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Autore: Ammimajus    07/11/2013    2 recensioni
Harry Styles si immola quotidianamente sull’altare del cibo e delle parole; Zayn Malik prega, perché il suo Dio possa concedere un esito felice al piano che ha ideato.
L’Amore e la Sorte cuciono e sdruciono l’arazzo della loro relazione, le sbarre di ferro della torre in cui vivono hanno ammorbato anche i loro cuori. La fuga è la speranza che permane, oltre la disperazione. Ma il corso delle cose, spesso, è gravido di avvenimenti fin troppo diversi da quelli immaginati.
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Dal testo: “È una prigionia anche questo possedersi a vicenda, questo stringere possessivamente tra le dita la chiave del tripudio dell’altro, un destino da cui nessuno dei due sarà mai capace di svincolarsi. […] La guerra delle armi e delle parole è giunta al termine; non è più il tempo delle lotte. Ciò che resta, nel silenzio immobile della torre nord, sono due corpi nudi e ansanti, che allacciano una promessa di sangue, riversando il loro candido piacere sulle basole fredde e ingrigite del pavimento, sopra le parole di un poema incompiuto.”
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[Au!Zarry, prisoner!Harry, soldier!Zayn. Se avete di che ridire sulla coppia in questione, state alla larga da questa storia]
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Zayn Malik
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: nessuno
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My heart stays right here in its cage.
 

 
Fortezza di piume leggere, è la mia. Rifugio dei folli e degli infermi; dimora di spiriti perversi, assetati. Fagocitano l’anime, prestate attenzione. Il vostro prigioniero vi implora, mani ambrate: agguantate questo sciagurato! – conducetelo alla luce della ragione. Mille e mille tenebre l’hanno offuscata, dispiegate queste pesanti tende; arriva l’aria, vedete? Quell’infelice ha taciuto il suo ripugnante boccheggiare.
 
La mano del prigioniero si sposta flemmatica, per piccoli scossoni convulsi, lungo le basole della cella. Sussurra gemiti al silenzio immobile che lo tiene avviluppato, piega la testa a destra e a sinistra, ciondolando qua e là nello spazio ristretto di cui ha registrato ogni particolare.
Il bastoncino di ferro nelle sue mani è talmente piccolo che quasi lo costringe a scrivere con i suoi stessi polpastrelli; e questi gli dolgono, sfregati ripetutamente contro la pietra. Ma non intendono arrestare la corsa delle parole. Quel bastoncino glielo ha donato quella guardia là, quella con le nocciole incastonate all’altezza delle pupille, che fissano un punto indefinito nel vuoto mesto della torre; quella le cui labbra abbracciano migliaia di concetti e ancor più parole, un fiume di produzione che non gli appartiene, che non ha un punto fermo, una sola virgola o un apostrofo.
Ogni tanto – quando qualcuno se ne avvede- nella cella viene gettato un po’ di cibo: una fetta di pane, magari, o una zuppa, o delle uova, se la Sorte è favorevole. In quei giorni il prigioniero non scrive mai, poiché il suo desiderio è placato. Qualcosa gli scivola sul fondo dello stomaco, silenzioso come una biscia, e poco importa che esso sia un nuovo verso del poema che sta componendo o un piatto di zuppa, il suo ventre tace l’affanno e la bramosia di cibo e parole.
Potrebbe asserirlo solennemente: ama solo due cose – altro che Dio! Una di queste è il cibo, quando le parole tardano a venir fuori, l’altra – a cui, non a torto, è riservato un trono ornato di velluti e pietre preziose- sono proprio le parole, quando la follia si fa veemente e strina le membra ancor più della fame.
Ai tempi dell’Università, il prigioniero ricorda di aver appreso una buona quantità di dottrine filosofiche, come di quel tale dalle spalle larghe – lo chiamano Platone, era di Atene- che insegnava nella sua Accademia la follia dell’Amore. Qualche memoria sepolta nei bassifondi della mente riemerge dall’oblio, un paio di concetti dimenticati riaffiorano dalle pagine dei testi universitari, suggerendogli che il folle Amore dimora solo quando c’è mancanza, che se essa viene placata Amore comincia a perire. E il prigioniero, in una maniera di cui non è più consapevole, si trova ad assentire con questo Platone di Atene. Per lui, il cibo placa la mancanza laddove le parole placano la follia. Allora gli pare che – in fin dei conti- l’unico modo per ricongiungersi al suo estro sia sbarrare le porte all’orizzonte, chiudere le finestre allorché entra la luce e spirare lentamente, mentre la mancanza si acuisce, lo divora, muove il bastoncino sulle basole con l’inaudita frenesia di chi non attende altro che svincolarsi dalla prigionia dell’animo.
 
