«The people that aren’t
dreamers, the people that don’t try to walk the
lesser beaten path, they don’t understand. But I do and I
know what are you
going through. And sometimes you just have to keep marching forward,
even when
you doubt. Even when you think it’s impossible, you keep
doing the work, you
keep showing up, you keep focusing, you keep doing and fighting for
what you
believe in. And that’s the most important thing. Stick
around»
Jared Leto.
Mi
strofino gli occhi con il dorso della mano e cerco di mettere in moto
il
cervello. Della caffeina mi sarebbe d’aiuto e anche un bagno,
dato che sento la
vescica che protesta, ma decido che se starò ferma e
immobile riuscirò a
resistere un altro po’. Molto lentamente comincio a
ricomporre i pezzi della
notte precedente: siamo state in una discoteca che abbiamo lasciato
dopo
nemmeno due ore a causa del caldo, e a quel punto eravamo
già brille, ma non
abbastanza, così ho intelligentemente chiesto a un ragazzo
di comprarci
dell’alcol e lui l’ha fatto, da brava persona; poi
ci siamo spostate spiaggia,
e c’era una luna bellissima. Qui comincia a diventare tutto
offuscato, e
qualcosa mi dice che sia a causa della bottiglia di vodka che mi sono
fatta
fuori.
«Shit»,
qualcuno impreca a bassa voce scavalcando i corpi che gli impediscono
di
andarsene. È una ragazza bionda, in reggiseno e pantaloncini
di jeans. Quando
si accorge che la guardo mi fa una smorfia che credo sia un tentativo
di
sorriso mattutino. «Sai dov’è la mia
maglia?», mi chiede con un marcato accento
americano che fatico a comprendere. Scuoto la testa. Non so neanche
sicura di
sapere come mi chiamo, al momento, figuriamoci se so
dov’è finita la sua
t-shirt in mezzo a tutta la confusione. «Well, nevermind.
Bye», dice, e esce da
una porta finestre dietro al divano su cui io sono distesa insieme a
Rain e
Frances, ancora perfettamente addormentate.
Luna
bellissima. E poi? E poi quel Paul ci ha rubato i vestiti, e noi siamo
rimaste
fradice a camminare avanti e indietro sulla sabbia senza un telefono e
un
soldo. E poi? E poi… oh.
«Che
cosa stai facendo?», borbotta Rain, gli occhi semichiusi.
«Ti
sto svegliando. Abbiamo davvero incontrato Shannon questa notte o io mi
sono
fatta un sogno molto vivido?», chiedo, improvvisamente
sveglissima.
«Ma
che ore sono?»
«Non
lo so».
«Dove
siamo?»
«Non
lo so. Puoi rispondere alla mia domanda, per favore?»
«Non
lo so».
«Mi
stai prendendo in giro?»
Ridacchia
e si stropiccia gli occhi. «Com’è che mi
chiamo? Ho un mal di testa terribile»
«Anche
io, ma il tuo nome, a contrario di questa notte, me lo ricordo ancora.
Rain».
«Giusto».
Si mette a sedere. «Deborah».
«Sì,
è ancora il mio nome», dico alzando gli occhi al
cielo.
Sbuffa.
«So che ti chiami Deborah, il mio era un “Deborah
abbiamo incontrato Shannon
Leto”»
Mi
illumino. «Ah, è successo davvero,
allora!». Guardo i corpi apparentemente
senza vita sparsi per il pavimento ma del batterista non
c’è traccia. «Tu lo
vedi?»
Scuote
la testa. «Se ne sarà andato».
«What the fuck are
you two saying? What fucking
language is that, latin or something?», esclama una voce
maschile proveniente
dal pavimento. Io e Rain
rimaniamo mute, cercando di individuare la fonte parlante. Un
ragazzo pallido si è alzato su un gomito e ci guarda con
un’espressione
addormentata e corrucciata. Noi continuiamo
a non rispondere. «I don’t care, actually. Just
shut the fuck up, I’m trying to
sleep».
Guardo
Rain e mi scappa una risatina. «Svegliamo Frances e
andiamocene», sussurro.
Annuisce
e poi da uno schiaffo leggero in faccia all’altra che, di
colpo, si mette a
sedere. «What?». Si guarda intorno e incontra le
nostre facce divertite. «Cosa?
