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Autore: adria    08/11/2013    2 recensioni
"Non restare a piangere sulla mia tomba.
Non sono lì, non dormo.
Sono mille venti che soffiano.
Sono la scintilla diamante sulla neve.
Sono la luce del sole sul grano maturo.
Sono la pioggerellina d’autunno.
Quando ti svegli nella quiete del mattino …
Sono le stelle che brillano la notte.
Non restare a piangere sulla mia tomba.
Non sono lì, non dormo."
Canto Navajo
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Essendo la prima volta che posto qualcosa di originale, sarebbe gradita una recensione, grazie mille.
Ho modificato alcune cose e modificato i capitoli (oltre ad averne aggiunto di nuovi), spero vi piacciano!!!
Genere: Avventura, Romantico, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2
 
 
 
Due ore dopo
Morimenta, Frazione di Mogoro
Casa di Gennario Casu e Argentina Frau
 
Si voltò sul fianco destro sprofondando in una miriade di morbidi cuscini e una luce giallo brillante iniziò a filtrarle attraverso le palpebre mentre se ne stava rannicchiata sull’enorme letto matrimoniale. Adriana si mise una mano davanti al viso nel vano tentativo di schermarlo, ma purtroppo il danno era stato fatto, si stava svegliando.
Si mise a pancia in su sbuffando e aprendo pigramente gli occhi si ritrovò a fissare qualcosa di bianco e appena mise a fuoco si rese conto essere un soffitto con due lampadari a quattro braccia in ferro battuto.
Era ancora intontita dal sonno.
La coperta che aveva si era tutta aggrovigliata alle gambe.
Sospirò e si mise a sedere appoggiando la schiena contro numerosi cuscini.
La testa prese a pulsarle fastidiosa.
Si guardò intorno con una strana sensazione.
Ora era sveglia.
Era in una stanza rettangolare molto luminosa con le pareti azzurro pastello e arredata con raffinatezza ed eleganza. Alla sua destra c’era una grande finestra con tende ecru in tessuto velato che sporgeva verso l’esterno formando una specie di nicchia sotto il quale era sistemato un divanetto azzurro pallido pieno di cuscini dall’aria comoda, davanti a lei una porta finestra a doppio battente che dava sul giardino.
Lentamente si liberò dalla coperta e scese dal letto.
Constatò che qualcuno le aveva tolto gli stivali quando mise i piedi sul morbido tappeto.
Senza riflettere si gettò sulla maniglia di quella porta premendola varie volte per aprirla, provò a spingere e tirare e premere più a fondo cercando di fare meno rumore possibile, ma quella non si mosse di un millimetro.
Era chiusa a chiave.
Un campanello d’allarme le risuonò nella testa mentre un’agghiacciante pensiero si fece strada, prepotente, nella sua mente sempre più scossa: come diavolo era finita lì, in quel letto grande e morbido e che, soprattutto, non aveva mai visto in vita sua?
Il mal di testa si fece più pressante per via dell’agitazione che l’animava e rischiava di travolgerla. Provò a calmarsi tirando una grossa boccata d’aria e lentamente si sedette nel divano prima che le gambe le cedessero vergognosamente.
E poi un ricordo le esplose nitido nella mente lasciandola senza fiato.
Il treno.
L’uomo con il giornale.
L’interrogatorio.
La puntura.
Le ritornò tutto alla mente e l’inevitabile conclusione che trasse fu come un pugno alla bocca dello stomaco.
Era stata rapita.
Da chi? 
Perché?
Nella sua mente si affollavano furiose un sacco di domande che pretendevano risposte e che la stavano facendo sprofondare nello sconforto più nero perché non era sicura di volerle conoscere quelle risposte.
Si prese la testa tra le mani e affondò le dita tra i capelli corvini nel tentativo di fermare le domande e alleviare il mal di testa che peggiorava.
- Ti sei svegliata finalmente. – disse cordiale una voce maschile dalla porta a due battenti in legno scuro.
Lei alzò la testa di scatto notando per la prima volta quella porta e registrando anche il fatto che non l’aveva sentita aprirsi, ma la cosa che aveva più importanza in quel momento era quel giovanotto in camicia bianca e pantaloni neri che la osservava con interesse.