Volgasi il vostro sguardo crucciato alle pene del carcerato, che muove l’oceano sulla pietra e abbandona relitti sulla spiaggia rocciosa, ai piedi della torre. S’infrange sulle mura sdrucciole di un bastione crollato, quando il mare ha addotto sterminio. È libero.
 
Il prigioniero ride sguaiatamente, le labbra secche che scoprono i denti ingialliti, la gola arsa che implora un poco di quiete. Si addormenta così, tra un brivido di freddo e un sussulto spasmodico, i ricci crespi che tremano al suon dei suoi respiri.
 
***
 
La guardia rassetta svogliatamente i pantaloni lerci e sbuffa. In fin dei conti, non gli pare di essere poi così diverso dal carcerato che giace assopito poco più in là, in posizione fetale. Il suo lavoro è una prigione, non differente dalla più aberrante delle torture.
Ancora latente nella sua mente, la risata del prigioniero rimbomba con rinnovato vigore tra le pareti delle torre. Non sa se quella sia la nenia con cui è costretto ad addormentarsi, o il suono squillante di una tromba, che lo desta bruscamente dal sonno, agli albori del giorno; la sola cosa di cui è certo, è che vuole porre fine a questo strazio esageratamente prolungato.
Si strugge, gratta il capo e sbadiglia – deve tenere a mente di non abbandonarsi così spesso a maniere del tutto ineleganti-, gioca con le maglie della vecchissima armatura che indossa e, di tanto in tanto, si alza e sgranchisce le gambe. Rischia di inciampare sul secchio che ha portato fin lassù e lo sposta sotto il tavolo di lavoro, insieme alla camicia e ai pantaloni ripiegati, perché non gli sia più d’ostacolo nel suo ansioso andirivieni.
Al termine di quella che gli pare una notte senza fine, gravida di un’altrettanto insanabile oscurità, la guardia si desta dal vigile torpore che l’ha irretita alle ultime ore della notte e, all’albeggiare, inizia a pregare il suo Dio perché ciò che ha in mente non vada in malora.
 
“Ehi, tu! In piedi!”
Sono nuovo, qui. L’esercito mi ha accolto – ma che dico?, certi termini cozzano con tanto rigorismo- mi ha agguantato con le sue granfie ferine, per strapparmi alla terra a cui appartengo. Mio padre è contento delle mie condizioni; si sazia dell’illusione che io possa mostrarmi più virile – rido!- e che, una volta tornato a casa, possa accettare di buon grado il matrimonio con la figlia del vicino - si chiama Perrie, se non vado errato. Che idea irragionevole!
Non proferisco parola, per quanto la mancanza di grazia dell’uomo che ho di fronte mi punga sul vivo. Ma, d’altronde, come posso pretendere la biunivocità del rispetto da chi crede che le armi possano essere impiegate in sostituzione delle parole?
Guardo negli occhi l’omaccione, fingendo stupidità e obbedienza, perché è quello che gli inetti si aspettano che io faccia.
“Ti hanno affidato un nuovo incarico, mezza calzetta!” spiega lui, per niente preoccupato di tenere a bada i suoi modi burberi. Ghigna sommessamente: è soddisfatto.
Deglutisco il boccone amaro che è il silenzio, per quanto preferirei strapparmi di dosso le maglie, sfilarmi i calzari, gettarli sul viso del soldato e – perché no?- venire arso sul rogo per questo.
Ma ahimè!, non mi è possibile abbandonare la mia famiglia alla fame; la voglio salva? – devo stringere il ferro tra le mani. Né posso congedarmi da questa vita che amo – per quanto ostile e sadica possa essere.
“Che incarico?” domando, ed è possibile che il languore della mia voce si sia acuito a tal punto?
“Farai da guardia al nuovo prigioniero” mi informa il soldato. Non ho il tempo di rispondere, ché già quello mi ha voltato le spalle e ha imboccato un altro corridoio, schernendomi per la sciagura che mi è capitata.
 
