Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: MadLucy    07/11/2013    5 recensioni
Sono passati ormai otto anni dalla prematura morte di re Joffrey; ora sul Trono di Spade siede Tommen Baratheon, bello quanto ignaro, manovrato con fine astuzia dall'intraprendente moglie, Margaery Tyrell. Al Nord regna Bran Stark: il suo improvviso ritorno è avvolto in una caligine di mistero, così come il sinistro e devastante potere grazie al quale ha conquistato il comando; al suo fianco c'è la moglie Meera, ma a corte tutti sanno che il re passa le notti nel letto del suo consigliere più fidato. Quando, per vendicare i torti subiti dalla sua famiglia in passato, il principe barbaro Rickon Stark si sporca le mani di sangue Lannister e rapisce la principessa Myrcella, non si può più tornare indietro: è guerra. Che parte interpreteranno Sansa Stark, Yara Greyjoy e Gendry Waters in tutto questo? Tra amori conflittuali, alleanze strategiche e scandali a palazzo, i nuovi concorrenti possono schierare le pedine: e che il gioco del trono abbia inizio.
(Bran/Jojen; Rickon/Myrcella; Gendry/Arya)
Genere: Generale, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bran Stark, Myrcella Baratheon, Rickon Stark, Shireen Baratheon, Tommen Baratheon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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note varie
II. Grigio fu il richiamo.



A Robin Arryn non era mai piaciuto occuparsi degli affari di corte, Alayne lo sapeva bene. Però questo era ormai divenuto un suo obbligo da quando l'esile bambino dai grandi occhi castani e le spalle gracili, che si raggomitolava pigramente al fianco di sua madre, era diventato un alto e smilzo adolescente di carnagione cerea e costituzione linfatica. 
-E chissene frega di quel che dice uno stupido architetto! Io voglio un vero parco degli dei quassù: con gli alberi e tutto. Non mi importa come, ma lo voglio avere. In che maniera lo si debba costruire, sei tu che te ne occupi. È il tuo lavoro, no? Arrangiati.- Robin tirò su con il naso furiosamente, infastidito dall'influenza che gli inumidiva le narici. -Scommetto che con mio padre non facevate tutte queste storie, per obbedire ai suoi ordini...-
Mentre parlava, tormentava con le lunghe dita affusolate gli zaffiri incastonati sui gemelli della sua giacca; le sue mani bianche e magre erano perennemente in movimento, in una specie di riflesso nevrotico. -Nel giardino ci voglio anche una statua in marmo del Cavaliere Alato: sì, una bella statua. E sulla base dev'esserci scritto: in alto quanto l'onore.- Robin contemplò l'ipotesi per qualche istante, poi parve scartarla, aggrottando le sopracciglia rade. -Che poi, non ho mai capito questo motto. Voglio dire, in alto cosa? Io? Io sono già in alto. Io sono più in alto di tutti quanti. E posso schiacciarli quando mi pare.-
Un lucido ciuffo di capelli neri come la piuma di un corvo gli carezzava delicatamente l'attaccatura del naso. Il viso d'avorio era minuto, con lineamenti graziosamente modellati, ma la pelle membranacea, il profilo vulnerabile e le palpebre -che talvolta tremavano convulsamente- richiamavano senza fraintendimenti l'idea della malattia. Il ragazzo era avvolto dalle spalle ai piedi in un mantello pesante color indaco, dal quale emergevano i polsi ossuti e le dita agitate. La sua figura elevata sul trono quasi lampeggiava a intermittenza nel pulviscolo dell'aria, poco più d'una apparizione spettrale; i capelli di bluastra oscurità erano l'unica nota davvero vivida.
Fu a quel punto che Alayne entrò nella sala.
-Buongiorno, mio signore. Spero che abbiate riposato bene questa notte; è caduta molta grandine, l'ho udita distintamente.-
Sollevò lo sguardo ad incontrare quello del marito, seduto sul suo trono di legno intagliato a forma d'ala d'aquila, a dondolare distratto una delle gambe snelle. Robin sgranò gli occhi sporgenti, mentre un sorriso enfatico ed esclamativo stiracchiava le labbra sottili, ed il suo volto dalle efebiche fattezze e dall'anemico pallore s'accendeva tutto.
-Giungi a proposito, Alayne! Stavo parlando del parco degli dèi da costruire, chè tu possa pregarci come facevi a casa tua. È un pezzo che ti aspetto, sai? Stavo proprio crepando di noia senza di te, e ti perdono solo perchè sei meravigliosa con quel vestito. Lo sei sempre, in effetti.-
Alayne piegò di rimando le labbra, soavemente, abituata al petulante modo d'esprimersi del ragazzo -talvolta isterico, talvolta euforico, ma sempre sul ciglio dell'irragionevolezza. Ella portava un abito composto da una sottoveste di broccato damascato blu, sopra la quale s'intrecciava la trama d'un corpetto e scendevano con sinuosa morbidezza delle ampie maniche a losanga color crema, che pendevano fino alle ginocchia: blu e crema, i colori della casa Arryn. Lo scollo esponeva un'abbondante porzione del petto immacolato, nonchè le delicate clavicole e la curva del collo slanciato. Alayne sapeva quanto a Robin piacesse quel vestito -che, con la sua tonalità cobalto, metteva in risalto la nivea luminosità del viso a forma di cuore, la mitezza degli occhi chiari, il disegno impeccabile degli zigomi e delle guance.
-Ser Lothor!- s'interruppe Robin di colpo, voltando di scatto la testa in un'altra direzione. -Non pensi anche tu, che mia moglie sia meravigliosa con questo vestito?-
Lothor Brune, capo delle guardie, confermò condiscendente. -Ma certo, mio signore.-
-Vedi che lo pensano tutti? - annuì il lord, soddisfatto. Infine la sua fronte s'increspò, al pari della superficie d'un lago infranta da un sasso, che generi mille cerchi concentrici a disperdersi uno dopo l'altro. -Quella sciocca grandine non avrà mica turbato il tuo sonno?-
-Niente affatto, mio signore, ma è stato davvero premuroso da parte tua preoccupartene.- Alayne si avvicinò al trono e trattenne con una mano le gonne, che frusciavano delineando i movimenti delle sue cosce. -Cosa ho interrotto?-
-Niente.- tagliò corto Robin, tediato. -Stavo spiegando a questi idioti che devono inventarsi qualche maniera per piantare gli alberi quassù... Ma credo che a questo punto rimanderò. Oggi sono stufo. Uscite, avanti! Uscite tutti. Andatevene. Mi avete stufato.-
Schioccò le dita e tutti gli artigiani fatti convocare, tutti i ministri di palazzo si dispersero, rapidi come un nugolo di topolini. Quando la sala fu colmata soltanto dalla luce che le finestre ad arco filtravano limpidamente, Robin le fece cenno con la mano di raggiungerlo ed ella obbedì lesta e docile, scostando l'orlo delle voluminose gonne per scoprire i piccoli piedi, calzati in stivaletti con le stringhe, e salire i gradini: egli l'attirò a sè e le baciò le labbra.
-Ti sei svegliata presto?- domandò, attorcigliando attorno al dito una ciocca dei suoi lunghi capelli, castani come la pelliccia d'una lontra.
-Io mi sveglio sempre presto, mio signore.- La moglie gli si sedette in grembo, come lui ordinò perentoriamente con un gesto. -Ti ricordo che dopo pranzo dobbiamo procedere con il giudizio dei detenuti...-
Tutti nella valle di Arryn erano a conoscenza del fatto che lord Robin voleva occuparsi personalmente dei condannati, per decidere se costringerli ad una semplice pena pecuniaria oppure... se farli volare. Gli occhi di Robin s'animarono ed egli divenne ancora più raggiante.
-Ma sul serio? Me l'ero persino scordato.- Allungò sornionamente le gambe davanti a sè. -Il giudizio è il nostro gioco preferito, non è vero, Alayne?-
-È vero, mio signore.- Alayne sorrise complice, poi si prese qualche secondo prima di cambiare argomento. -Posso porti una domanda che non ti piacerà?-
Robin storse il naso, irritato da quella premessa. -E quale sarebbe?-
-Perchè non vuoi più che il Maestro Colemon ti faccia i salassi? Siamo tutti molto preoccupati per la tua salute, mio signore. I salassi, sì, sono un po' dolorosi, ma ti fanno guarire...-
-I salassi non servono a niente.- borbottò Robin, con il tono di chi ritiene l'argomento chiuso. -Me ne hanno fatti centinaia, nella mia vita, e mi sono sentito sempre più debole e basta. Odio i salassi, e odio anche il Maestro Colemon. È un vecchiaccio e sono contento che fra un po' creperà e lo sostituiremo, magari con qualcuno che non mi dice di fare i salassi...-
Alayne trattenne un sospiro. A volte suo marito si comportava esattamente come il bambino che era otto anni prima; come prova, bastava il fatto che adorava infilare il verbo crepare nelle proprie frasi almeno tre volte al giorno, proferito con sogghignante sprezzo.
-Se non vuoi farlo per il tuo bene, fallo per il mio. Ti supplico, non farmi passare notti tormentose al pensiero che potresti peggiorare... Non facendo i salassi, rischi di stare ancora più male, anche di...-
-... morire?- completò Robin al posto suo. Il suo viso si fece torvo, e Alayne capì di avere usato le parole sbagliate. Con Robin, era questione di misurare i toni ed azzeccare il termine adatto, ma non era semplice intuire in anticipo quale potesse essere. -Tutti gli abitanti di Nido dell'Aquila hanno pensato almeno una volta che non avrei superato i dieci anni, Alayne. Invece io sono ancora qui. Io non sono morto! Io sono vivo! Io sono vivo come tutti voi, e sarò l'ultimo a morire, te lo giuro. Io sono qui, sono il lord, e sono vivo! Vivo!- Robin sbattè un pugno contro il bracciolo del trono e la sua voce, non tanto potente ma parecchio acuta, s'infranse con gran fragore contro le pareti di marmo latteo. Il suo volto era irrigidito dalla rabbia e le mani gli tremavano vistosamente; una realtà deforme ma ipnotica, dalla quale egli invano cercava di distogliere lo sguardo, gli dilatava le pupille come specchi d'ossidiana. Alayne, spaventata, si affrettò a prenderle fra le proprie ed a baciarle in fretta.
