscito a ricostruire una figura paterna e adesso, quell’immagine, stava scomparendo come l’erba secca sotto la neve. Non lo amava, si trattava di un amore fraterno, di cui però non riusciva a fare a meno. Tutto rimase immutato, almeno fino a quando, un bel giorno in cui la neve iniziava a sciogliersi, si presentò alla porta della signora Morton una donnina dalla carnagione scura. Era bassa, tracagnotta, evidentemente afro-americana e parlava con un buffo accento del nord. Disse di chiamarsi Milly e chiese ad Alyssa, in maniera quasi impaurita, se per caso avesse dello zucchero da prestarle. Si giustificò dicendo che stava preparando i dolci per la vigilia. Proprio in quel momento la signora Morton si ricordò che da lì a poco sarebbe stato Natale e lei lo avrebbe passato in maniera alquanto triste e sola. “Le andrebbe di trascorrere il venticinque dicembre in casa mia?” chiese Milly, “Come scusi?” “Le ho chiesto se le piacerebbe trascorrere il Natale con me e mio marito, sa siamo due anziani neri e ci piacerebbe averla come nostra ospite, sappiamo che suo marito è partito per l’Europa e ci spiace vedere una giovane donna, carina come lei, sola in giorno di Natale”. Alyssa trovò in quella richiesta un barlume di speranza sia per lei che per il marito in guerra. Accettò. Sarebbe andata a casa di Milly la vigilia di Natale. Il ventiquattro dicembre arrivò prima del previsto. La signora Morton uscì di casa verso mezzogiorno. Indossava un abitino nero lungo fino al ginocchio con delle calze velate e, ai piedi, delle francesine con poco tacco. Era stranamente sorridente quel giorno. Forse perché qualcuno le aveva ricordato che se non avesse avuto speranza, avrebbe perso tutto. La modesta dimora di Milly Shakur si trovava in fondo alla stessa via di Alyssa. Da quando era stata abolita la schiavitù e, visto che molti uomini neri stavano partecipando alla guerra, il morale afro-americano aveva iniziato a risollevarsi. Appena Alyssa ebbe premuto il campanello per avvertire della sua presenza, le fu immediatamente aperta la porta dal signor Shakur. Alyssa conosceva quel anziano uomo, lo aveva visto parecchie volte innaffiare i fiori all’inizio dell’astate, prima che i giapponesi bombardassero Pearl Arbor. “Si accomodi signorina, vuole darmi il pacchetto che tiene in mano?”, chiese lui. La ragazza gli porse la torta di fichi che aveva preparato per ringraziarli della loro gentilezza. “Se vuole andare a salutare mia moglie, la cucina è da quella parte”. Si trattava di una casa piuttosto piccola ma sufficiente per una coppia di neri che avevano subito troppe discriminazioni. Alyssa si diresse verso la cucina ma prima di riuscire ad imboccare l’uscio si fermo ad osservare un ragazzo nero, piuttosto alto, intento ad osservare l’esterno da una finestra. “Buongiorno Alyssa!”, interruppe Milly. “Vedo che ha conosciuto mio figlio Mike”; “Veramente non ne ho avuto ancora il piacere”, affermò Alyssa in una maniera che lasciava trapelare dell’arrogante. Si trattava di un ragazzo fra i venti e i trenta, dalle spalle larghe, dagli occhi riflessivi e giudiziosi. Aveva una stratta di mano rilassata ma allo stesso tempo forte. “È un piacere fare la sua conoscenza” disse il giovane “Mia madre è una settimana che parla di lei”. Entrambi i ragazzi si rivolsero all’anziana donna che lì guardava sorridendo e che da lì a poco avrebbe gridato: “Apriamo le danze!”. La tavola del piccolo salotto era invasa di qualsiasi ben di Dio. Si trattava di pietanze povere, cucinate con degli ingredienti per niente costosi, ma il sapore era qualcosa di spaziale. Inutile dirvi che la signora Morton ebbe la possibilità di allontanare i brutti pensieri riguardanti il povero Phill al fronte, almeno per pochi giorni. Mike era simpatico, fece alcune battute, era un ragazzo piacevole. Si trattava di un infermiere, aspirante medico, ecco perché non era stato chiamato in guerra a combattere. Al termine del pranzo Milly obbligò il figlio a far vedere la casa alla giovane ospite. Ebbero la possibilità di conoscersi. Iniziarono a darsi del tu, parlarono dei sogni di lui, del marito di lei, della guerra, del futuro. L’ultima stanza della casa era quella che un tempo era la camera di Mike, ora lui abitava a New York ma aveva avuto il permesso dall’ospedale di poter tornare a casa. Alyssa si sedette sul letto ad una piazza mentre Mike rimase in piedi, spalle al muro. Si guardarono negli occhi per alcuni stanti fino a quando lui non le chiese “Sei felice?” “Scusa?”, fece finta di non aver sentito ma in realtà sapeva cosa voleva dire. “Ho chiesto se sei felice, come americana, come donna, come persona”. “Beh, penso di si… si, sono felice…” “Sicura?”, continuò ad insistere lui. “Si, ne sono sicura”, non sapeva mentire. “Allora per quale motivo hai dimostrato interesse per me?” Alyssa abbassò lo sguardo. Sapeva che l’aveva fatto, ne era consapevole ma non voleva ammetterlo. Era stata cresciuta da una donna nera, aveva giocato con suo figlio, lo aveva persino baciato. Un bacio innocente ma pur sempre un bacio. Poi era morto suo