“Buongiorno” lo saluta il prigioniero, accennando un sorriso timido e sincero – almeno un poco. Non deve aver riposato molto bene – non che sia una novità: due occhiaie livide e profonde solcano le gote pallide; gli occhi smeraldini, ormai spenti, fissano il vuoto e sembrano inghiottirlo o nuotarci dentro – non è dato saperlo; le labbra secche sono colme di tagli e screpolature.
“Buongiorno, Harry” risponde la guardia, i cui occhi, al contrario, sono diventati d’improvviso fulgidi ed entusiasti, bramosi di abbracci fugaci e baci leziosi.
Harry, dopo aver emesso un sospiro appena udibile, ricade nuovamente per terra, poggiando il capo su un braccio ossuto. Negli istanti successivi il suo sguardo si vivifica pian piano e, finalmente cosciente, si posa sul viso della guardia. “Zayn …” mormora, quando ne ha riconosciuto le fattezze. Allunga il braccio verso di lui, ma una grata di ferro separa le loro mani e i loro cuori.
Zayn, allora, gli rivolge il sorriso più ampio che abbia conservato in quei mesi, prende il sacchetto a coste rilevate, che ha appeso con un laccio ad un occhiello dei pantaloni, e ne estrae una chiave di ferro grossa e pesante. È così impaziente di aprire la porta ferrata, che ha bisogno di qualche istante per riuscire a sistemare la chiave nella serratura. Quando la barriera della prigionia viene momentaneamente infranta, Zayn si dirige dal riccio a carponi, intreccia le loro mani, stringe quella di Harry e vi affonda le dita, illuso di poter imprimere sulla sua pelle quella deliziosa sensazione che gli è stata infusa nel petto. “Debbo parlarvi” annuncia, lapidario ed impaziente, terrorizzato e speranzoso, come se i fili della marionetta che incarna venissero tirati da parti opposte. Harry non ha la forza né la voglia di parlare, e attende in silenzio una spiegazione, incoraggiandola soltanto con un sorriso appena percettibile.
“Prima avete bisogno di lavarvi” puntualizza Zayn, guardando la tunica sudicia dell’altro con apprensione mista a rimprovero “Vi offrirei un bagno, ma qui è già tanto che ci sia un giaciglio sottile” constata, suscitando in Harry una risata dolce, seppure cupa, gesto a cui il giovane si abbandona assai di rado, di quei tempi.
 
Zayn si trascina fuori dalla cella malvolentieri – allontanarsi di qualche metro gli pesa troppo, conturbato com’è-, solleva un secchio pesante, colmo d’acqua, estraendolo da sotto il tavolo di legno che è stato la sua postazione di lavoro per mesi, poi agguanta un pezzo di sapone con la mano libera. Mentre si dirige all’interno della cella, è nervoso ed impaziente, l’acqua asseconda il suo umore e vi si adatta, oscillando pericolosamente all’interno del secchio, la spugna gialla in superficie che naufraga come una zattera alla deriva.
“Quello è il sapone che fa vostra madre?” domanda Harry, non appena lo vede rientrare. La voce fievole sembra all’improvviso aver acquistato un po’ di vigore, nutrita della felicità e della sicurezza che Zayn sa infondere nel suo petto.
Quest’ultimo china appena il capo e gli sorride, mentre la mente – contro la sua volontà- riporta a galla ingialliti ricordi d’infanzia, fotogrammi immobili e fortemente espressivi: un paio di braccia ossute da ragazza che lo stringono, un cappello poggiato a forza sulla testa, una fetta di pane in più regalatagli per il giorno del suo ottavo compleanno …
“Siamo pronti a tornare lindi e affascinanti?” scherza Zayn, ammiccando, e con la rapidità di un soffio di vento la sua nostalgia sembra essere stata spazzata via dalle occhiate maliziose di Harry.
 