-Non ti agitare, mio Pettirosso, sai che così ti vengono gli attacchi! Ti prego, calmati... Dimentica quello che ti ho detto.- si arrese infine, pur di rasserenarlo. -Non farai i salassi, se non vuoi. Però adesso respira a fondo e guardami...-
Robin obbedì. I suoi occhi marroni, così teneri e fragili, sussultavano in quelli della moglie come un cuore in tumulto. Quando Alayne sorrise, rassicurante, Robin espirò lentamente e poi deglutì nervoso.
-Va meglio?- chiese lei sollecita. Come risposta ebbe un debole cenno affermativo.
La morte aveva giocato a nascondino con Robin dal giorno della sua nascita. Ogni tanto, quando gli venivano gli attacchi o la febbre, tutti bisbigliavano pianissimo il nome di quella, di quella che lui non aveva mai visto; quando egli chiedeva chi fosse, nessuno osava rispondergli. Poi un giorno sua madre gli aveva annunciato piangendo che quella era tornata e aveva portato via suo padre, in qualche posto che solo quella conosceva; quando Robin proponeva di andarla a cercare, tutti inorriditi scuotevano la testa. Infine Lysa. Era rimasta a letto per giorni e poi, all'improvviso, la notizia: quella era passata a prenderla proprio durante la notte. Com'era possibile? Robin non l'aveva nemmeno sentita mentre saliva le scale. Ma se Nido dell'Aquila era inespugnabile, allora quella come aveva fatto ad entrare? Ancora silenzio, e ancora le stesse parole sussurrate di nascosto, che presto la morte avrebbe reclamato anche l'ultimo membro della famiglia. Ma ogni volta che Robin credeva di essere sul punto d'incontrarla, assalito da un attacco terribile, non appena riusciva già ad intravederne la sagoma in lontananza, nel momento in cui quelle grinfie avanzavano a stringergli la mano, allora egli si sentiva meglio e quella scappava via, senza lasciare tracce. Era talmente timida, talmente codarda, che non aveva ma avuto il coraggio di presentarsi davvero, ma solo d'annunciare la sua venuta ogni tanto, di far presagire il suo arrivo, per poi disdire e rimandare.
A quel punto le porte della sala del trono d'aprirono. Era Petyr Baelish, un tempo marito di Lysa Tully, rimasto a corte in quanto padre di Alayne.
-Perdonate questa deplorevole intrusione, miei cari. È arrivata una lettera da parte del re in persona.- Sollevò la busta che stringeva in mano, chiusa con il sigillo reale. -Robin, sei disposto a dedicarci un istante d'attenzione?-
Robin lo squadrò dubbioso, non particolarmente interessato, ma seppur controvoglia annuì. -Sapevo che prima o poi sarebbe arrivata. Leggila, lord Ditocorto... per favore.- aggiunse infine, memore della cortesia che gli doveva.
L'uomo strappò la busta e dispiegò il foglio al suo interno; dopo aver tossicchiato con fare d'importanza, iniziò.
-"A Robin della nobile casa Arryn, lord di Nido dell'Aquila, Difensore della Valle, Protettore dell'Est, da Tommen della nobile casa Baratehon, primo del suo nome, Re degli Andali, dei Rhoynar e dei primi uomini, lord dei Sette Regni"... o meglio, da Tyrion Lannister il folletto.- precisò Baelish, storcendo la bocca in una smorfia sarcastica. -"Sua Maestà il re pretende spiegazioni riguardo il passaggio dell'esercito di Brandon Stark attraverso i territori di competenza di lord Robin Arryn e l'attacco a Runestone, anch'essa città che lord Robin Arryn, in quanto Protettore della Valle, avrebbe dovuto difendere. La missione dell'esercito del Nord era uccidere sua Maestà il re, perciò il permesso di passaggio può essere da Sua Maestà inteso come complicità verso i traditori della corona e, di conseguenza, come tradimento. A meno che lord Robin Arryn non esponga valide ragioni rispondendo alla qui presente lettera entro otto giorni, Sua Maestà il Re dichiarerà guerra. Firmato: Tommen della nobile casa Baratheon", eccetera eccetera.- Ditocorto piegò il foglio a metà e sorrise. -Naturalmente, ho già scritto una lettera di risposta... Posso sottoportela?-
Robin fece un cenno di sì, continuando a giocare con i capelli di Alayne.
-"A Tommen della nobile casa Baratheon," eccetera eccetera, questa parte la sappiamo tutti a memoria. "Lord Robin Arryn fa presente a sua Maestà il re che non ci sarebbe stato il tempo materiale di riunire un numero sufficiente di contingenti, tenendo conto delle proporzioni dell'esercito degli Stark, e che le Montagne delle Luna sono luoghi estremamente difficoltosi da attraversare. Era impossibile prevedere l'attacco in tempo utile. È risaputo inoltre che la casata Stark di recente ha dimostrato di aver sviluppato poteri fuori dal comune di eccezionale letalità, contro i quali nessun comandante vorrebbe avere a che fare, non conoscendo neanche la loro natura. Lord Robin Arryn non intende schierarsi dalla parte dei traditori, in quanto fedele al Trono di Spade, ma nemmeno contro di loro, in quanto condivide del sangue con la casata Stark. Lord Robin Arryn assicura inoltre che non prederà parte alcuna alla ribellione in nessuna maniera e che la fedeltà della Valle di Arryn rimarrà a Sua Maestà il re." Cosa ne pensa?-
Robin sbadigliò. -Va bene così, immagino. Mettici pure il sigillo, e firmala... Robin della nobile casa Arryn, lord di Nido dell'Aquila, Difensore della Valle, Protettore dell'Est. Visto, Alayne? Abbiamo risolto tutto. Quell'idiota di re pensava davvero che avrei portato la Valle in guerra?! È davvero così scemo?- Ridacchiò sprezzante fra sè. -Non voglio immischiarmi nelle loro zuffe. Se ho lasciato passare quei cugini barbari che ho è stato soltanto perchè me lo hai consigliato tu, Alayne, però non intendo alzare un dito per risolvere i guai in cui si stanno cacciando... com'è giusto. Io devo pensare al bene delle mie terre, e di mia moglie. Ora non verranno più ad importunarci, e potremmo vivere come abbiamo sempre fatto... solo tu ed io.-
Alayne fece segno di sì e gli baciò la fronte con le labbra fresche. -Non potrei chiedere di meglio, mio signore.-
-Sì, invece.- replicò il marito, esitando un istante. -Un bambino, per esempio. Che si chiami Artys. Artys, come il Cavaliere Alato.- decretò, compiaciuto.
La fanciulla arrossì pudicamente ed abbassò il capo. -Tutto a suo tempo, se gli Dei vorranno.-
-Mi dispiace interrompere questa stucchevole scenetta familiare,- intervenne Baelish, con un sorriso salace, -ma temo che non proprio tutto sia risolto. Anche i Royce hanno mandato una lettera, ma molto più eloquente e minacciosa di quella del re. Chiedono il motivo del mancato soccorso, ovvio.-
-Invia una risposta quasi identica, spiega le stesse ragioni anche ai Royce, e dì che presto manderò degli uomini per curare i feriti e riparare i danni.- Robin liquidò la questione con un cenno della mano, noncurante. -E fallo al più presto, lord Ditocorto.-
-Come comandi.- Baelish cercò gli occhi di Alayne. -Potrei parlarti un secondo, cara? Vieni pure a fare quattro passi con me, dato che devo spedire la lettera.-
Alayne s'alzò e s'aggiustò le gonne, rassettando la stoffa con le dita. -Tornerò al più presto, mio Pettirosso, promesso. Non ci metterò molto.-
Robin dissimulò il malcontento e seguì la loro uscita con lo sguardo, con un'indefinibile presentimento negli occhi. Sapeva, sì, che quei due gli avevano sempre nascosto un segreto: ma, data la luminosa amabilità di Alayne, non poteva che essere un segreto buono.
Appena la porta si chiuse alle loro spalle, Ditocorto intrecciò le dita dietro la schiena.
-Hai pensato a cosa hai intenzione di fare?- domandò senza preamboli.
Sansa Stark sospirò indecisa. -No, non ci ho pensato per nulla, in verità.-
Temeva il momento in cui avrebbe dovuto affrontare quella domanda. Da quando, otto anni prima, lord Baelish aveva salvato lei, ancora tredicenne, dalla prigione ch'era la Fortezza Rossa, dall'aguzzina ch'era Cersei Lannister e dal marito Tyrion, la sua vita era stata quell'indolente successione di giornate uggiose a Nido dell'Aquila; semplicemente, Baelish le aveva chiesto se desiderava fuggire con lui lassù, dove egli stava andando per sposare Lysa Tully, la vedova di Jon Arryn; il trucco sarebbe stato approfittare dello scompiglio a corte causato dall'accidentale morte di Joffrey, avvenuta in seguito ad una caduta da cavallo. Sansa aveva accettato e, dopo essersi tinta i capelli di castano, era diventata Alayne Stone, la figlia bastarda di Ditocorto -era stato quello l'espediente grazie al quale nessuno era riuscito a scoprire dove Sansa si trovasse. Dopotutto, nessuno degli abitanti di Nido dell'Aquila aveva mai visto la figlia di Eddard Stark, in modo tale da fare confronti; d'altro canto, chi si sarebbe avventurato sulla montagna per scoprire quale fosse il volto di Alayne? Cersei Lannister no di certo. E, se per assurdo la notizia fosse dilagata per i Sette Regni, Nido dell'Aquila era inattaccabile. Là, Sansa era stata come in una botte di ferro.