Sotto quello sguardo indagatore sgranò gli occhi senza riuscire a muovere un muscolo o a spiccicare parola.
- Rilassati. Non sei in pericolo. – disse sedendosi nella poltrona di fianco al grande camino. Altro particolare che lei, presa dalla disperazione, non aveva notato prima.
Il ragazzo accavallò le gambe con eleganza.
-  Vediamo: Adriana Atzori, ventidue anni, nata a Oristano, nell’omonima provincia, il tre gennaio del novantuno da Beatrice Laconi, casalinga, e Saverio Atzori, impiegato delle poste in pensione. Hai due sorelle, Sabrina di quindici anni e Vittoria di sei ed un gatto, Zucca. Come vado? –
- M-mi h-hai rapita … – balbettò Adriana ritrovando la voce, anche se era poco più di un soffio, aveva la gola secca per la paura.
Quell’individuo, chiunque fosse, la conosceva e conosceva la sua famiglia.
Non era un buon segno.
Per niente.
- No. – rispose semplicemente sorridendole, sembrava quasi rassicurante. – Non sei stata rapita. Ho solo ritenuto opportuno portarti in un luogo in cui poter parlare senza futili interruzioni. Tutto qui. –
Tutto qui.
Quelle parole riecheggiarono nella mente della ragazza facendo incrinare qualcosa.
Crick
E la paura e la disperazione iniziarono ad abbandonarla come risucchiati dallo scarico di un lavandino per essere sostituiti da rabbia, frustrazione e irritazione.
- Tutto qui? – chiese alzandosi e incatenando i suoi occhi a quelli ambrati del suo carceriere.
La voce era più sicura, con una sfumatura isterica.
Rise.
Una risata amara.
Lui taceva e la fissava curioso.
- SICURO! È NORMALE PEDINARE E RAPIRE UNA PERSONA PER FARE DUE CHIACCHIERE DA QUALCHE PARTE IN CULO AL MONDO! – stillava e gesticolava come una forsennata avanzando lenta verso la poltrona – CHI NON LO HA MAI FATTO ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA? –
- Comprendo il tuo disappunto, ma era una cosa necessaria. – il tono era tranquillo, lui era tranquillo, tanto tranquillo che pareva stesse parlando del più e del meno con una vecchia amica che non vedeva da anni.
Adriana rimase interdetta da quel comportamento e dal tono più che dalle parole in se, non sapeva cosa dire o fare, era completamente stordita e così si ritrovò a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua. Aveva un’espressione da idiota stampata in faccia ed era in quel modo che si sentiva.
Ricadde sul divano senza un suono.
Il ragazzo, approfittando di quel momento e credendo che il peggio fosse ormai stato scongiurato, buttò, senza tanti preamboli e nessun ritegno, la bomba. – Sei qui perché ho un lavoro da proporti. -
Con gli occhi fuori dalle orbite balbettò - C-c … tu … e … n-n … - cercava di esprimere con i gesti frenetici delle mani ciò che la bocca non riusciva a sputare fuori o che non poteva tirar fuori vista la violenza con cui i pensieri si susseguivano viaggiando a velocità mai conosciute prima.
Certo che era proprio un bel personaggio.
L’aveva fatta pedinare, rapire, drogare e trasportare chissà dove al solo ed unico scopo di proporle un lavoro.
Una cosa da nulla, perfettamente normale.
All’ultima moda, no?
E dire che c’era gente che continuava ad ostinarsi a servirsi di semplici annunci seguiti da futili colloqui su appuntamento. Che inutile spreco di tempo.
Che cavolo aveva in testa? Segatura?
E aveva anche il coraggio di restarsene tranquillo seduto su quella stramaledetta sedia a guardarla come se fosse lei la pazza!
Vedendo che era in difficoltà e che il suo volto stava passando velocemente da un colore all’altro dell’arcobaleno disse – Il lavoro che intendo offrirti è un lavoro speciale che richiede un reclutamento speciale. –
Aveva usato il tono che usano solitamente gli adulti per spiegare ai bambini il perché del divieto di mangiare biscotti pochi secondi prima di cenare e questo la irritò ancora di più.
Crack
Ciò che prima era stato incrinato, adesso aveva ceduto.
