Piombo in questa sezione, per poi andarmene con discrezione.
Nulla, avevo letto qualcosina circa la Guerra del Sale (o guerra di Ferrara) e anche di un certo Cappelletti, amico della famiglia de' Pazzi che in un tempo imprecisato si era trasferito a Venezia per esercitare la sua professione.
Da cosa nasce cosa, ed ecco che arriva Francesco Cappelletti.
Questa è una oneshot senza pretese, scritta di fretta e senza neanche troppa cura. Vi prego di tenere conto che non vuole essere l'idea del secolo, ma soltanto uno sfogo per chi è sotto esame! (Scuse a manetta, lo so).
Per ora vi lascio con abbraccio,
Lechatvert
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Non piangere, Dottore
http://www.youtube.com/watch?v=GF6kBNLTvaU
«
È finita, è finita. Lo so, che è
finita ».
Continui a ripeterlo, Dottore. Lo dici mentre dormi, mentre curi
qualche braccio spezzato, mentre tendi il tuo arco e scocchi le tue
frecce.
È finita, la Guerra del sale?
Ormai hai perso il conto di quante notti hai passato a riposare sul
fango, di quante redini il tuo bianco cavallo ha consumato, galoppando
da Venezia ai campi di Ferrara. Sei talmente stanco da non renderti
più conto del tempo che passa. Un giorno, due, tre, che
differenza fa, ormai?
La tua signora è caduta in battaglia, valorosa e testarda
come suo padre, e i tuoi figli hanno fatto lo stesso.
Non piangere per loro, Dottore. Il sangue di due illegittime creature
nate dall’amore di una notte non è che una risata,
dinanzi alla maestosità dei Contarini in battaglia.
La maestosità dei morti, la chiamava Francesco de’
Pazzi. Quella del corpo rotto di Ambrogio e della testa mozzata di
Betta.
E adesso che anche i tuoi signori sono morti cosa ti resta da fare,
Dottore?
Scappare ti disonorerebbe, restare ti toglierebbe
quell’ultima goccia di vita che ancora ti fa aprire gli occhi
all’alba.
Allora rimani, Dottore, rimani a pregare notte e giorno, a ricucire le
dita mozzate, a raddrizzare le gambe rotte, ad accarezzare la mano
della morte che tanto temi. Tendi il tuo arco e ferisci i soldati,
sperando che dall’altra parte delle mura vi sia un medico
bravo tanto quanto te. Perché hai vista acuta e mano ferma e
di certo non sbagli mai mira, quelle rare volte che ti capita di dover
usare la tua arma.
Quante volte ancora ti laverai nel sangue, prima di tornare a casa?
Eppure Ambrogio te l’aveva data, la possibilità di
tornare a Firenze. Ti aveva dato la chiave per la salvezza, per una
fuga preventiva dall’inferno che è diventato
Venezia.
Francesco Cappelletti, tanto saggio quanto istruito, il medico
più brillante che l’università avesse
avuto modo di istruire. Un genio tra i mediocri, un dio tra gli esseri
umani. Dinanzi a te stesso, sei soltanto un giovane con tanta voglia di
apprendere.
Ma cosa ci ha visto in te, la famiglia de’ Pazzi? E i
Contarini? Cos’hanno visto in te, Dottore?
Di certo non un uomo valoroso, né un grande condottiero,
né tantomeno un capace professore. Sei timido, pauroso,
balbetti e zoppichi come uno storpio. Nemmeno l’avvenenza
è tra le tue doti, eppure i de’ Pazzi ti hanno
voluto laureato e i Contarini ti hanno fatto mentore della loro
figliola.
Qual è il tuo segreto, Dottore? Non piangere in un angolo
appena un soldato nemico si accascia sulle mura, né la tua
naturale propensione verso i pettegolezzi di corte, né
tantomeno il tuo logorroico modo di fare quando, vagheggiando, ti
avvicini a Roberto di San Severino e chiedi, ingenuo: «
Messere, non trova che la guerra sia finita? »
Sei astuto, Dottore, astuto come una volpe e innocente come una colomba.