-Ma tu cosa ci guadagni, in tutta questa storia?- aveva domandato la ragazza, diffidente, incredula davanti a tanta generosità.
-Per la figlia di Cat, questo ed altro.- aveva risposto lui, sibillino.
Alayne Stone aveva sposato Robin Arryn sempre sotto suggerimento di Ditocorto.
-Se i tuoi fratelli risultassero effettivamente morti, quando si presenterà l'occasione racconteremo la verità a Robin e lo spingeremo a reclamare diritti su Grande Inverno. Così tu potrai tornare a casa tua e ricostruirla proprio com'era prima. Nel frattempo, un matrimonio con lui ti proteggerà da qualsiasi pericolo.- aveva spiegato. Sansa, fidandosi ormai dei consigli di lord Baelish, commossa da quel pensiero, aveva accettato. Certo, Robin era malaticcio e molto più giovane di lei, ma -nonostante le sue innegabili stranezze- non era un ragazzino cattivo. Era ammaliato da lei come solo un bambino di otto anni può essere e, oltre a volerla sempre accanto a sè, pendeva dalle sue labbra e la viziava alla follia. Se soltanto lei l'avesse chiesto, Robin avrebbe raso al suolo Nido dell'Aquila ed avrebbe eretto un castello di nuvole al suo posto. Durante i primi due anni, lady Lysa aveva reso dura la vita ad Alayne, ripetendole continuamente quanto fosse fortunata ad avere Robin come sposo e criticandola per qualsiasi inezia, quasi gelosa dell'intesa -da entrambe le parti priva di alcuna malizia- che s'era venuta a creare fra i due. Poi, purtroppo, una brutta influenza s'era portata via la povera Lysa, e anche quell'ultimo impaccio era svanito. Sansa tutto sommato era contenta della sua nuova vita, ripensando all'inferno ch'era stato la Fortezza Rossa, però le sue intenzioni erano quelle di tornare a casa; quando ormai cominciava a disperare che ciò potesse accadere, successe l'incredibile: Brandon Stark tornò al Nord.
-Non vedo che dubbi tu possa avere.- stava dicendo Baelish, a voce bassa ed affrettata. -Ci inventiamo una scusa qualsiasi con Robin per scendere a valle e prendiamo la strada del re, prima che scoppi la guerra e il viaggio diventi molto più pericoloso.-
Sansa scosse la testa, inquieta, quasi che le sue orecchie udissero mille minacce sottili. -Sai che non me lo permetterà mai. Non vuole che abbandoni il suo fianco nemmeno per un secondo.-
-Allora fuggiamo di nascosto! Sarà molto più facile di quanto credi.- insistette l'uomo. -Diamo una bella coppa di latte di papavero a Robin e...-
Fu a quel punto che Sansa sbottò, divorata dai rimorsi, permettendo alle parole di precipitarle sulla lingua. -Non posso piantarlo in asso così, capisci? Ho vissuto otto anni con lui, Petyr. È diventato un po' parte della mia famiglia...-
Baelish la fissava negli occhi con un'espressione che la ragazza, sebbene lo conoscesse da un pezzo, non seppe classificare, ma che assomigliava molto al rimprovero.
-Significa che non vuoi ritornare a Grande Inverno? Che non vuoi riabbracciare i tuoi fratelli?!- Le sue parole suonarono come un'accusa.
-Certo che lo voglio!- protestò Sansa, schermandosi con un cenno stizzito delle mani. -Ma comunque Robin mi ha accolta, e odio l'idea di trattarlo in così malo modo. Poi è mio marito... più o meno, cioè, è il marito di Alayne, ma io sono anche Alayne, non solo Sansa, e quindi ho dei doveri nei suoi confronti.-
La risposta fu velenosa. -Gli stessi che avevi nei confronti del Folletto, intendi? Non mi sembrasti così riluttante, però, quando ti proposi di scappare da lui...-
E la replica fu gelida. -Le circostanze erano molto diverse, lo sai. Fui costretta a sposare Tyrion Lannister contro la mia volontà. Invece Robin mi ha concesso una vita serena e un rifugio sicuro, dopo tutte le cose terribili che sono successe alla mia famiglia.- Sansa lanciò un'occhiata nostalgica fuori da una finestra, ad osservare il disegno delle nuvole. -Avevo talmente tanto bisogno di sicurezza, otto anni fa, che arrivare qui mi alleggerì il cuore. Mi sentivo a casa, anche se nel profondo mi rendevo conto che Nido dell'Aquila non lo era.-
-Allora fai come ti pare. Rimani quassù tutta la vita con il tuo Pettirosso, a ripopolare la Valle di tanti piccoli cavalieri alati. Ti va più a genio così?- ribattè a quel punto Ditocorto acidamente, impermalito. Sansa avvampò furiosamente, d'imbarazzo e dispetto, ed alzò incautamente la voce.
-Sei un imbecille! Come puoi non capire il mio punto di vista, e per giunta proporre un piano tanto infame?! A parte me, Robin è solo al mondo.- Sansa assunse un'espressione mesta e i pomelli rosa sulle gote le scaldarono il viso. -Lui... mi vuole bene. Ed è così fragile. Se lo abbandonerò anche io, ne sarà distrutto.-
Fra loro calò il silenzio. Sansa attese trepidante che l'amico rispondesse qualcosa, qualsiasi cosa: le dispiaceva litigare con lui, ma a volte esagerava davvero. Capitava ch'egli si comportasse come se non avesse un cuore, anche se non era affatto così -e si capiva dal semplice fatto che l'aveva salvata da Approdo del Re. Possibile che non avesse un po' di pietà per quel povero ragazzino, orfano e malato? Sansa inoltre era delusa dalla di lui reazione e dalle offensive parole che le aveva riservato. Non si aspettava di certo che Baelish si sarebbe infastidito tanto. Dopotutto era legittimo avere dei sensi di colpa, all'idea di fare un torto ad un benefattore, no? Robin, poi, le aveva da sempre ispirato molta compassione; forse soprattutto per il fatto che, benchè facesse i capricci ed urlasse per farsi sentire, la sua salute e la sua psiche erano così cagionevoli.
In quei pochi anni, mentre lei era rinchiusa nell'apatica beatitudine di Nido dell'Aquila, Bran si era sposato, era diventato re, aveva generato un figlio. Rickon aveva sterminato i Lannister -oh, Sansa non riusciva a dispiacersi per nessuno di loro, ormai colpevole o innocente erano parole false, parole odiose. Queste notizie le avevano causato una sgradevole sensazione alla bocca dello stomaco, quella di essersi persa troppe cose. Il solo pensiero di Arya, poi, era un dolore fisico: era quasi contenta di non aver scoperto quale fine orrenda avesse fatto, perchè in una realtà ideale la sua sorellina era ancora viva, il coraggio era bastato a salvarla. Ma era un'illusione troppo amara per goderla come una speranza, e Sansa era stanca di colmarsi la bocca di sabbia.
Baelish sospirò estenuato. Nei suoi occhi scuri s'aggirava una malinconia antica, come il riflesso lontano del guizzo d'una candela spenta da tempo.
-A volte dimentico quanto assomigli a tua madre, da questo punto di vista.- commentò infine, scuotendo la testa con disapprovazione. Poi alzò la testa ed incontrò il suo sguardo, terso e angosciato. -Non c'è più tempo per indugiare. Trova una risposta definiva, e bada bene: definitiva significa che varrà per sempre. Devi decidere, una volta per tutte, se vuoi essere Sansa Stark o Alayne Stone. Conosci le regole, ora, vero?-
Sansa non annuì nemmeno. -Quando scopri quello che una persona vuole,- mormorò, -capisci anche chi è e sai come farla muovere.-
Baelish sorrise, uno di quei sorrisi sferzanti che sanno di lama che penetra nella carne. -Immagino che tu sia pronta. Benvenuta nel mondo dei giocatori, dunque.-
Lei non rispose al sorriso.
***
Quando Bran finalmente potè scivolare dal dorso di Estate al letto di Jojen, era ancora incredulo di sollievo all'idea che quella dannatissima giornata fosse ormai moribonda fuori dalle finestre, ch'essa stesse tossendo nel cielo le sue ultime gocce di sangue, e che ormai non fosse più in grado di ghermirlo con i suoi artigli -perchè egli ormai era con Jojen, e nulla di brutto sarebbe potuto succedere.
-Non so più che cosa devo fare con lui. Non riesco a instaurarci un dialogo: io non capisco le sue ragioni e lui non capisce le mie. A volte sembra che lo faccia apposta, per aggravare la situazione, o... per farmi saltare i nervi. Altre volte, sembra che mi odi.-
Dopo aver bofonchiato queste parole Bran s'adagiò fra i guanciali, che si sformarono dolcemente sotto il suo peso, e s'abbandonò all'abbraccio serico delle lenzuola. In seguito ad una giornata passata su un sedile di pietra, la sensazione era inedita e deliziosa; ma il silenzio lo distrasse, ed egli sollevò le palpebre indolenti alle ricerca di Jojen. Il ragazzo sedeva all'imponente scrivania di mogano posta contro la parete della stanza, dando le spalle al letto, e -ogni tanto con l'ausilio di una lente d'ingrandimento- stava trascrivendo la pagina logora di un volume antichissimo, che scricchiolava pietosamente al solo sfiorarlo. A Bran bastava guardarlo per sentir dentro di sè passare tutta la voglia di aprire un altro libro in vita propria. Credeva che il suo consigliere fosse troppo concentrato nel suo lavoro e che non avesse udito, ma dopo pochi istanti egli parlò.