padre. Non ebbe più il tempo di pensare a quelle cose, andò avanti alla ricerca di una figura paterna fino a quando non arrivò Phill, il resto lo sappiamo. Mike staccò le spalle dal muro, si sedette vicino a lei, le spostò i capelli dal viso perché lei potesse guardarlo negli occhi. Dal primo istate le era sembrato tremendamente bello, tremendamente sicuro, tremendamente da amare. Le lacrime inondavano le gote di Alyssa, la sua testa era ricolma di pensieri come “Sei sposata”, “Hai un marito” mentre lui la baciava. Uscirono da quella stanza pochi minuti dopo, come se niente fosse successo, come se quelli di prima non fossero stati loro. La giornata terminò con Alyssa che salutava la famiglia Shakur da lontano con la mano. Entrambi i giovani ragazzi pensavano che la storia sarebbe finita lì. Evidentemente si sbagliavano. Era solo l’inizio. Passarono le festività natalizie, arrivò capodanno mentre l’attrazione cresceva pian piano. All’inizio si trattava solo di innocenti baci, dietro le porte, nell’ombra, per evitare di farsi vedere, fino a quando il desiderio iniziò ad essere persino più forte della loro volontà. Gli incontri iniziarono a farsi sempre più frequenti. Lui che piantava tutto a New York e se ne tornava in Alabama. Lei che rimaneva a casa a chiedersi se fosse più giusto aspettare il ritorno del marito dalla guerra e del suo amante da New York. Erano momenti fugaci, gli incontri non duravano più di qualche ora. Si strappavano i vestiti di dosso come un felino scuoia la propria preda. Non si rifugiavano mai in camera da letto, lei non voleva e a lui stava bene. Diceva che “C’era la puzza del bianco”, lei allora abbassava lo sguardo e lieve sussurrava “Non è un semplice bianco, è mio marito”. Conoscevano poco l’uno dell’altra e quel poco che potevano sapere erano informazioni futili. Lei non conosceva i suoi desideri, i suoi sogni; lui non sapeva se lei avrebbe desiderato dei figli, magari con la pelle mulatta, chissà. Penso che lo abbiate già intuito ma è compito mio informarvi: Phill non sarebbe mai più tornato. Anni dopo Alyssa avrebbe scoperto che la pallottola che uccise suo marito sarebbe stata sparata da un tedesco. Non si sorprese molto, se lo aspettava. L’unica cosa che poteva fare era andare avanti con la sua vita. Una vita non facile ma pur sempre la sua. Anche Mike partì per la guerra. Lo desideravano in oriente, la presa di Okinawa non era stata semplice, molti soldati erano stati feriti e contando anche il fatto che pochi medici avevano il fegato di recarsi in guerra, lui si sentì in obbligo di farlo. Tutto questo tre settimane prima che Alyssa scoprisse di essere incinta. Non poté rivelarlo a nessuno, dovette prendere una delle decisione più difficili della sua vita: lasciare il bambino in un orfanatrofio. Non dimenticò mai quel piccolo esserino scuro e dopo le guerra, dopo le bombe atomiche, dopo le discriminazioni, decise di rimettersi sulle sue tracce. Si sentiva tremendamente in colpa: doveva farlo. Fino a quando un giorno, lo riconobbe. Non aveva certezze, poteva solo contare su quell’istinto materno che le era da sempre stato negato. 26 Giugno 1963 La giuria chiese alla povera Alyssa di narrare le sue vicende e quelle di suo figlio, Micheal Shakur. C’era chi rimase incredulo a guardarla mentre lei parlava rivolta verso il giudice, c’era chi invece piangeva dietro gli occhiali da sole. Una cosa è certa: le parole di Alyssa avrebbero potuto benissimo eguagliare il discorso che fece Clarence Darrow dopo aver difeso per sette ore un uomo di colore, davanti ad una intera giuria di bianchi. “Non importa se mio figlio sia o no colpevole del reato per il quale è stato citato qui, davanti a voi, signori della giuria. Quello è mio figlio ed essendo una buona americana ho il pieno diritto di riconoscerlo!”. Queste furono le ultime parole di Alyssa prima che il giudice e la giuria potessero dichiarare Micheal colpevole. Non le importava, rimaneva comunque suo figlio. Terminata la sentenza Micheal ed Alyssa ebbero la possibilità di incontrarsi e riappacificarsi dopo ben vent’anni di fughe e tentativi andati a vuoto. Prima di lasciar portar via suo figlio dagli agenti della polizia, Alyssa, tenendo le mani di Micheal fra le sue, gli sussurrò dolcemente, come solo una madre può fare, queste parole: “Non importa chi sei stato, chi sei, chi diventerai e non importa neanche per quale modo tu sia stato messo al mondo. L’importante è che sei vivo e soprattutto, ricorda, non devi arrenderti perché nulla è eterno. Se non può essere eterna la felicità non lo sarà mai neanche la disperazione più nera. Non devi permettere agli altri di sottovalutarti perché, RICORDA, tu sei mio figlio!” Micheal passò sei anni in prigione, il perché ci resta ignoto. All’uscita dal carcere c’era sua madre Alyssa ad attenderlo. Micheal prese moglie ed ebbe due figli. Rimasero sempre in contatto fino a quando un infarto stroncò Alyssa il giorno del sesto compleanno della sua ultima nipote: si chiamava Alyssa Shakur Jr.
  
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