Ma ricordati che tutte le volpi, alla fine, si rivedono in pellicceria.
Non ti nascondere sotto quel candido piumaggio, dunque. Asciuga le tue
lacrime e combatti!
Non lo vedi, Dottore? La perdita di un amore ti ha logorato
l’anima.
Assieme alla testa di Betta Contarini, quel giorno, anche il tuo cuore
deve essere andato rotolando verso il fiume.
Betta, la donna che amavi più di te stesso, la tua pupilla,
l’arguta mente che tu stesso hai istruito. Ricordi ogni
tratto di lei, dai suoi morbidi capelli color del miele alla sua
smorfia stizzita quando non sapeva tradurre correttamente il greco sul
suo piccolo quaderno.
Ogni volta che ripensi a quel cumulo di pagine rilegate da della pelle
rossa, una lacrima solca il tuo viso.
Non piangere, Dottore. Ci saranno altri amori, per te. Altre gioie,
altre letizie.
Non disperarti quando tra le spade vedi dei riccioli biondi, liberi al
vento come farfalle. Non singhiozzare se senti il suo canto tra le
grida dei soldati.
Glielo hai insegnato tu, in fondo: « È un sogno la vita,
che par si gradita. È breve il gioire, bisogna morire
».
Tutti muoiono, Dottore. Anche tu, un giorno, sarai costretto a
spegnerti, anche se il tuo cuore batte per la vita in sé,
anche se la tua mente è giovane e il tuo corpo è
sano.
Morirai, Dottore, ma non qui, non oggi, non in battaglia.
Per ora il tuo compito è disperarti, piangere i morti e
avvicinarti con aria disinteressata al tuo capitano per porgergli
quella domanda che ormai è diventata un appuntamento
quotidiano.
« Messere? »
« Cosa c’è ora, Cappelletti? »
Ogni volta tu alzi le spalle, ti pulisci le mani sulla casacca sporca
di terra.
« Mi chiedevo … se la guerra è finita,
voi ve ne accorgereste senz’altro, non è
così? »
Lui ti guarda con perplessità. Ti conosce bene, Roberto,
eppure esita sempre a risponderti.
« Tornate al vostro posto, Dottore », pronuncia
infine, con una scrollata di spalle. « Se la guerra dovesse
finire, ve lo farei sapere tempestivamente ».
Di solito, la cosa ti rassicura un po’.
Certo, non ti impedisce di tornare con lo stesso quesito qualche ora
dopo.
Così ancora, giorno dopo giorno, cappello tra le mani e
sguardo curioso, ti presenti al suo cospetto, fiducioso che
arriverà il momento in cui riceverai la risposta che vuoi.
E forse vivrai abbastanza a lungo per ascoltarla, quella risposta, ma
per ora riposa, combatti, esisti. Non annullare la tua anima nella
tristezza di un cuore infranto, nella distopia di una mente brillante.
Non piangere, Dottore. Tu sei più forte di tutto questo.
Aspetta quel giorno vivendo, usando il tuo talento per permettere alle
anime dei soldati di farti compagnia, anziché di lasciarti.
Vuoi sapere come finirà? In fondo al tuo cuore, conosci
già la risposta. Sai che il leone ruggirà ancora,
alla fine. Sai che le ali di San Marco diverranno più
bianche e più grandi. Talmente grandi che, come diceva
Ambrogio, copriranno persino il sole.
Sorriderai, quel giorno. Sorriderai e ti siederai all’ombra
delle ali del leone, gustandoti quell’agognata
libertà di potersi sedere senza sentire il fango sotto le
mani, di poter annusare l’aria senza sentire
l’odore acre del sangue.
« Oh,
c’è forse qualcosa che non sapete fare,
Cappelletti? »
La voce di Betta Contarini ti tormenta.