Cosa succede?». Vorrei scoppiare a ridere, ma
l’unica cosa che faccio è dirle
di alzarsi e trascinarla fuori dalla stanza attraverso la stessa porta
finestra
da cui ho visto uscire la bionda spilungona, dato che non si regge in
piedi. «Ma
dove siamo?», chiede confusa.
Ci
risiamo. «Bella domanda. Ti ricordo, in caso
l’epidemia dei buchi neri della
memoria avesse contagiato anche te, che siamo state derubate e non
abbiamo
nessuno dei nostri super tecnologici telefoni»
«Shannon»,
esala lei. «Abbiamo conosciuto Shannon!»
Annuisco.
«Che è sparito, comunque». Sono
irritata? Decisamente. Non è suo dovere aiutare
delle povere echelon sperdute? La solita vocina mi dice che questa
notte l’ha
già fatto, più di una volta. Al più di
una volta blocco i pensieri. Più di una
volta? Frugo tra i ricordi annebbiati: Shannon che ci porta i vestiti,
aiuto
numero uno; Shannon che stacca Rain da un tizio che non ha buone
intenzioni,
aiuto due; Shannon che mi allunga una mano quando mentre ballando sono
rovinosamente caduta a terra, aiuto tre.
«Sono
caduta davanti a Shannon», sussurro più a me che
altro, senza nessuna
intenzione di essere sentita.
«Oh
sì. Come sta il sedere?». Sussulto e mi giro verso
la voce che ho appena
sentito e che, ahimè, conosco. Shannon, i capelli spettinati
e gli occhi gonfi,
è proprio davanti a me. «Buongiorno»,
dice. Le mie guance si colorano di rosso.
Datemi una badilata in testa e fatemi morire.
«Shannon
Leto senza occhiali? Ma che cosa sta succedendo?», esclama
Frances in italiano.
Io e Rain scoppiamo a ridere davanti allo sguardo confuso di Shannon
che
ovviamente non ha capito.
«What?»,
domanda lui, un sorrisino sulle labbra.
«Nothing»,
risponde Rain. «Dormito bene?»
«Mh».
Mh è la sua risposta. Che cosa diamine significa quel verso?
Sorride. «Voi,
dormito bene?»
Mi
tornano in mente Don Rodrigo e il gomito di Frances e storgo il naso.
«Da Dio»,
dico un tono ironico.
«Shannon,
dove siamo?», chiede Frances che sembra essersi svegliata dal
lungo letargo in
cui era caduta.
«A
casa di Antoine. Vi ricordate qualcosa della notte scorsa o avete
annegato
tutto nell’alcool?»
Una
lampadina mi si illumina: il vero motivo di tutto il disastro in cui si
era
tramutata quella notte era il desiderio di annegare la sfiga collegata
a non
essere riuscite a incontrare i Mars, a causa del loro ritiro in cerca
di
ispirazione. «Ma tu non dovresti essere in ritiro spiritico o
qualcosa del
genere?», me ne esco io.
Lui
mi guarda con un’espressione indecifrabile. «Ma tu
qualche volta te ne stai un
po’ zitta?»
Arrossisco.
«Io…».
Fa
un cenno con la mano. «Lascia perdere. Trovo la mia
ispirazione nella gente,
nel ritmo dei corpi che ballano tutti insieme, nei piedi che
disordinatamente
si pestano l’uno con l’altro, negli occhi che si
cercano da un capo all’altro
della stanza, nei bicchieri vuoti che cadono sul tappeto sordi. Ero
alla
ricerca di ispirazione ieri sera, ma poi mi siete capitate voi fra capo
e collo
e mi è toccato farvi da balia»
«Potevamo
cavarcela da sole», dice Rain.
«Senza
vestiti?», ribatte lui con un sorrisino.
Mi
mordo il labbro. «Okay, hai vinto».
«Già»,
dice lui, pescando gli occhiali dal taschino della giacca.
«Già,
ma visto che ti sei autoproclamato nostra balia è tuo dovere
aiutarci»,
continuo. Tanto mi odia già, un tentativo vale la pena farlo.
«Cos’è
che devo fare io?», dice bloccando il braccio a
metà strada fra la tasca e il
viso.