-Rickon non ti odia, questo non è altro che un tuo chiodo fisso. Tuo fratello prova rabbia: non necessariamente per te, nè più di tanto per i Lannister. Sente solo un gran bisogno di distruggere tutto quel che gli si para davanti. Città, convenzioni... persone. Per dare un senso al suo comportamento si aggrappa al pretesto della vendetta contro i Lannister, ma in realtà non gli serve nemmeno un buon motivo. D'altronde, che buon motivo aveva il destino per radergli al suolo la casa quando aveva sei anni? Rickon vuole fare del male, Bran. Ma non gli importa a chi.-
Bran soffiò dalle labbra tutta la preoccupazione che gli comprimeva il petto, salvo poi realizzare che s'era gonfiata ed espansa di nuovo, come un bolla di sangue da una ferita nuova.
-Se questo era lo scopo, ti avverto che non mi stai consolando granchè.-
-Qualcosa mi dice che ti sarà più d'intralcio che d'aiuto, in questa guerra.- commentò Jojen, scorrendo rapidamente un paragrafo con gli occhi.
-Quel qualcosa lo sta dicendo anche a me.- ribattè Bran, inquieto, sprimacciando un cuscino. -Ma come potevo prevederlo? Quando l'ho fatto richiamare a Grande Inverno, non immaginavo certo che fosse diventato un... un...-
-... folle, animalesco, intrattabile selvaggio?- suggerì Jojen, apatico. Bran, dopo qualche istante d'esitazione, annuì; il giovane Reed proseguì, tenendo la piuma in sospeso sopra la pergamena.
-Io lo vidi in sogno, circa un anno fa, prima che arrivasse; avevo già assistito alla scena del vostro incontro, anche se non te ne accennai. Ad ogni modo, era inevitabile che tu lo richiamassi a corte. Non saresti mai riuscito a liberarti di lui semplicemente ignorandolo in eterno e lasciandolo su quell'isola. Il passato ritorna, perchè i suoi occhi sono nel presente e la sua spada è già al futuro.-
-Se magari si comportasse ragionevolmente, visto che ormai non è più un barbaro su un'isola sperduta, non sentirei la necessità di mandarlo via. Se magari si sforzasse di rendermi le cose più facili, anzichè di complicarle...- Il re lasciò che la frase librasse nell'aria ed esalasse un presentimento di malinconia. I suoi occhi, come grandi cavità svuotate di dolore fino all'osso, si perdevano a seguire la trama della semioscurità; la frangia di capelli castani ombreggiava il volto diafano alle luce tremante delle candele.
Jojen, con un movimento accurato, intinse la piuma nel calamaio. Non sollevava lo sguardo dal lavoro a cui era intento. -Credevo che ormai ti fossi avvezzato all'idea che nella tua vita probabilmente non ci sarà mai più qualcosa di facile.-
Bran riprese a seguire il flusso dei suoi pensieri, con le sopracciglia aggrottate d'indignazione. 
-Non è altro che un moccioso arrogante. Arriva qui e pretende che tutto venga fatto come dice lui. Ho commesso un errore ad affidare un esercito vasto come quello ad un ragazzino che non ha mai studiato nulla circa la strategia militare... Non avrei dovuto prestarmi ai suoi ricatti, perchè non è degno di tale responsabilità nè di così tanta fiducia. Aveva un piano, almeno? Se per piano s'intende trucidare tutti coloro che si sarebbero frapposti sulla sua strada, allora sì, forse aveva un piano...-
-Se permetti, Maestà, quel ragazzino che non ha mai studiato nulla circa la strategia militare ha ottenuto un risultato non da poco. Possiamo quasi definirlo un successo.-
-L'obiettivo era uccidere Tommen Lannister, non tutti tranne Tommen Lannister. Doveva essere una delle sue uniche vittime, invece Rickon se l'è lasciato sfuggire quando era così vicino! Avremmo potuto evitare una guerra al nostro popolo, che ha già sofferto troppo.- Bran faticava a trattenere la rabbia. Se Rickon si fosse impegnato nel cercare Tommen, anzichè delle concubine da rinchiudere nelle segrete, forse a quest'ora ci sarebbero stati dei festeggiamenti a Grande Inverno. Si chiese quanto amaramente avrebbe rimpianto quell'occasione sprecata in futuro, quando la guerra sarebbe cominciata sul serio. Il re del Nord tentò ugualmente di dominarsi. -Pensiamo al lato positivo della faccenda. La ragazza Lannister potrebbe tornarci utile nel caso in cui Tommen, al termine di un'ipotetica battaglia, mettesse le mani su qualcuno che voglio assolutamente riavere indietro. Oppure si vedrà. Un ostaggio fa sempre comodo, no?- 
Jojen però oppose un'arguta obiezione. -È altamente improbabile che Rickon la ceda per liberare qualcuno che è caro a te. Lui non ne ricaverebbe alcun vantaggio, perciò accettando si mostrerebbe debole, sottomesso al tuo volere. Non hai visto come ha reagito prima? Considera la ragazza di sua proprietà. È, per così dire, il suo trofeo di guerra. Ha intenzione di segregarla nei sotterranei e violentarla quando gli pare, se non sbaglio.-
-Sì, ha lasciato intendere qualcosa del genere.- Bran chiuse gli occhi, affaticato da tali pensieri; quella storia non gli piaceva, era evidente. Soltanto, l'idea della gracile ragazzina dagli occhi spauriti che era stata presentata al suo cospetto alla totale mercè di quel bruto di Rickon lo metteva a disagio. Approfittarsi dei deboli non era certo nello spirito degli Stark -però dalle Nozze Rosse tutto era cambiato, e non si poteva fare finta di niente. Jojen colse la sua espressione turbata.
-Uno stupro non è nulla, in confronto a quello che tu fai alle persone, violando la loro mente. È un'intrusione infinitamente più iniqua, più perversa... ed infinitamente più dolorosa.-
Bran roteò gli occhi verso il soffitto, esasperato. -Oh, Jojen, ma tu da parte stai?-
Il suo consigliere lo ignorò. -Fatto sta che non è vantaggioso che due fratelli inizino una guerra, quando loro per primi sono in discordia fra loro. Se posso esprimere la mia opinione, bisogna che ogni dissidio venga risolto anzitempo. Devi poterti fidare di Rickon, Maestà. Questo è fondamentale.-
-Rickon non mi ascolta quando parlo. Alla fine, fa sempre di testa sua a prescindere da quello che gli consiglio o che gli ordino. A questo punto, a che servirebbe parlargli?!- sbottò Bran, logorato. -È un maledetto testardo, e mi odia. Mi odia perchè l'ho mandato a Skagos da solo con Osha, mi odia perchè mi sono separato da lui quando aveva bisogno di me... Non capisce niente. Non sa niente.-
-Con questo pretesto, Maestà,- intervenne Jojen pacatamente, -non fai altro che evitare il confronto diretto. A mio parere è un atteggiamento da codardi. E tu non sei un codardo.-
Bran si sfregò le tempie, entro le quali si stava generando un principio di mal di testa. -Gli parlerò. Prometto che gli parlerò.-
-Questa è un'ottima notizia, Maestà.- Jojen si concesse un istante ancora per osservarlo, con un'espressione vagamente divertita, prima di chinarsi sulla sua pergamena.
-Ci risiamo. Smettila di chiamarmi Maestà, Jojen! Non farlo. Non tu.- Bran scosse la testa affondata nel cuscino.
Jojen scribacchiò qualche parola. -Tu sei il mio re. Nessuno potrà mai cambiare questo... tantomeno tu.-
Bran tacque, lo sguardo fisso sulla figura del suo consigliere. La pausa non durò a lungo.
-Ne hai ancora per molto?- domandò, la voce inacidita da una punta di fastidio.
Jojen trascrisse fino al punto e poi si fermò; poggiò la piuma sulla scrivania e sollevò il capo, trovando gli occhi di Bran. Infine si alzò e raggiunse il letto a lunghi passi, senza distogliere lo sguardo, sempre più vicino a quegli occhi capaci di lacerare le anime. Allungò un ginocchio sul materasso e vi avanzò carponi, fino ad incontrare le labbra di lui.
Bran non sapeva come tutto ciò fosse iniziato, quando esattamente fossero cominciati i baci furtivi nel buio confidenziale del bosco. Soltanto, sera dopo sera, le loro bocche si erano avvicinate sempre di più ed accostate sempre più audacemente, avevano osato fino ad un punto di non ritorno. All'inizio pareva un sogno frammentario, uno strano delirio notturno, brandelli d'utopia e velleità: poi era diventato vero, grazie alla tranquilla consapevolezza di Jojen. Qualsiasi cosa accadesse era stata da lui già vista, esaminata, affrontata, calibrata. Fra le sue mani, sapienti, salde, metodiche, Bran ritrovava quella sicurezza e quel conforto che il freddo dell'inverno aveva estirpato dalle sue spalle. Jojen non aveva bisogno di parole per farlo sentire protetto, nè di dichiarazioni per farlo sentire amato. Aveva i suoi occhi, vasti come oceani, antichi come pietra, solenni come preghiere, e quelle labbra lievi come petali d'una primavera passata, e quelle mani, sì, quelle mani che conoscevano la devozione con tanta maestria. Jojen sapeva Bran a memoria, risolveva i suoi sguardi senza sbagliare, interpretava quei suoi pensieri che per il proprietario stesso risultavano arcani. Da Jojen veniva sempre la scelta giusta, il suo oracolo onnisciente, tutto quel ch'egli riteneva giusto non poteva che essere tale -e perciò Bran, pur avvertendo il sottile presentimento di stare facendo qualcosa di meravigliosamente proibito, si era abbandonato tremante di freddo e desiderio fra le sue braccia, in quella splendida notte senza stelle durante la quale s'erano amati per la prima volta -senza necessità d'una spiegazione, d'un chiarimento, perchè fra loro tutto era così, limpido e immediato ed intuitivo, un amore di attimi e silenzi e sospiri. Ricordava la bellezza di quell'emozione, vivida, prorompente, dispotica, che dopo tanto dolore gli aveva sanato l'anima.