Il prigioniero tiene il viso schiacciato contro le grate della cella e sposta qua e là gli occhi verdi e acquosi, sorridendo un poco. È una visione che mi lascia sgomento ma, mio malgrado, sono costretto a mandar giù il nodo alla gola e a prender posto su una sedia tarlata che pare la cosa più lussuosa, qui dentro.
“Benvenuto!” urla lui, allungando le dita della mano oltre le grate.
Io sussulto, colto alla sprovvista; sarei pronto a far chiamare un padre esorcista, se quella vista dovesse continuare a pararsi di fronte ai miei occhi ancora per molto.
Mi è stato imposto di avere quanti meno contatti possibili con il giovane. Dicono che sia folle, in paese tutti conoscono il suo nome e lo deridono. Ma mi sono appena trasferito, non conosco nessuno, e ho preferito non farmi alcun tipo di opinione.
Però, ad onor del vero, quelle labbra rosee e sottili, piegate all’insù da qualcosa che si spinge oltre la mestizia, e quegli occhi d’inconsistente bramosia sembrano suggerirmi che i pettegolezzi, in paese, abbiano buona ragione d’esistere.
“Chi siete?” chiede il prigioniero, reclamando nuovamente la mia attenzione. Non saprei dire se l’esuberanza che ostenta sia figlia dell’egocentrismo o del disperato bisogno di entrare in contatto con qualcuno, in quell’ambiente asettico nella mobilia come nei sentimenti.
Non rispondo, non sono tenuto a farlo. In realtà, ho addirittura l’obbligo di non parlare affatto. Ma quello: “Sono Harry Styles e non accetto che mi si chiami per cognome, com’è usuale tra la gente” aggiunge, quasi a volermi spronare affinché anch’io mi presenti. In realtà conosco già il suo nome: mi hanno fornito abbastanza dettagli sulla sua persona prima che salissi in cima alla torre.
Non proferisco parola per l’ennesima volta, ma quello non demorde – sembra piuttosto cocciuto e questa, in fin dei conti, è una qualità che apprezzo di buon grado, nelle persone.
“Non dovete essere molto felice del vostro incarico” riprende, piccato “Se lo foste, mi avreste già messo a tacere in malo modo. Invece state seduto lì, prigioniero del silenzio quanto io lo sono di questa cella. Voi, mio caro, diventerete pazzo se vi ostinerete ad ignorarmi per il tempo che io vivrò. Lo sapete, no? La vostra intera esistenza è legata alla mia morte”.
In paese si dice che Harry Styles riesca a leggere gli animi delle persone, per poi piegarli alla propria volontà. C’è chi afferma che egli sia uno stregone, chi è più semplicemente convinto che si tratti di un tipo losco, per quanto estremamente empatico. Io non so se esista la magia e di certo non ho la più pallida idea di cosa sia l’empatia, ma Harry Styles ha sicuramente letto nel mio animo e lo sta piegando alla sua volontà.
“Mi chiamo Zayn Malik  ma, se preferite, posso essere semplicemente Zayn” dico, incapace di fornire delle direttive o delle restrizioni alla mia mente. “Preferirei essere al vostro posto piuttosto che dover svolgere questo lavoro” ammetto, sfoggiando il mio consueto cipiglio crucciato, un abito cucitomi addosso.
“Anche io preferirei essere al mio posto, se fossi in voi” scherza Harry, schiacciando un occhio nella mia direzione. Pare che voglia essere amichevole. O forse lo è davvero.
“Perché siete qui?” gli chiedo: è il mio turno di fare domande e – questo è sicuro- quantomeno nel rivolgermi la parola, Harry non sta infrangendo nessuna regola.
“Ho dichiarato guerra al duca” è la risposta. Pronta, rapida, concisa.
“Non sembrate essere un tipo di tale prestanza fisica da poter sostenere un combattimento” osservo, accennando al suo petto asciutto, ma di certo non muscoloso.
“Nemmeno voi” mi rimbrotta lui, leggermente offeso dalla mia constatazione “Ad ogni modo, l’unica arma con cui io dichiaro guerra sono le parole”.
 
Zayn si china a terra e prende posto proprio di fianco alle gambe di Harry. Sa che l’altro non ha le forze necessarie per muovere un solo muscolo; se i suoi conti non sono errati, la cuoca non porta gli scarti del pranzo da almeno cinque giorni. E in ogni caso, cinque giorni fa Harry ha trangugiato una sola fetta di pane. Zayn, come sempre, si aspetta che possa svenire da un momento all’altro.
È per questo – o perché il suo corpo sta ribollendo di desiderio- che gli si avvicina e lo aiuta a svestirsi pian piano. Sta toccando una bambola di porcellana finissima - ne è consapevole- e non può permettersi che questa gli sfugga dalle mani e si infranga a contatto con il suolo. È con grande difficoltà – gli sembra di essere in preda a tremendi reumatismi- che fa uscire i bottoni dagli occhielli della tunica; le mani gli tremano e Zayn prega con tutto se stesso perché Harry, nelle condizioni in cui si trova, manchi di perspicacia e non si renda conto di come la sua presenza influisca su di lui. Sfila la tunica con estrema cautela, poi le sue mani iniziano a percorrere, timide e insicure, il torace dell’altro, registrandone i respiri affannati. Harry è scheletrico: le costole quasi bucano il velo sottilissimo di pelle diafana che le ricopre; le gambe, già sfilate quando stava bene, adesso sono ridotte a due misere stanghette di ferro.
Ma a Zayn poco importa: si improvviserebbe pittore, pur di immortalare quel corpo perfetto, a cui intende donarsi con devozione.
 