«Portarci
a comprare dei telefoni nuovi. Per favore». Un po’
di gentilezza non guasta
mai, in questi casi.
«Non
se ne parla».
«Ti
prego», dice Frances. Ha un’aria terribile, e
Frances non ha mai un’aria
terribile. Lei è quella perfetta. Mi chiedo quando di
preciso abbia bevuto la
notte scorsa, ma non so darmi una risposta. Purtroppo è
molto probabile avessi
in mano una tequila quando invece avrei dovuto fermare lei.
«Pensa
se non chiamassi Constance per tre giorni. Impazzirebbe»,
rincara Rain. «Ci
servono dei telefoni».
Shannon
ci guarda tutte, rimanendo in silenzio per secondi che sembrano minuti
e poi
sbuffa. «Poi sparite dalla mia vita».
«Ti
facevo più simpatico», mi lascio scappare ad alta
voce, per fortuna in
italiano. Mi becco un’occhiataccia dalle mia amiche.
«Grazie», aggiungo in
inglese, con un sorriso.
«Vi
porto in motel». Detto questo ci da le spalle e si incammina.
«Da
quanto parli così tanto?», mi chiede Frances.
Mi
stringo nelle spalle. «Effetto Shannon Leto?»
«Effetto
Vodka», ribatte Rain.
«”Ti
facevo più simpatico”, ma come ti è
uscita? Shannon è adorabile», dice Frances,
gli occhi che le sbrilluccicano.
«Lo
so che è adorabile. Ero sotto lo strascico
dell’effetto della vodka e del
sonno. Potete perdonarmi?», affermo esasperata. Shannon, come
aveva promesso,
era passato qualche ora più tardi a prenderci e ci aveva
portato in un negozio
di elettronica il cui proprietario era un suo caro amico che ci aveva
fatto uno
sconto esorbitante sull’acquisto dei nostri tre nuovi Iphone.
Era stato
difficile convincere Rain ad abbandonare il caro e vecchio Berry, ma
poi ce
l’avevo fatta.
«Per
fortuna hai parlato in italiano», dice Rain.
Mi
mordo il labbro. «Gli sto antipatica, vero? Sto antipatica al
mio batterista
preferito».
«Forse
non siete compatibili», risponde Rain stringendosi nelle
spalle.
Guardo
Shannon camminare qualche passo davanti a me e divento un po’
triste. Forse non
siamo compatibili, forse lui non mi sopporta, forse io me lo immaginavo
diverso, ma non posso essergli grata per tutto quello che sta facendo
per me,
ancora una volta, come se con la sua musica non avesse già
fatto abbastanza.
Accelero
il passo e, quando gli sono accanto, lui si volta verso di me e alza un
sopracciglio. «What?»
«Grazie».
«Per
cosa?»
«Non
lo so, di tutto. Per i vestiti questa notte, per i telefoni, per averci
fatto
da balia. Per tutto quanto. E lo so che non mi sopporti, ma un grazie
rimane un
grazie sincero anche quando a pronunciarlo è una persona che
non ti piace»,
dico, torturandomi le mani, nervosa, e evitando per tutto il tempo il
suo
sguardo.
«Oh»,
lo sento dire, e quando mi volto a guardarlo si sta grattando la
fronte. Si
accorge che lo fisso e mi sorride. «Non è che non
mi piaci, è che…».
«Non
siamo compatibili», concludo io, più a me stessa
che altro.
«Più
o meno», sorride. Si avvicina e mi tocca la spalla con la
sua. «Hai carattere,
mi piaci».
Non
mi vedo, ma so che il mio sorriso si
apre fino ad un rischio paralisi. «Anche tu mi
piaci Shannon». Lui alza
gli occhi al cielo e io mi sento una stupida e arrossisco
all’istante, ma poi
lo vedo ridacchiare e io ritorno dentro la mia bolla di
felicità. Rimango al
suo fianco fino a quando
svolta
improvvisamente a destra entrando in un grande negozio di vestiti.
«Devo
prendermi un paio di jeans», dice avviandosi verso il bancone
del negozio e
cominciando a parlare con una giovane commessa che, immagino quando
nota quanto
sia bello l’uomo che ha davanti, comincia a parlare con un
tono stridulo poco
sopportabile. Alzo gli occhi al cielo: donne.