Vedi il suo sorriso tra i volti sporchi dei soldati, senti le sue risa
tra il sibilo leggero del vento che preannuncia pioggia, vedi le sue
danze nel fango e nella sabbia.
L’hai amata, Dottore, e adesso non c’è
più. Eppure non te l’aveva detto, il signor Conte
Capitano generale della Chiesa, che avresti perso la tua adorata. Non
aveva neppure accennato, alle perdite della Guerra del sale, alle vite
che quella battaglia ha strappato a Venezia.
Ma tu e Ambrogio eravate ingenui e Betta era pronta a combattere per
proteggere i suoi figlioli dall’ingordigia del mondo che
glieli voleva portare via, così, nel giro di ventiquattro
ore, avete messo su la più grande guerra che la Serenissima
avesse mai visto.
Gli Este sono deboli, pensavate, ed Ercole troppo vecchio per scendere
i battaglia.
Quanto sangue hai visto, Dottore. Quel giorno, quel primo giorno di
guerra, non vedevi l’ora di scendere in battaglia.
Ercole si
arrenderà di certo, dicevano i soldati.
Ferrara è
debole, dicevano i nobili.
E poi c’eri tu, grande quanto un pulcino dalle piume bagnate,
sul cavallo bianco che Ambrogio ti aveva donato per darti il suo
benvenuto a Venezia. Ben lontano da ogni idea di guerra, Francesco
Cappelletti, ben lontano dal mare di feriti da curare che adesso ti
tocca attraversare a nuoto ogni giorno.
Ci annegheresti volentieri, in quel mare. Non è
così, Dottore? Non sarebbe forse meglio, per te, se una
mattina non ti svegliassi affatto, anziché aprire gli occhi
tra il fango e la morte? Non ti piacerebbe poter riposare per sempre,
anziché sfidare la vita?
Ma hai troppo paura, Dottore. Hai troppa paura anche per fingere di
essere morto.
Ma a cosa servirebbe, poi, sbarazzarsi del mondo, quando nessun'anima
mai sfugge al destino eterno della vita?
Ben lo sai, Dottore. Non facevi che ripeterlo alla tua Betta, quando
era tornata dalla battaglia con la spalla aperta da un colpo di spada.
Con cura l’avevi ricucita, rimproverandola della sua poca
accortezza. Lei aveva ascoltato in silenzio e, il giorno dopo, aveva
ripreso la spada ed era andata a farsi ammazzare.
Federico da Montefeltro non ci aveva pensato due volte, a far rotolare
la sua testa nel fango.
E, mentre la vita abbandonava i suoi occhi, mentre ti prendevi le vite
di quindici soldati con tre sole frecce, correvi verso di lei,
inciampando nei tuoi stessi passi.
Neanche altre cento vite erano abbastanza, per ripagare la sparizione
del sorriso di Betta.
E ancora ti tormenti, Dottore, ancora ti stringi il capo tra le mani
bagnate chiamando il suo nome.
Passi la notte in balia del pianto, sperando che il miracolo faccia
posare la sua mano sulla tua spalla, che il Signore, affacciandosi alla
sua soglia fatta di nuvole scure, ti noti e ti faccia sentire ancora
una volta la sua voce colma di dolcezza e determinazione.
Daresti la tua vita e quella di mille uomini, per ascoltare di nuovo le
poche parole che lei ti aveva detto prima di salutarti e scendere in
battaglia.
« La guerra finisce oggi, Cappelletti! », aveva
esclamato, abbracciandoti piano con l’armatura ruvida che ti
premeva sul collo. « Stasera, dormiremo a casa ».
Tu eri scoppiato in lacrime, afferrandole il polso.
Non volevi lasciarla andare, non volevi separarti da lei neanche per un
istante.
Betta ti aveva sorriso, incoraggiante, e ti aveva asciugato una lacrima
con l’indice.
« Andrà tutto bene », l’avevi
sentita dire, prima che lei si buttasse su di te nel vostro ultimo,
amaro bacio.
« Non
piangere, Dottore ».