“Se avessi studiato, probabilmente sarei in grado di comprendere ciò che avete scritto. Ma con le conoscenze che mi ritrovo, per me questi potrebbero essere benissimo antichi papiri, pieni di segni indecifrabili” confesso, scorrendo i polpastrelli sulle pareti della cella, ormai colme di parole anche negli anfratti più nascosti e impensabili.
“È il mio diario di viaggio, è giusto che non sia comprensibile” sussurra Harry, con lo stesso cipiglio orgoglioso che ho letto negli occhi di mio padre, quando ho preso in mano le armi. E d’altronde, non potrei certo stupirmi - le parole sono le sue figlie più care.
“Qual è il vostro viaggio?” domando, piuttosto sorpreso della spiegazione che mi è stata appena fornita. La nostra prigionia mi sembra soltanto un lungo cammino verso un patibolo agghindato di armi e parole, di certo non la intendo come un viaggio.
Harry non risponde. Poggia le mani sulle mie spalle e mi costringe a voltarmi verso di lui; mi osserva, come a voler pulir via la patina scura che ossida i miei sentimenti, e: “Ed il vostro?” chiede, soffiando quelle parole a pochi centimetri dalle mie labbra.
Non è la prima volta che obbedisco al volere di Harry senza opporre alcuna resistenza. Un tempo, la cosa mi inquietava, credevo di essere addirittura asservito a lui. Ma ho avuto modo di capire che il mio è soltanto un privilegio, che oramai sono l’unica persona capace di dar credito alle meditazioni di Harry. “Il mio sogno è quello di fuggire insieme a voi” confesso, il cuore che martella incessantemente contro il mio petto “Vorrei vivere nel bosco, svegliarmi con voi, osservarvi mentre scrivete e …” mi interrompo. È una fortuna che il mio buon senso sia venuto a soccorrermi proprio prima che rivelassi il mio più bruciante e vergognoso desiderio.
Ma quando Harry ripete: “E … ?”, non sono più capace di tacere i miei sentimenti e, irritato più che imbarazzato, mi osservo mentre dico: “E baciarvi”, come se stessi confessando le mie parole a quelle mura, non alla persona di cui mi sono invaghito.
Harry ride e mi afferra per i polsi: non ho idea di cosa intenda fare – ha la luce dell’ira negli occhi- ma mi trovo a pensare che, qualsiasi cosa decida, accoglierò ogni sua scelta, dalla più mite alla più distruttiva. Invece si avvicina a me e mi bacia, lento, premuroso ed estasiato, e allora ringrazio che le mie difese crollino ogni qualvolta Harry Styles proferisce parola. Le sue labbra che si muovono sulle mie sono decisamente più preziose dell’autodeterminazione.
 