Pura rabbia le salì dallo stomaco bruciando come bile.
Adesso era una furia.
Neanche un toro a cui era stato sventolato un drappo rosso davanti agli occhi poteva eguagliare tale furia.
- E allora perché non lo hai detto prima? Questo sì che spiega tutto. - il tono di voce era basso, molto basso, un sussurro agghiacciante che ricordava delle unghie su una lavagna – Tu sei completamente pazzo. Io adesso me ne vado e tu vai dritto in prigione. Basta, il tuo perverso giochino è finito. –
- Ci sono degli uomini pronti ad impediti di andartene senza il mio consenso ed è meglio che ti calmi o il mal di testa continuerà a peggiorare. – si alzò tranquillo, niente sembrava scuoterlo.
Peccato che la diga era crollata, tutto l’autocontrollo che Adriana aveva mostrato nei suoi ventidue anni di vita era finito alle ortiche e adesso rimaneva solo una furia ceca, sorda e muta.
L’animale era stato liberato.
Si gettò sul suo carceriere senza preavviso pronta a colpirlo con tutti i mezzi che aveva a disposizione. D’altro canto il ragazzo se lo aspettava ed era pronto a difendersi da calci e pugni. Non desistette neanche quando lei, non si sa come, lo morse a sangue nell’avambraccio.
La lotta era accanita e piena di colpi bassi e nonostante Adriana era resa più forte dalla furia non riusciva a prevalere sull’avversario. Consapevole di ciò era decisa a fargli quanto più male poteva. Avrebbe venduto cara la pelle.
Alla fine lui riuscì a bloccarla sotto il suo corpo nel tiepido pavimento in legno.
Entrambi avevano il fiatone e la camera era un completo disastro.
Lui aveva un taglio sulla fronte provocato dal vaso di cristallo che lei gli aveva spaccato in testa senza tante cerimonie e lei aveva il labbro inferiore tagliato e lividi che si formavano un po’ dappertutto.
- Sei più calma adesso? – chiese stizzito fissandola intensamente. Entrambi erano consapevoli della posizione vagamente erotica in cui erano bloccati.
- Credi sul serio che dopo tutto questo io accetti il lavoro? – chiese di rimando sostenendo lo sguardo orgogliosa, voleva sfidarlo, non aveva ancora finito di dar battaglia.
- In realtà, ne sono sicuro. – sorrise arrogante e compiacendosi del lampo di sorpresa che l’altra non riuscì a nascondere, ma che passò in fretta come era venuto. – Ti conosco bene. –
In quel momento le venne in mente una cosa a cui non aveva pensato prima: i suoi genitori.
- I miei. Che ore sono? Saranno preoccupati! – il panico impregnava la sua voce e tentò inutilmente di divincolarsi.
- Rilassati. Ho mandato un sms dal tuo telefono dicendo che avevi avuto un imprevisto, che il professore aveva deciso di fare lezione doppia, che avresti fatto tardi e che comunque gli avresti avvisati di qualsiasi cosa. Non si preoccuperanno. –
Aveva pensato a tutto, l’imbecille.
Suo malgrado Adriana si ritrovò a sorridere per i nervi saldi che mostrava e per la strana situazione in cui si trovava e che sembrava tratta da uno dei suoi telefilm preferiti.
- Mi piace la tua grinta. Sei una combattente nata. – disse guardandola ancora un attimo prima di alzarsi e tenderle la mano – Derek Cabrera. –
Lei prese la mano e subito sentì il pavimento staccarsi dalla sua schiena.
Era confusa e stanca, non sapeva come interpretare quelle parole. Sembravano un complimento, ma per quello che ne sapeva poteva anche essere una presa in giro, così non volendosi sbilanciare si limitò ad annuire.
Che lui lo interpretasse come gli pareva.
- Ora possiamo parlare da persone civili? – chiese Derek divertito, lei gli concesse un sorriso.
- Perché io? – chiese, un senso d’urgenza nella voce, aveva bisogno di sapere perché, tra milioni di persone, quel cretino aveva rapito lei, una ragazza comune senza alcun talento particolare.
Per tutta risposta lui si avvicinò alla scrivania in legno scuro, aprì un cassetto ed estrasse un iPad, il nuovo della Apple con il display retina; trafficò un po’ e lo porse alla ragazza.