Giro
per gli scaffali del negozio, mettendo gli occhi su diversi capi che in
ogni
caso non posso permettermi: non so che negozio sia questo, ma di sicuro
non per
delle diciannovenni squattrinate come me.
«Guardate
questo vestito, è splendido», dice Frances,
posandosi addosso un lungo abito
rosso.
«Provalo»,
dice Shannon, spuntato affianco a me e Rain.
Frances
rimane interdetta per un secondo e poi dice «Okay»,
avviandosi verso i
camerini. Rimaniamo in silenzio religioso ad aspettare che scosti le
tende e ci
faccia vedere quanto perfetta sia in quel vestito. Quando finalmente lo
fa, ci
accorgiamo che l’abito le sta davvero da Dio. Se ne accorge
sicuramente anche
Shannon che, improvvisamente, raddrizza la schiena, come se gli
avessero messo
una scopa sul deretano.
«Le
sta molto bene, non crede anche lei?», chiede la commessa, un
sorriso in volto,
rivolgendosi a Shannon. «Ma d'altronde è molto
bella, proprio come il padre».
Silenzio
di tomba.
E
poi lo sento, lo sento salire, fino a che il primo singhiozzo mi esce
dalle
labbra contro la mia volontà
e non
riesco più a trattenermi: scoppio a ridere. Rido
così tanto che in pochi
secondi sento affiorare le lacrime agli occhi e devo cominciare a
camminare
avanti e indietro per cercare di smettere. Anche le mie amiche ridono
come me. La
commessa, ha appena scambiato Shannon per il padre di Frances, questo
l’abbiamo
capito tutte a quanto pare. Shannon anche l’ha capito bene,
ma, a contrario
nostro, non ride, ma anzi si è fatto scuro in volto.
«Io, suo padre? Sta scherzando,
vero?»
«Beh,
veramente no…», risponde lui, confusa.
«Ma se mi sono sbagliata mi scuso,
ovviamente».
«Sì,
si è sbagliata», dice stizzito lui.
«Daddy,
ci porti al Luna park questa sera?», domanda Rain tra un
singhiozzo o l’altro. Shannon
la guarda gelido e con un’uscita di scena degna della
più grande diva di
Hollywood – o di suo fratello Jared – lascia il
negozio, una commessa
sbalordita e noi con le lacrime agli occhi.
Appena
Frances riesce a liberarsi dal vestito, e dopo esserci scusate con la
gentile
commessa, usciamo di corsa dal negozio, ma, guardandoci intorno, non
vediamo
tracce di Shannon. «Dov’è
andato?», chiedo.
«Non
lo so», risponde Rain.
Continuiamo
a guardarci attorno ma di lui non c’è traccia, per
cui, tristi, seguiamo la
strada su cui ci ha abbandonato strascicando i piedi. Dopo qualche
minuto,
butto l’occhio dentro la vetrina di un negozio di strumenti
musicali e fra le
decine di chitarre appese al soffitto scorgo la testa di Shannon, gli
occhiali
sugli occhi, intento a picchiettare i piatti di una batteria con una
bacchetta
tenuta in una mano e con l’altra reggere un telefono vicino
ad un orecchio. «Eccolo»,
dico indicandolo.
Entriamo
nel negozio e ci avviciniamo. Quando ci scorge sbuffa sonoramente.
«Jared, ti
devo lasciare, le mie bambine mi
hanno trovato», detto questo riattacca il telefono.
«La smetterete mai di
tormentarmi voi tre?»
«Siamo
le tue bambine», ridacchio. Lui mi guarda in cagnesco e io mi
ritrovo ad alzare
le mani in segno di resa. «Okay okay».
«Shannon,
potresti presentarcelo Jared, però», dice Frances.
«Volete
conoscerlo?», chiede lui, alzando gli occhi dalla batteria
che l’aveva
distratto. Mi intenerisco: quante volte ha detto che Christine
l’ha salvato da
morte certa? Davvero tante, e ne ho appena avuta la prova.
«Pronto,
Terra chiama Shannon, siamo delle echelon, è ovvio che
vogliamo conoscere tuo
fratello. E Tomo», risponde lei.