In seguito, Bran non riuscì più a negarsi un sorso di quel sollievo, un po' al giorno, quel sollievo celestiale come l'unica dolcezza nella sua vita di guerra, qualcosa che si distaccava e differiva in tutto e per tutto dalla sordida rozzezza della realtà. Di giorno egli era il re del Nord, il castellano di Grande Inverno, ma di notte Jojen lo spogliava dei suoi pensieri, dei suoi doveri, delle sue responsabilità e delle sue vesti, e per poche ore lui era di nuovo Bran, nient'altro che Bran.
Bran tracciò con l'indice il disegno di quel viso che conosceva molto meglio del proprio -quante notti, quante, quante notti aveva preferito trascorrere insonni, pur di non sognare nulla e di poter contemplare il suo compagno di viaggio in tutta tranquillità. Jojen non si mosse, premendo delicatamente il proprio corpo su quello supino del suo re. I loro sguardi fusi insieme erano una prova inopinabile di quanto fossero affascinati l'uno dall'altro.
-Prima, quando parlavo di ostaggi che Tommen potrebbe ipoteticamente catturare... non mi riferivo a te.- mormorò Bran, cingendo la schiena del ragazzo con le braccia, in un placido gesto che pareva quasi una rivendicazione di possesso. -Non ti prenderanno mai, Jojen, fintanto che sei accanto a me... è qui che devi stare. Lo sai meglio di chiunque.-
Jojen scartò quelle parole con tetra indulgenza. -Io non sono altro che una guida, Maestà. Il mio compito è accompagnarti durante questo tragitto, scortarti, sorvegliarti. Proteggerti, magari. Impedirti di cadere di nuovo, a volte.- Gli carezzò le labbra schiuse in un bacio casto. -Io non sono così rilevante come credi tu: una delle tante pedine sacrificabili, piuttosto. Solo una cosa non è mai cambiata, in tutti questi anni, da quando sei diventato re...- Gli percorse i fianchi con tocco lieve, fino al petto, fino alle guance. Bran fremette e le parole seguenti, concitate ed affannose, le schiacciò contro la pelle del suo consigliere.
-Tu... tu sei la cosa migliore che mi sia capitata, Jojen. Ho rinunciato a tutto quello che avevo, in passato e... questo significa che potevo rinunciarvi. Posso tutt'ora. Nulla di ciò che ho l'ho reso mio, su nulla rivendico diritti di proprietà. Il destino, così come me li ha dati, potrà riprenderseli tutti. Meera, Rickon, mio figlio, che diamine. Che lo faccia. Tutto, davvero. Non tu. Non tu. Non ho intenzione di sopravvivere alla tua assenza, Jojen Reed. Tutto sommato, la sopportazione umana ha delle leggi alle quali sottostare.-
Per lui, Jojen non era soltanto Jojen. Era la personificazione di qualcosa ch'era speranza, rinascita, fede. Quando tutte le certezze, gli affetti, gli amori l'avevano tradito, l'avevano ripudiato, l'avevano abbandonato, mentre egli brancolava nel vuoto della perdita, era giunto Jojen a prenderlo per mano ed indicargli la strada, a stringere il suo corpo fra le braccia ed il suo destino fra le mani. Da quando erano in due a sostenerla, la sventura non faceva poi così male.
Perchè Jojen era quanto di più vero, categorico ed incontestabile esistesse al mondo, un calcolo esatto, una costante di marmo, una legge inderogabile.
-Devi essere pronto a perdere tutto quanto, Maestà. Anche me. Soprattutto me.- Jojen slacciò i bottoni della sua camicia senza fretta. 
-Vero. Tu sei il mio limite. Però, paradossalmente, sei anche l'unico motivo che mi spinge a sostenere il peso di quella corona in testa.-
Si amavano piano, lentamente, scoprendo per l'ennesima volta quei corpi che conoscevano a memoria come se fosse la prima; era ormai notte fonda quando giunse l'ora in cui Bran avrebbe dovuto tornare al letto coniugale, ma egli sorprendentemente si oppose.
-Stanotte voglio restare qui, Jojen. Stanotte voglio impedire al mondo di convincermi che quel che provo per te sia un errore della natura, voglio addormentarmi sul tuo petto ascoltandoti il cuore come fanno tutti gli amanti del mondo, e all'alba voglio essere svegliato dai tuoi baci. Stanotte voglio fare finta di avere sposato il fratello giusto.-
-Come desideri, Maestà.- aveva risposto Jojen, dopo un solo istante d'incertezza, avvolgendolo fra le lenzuola e cozzando nuovamente contro il suo corpo caldo. Bran aveva poggiato la testa nell'incavo del collo di lui, accoccolandosi grato, crogiolandosi nell'assuefante godimento: tutti i suoi sensi concordavano in un piacere muto ed obliante, in ogni parte del corpo echeggiava il riverbero di quel calore e il solo ricordo, ancora vivido nelle membra, lo rendeva pigro e pesante e dolente di spossatezza e sazietà.
Non v'era nulla di più rasserenante, per il giovane Reed, che osservare il volto di Bran rapito dal sonno, concentrato sul mondo dietro le sue palpebre, assorto in un sogno; non v'era nulla di più distensivo di scostargli le umide ciocche castane dagli occhi. Il suo viso si svelava soltanto in quei momenti, dopo aver fatto l'amore, s'ammorbidiva in un'espressione rabbonita e distolta dalla solita austera compostezza; egli imparava ogni sera a sorridere di nuovo, piano, di nascosto, e si scrollava il tedio del potere e la nefandezza dell'inverno di dosso. Sapeva, Jojen, quanto scorretto fosse tutto ciò nei confronti di Meera, sua sorella, e del piccolo Kenned, che aveva gli occhi uguali a quelli del padre -quelli prima della caduta, quelli puri d'ogni dolore, integri nella loro innocenza. Jojen sapeva com'erano perchè l'aveva visto talmente tante volte, in sogno, il ragazzino che scalava con innata agilità le mura di Grande Inverno. Bran era elemento intrinseco della sua anima -condizione necessaria e sufficiente della sua esistenza. Jojen Reed era nato in funzione di Bran, e se l'unica voluttà che richiedeva in cambio d'una vita di privazioni era il suo corpo, allora così sarebbe stato, a costo d'insultare la sensibilità di Meera e del bambino: il principe Kenned, sì, che suo padre ignorava così brutalmente. In effetti, il re di Grande Inverno non riusciva a provare sentimenti affettuosi verso suo figlio, e quando lo teneva in braccio provava persino una sorta di repulsione, di sgradevolezza, una zavorra nell'anima che egli stesso non si spiegava. Forse perchè era nato da un'unione sbagliata. Bran aveva sposato Meera per onorare la casata Reed, in generale; in particolare, perchè sperava di trovarsi più a suo agio con al fianco una donna che conosceva da un pezzo ed alla quale voleva bene, piuttosto che con un'estranea. Ma soprattutto l'aveva fatto perchè si fidava senza remore di lei. Era stata la scelta più accorta, non c'erano dubbi: ciò non gli aveva impedito di pentirsene amaramente, a volte. Era così maledettamente frustrante mordere quel nome fra i denti quand'era con lei- un nome che non era Meera, no, e non lo sarebbe stato mai.
Stretto nell'unico abbraccio di cui avesse bisogno, durante il primo anno del suo regno, Bran talvolta piangeva. Capitava che scoppiasse in un pianto furibondo, tempestoso, battente, e io non l'ho mai chiesto, non era così che doveva andare, doveva essere Robb, è sempre stato Robb, non io, sono un usurpatore quanto lo era Bolton, io non ci dovrei stare su quel trono, Jojen, gli abitanti del Nord non vogliono essere governati da uno storpio, così gemeva, e Jojen niente, le aveva asciugate una per una, quelle lacrime -che poi avevano smesso di colare, quando la frustrazione era diventata una cicatrice.
Al mattino, dopo essersi affrettatamente rivestito con l'aiuto di Jojen, Bran si aggrappò alla pelliccia di Estate come faceva sempre e il lupo si diresse verso la porta -ormai era una routine consolidata.
-Tu sei ancora l'unica cosa che conta.- La voce di Jojen lo raggiunse quando ormai stava per lasciare la stanza. Bran volse appena lo sguardo, con un'espressione indecifrabile.
-No,- replicò, -non è vero.-
***
L'universo di Myrcella era diventato quell'uncino sporgente, divorato dalla ruggine, proprio quello ch'ella non era mai riuscita a scrostare dalla parete, quello aguzzo che -se attaccato dalla fanciulla in maniera sconsiderata- le pungeva il polpastrello.
Se le avessero chiesto, ai tempi della sua vita a palazzo, che cosa fosse il tempo, Myrcella Lannister non avrebbe saputo dare una risposta. Era sì una fanciulla dolce, posata, mansueta, ma non aveva mai brillato d'intelligenza. Ciò non significava ch'ella fosse stupida, piuttosto che non aveva mai mostrato interesse verso lo studio e il sapere; le domande esistenziali non trovavano posto in quell'aurea vita d'abiti di velluto e fontane zampillanti. Tutto si spiegava da sè, chiamarlo fato o cognome non faceva troppa differenza. Eppure, Myrcella in passato non avrebbe mai negato l'esistenza del tempo. Ci si alza al mattino e il cielo è rosato, poi diventa azzurro al pomeriggio, arrossisce al tramonto e s'imbratta di nero durante la notte: come poteva il tempo non esistere? Il suo scorrere era così evidente.