Zayn teme di essere eccessivamente brusco nei movimenti, che la sua ansia trapeli e si faccia manifesta, nella sua ridicolezza, agli occhi di Harry, che una risata farfallina gli scappi dalle labbra, puerile e inopportuna. Le sue mani sono ancora tremanti, contro ogni tentativo della mente di averle salde e sicure: ora che il corpo del prigioniero è nudo, non sanno più dove posarsi.
C’è una piccola cicatrice che corre, arrogante e cruda, lungo il petto di Harry, un paio di escoriazioni rossastre sulle gambe, alcuni graffi profondi sui polsi; e Zayn si arrovella, angosciato, tutte le volte che individua sul corpo dell’altro le tracce di un dolore passato, di cui il presente è solo uno spettro.
Harry Styles sembra fatto di parole, molto più del poema che sta componendo: il suo viso è angelico, la sua pelle è soffice, i suoi occhi sono il mare sconfinato in cui Zayn si getterebbe volentieri, senza ponderare la gravità dei pericoli e delle conseguenze. Ogni cosa in Harry Styles non esiste e basta, così com’è, ma spalanca migliaia di porte, quante sono le sfaccettature della sua indole.
Zayn, ammaliato, in preda all’ipnosi che è il suo amore, non può fare a meno di chinarsi sul petto scavato dell’altro e di avvicinarvi le labbra, per poi baciarlo lascivamente, come a voler sanare le ferite aperte dalla frusta, ogni qualvolta il signore tenta di far ritrattare a Harry i suoi scritti. Questo, dal canto suo, è spaventosamente invaghito di Zayn, più di quanto la sua consapevolezza possa a suggerirgli. Alla guardia riesce di cibarsi della mancanza che consente a Harry di ammucchiare abilmente versi su versi, in un modo che non gli fa più desiderare di scrivere. Zayn diventa un perno altamente magnetico, il bene verso cui tende la sua sanità mentale; è l’unica follia che gli impone di rimanere cosciente, ogni qualvolta sente di dover saziare la propria bramosia. È per questo che il giovane ardisce di sollevare una mano rachitica e inizia a sfiorare, blando e affettuoso, il viso di Zayn. La prima sensazione che prova è sollievo, di quelli serafici e saldi, che sanno spandersi nei cuori e liquefare, come una fiamma portentosa, ogni sorta di orrore. “Che il vostro Dio vi ringrazi” sussurra, chiudendo gli occhi e implorandolo di continuare a muovere le mani sulla sua pelle nuda, perché ogni tocco cancella una cicatrice.
Zayn non è mai riuscito ad essere così tristemente felice; nemmeno quando, in quella cella, ha ricevuto il suo primo bacio. Poggia una mano sulla schiena di Harry e, con qualche sforzo, lo costringe a mettersi seduto. È un invito che il prigioniero sa cogliere, quando, richiamando a sé tutta la forza residua, sfila le maglie dal capo di Zayn, scioglie i fiocchi della camicia e, dopo averne allargato il bavero, gliela toglie di dosso pian piano, con la stessa cautela che gli è stata riservata, lasciandola scivolare sulle spalle asciutte e scoprendo un torace scolpito di cui non era ancora a conoscenza. Le sue forze sono ridotte allo stremo, perciò preme i palmi contro il petto della guardia e gli intima silenziosamente di stendersi per terra, così da potersi abbandonare su di lui.
Zayn lo accontenta e gli accarezza licenziosamente le braccia mingherline, con la schiena che preme contro le basole gelide. Lo adagia sul pavimento, avvicina a sé il secchio colmo d’acqua e, con la dedizione di chi è follemente devoto, lava via da quel corpo il sudiciume e il dolore; ad ogni colpo di spugna, costruisce una realtà più leggera, le cui fondamenta si ergono su una felicità caduca, ma vogliosa di estendersi oltre i confini del tempo. Ogni volta che un po’ d’acqua bagna la pelle di Harry, Zayn è pronto a fargli dono di un bacio. Per la prima volta dal momento in cui si sono conosciuti, è Harry che abbatte le sue difese e, riverso per terra, si lascia sfiorare e baciare, lungo le gambe, l’addome, le braccia …
Zayn si riserva di lavare il viso per ultimo. Quando anche la bocca secca è stata pulita, le loro labbra possono finalmente trovare la pace, cercandosi, abbracciandosi, avvinghiandosi per il poco tempo che rimane. La lingua di Harry si muove sul palato di Zayn, fendendone ogni tentativo di autocontrollo; quello cerca il corpo dell’altro e vi fa aderire il proprio, il desiderio esasperato che si spande, caldo e opprimente, all’altezza del ventre. Si volta – e adesso è il petto a rabbrividire per il freddo pungente del pavimento- sente le gambe di Harry avvolgersi attorno alle proprie, ripete a perdifiato il nome di colui che, in quel momento, sta stringendo le mani nelle sue e di tanto in tanto ride, stavolta davvero. È una prigionia anche questo possedersi a vicenda, questo stringere possessivamente tra le dita la chiave del tripudio dell’altro, un destino da cui nessuno dei due sarà mai capace di svincolarsi.
Zayn si solleva sui gomiti, guarda Harry negli occhi e sussurra qualcosa che potrebbe saziare la sua fame per sempre, molto più delle parole o del cibo. “Vi amo, Harry Styles. E proprio perché vi amo, intendo fuggire con voi”.
La guerra delle armi e delle parole è giunta al termine; non è più il tempo delle lotte. Ciò che resta, nel silenzio immobile della torre nord, sono due corpi nudi e ansanti che allacciano una promessa di sangue, riversando il loro candido piacere sulle basole fredde e ingrigite del pavimento, sopra le parole di un poema incompiuto.
 