Lo prese.
Le stava mostrando una galleria di foto.
Con l’indice tremante sfiorò una foto che s’ingrandì fino ad occupare l’intero schermo.
La guardò attentamente, di primo acchito non riuscì a distinguere nulla di sensato, ma più metteva a fuoco l’immagine e più quella assumeva significato. Distinse chiaramente un corpo femminile, senza vita, scomposto su un letto sfatto, era praticamente nudo se non si contavano i brandelli della camicetta dal dubbio colore e le mutandine, macchie scure parevano decorare il corpo dal pallore innaturale. Puntò lo sguardo dove avrebbe dovuto esserci la testa e allargò l’immagine con pollice e indice. La testa non c’era e pareva essere stata strappata invece che tagliata.
Interessante.
- Non ha la testa. - disse con il tono pratico di chi espone un dato di fatto – Sembra che le sia stata strappata. Il taglio è molto irregolare. Chiunque sia l’autore di certo non fa il macellaio di professione. –
Derek la guardava compiaciuto mentre camminava, incurante del fatto che era scalza e che sul pavimento c’erano pezzi di vetro, avanti e indietro immersa nei suoi pensieri. E sorrideva. Era completamente immersa in ciò che stava facendo, rimpicciolì la foto e passo alle altre, lentamente, non voleva perdersi alcun dettaglio.  Esaminò attentamente ogni centimetro del corpo annotando ogni escoriazione, ogni livido, ogni taglio e ogni goccia di quello che le sembrava sangue rappreso, per non parlare delle macchie scure, altro sangue dedusse, che imbrattavano le lenzuola già luride, i cuscini sparsi sul pavimento e il tappeto macchiato di qualcosa che non era sicura di voler sapere. La cosa la interessava parecchio.
Mentre guardava le foto una dopo l’altra, ancora e ancora, espose i suoi pensieri a mezza voce, senza neanche rendersene conto - Pare che sia stata torturata. In ogni caso è stata legata per lungo tempo e non è stata uccisa li, forse era solo il luogo dove la teneva prigioniera, altrimenti di sarebbe stato più sangue. Anche se potrebbe averle tagliato la testa da morta e averla tenuta come souvenir. -
- Ecco perché tu. – rispose lui semplicemente.
Lei alzò la testa con un’espressione stranita sul volto, si era completamente dimenticata di Derek; per un attimo tutto era scomparso.
- Hai grandi capacità deduttive. – si avvicinò alla ragazza e le prese l’iPad - La vittima si chiamava Valerie Miller, ventitré anni, modella. È stata torturata per due settimane prima di essere ritrovata in un motel a San Francisco, California. Il killer era il suo vicino di casa, uno stolker, che prima di lei aveva ucciso altre tre donne in tre diversi stati, tutte nello stesso modo perché si rifiutavano di ammettere che lo amavano. Teneva la testa delle vittime nel congelatore come trofeo. –
Adriana rimase a bocca aperta, ma ormai era diventata relativamente brava a riprendersi da situazioni potenzialmente disarmanti e ribatte con più naturalezza possibile – Quello che hai visto deriva da una notevole cultura cinematografica. Hai presente CSI? –
- Può darsi, ma non hai battuto ciglio davanti alle foto, anzi, hai fatto ciò che fa un investigatore. – le agitò l’iPad sotto al naso
- Sono solo immagini. Come pensi avrei reagito se fosse stato vero? –
- Allo stesso modo. Ti ho vista quando hai compreso che cosa stavi guardando, la tua espressione da medico chirurgo mentre opera. L’occhio clinico con cui hai esaminato minuziosamente le immagini. Hai talento e ti voglio nella mia squadra. –
Lei sbuffò sonoramente – Sul serio? –
- Si. – la inchiodò con i profondi occhi ambrati – Ti ho osservata. Sei passionale, una forza della natura ingabbiata pronta a liberarsi e me lo hai dimostrato poco fa lottando. – pausa ad effetto. Voleva darle il tempo di assimilare le sue parole, poi diede il colpo di grazia - Ti sto offrendo le chiavi per liberarti dalla gabbia che ti sei creata. –
  
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