Nella prigione, Myrcella aveva trascorso tre giorni a rincuorare se stessa, ripetendosi che avrebbe potuto andare peggio; era ancora viva, dopotutto, no? Nessuno l'aveva scuoiata, nè frustrata, nè era entrato nella sua mente; non era nemmeno costretta a lavorare come sguattera di cucina o inginocchiarsi a pulire il pavimento. La sua prima punizione era morire di noia, a quanto pareva. E poi, oh, sì, Rickon veniva a trovarla ogni giorno ed ogni giorno la prendeva su quel pavimento gelido, sozzo di polvere e cenere; a Myrcella stessa, durante il suo primo giorno di reclusione, era stato ordinato dal carceriere di leccare via il sangue della sua verginità da terra. La fanciulla, cerea di disgusto e mortificazione, le lacrime serrate nelle iridi e premute contro le ciglia con intollerabile tenacia, aveva pensato ch'era davvero un macabro modo di eccitarsi. D'un tratto -sarà anche stata colpa dell'oleosa sostanza nera che, raccolta dal pavimento, le aveva impastato i bei capelli biondi e le aveva macchiato le guance, sarà stato perchè non aveva acqua per lavarsi- aveva percepito sporca ogni fibra del suo essere. Non soltanto sporca: consunta, corrotta, marcita, quasi in preda ad un morbo orribile a manifestarsi. Rickon era tornato anche il giorno dopo e quello dopo ancora, ma Myrcella dopo le sue visite non aveva mai pianto. Era rimasta ferma, immobile, con gli occhi sbarrati nelle tenebre, un giglio sradicato che fissa la morte in attesa. Quei primi tre giorni non erano stati spiacevoli, perchè Myrcella nel disastro della sua situazione vi aveva visto una speranza; erano stati un inseguirsi di pensieri che lampeggiavano e duravano un istante, un rivivere ricordi inaccessibili, un elenco di preghiere e maledizioni. Quei primi tre giorni erano stati densi di ragione. Poi il controllo precipitò e il senno di Myrcella se lo portò via il buio.
La fanciulla s'era resa conto con rammarico che il tempo era svincolato dalle sue mani. Non riusciva più a ricordare quanto durasse un secondo, o perchè esistessero distinzioni tra un termine temporale e l'altro. Che senso poteva avere dire un giorno, o dire tre minuti? Il tempo era sempre quello, sempre quell'unico ammasso di poltiglia che la opprimeva ed imprigionava, che l'avvinceva ed impediva, come un tratto di sabbie mobili. All'inizio non vi aveva prestato troppa attenzione, preoccupata com'era per molte altre cose, ma ben presto dovette scontrarsi con quell'amara effettività: non aveva idea di quando fosse notte e quando giorno. La sua mente costretta all'inerzia, intorpidita dal freddo, infiacchita dal silenzio, vacillava anch'essa nel buio; non riconosceva più una parte o l'altra del corpo della ragazza, identificandola come un barlume invisibile di coscienza, e non sapeva dichiarare con sicurezza se Rickon quel giorno non fosse stato lì o se fosse appena andato via -o cosa fosse un giorno, o cosa fosse una dichiarazione. Nel momento in cui il macigno gravò sulle sue fragili spalle, Myrcella entrò nel labirinto del panico e scoppiò a piangere di paura, pagando alle lacrime un debito di almeno due settimane. In quel pianto, Myrcella pianse per il rapimento e per sua madre e suo zio e suo nonno e per il sonno e per la nostalgia e per gli abusi e per la vergogna e per il dolore, pianse di disperazione, e quei singhiozzi dicevano tutto quanto, scoppiavano, protestavano, imprecavano, si ribellavano, imploravano e s'arrendevano, soffocati fra le mani di Myrcella. Quei singhiozzi esprimevano un incubo senza volto, un inferno senza fiamme, una sofferenza senza voce. Quei singhiozzi parlavano, perchè Myrcella taceva. Fu così che il tempo scappò da quella cella, accartocciandosi su se stesso, allungandosi in una retta oltre l'infinito.
L'universo di Myrcella era diventato quell'uncino sporgente, divorato dalla ruggine, proprio quello ch'ella non era mai riuscita a scrostare dalla parete, al contrario di tutti gli altri coaguli di ferro vecchio e sangue essiccato che si protendevano guastando la compattezza del muro. In ogni istante si consumava le unghie grattando oppure tastava il pavimento, chiedendosi perchè ci fosse seduta sopra. Il buio, il buio era il vero colpevole: la lordava, la inquinava poco a poco. Ella era sempre stata una povera anima vulnerabile, sensibile, impreparata a qualsiasi tipo di violenza fisica e psichica, ignorante riguardo qualunque genere di dolore e circa il significato della parola trauma, e quell'esperienza stava devastando il suo organismo e la sua anima come un pugnale avrebbe scempiato le sue membra -sembrava quasi che il fato la stesse punendo per la sua antica ingenuità. Tutto ciò di cui Myrcella si accorgeva era di stare andando in putrefazione.
Una volta al giorno, dopo che Rickon era stato da lei, giungeva una serva a darle qualcosa da mangiare, una scodella d'acqua ed una veste nuova, di semplice tela bianca senza maniche. All'inizio Myrcella non ci faceva caso e la ignorava impassibile, ma col passare dei giorni quello divenne il secondo dei due unici legami che aveva con l'esterno, e perciò preziosissimo quanto l'acqua: ella cercava di parlare ma, disabituata alla presenza delle persone, non aveva idea di cosa dire e dalla sua gola emergevano soltanto suoni malcerti, sconnessi ed inarticolati. La serva si limitava a ricambiare il suo sguardo per un momento, piena di compassione.
Alcuni giorni dopo Rickon stentò a riconoscere la sua prigioniera, il chiarore dei riccioli appestato di sudiciume, il candore delle guance violato di sconcezza, e gli occhi rossi e gonfi come bacche ma dalle pupille vacue d'incoscienza, un'anima deflorata e deturpata irreparabilmente; dov'era finita la fierezza, l'orgoglio, l'ardore della ragazzina che non voleva piangere? Egli fu assalito dal trionfo, crudo come una cadavere pregno di sangue fresco, in un'ondata di piacere così vertiginosa che fece appena in tempo a penetrarla prima di venire copiosamente dentro di lei.
Myrcella ormai sapeva come Rickon si comportava. Quando egli era di cattivo umore, si limitava a strapparle di dosso la veste a morsi, ad addentarle i seni con violenza e prenderla, per poi andarsene senza dire una parola, cupo. Se invece era allegro, si prendeva un po' più di tempo per tormentarla con calma. La chiamava il grazioso abominio biondo e giocherellava distrattamente i suoi boccoli fra le dita. Diceva: -Vuoi sapere come ho ucciso i tuoi genitori?- e poi cominciava a raccontare, rimpinguando la verità di mille particolari che, dalla versione precedente a quella successiva, diventavano sempre più scabrosi. Affermava di avere scardinato il cuore di Cersei Lannister dal petto e di averlo divorato, oppure di avere mutilato a Jaime Lannister la mano sinistra rimanente e di averlo con questa strozzato, e ancora di avere infilato la spada nella gola di Tywin Lannister e poi di aver semplicemente tirato uno strattone per recuperarla. Myrcella ascoltava in silenzio, senza interromperlo, con in volto l'espressione imperturbabile dei sordi -mentre quelle parole venivano inoculate nel suo cervello e correvano nel sangue a deteriorarla dall'interno.
-Sai cosa farò, quando andrò a prendere tuo fratello?- raccontava Rickon, lasciando scorrere le unghie sulla sua schiena e bucando la pelle come faceva con la stoffa. -Lo afferrerò per quella fluente chioma da bambina che ha, così simile alla tua, e tirerò finchè la sua spina dorsale non uscirà allo scoperto. Poi, mentre ancora è vivo, lo darò da mangiare a Cagnaccio. Ti piace l'idea? A me tantissimo. Però lo ucciderò per ultimo. Prima dovrà cullare un po' in braccio il figlioletto che staccherò dalle viscere della puttana Tyrell. Prima dovrà raccogliere le cervella del suo zio nano, che dicono che sia tanto furbo. Quindi in quel testone deforme c'è davvero qualcosa? Visto quant'è grosso, dev'essere tutto quel che manca al resto della famiglia. Non sei d'accordo, piccolo abominio? Che c'è, stai zitta? Su, fammi contento, piangi un po'. Sai quanto mi piace quando piangi...-
Ogni tanto Myrcella piangeva di freddo, di quel freddo nordico che superava l'ostacolo delle ossa ed espugnava la sua anima; piangeva quando, svegliandosi, avvertiva i topi rosicchiarle le dita, e piangeva nello scoprire di non ricordare più il volto di suo padre, nè quanti fratelli avesse. Ma davanti a Rickon no, non piangeva mai. Non si trattava nemmeno più di uno sforzo, di una auto-costrizione: semplicemente gli occhi erano duri, raffermi, immobili in un dolore cieco.
-Non mi basta uccidere, caro il mio abominio biondo. I Lannister non si limiteranno a morire. Io masticherò i vostri cuori finchè non mi supplicherete di darvi il sonno eterno e mettere fine alla tortura. Io calpesterò il vostro onore finchè non andrà a mischiarsi indistinguibile con lo sterco dei porci. Io non avrò pace finchè tutte le spade del vostro trono del cazzo non vi si conficcheranno nel culo.- Dopo aver sibilato a voce bassa e vibrante quelle parole, Rickon percorreva le ferite aperte sulla schiena della prigioniera con la lingua, guidato dall'odore del sangue; suo malgrado, Myrcella si scopriva a percepire qualcosa di simile ad una scintilla incalzante scioglierle il ventre, e questo sì, ch'era un pensiero capace d'indurla al pianto. Desiderarlo sarebbe stato il degrado più stomachevole, l'aberrazione più turpe, l'oltraggio più bieco. Per il resto, il rancore verso di lui rimaneva debolezza, senza mai addensarsi in qualcosa di concreto, di solido, di potenzialmente fattivo, ma soltanto una triste arrendevolezza a quella forza verso la quale si sentiva così impotente.