 “Stringetevi a me” mormora Zayn, scoccandogli l’ennesimo bacio a fior di labbra “Stringetevi a me e procederemo più velocemente”.
Harry non esita ad obbedire e circonda le spalle di Zayn con un braccio, appoggiandosi a lui con fiduciosa arrendevolezza, un paio di mani diafane che, in preda alla disperazione, cercano delle dita ambrate da afferrare.
Zayn riesce a muoversi abilmente tra i corridoi del castello: ne ha stilato una mappa e, dal momento in cui ha ideato il piano, si è addirittura preoccupato di memorizzare le posizioni dei soldati e i loro turni di guardia. Evita le zone in cui sa di poter trovare uomini aitanti e si dirige verso quelle in cui vi sono guardie meno esperte, arruolatesi da poco.
Harry ha difficoltà a camminare e tenta di rimanere lucido solo per amore di Zayn, ma non gli dispiacerebbe cadere per terra, svenuto, battere la testa contro il marmo duro e non svegliarsi mai più dal sonno consolatore che è la Morte.
Zayn, invece, lo guarda e pensa che finalmente è bello, non importa quanto sia triste. Lo è sempre stato – è vero, ma adesso sfoggia una bellezza universale, figlia di una libertà appena assaggiata e pronta ad essere riacquistata. Adesso la sua chioma riccia brilla, sana e lucente, gli occhi non sono più sfere languide e spente, sul viso smunto è sorta la primavera di qualche sorriso appena accennato e, con addosso un mantello amaranto – di quelli con il bacucco ampio, che lambiscono il terreno mentre si cammina, le forme del corpo sembrano essersi fatte più morbide, anziché mostrare le linee dure e spigolose del deperimento. Zayn  - così, d’improvviso, come colto da un attacco d’ira- strattona Harry per un braccio e lo costringe a fermarsi: vuole stringerlo a sé ulteriormente e affondare il viso nell’incavo del suo collo, fino a scoprire come l’odore dei vestiti che gli ha prestato si mescola a quello lieve e naturale della sua pelle. E la fragranza che percepisce è pizzicore ammaliante, olezzo soave nel quale vorrebbe crogiolarsi fino alla morte del giorno, profumo che potrebbe esser tradotto in una composizione per pianoforte e risultare ugualmente inebriante - Zayn sarebbe addirittura pronto ad improvvisarsi pianista, per farlo. “Non ho mai visto niente di più bello” confessa, e poco gli importa che, fino a quel momento, sia stato l’unico a palesare i propri sentimenti,ricevendo in cambio qualche mera moina, stanca e stentata.
Harry è ancora insicuro: a volte trema, a volte morsica le labbra per scacciare via quella tremenda tensione che si annida nelle viscere e infetta il sangue. Anziché rispondere ai complimenti di Zayn, si dimena, scioglie l’abbraccio e domanda: “Siete sicuro che non verremo scoperti?”
Non è per se che si affligge: il suo corpo è già putrefatto, inumato sotto la pesantezza della prigionia, la sua mente sembra aver trangugiato cicuta come fosse acqua, incorrendo in una morte tardigrada e assai penosa. Harry sa che, comunque vada, non sarà mai più libero; ma, per quel che vale, si sforza di far dono della libertà quantomeno a Zayn, anche al prezzo di vivere confinato nello spettro della sua felicità, finché la vita gliene farà la grazia.
E, quando Zayn dice: “Sono più che sicuro: il padrone è andato a far visita al marchese e ho studiato per settimane la posizione delle guardie e i loro turni”, Harry finge di accontentarsi della risposta. Ripone volentieri la sua fiducia in Zayn, è certo che non potrebbe mai essere tradito da lui; ma della Sorte, chi è lo stolto che non dubita della Sorte?
Harry Styles è, fuor di dubbio, l’uomo più intelligente che Zayn Malik abbia mai incontrato – per quanto la cerchia delle sue conoscenze sia piuttosto ristretta. In mesi e mesi di forzata e deliziosa convivenza, non lo ha visto cadere in errore nemmeno una volta. Eppure ne avrebbe avuto modo e sarebbe stato giustificabile, per di più. Ha vissuto in uno spazio ristretto per mesi, confinato come una bestia destinata al macello, lui che con la sola forza della mente varcherebbe le soglie di mondi nuovi, incantati ed esotici, impervi, ghiacciati, infuocati, inospitali o abitati. Pur tuttavia, la sua mente ha dimostrato salda fermezza dinnanzi alla crudeltà, e la follia, da principio giunta ad annientarlo, ho soltanto nutrito la figura dell’artista che, per dono di Dio o per impegno personale, il giovane ha ottenuto di essere.
Harry Styles crede che non si debba porre fiducia nel vigore volubile della Sorte, che Ella è un’amica votata al tradimento. E non si è affatto sbagliato. Quella Sorte maledetta, bendata com’è, gli spinge il piede contro una lastra rialzata del pavimento. Sono pochi gli istanti che Le occorrono per smorzare l’equilibrio degli innamorati sventurati. La Sorte – dice Harry Styles- è la maestra capricciosa e portentosa che mette a tacere persino l’Amore.
Quando, nell’udire il fracasso della loro caduta, i soldati accorrono verso la fonte di tanto clangore e scoprono i corpi ansanti, inermi e sgomenti di Harry e Zayn, l’uno chino sull’altro, l’Amore è già svilito e morente e la Sorte si prepara a cantare vittoria.
“Quello è il prigioniero, fermatelo!”, “Uccideteli”, “Traditore, Dio vi riserverà una spietata punizione per questo!”. Urlano così, i soldati. Ma la promessa indelebile di Harry Styles è di gran lunga più potente: “Io vi amo, Zayn Malik” sussurra, sfiorando con le labbra l’orecchio dell’altro. Non conosce parole più vere, e  per questo si trova di nuovo in gabbia. Ma adesso che le sbarre alla finestra sono gli occhi di Zayn e le basole del pavimento sono le sue membra asciutte e le mani delicate nelle quali acchiocciolarsi, per la prima volta Harry si scopre a pensare che, se proprio deve perire da prigioniero, è ben lieto di spirare tra le grinfie del suo innamorato.
Zayn sorride appena, prima che una spada li trafigga entrambi e consenta loro di agonizzare verso la libertà.
 