«Giusto»,
dice lui. «Va bene, ve lo presento».
«Davvero?!»,
domanda Rain. Come me si aspettava tutto tranne quello.
Annuisce.
«Certo, ma prima voglio sapere qual è il vostro
sogno», afferma con un
sorrisino sulle labbra che non promette nulla di buono.
Ci
guardiamo tutte e tre, sapendo che si riferisce alla frase che Frances
aveva
detto la sera prima, quella del “stiamo cercando il nostro
sogno ma pensiamo di
averlo trovato questa sera”, e non sappiamo che cosa
rispondere. È da escludere
dirgli che il nostro sogno era quello di conoscere lui, sarebbe troppo
imbarazzante, anche se probabilmente lui ha già capito la
verità ed è per
quello che ce l’ha chiesto, è per quello che
sorride in quel modo.
Quindi,
dopo un lungo scambio di sguardi con le mie amiche mi volto verso di
lui. «Il
mio sogno più grande è di diventare una
scrittrice. Voglio raccontare la realtà, bella o brutta che
sia, mettere su
carta i pensieri che mi tormentano tutti i giorni, vivere vite diverse
da
quella che vivo qui, su questa terra, conoscermi meglio attraverso i
personaggi
dei miei racconti, reinventarmi, immaginarmi diversa. Voglio emozionare
con le
parole, far sentire le persone meno sole, voglio essere associata alla
pioggia
e a una tazza di tè. Voglio solo scrivere ed essere brava a
farlo».
«Voglio
vivere in una bella città, in una casa con delle vetrate in
salotto, con una
persona che amo, trovare un lavoro che mi renda soddisfatta di me
stessa, che
mi faccia arrivare a casa la sera stanca ma fiera di me. Voglio essere
serena e
capire chi sono davvero facendo un lungo viaggio, per rimanere
meravigliata
ancora una volta dalle persone, dai loro sbagli, dai loro pregi, da
ciò che
creano ogni giorno con la loro passione e da ciò che
distruggono con lo stesso
impeto. Voglio imparare a prendere delle decisioni per conto
mio», dice Rain.
«Sogno
di rendere le persone felici con quello che so fare meglio, quello per
cui
studierò e faticherò tanto. Sogno di salvare
delle vite, che sia ricucendo loro
un braccio, o tenendo la mano di una madre preoccupata per suo figlio
per tutta
la notte. Voglio che le persone abbiamo bisogno di me, e non per
egoismo, non
perché voglio essere al centro dell’attenzione, ma
perché voglio essere utile,
voglio poter dire che ho condiviso la mia vita con tante persone,
persone a cui
ho rubato un piccolo pezzo di anima e fatto mio, persone che ne hanno
rubato
tanti piccoli pezzi a me», dice invece Frances.
Shannon
si toglie gli occhiali e ci guarda, una alla volta, e mi sembra che per
la
prima volta ci veda davvero per quello che siamo. Poi sorride.
«Avete trovato
queste cose in questa città?»
Mi
mordo il labbro. «Abbiamo trovato te, che insieme a Jared e
Tomo ci incoraggi
ogni giorno a credere in noi, a credere che se il nostro sogno non ci
spaventa,
se il nostro sogno non è grande, apparentemente
irragiungibile allora non è
vero. Stay focused on the dreams, right?»
«Dai»,
dice facendo un cenno del capo. «Andiamo a prendere questo
zucchero filato al
Luna Park, ve lo siete meritato».
Questo
capitolo parla di sogni, e ho voluto cominciarlo con una frase che
Jared ha
detto recentemente durante un VyRT Violet. Dietro tutte le risate,
tutte le
prese in giro, dietro a tutto quello che scrivo in questa fan fiction
c’è l’amore
e l’ammirazione che provo nei confronti di questi tre uomini,
che il loro sogno
lo stanno vivendo grazie a noi, ma che allo stesso tempo ci danno
forza, ci
spingono a fare quello in cui crediamo, ci aiutano a capire chi siamo.
Sabato
li ho visti in concerto per la seconda volta, a Milano, e mi sono resa
conto
veramente di quanto siano importanti per me. Quindi sì, un
capitolo un po’ più
serio nel finale ma che spero vi sia piaciuto lo stesso. A presto, Deb.