Si rannicchiava su se stessa, Myrcella, cercando calore in quella misera camiciola di tessuto grezzo che le scopriva le gambe e le braccia ed il collo, cercando calore nel centro del suo corpo, nel battito del suo cuore, e trovando soltanto l'inverno. Nella devastazione nera del suo pozzo senza fondo Myrcella, visto che sia i pensieri sia i ricordi morivano prima di sbocciare nella sua mente, si aggrappava alle antiche sensazioni ancora impresse sul proprio corpo: le mani nodose della septa che le massaggiavano energicamente la cute, il bacio del lino più pregiato sulla schiena, il sapore della carne arrostita con le spezie sul palato. E ancora il sorriso bianco di sua madre, la maniera in cui il manto di capelli d'oro le avviluppava i fianchi, il profumo morbido della pelle. Se si concentrava, poteva immaginarla persino lì con lei, da qualche parte nel buio, a carezzarla e stringerla a sè... La solitudine risuonava nel suo petto più dolorosa dei lividi che Rickon le disegnava sulla carne.
-Sai cosa è successo oggi?- raccontò il carceriere un giorno, con le guance rosse di piacere, con gli occhi che brillavano. -Sono andato nelle prigioni dei condannati a morte, e c'era questa ragazza. Matta come un cavallo, a quanto pare. Ha bruciato casa sua con dentro i genitori e i fratelli. Bella. Non quanto te, certo, non essere gelosa, adesso. Però carina. Così a quel punto non ho resistito... e ho detto a quei tizi di lasciarla a me.- Sorrise un sorriso malizioso. -No, non è come pensi. L'ho mangiata. Pezzo dopo pezzo, l'ho mangiata. Mi piace tantissimo quando se ne accorgono, e stentano a crederci, e spalancano gli occhi e si dibattono, con quell'espressione così patetica... È degradante sentirli strillare come maiali. La fine dovrebbe essere più gloriosa. Cosa vuoi che ti dica? A tutti sembra strano, che io mangi le persone, ma il fatto è che... non lo so... non sono bravo con le parole. Mi inebria. Sfondare la cassa toracica con le mani, e poi squarciare la pelle del collo, che è soffice, e le palpebre... le stacco con le unghie, le palpebre. E i lobi delle orecchie, sai che consistenza hanno sotto i denti? Come il velluto.-
Invece di parlare, Rickon ringhiava a bassa voce, piano, pianissimo, in un soffio affilato. Myrcella non aveva compreso il significato di quelle parole; era rimasta con la testa bassa, a stringersi le ginocchia scorticate dal pavimento irregolare, senza dire nulla. Quando aveva inteso, con diversi secondi di ritardo, aveva emesso un lamento di repulsione, scuotendo il capo pesantemente.
-E tu, piccolo abominio? Tu che sapore hai? Prima o poi lo scoprirò, immagino...- Le aveva scostato un boccolo incrostato di sporcizia da una delle gote, con un sorriso acuminato. -Non crucciare quel dolce visetto che hai. Sei ancora la ragazza più bella che io abbia mai visto.-
Le aveva strappato la gonna ed aveva abbassato il volto, ad azzannarle le cosce fino a che non aveva avvertito rivoli tiepidi percorrerne le linee sinuose; c'era un accanimento di goduriosa gioia distruttiva nel dilaniare la sua prigioniera, nel profanarla ed ingiuriarla in ogni maniera possibile. L'idea di aver violato il suo candore con il nero del dolore, con il rosso del sangue, montava in lui un'estasi intraducibile, che lo costringeva alla perversa tentazione di infilare le unghie nelle ferite della ragazza ed allargarle ancora di più.
-Così sei perfetta. Infranta ed asservita.- le sussurrava con voce roca.
Ma Myrcella Lannister, nonostante quel vorticoso e delirante stordimento dovuto alla carenza di cibo, al buio, all'isolamento, non si sentiva nè infranta nè asservita. Nel suo petto il principio d'un urlo s'intensificava cruento. L'ultima cosa che pensò, prima di essere risucchiata dalle onde della sua incoscienza malata, fu mi ha chiamata la ragazza più bella che abbia mai visto. Fu tentata di urlare di frustrazione, di panico e follia.
***
Osha era sempre stata una donna capace di farsi i fatti suoi. Se c'era una cosa che davvero non riusciva a soffrire, era quella mania delle donnette nobili di spettegolare e cicalare spudoratamente sugli affari altrui, quel circolo vizioso di segretucci a cui le grandi famiglie erano così affezionate. Alla fin fine, sembrava che la guerra dei cinque re fosse stata combattuta a suon di spade ed ingiurie. Quando era arrivata a Grande Inverno ed aveva visto Meera sul trono della regina del Nord, Osha non si era stupita poi così tanto: era molto probabile che fra lei e Bran, in tutti quegli anni di convivenza, fosse nato qualcosa. Ma, col passare dei giorni, aveva compreso che la situazione era un po' più complicata.
Non ci volle molto per scoprire chi avesse veramente rubato il cuore al suo protetto. Erano piccole cose, ma urlavano assordanti la verità: occhi che indugiano negli occhi un attimo più a lungo del necessario, una parola detta in un modo piuttosto che in un altro, quel viso che si girava sempre dalla parte sinistra rispetto al suo scranno. In realtà, Osha l'aveva intuito già tempo prima, otto anni fa, notando l'inconsueta intimità, la magnetica attrazione che avvicinava le anime dei due ragazzi, e che le provocava insieme gelosia e diffidenza.
Così un giorno ella aveva preso Bran da parte e gli aveva chiesto, schiettamente: -Sei innamorato di Jojen?-
Il ragazzo aveva sospirato, con un pizzico di melanconia. -Molto più di quanto sono disposto ad ammettere.-
Osha aveva scrollato le spalle. Certo, era strano, ma aveva sentito molto di peggio oltre la Barriera. Se quello strano veggente poteva rendere Bran felice, che così fosse. E lei poi aveva guardato Meera.
Durante il viaggio insieme, aveva finito con l'affezionarsi a quella ragazza che le somigliava così tanto -sebbene fosse assolutamente incapace di scuoiare i conigli. Per questo ad Osha era dispiaciuto vederla... spenta. Spenta era l'aggettivo giusto. Sbiadita, opaca, inerme, come un ritratto rovinato dalla polvere che non riesce a fuggire dalla cornice. Effettivamente l'unico timore che si poteva avere, rendendo regina una cacciatrice, era quello di soffocarla, di murarla viva nel suo castello. Nonostante i loro caratteri simili, e per questo discordanti -erano entrambe molto competitive l'una verso l'altra- Osha non sopportava di vederla così sottotono, quando aveva avuto più volte prova del suo temperamento impetuoso e dirompente. Fu questo a spingerla, seppur un po' imbarazzata ed a disagio, ad avvicinarsi a Meera, una sera, dopo che Estate con Bran in groppa era già svanito nel buio del corridoio. La regina del Nord sedeva sul suo scranno, la testa reclina contro una spalla, lo sguardo fisso ad affermare ed ammettere, astenendosi ad un giudizio, perchè la risposta era la stessa ogni sera; i suoi occhi erano soli e segregati nel loro dolore, eppure un'emorragia aveva prosciugato le pupille di tutta la luce. Avvolto in un fagotto di pellicce, stretto al petto della madre, il principe del Nord Kenned Stark dormiva sonni fragili, che un solo spiffero di quell'inverno inclemente avrebbe potuto spazzare via. L'unica interruzione era stata da parte del Maestro, che recava una notizia: il giorno dopo il lord comandante Snow sarebbe giunto a Grande Inverno; a parte questo, tutti parvero ricordarsi che ella aveva bisogno di qualche ora per scostarsi dal brulichio di quella vita rumorosa. Meera non si accorse di non essere sola nella stanza, oppure non vi fece caso.
-Non credevo che il re del Nord fosse talmente impegnato da doversi occupare degli affari del regno persino di notte.- Osha avanzò nella grande dispersiva sala, seguita dal borbottio cavernoso dei suoi passi. Il volto di Meera non reagì al suono di una voce esterna, così che l'espressione della sua concentrata assenza non si sciupò.
-Infatti non è così.- confermò, a voce atona, remota, che sembrò provenire da molto lontano. -La sera è l'unico momento libero della sua giornata.-
-E non dovrebbe passarlo forse con sua moglie?-
Meera strinse gli occhi, in un'espressione che voleva essere dura e appariva più che altro ferita. -Sì, in teoria sì. Ma a quanto pare ha di meglio da fare.-
Osha aggrottò le sopracciglia. L'amica era ridotta peggio di quanto pensasse. Che fosse realmente innamorata di suo marito? Al punto da desiderare d'essere da lui ricambiata?
-Quindi sai tutto.- dedusse. -Di Bran e tuo fratello...-
-E come potrei non saperlo?!- sbottò la ragazza, sbattendo il palmo d'una mano contro il bracciolo destro del trono e protendendo il capo in avanti, all'improvviso con un tono graffiante che le era poco usuale; con l'altra mano premeva saldamente al seno il figlio, quasi per proteggerlo e risparmiargli il dolore di quelle parole. -Lo sanno tutti, ormai, dagli Estranei ai cittadini di Dorne. Il pettegolezzo ha fatto il giro dei Sette Regni. Probabilmente ci inventano sopra delle canzonette sconce alle taverne di Approdo del Re. Bran si comporta come se nulla fosse, ma ormai è ridicolo fingere in questo modo... Crede forse che io sia una scema, che sia cieca? Che non mi accorga dell'evidenza, quando è a un palmo dal mio naso?! ...oh, a volte persino li sento, che diamine!-
Osha l'ammirò tristemente per l'ostinazione e la pertinacia con cui trattenne le lacrime nelle iridi, impedendo loro di vincerla e dilagare sulle sue guance. Meera controllava con intransigenza anche il tono di voce, affinchè non rivelasse un tremito -la testimonianza della sua battaglia, la prova di quella crepa che la voleva rompere, la resistenza strenua dei suoi occhi alla pruriginosa insistenza del pianto.
-Hai provato a discuterne con lui?- azzardò Osha, rimanendo ai piedi del rilievo ove stava il trono.