 
 
Angolo autrice.
 
Buongiorno, seguaci – o forestieri di passaggio, fa lo stesso.
Il miracolo di oggi consiste nel fatto che sono tornata su EFP dopo quelli che mi sono parsi secoli. L’altro è che, per la prima volta, ho postato una piccola OS storica – wtf, dov’è finita la mia inutile e pedante (?) prolissità?- quasi decente. O indecente al minimo grado, come preferite.
Dunque, fino ad ora ho sempre pubblicato solo delle Larry, eccetto una Ziall (sì, ho iniziato a shippare lievemente Zayn e Niall, per colpa di quella sadica della mia amica Chiara), ma ho deciso che, perlomeno con le OS, sperimenterò un poco e tasterò il terreno delle altre ships. Ho voluto inaugurare questo percorso temerario con una Zarry e spero davvero di avervi fatto compagnia con una lettura che meritasse il vostro tempo – come si dice?, chi ben comincia è a metà dell’opera!
Probabilmente vi sarete chiesti più volte che razza di senso avesse la prima parte della storia, quella sull’Amore come follia e mancanza et similia. Allo scopo della trama, non aveva alcuna utilità. Ma ho abbozzato la mia OS subito dopo aver assistito ad una conferenza di Umberto Galimberti – sia lodato quell’uomo!- su quest’argomento, mi sono intestardita e l’ho inserita, tentando di amalgamarla con la follia di Harry. Il risultato è stato un delirio estenuante che temo verrà compreso da pochi, ma tant’è …
Tra l’altro, la descrizione dell’estro di Harry è stata ispirata da una leggenda di San Girolamo su Lucrezio, che io ho avuto la presunzione di ribaltare, affermando che Harry scrive durante i momenti di follia – l’esatto contrario di quanto narrava Girolamo a proposito di Lucrezio.
L’idea delle scritte sul pavimento della cella e sulle pareti è invece frutto di una visita d’istruzione a Lecce, precisamente al Castello Carlo V.
 
So che l’incipit è piuttosto pesante, come in generale tutta la prima parte, ma ho tentato di inserire un po’ di fluff qua e là (sì, sono ancora io; è solo che mi sto sforzando di sperimentare cose diverse - ad ogni modo il pesante retrogusto dell’angst vi ha accompagnato come un macigno per tutto il corso della storia) e spero che abbiate apprezzato, per quanto io non sia per niente brava con questo genere di cose.
Sappiate che non ho finito con il genere storico! Ho in cantiere una long (o una mini-long, devo ancora decidere) le cui bozze stanno facendo la muffa da un sacco di tempo. Ho intenzione di essere quanto più possibile fedele ai fatti storici che narrerò, quindi devo documentarmi a più non posso e  purtroppo ho iniziato a farlo solo oggi, dato che il tecnico mi ha restituito il laptop ieri – e finalmente, aggiungerei.
Spero di raccogliere qualche parere in più del solito, soprattutto per capire come riesco a muovermi in questo genere che mi è del tutto nuovo – più o meno.
Ci sentiamo presto,
Cassie. (:
 
   
 
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