Meera strinse le labbra, offesa. -Con Bran parlo di rado. Ci sono poche occasioni per introdurre argomenti così seri, o che richiedono del tempo, perchè tempo per me non ne ha più. Dal mattino al tardo pomeriggio ci sono i sudditi da ricevere, e poi un pranzo per accogliere questa o quella famiglia che è giunta a recare doni ed offrire soldati, o cose del genere. Oppure c'è una guerra da organizzare, e studiare le mappe, e scrivere lettere di qua e di là, e Rickon che è sempre che si lamenta per qualcosa. Poi, di sera, Bran sparisce come ha fatto adesso. "Non aspettarmi alzata", mi dice. Sempre, lo dice. Non aspettarmi alzata. Ogni singola sera.- Fece una pausa, perchè la sua voce rischiava di impastarsi di lacrime. Quando si fu ricomposta, Meera riprese, gli occhi ossidati d'astio. -Ha sempre una buona scusa da propinarmi, ma si sa dove va. In genere torna alle tre del mattino, in silenzio, pensando che io dorma e non me ne accorga. Ma io lo sento lo stesso. Ho il sonno leggero, se ben ricordi.-
Meera riuscì a tirare un sorriso desolato, ed una stilettata di pietà fece vacillare i suoi propositi; d'un tratto, desiderò non aver sollevato quella questione. Ma in fondo si trattava di un dolore con cui Meera conviveva abitualmente, ogni istante della sua vita; ad ogni modo, per rimediare al passo falso, l'altra cercò in qualche modo di lenirlo.
-Bran è senza dubbio affezionato a te. Sono certa che non è sua intenzione farti soffrire... tu gli hai dato un figlio...- commentò nervosamente. Inutile, certo.
-Non mi interessa assolutamente nulla di quali sono le sue intenzioni! So solo che mi sta ricoprendo di vergogna. Non ha nemmeno il tempo di chiedersi come sta, suo figlio! Se ne frega, Osha, posso rifiutare la verità quanto voglio, ma lui se ne frega altamente.- Meera frenò il sussulto del labbro inferiore, serrandolo violentemente con quello superiore. -D'altronde, quando deciderà che Grande Inverno ha bisogno di un altro erede, tornerà a dormire nel mio letto. Giusto per il tempo che ci vorrà a mettermi incinta. E poi daccapo.-
Osha pensò alla ragazza allegra ed energica con la quale aveva tante volte bisticciato, tante volte fatto pace, tante volte cacciato nei boschi, e realizzò quanto infelice l'avessero resa le subdole e perfide leggi della vita a corte -Meera non ci era tagliata, non lei, con la sua limpida autenticità, con la sua fame d'evasione ed adrenalina.
-Senti per caso la mancanza dei bei vecchi tempi?- chiese allora Osha, sperando di evocare in lei ricordi gradevoli che attenuassero l'orrore della realtà attuale.
Meera si abbandonò allo schienale del trono, quasi che tutta la sua rabbia, dopo aver sbraitato e imperversato, si fosse disgregata infine in cenere. Iniziò a cullare distrattamente l'involto di pellicce da un braccio all'altro, quasi quel gesto fosse in grado di placare il suo animo e rasserenare la sua mente.
-Se ne sento la mancanza? Ovvio. Qui dentro è un mortorio, si fanno sempre le stesse cose, si vedono sempre le stesse facce. Le mie gambe non sono abituate a rimanere inutilizzate per ore, e a volte sembra impossibile resistere alla tentazione di alzarsi in piedi e scappare via. Bran non mi permette quasi mai di uscire, perchè dice che è troppo pericoloso, con i tempi che corrono. Quella storia d'essere diventata la regina del Nord ha smesso da un pezzo di essere divertente...- Scosse il capo, come se non riuscisse ancora a capacitarsi della sua situazione. -Una volta Bran e Jojen mi trattavano come una loro pari. Una volta, se io non c'ero, loro morivano di fame. E adesso? Adesso cosa sono diventata? La loro copertura. Il loro alibi.- Meera sputò quelle parole con disgusto, gli occhi offuscati della polvere della disillusione. -A quanto pare, si sono accorti che sono solo una stupida donna, e quindi valgo meno della terra sotto le loro scarpe.... E pensare che ho fatto tutto questo per loro. Per loro ho attraversato la Barriera e sono andata dall'altra parte del mondo. Per loro ho rischiato la vita in tutti i modi possibili ed immaginabili. Avrei preferito morire che abbandonare la loro causa. E ad ogni costo non vorrei essere qui a rinfacciare tutto questo, ma... non me lo merito, Osha. Non merito il trattamento che mi stanno riservando. Non merito tanto disprezzo. E sai qual è la cosa più grottesca? Che li amo ancora. Che se mi chiedessero di scegliere fra loro e me, sceglierei ancora loro. Che stupida, eh?-
Un sorriso amaro infranse irreparabilmente le sue difese, mentre Osha veniva colta da un impeto d'indignazione. Come potevano quei due egoisti comportarsi in quella maniera vergognosa con Meera, dopo tutti i sacrifici che lei aveva fatto per stare sempre al loro fianco?! Come potevano essersi dimenticati di tutti i debiti che avevano nei suoi confronti? Era Meera che procurava i pasti, era Meera che montava la guardia di notte, era sempre Meera che accendeva il fuoco e li difendeva dai potenziali pericoli. Quel doppio tradimento -sia da parte del suo stesso fratello, sia da parte di Bran- sembrava una cattiveria troppo sleale e meschina per essere attribuita a quei due. Per quanto Osha lo conosceva, maltrattare coloro che lo avevano aiutato gratuitamente non era abitudine di Bran. Egli era stato un ragazzino dolce, sorprendentemente intelligente, particolarmente sensibile. Possibile che fosse stato capace di tanta disonestà? Perchè aveva sposato Meera, se come fine ultimo aveva ottenuto solamente di farla soffrire?
In verità, Meera era gelosa di entrambi. Da una parte, nessuno poteva pretendere di amare e capire suo fratello più di quanto non lo amasse e capisse lei; dall'altra, nessuno poteva scoparsi impunemente suo marito facendo di lei una cornuta. Mio?, si chiese Meera. No, in realtà nessuno dei due è mai stato davvero mio. Loro si appartengono soltanto l'un altro. E io sono la terza incomoda. Qualcosa di superfluo, qualcosa d'ingombrante. Di sgradito. Ormai una piccola lacrima le solleticava lo zigomo.
-Oh, ti prego, non fare così... E' troppo strano.- bofonchiò Osha, imbarazzata. -Lasciali perdere, Meera, sono degli idioti. Sono degli ingrati, sì. Dei fottuti ingrati. Quando crescono e mettono su la voce grossa, diventano terribili. Potessero rimanere sempre piccoli...-
Salì i gradini e le diede due pacche sul braccio, impacciata; per un attimo, immaginò che Meera le avrebbe gettato le braccia al collo ed avrebbe affondato il viso contro la sua spalla, permettendo ad un pianto dirotto di scaldarla mentre, singhiozzo dopo singhiozzo, il rancore la abbandonava -rigetto di dolore rifiutato- e lasciava in lei soltanto un soporifero, stanco torpore -debolezza che, prima o poi, riemerge sempre.
Osha immaginava che Meera avrebbe pianto, però dimenticava ch'era giunto l'inverno e, si sa, è il ghiaccio ad imprigionare le lacrime delle fanciulle del Nord. Meera sedeva su un trono, ora.
La giovane Reed sollevò la fronte, ad esporre alla luce delle candele le guance asciutte senza esultare. Il bambino fra le sue braccia agitò un piccolo piede nel sonno; si riusciva appena ad intravederne un ciuffo di lanuginosi capelli castani ed il bagliore perlaceo della pelle, fra gli strati di coperte.
Perchè mi stanno facendo questo? Perchè? Quelle parole non raggiunsero mai le labbra di Meera. Non si sarebbe compatita più; li avrebbe amati ancora, caparbia, incapace di dirottare i propri sentimenti, fedele a se stessa. Osha s'inchinò al suo dolore, con uno stoico sospiro, abbassando le palpebre lentamente, ed era il rispetto ad essere ritratto sul suo volto. Aveva lasciato una ragazza ed aveva ritrovato una donna.
E partecipò a quel silenzio, Osha, mentre realizzava quanto potesse, in confronto a quella d'un pugnale sul campo di battaglia, la violenza d'un bacio al buio.


































Note dell'Autrice: Ed ecco a voi -con un po' di ritardo rispetto al tempo che avevo previsto!- il secondo capitolo. Ecco che fine ha fatto Sansa! Ovviamente chi ha letto i libri saprà che non è tutta farina del mio sacco, però ho apportato qualche modifica circa Joffrey -non voglio fare spoiler, ma i lettori mi hanno capita, vero?- e circa Robin, e circa Lysa, qua e là. Nessun cambiamento è stato effettuato a caso, naturalmente. Cosa deciderà di fare Sansa? Troverà il modo di raggiungere Grande Inverno prima che scoppi la guerra?
Qua è stata presentata la situazione a Grande Inverno, mentre nel prossimo capitolo verrà descritto cosa sta succedendo ad Approdo del Re, nonchè la visita a Bran da parte di Jon. Inoltre, non mi sono dimenticata di Theon e Ramsay! Cosa sarà successo, dopo che Yara si è ripromessa di salvare il fratello? Saprete pure questo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto! Mi interesserebbe molto sapere la vostra opinione a proposito, positiva o negativa che sia! Grazie a funny1723 e a Loony Moony per avre recensito il prologo, a desmovale per avere recensito il primo capitolo e a RLandH per averli recensiti entrambi; grazie a tutti coloro che ricordano/seguono/hanno inserito fra i preferiti questa fanfiction, ma grazie molte anche ai lettori! Per il secondo capitolo dovrete attendere più o meno due settimane, credo.
Quindi grazie a tutti e arrivederci al prossimo capitolo! ^-^
Lucy

  
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