Libri > Hunger Games
Segui la storia  |       
Autore: I Fiori del Male    09/11/2013    4 recensioni
Alcuni credono che il nostro mondo sia governato da un’entità superiore, che traccia un percorso prestabilito per ciascuno di noi. Altri preferiscono pensare che caos e caso regnino sovrani. Nessuna di queste ipotesi è valida per Panem, dove la vita di ognuno si regge sulle scelte e sul coraggio che si deve avere per compierle, sull’abilità di governare le fiamme, notoriamente volubili, ma capaci di grandi cose, se utilizzate con abilità e saggezza.
- Io e Haymitch ci guardiamo, non appena lui raggiunge il palco, e senza che Effie lo dica ci stringiamo la mano con gli occhi fissi l’una nell’altro. Un accordo ci unisce. - [Capitolo I]
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haymitch Abernathy, Katniss Everdeen, Peeta Mellark, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
-8-
 
[Katniss’ POV ]
 
 
Haymitch mi guarda, e sul suo volto c’è uno dei suoi irritanti sorrisetti. Non riesco a capire cosa stia pensando e la cosa m’inquieta un po’: credevo di essere ormai in grado di decifrare i suoi codici, invece non so proprio cosa gli passi per la testa, da qualche tempo a questa parte. Mi lascia dentro la stessa scomoda sensazione che mi ha sempre lasciato mia sorella: quella di sapere sempre qualcosa in più di me.
 
È sempre stata una qualità di Prim, questa.  Ricordo un giorno di pioggia, in cui stavamo tornando a casa di corsa, per non bagnarci troppo; anche se sapevo che saremmo rientrate fradice, gocciolando come panni stesi ad asciugare.
Certamente non avremmo avuto la possibilità di asciugarci davanti al camino: era spento da giorni, malgrado fosse pieno inverno. Questo perché la legna che riuscivo a riportare a casa ero costretta a venderla per soddisfare altre esigenze.  Non che a me importasse, io ormai ero abituata a ignorare il freddo, che invece pareva sempre essere deciso a gelarmi fin dentro le ossa, a ghiacciarmi il sangue nelle vene. Ma Prim era più fragile, non volevo che si ammalasse, anche se l’influenza, in casa di un medico, era di sicuro l’ultimo dei mali.
 
Anche in momenti tanto tristi, Prim sapeva come rendere le cose divertenti. Mi lasciò la mano e prese a girare in tondo, sotto la pioggia battente. Girava e girava, ridendo. Io tentai di dissuaderla, ma lei non volle saperne.
 
- Tanto ci bagnamo lo stesso. Che differenza fa? – mi chiese. Aveva proprio ragione. Sconfitta da quel semplicissimo ragionamento me ne stetti a guardarla che girava senza sosta, fin quando non cominciai a sentirmi osservata. Mi voltai di scatto.
 
Peeta era alle mie spalle, a qualche metro da me. Reggeva nella mano sinistra un ombrello. Per quanto questo possa sembrare assurdo, gli ombrelli nel dodici erano e sono un bene quasi di lusso ormai. Probabilmente, ne avevamo anche noi uno in casa, appartenuto a mia madre da giovane, ma con altrettanta certezza poteva essere rotto. Non aveva senso pensarci. Il punto era che in quel momento non lo avevamo, e oggi posso dire che Peeta allora mi guardasse come a voler offrire, a me e mia sorella, il riparo di cui avevamo bisogno.
 
Prim nel frattempo si era fermata, e quando mi voltai verso di lei la colsi ad osservarmi. Alzò una mano per salutare Peeta, poi mise entrambe le mani attorno alla bocca e urlò quasi, tra esse: - Grazie! –
Mi girai di nuovo appena in tempo per vedere Peeta alzare la mano e scuotere la testa, come a dire che non ce n’era bisogno, e poi andarsene.
 
- Grazie di cosa? – le chiesi, interdetta, domandandomi anche perché mai mia sorella non trovasse alcuna difficoltà nel parlare con lui ed io, invece, sì. Lei non rispose. Fece quello stesso mezzo sorriso che oggi è comparso sul volto di Haymitch, lasciando insoddisfatta la mia curiosità e insinuando in me il sospetto che ci fosse qualcosa che lei sapeva ed io invece no.
 
Per un attimo penso di chiederglielo appena la rivedrò, poi un dolore lancinante mi attraversa il petto: non potrò mai farlo. Non tornerò. Non rivedrò mai più la mia dolcissima sorellina.
Perché ho ragionato come se fossi certa di tornare a casa? Forse perché nel mio egoista e calcolatore ego nutro la speranza che Peeta scelga di aiutare solo me?
 
Torno alla realtà: Haymitch è scomparso oltre la porta della carrozza bar. Effie ha appena svegliato Peeta, che mi sta guardando. Sussulto, rendendomi improvvisamente conto che lo sto fissando da un bel po’, senza dire nulla e senza nemmeno accorgermene.
 
- Cosa c’è, Katniss? – mi chiede. Effie nel frattempo se n’è andata. Siamo soli.
- Niente. – rispondo. – Stavo ... ricordando una cosa. –
 
- Vuoi parlarmene? –
 
Mi chiedo se debba sforzarsi almeno un po’, per sembrare tanto interessato a tutto quello che mi riguarda; e il modo in cui mi osserva mi risponde meglio di qualsiasi parola: non deve sforzarsi affatto. Mi guarda, in attesa.
I suoi sono gli unici occhi in grado di farmi abbassare lo sguardo senza accompagnarsi ad alcuna parola. Dev’essere quell’azzurro innocente, pacifico, così diverso dal mio grigio triste e tormentato. Totalmente incapace di ferire, perfetto per consolare e proteggere.
La purezza del suo sguardo mi fa sentire come se non meritassi niente, e di fronte ad una persona buona come Peeta nessuno meriterebbe, figurarsi io.
 
- E’ un ricordo di quando andavamo ancora a scuola ... – gli racconto cosa la mia mente ha appena ricacciato. Peeta sorride.
 
- Cosa c’è? – gli chiedo.
 
- Me lo ricordo anch’io. Vuoi sapere perché mi ha ringraziato? –
 
Annuisco, curiosa.
 
- Be, allora chiedilo a Prim, quando tornerai a casa ... – dice, sorridendo. Il suo volto però si fa improvvisamente serio, quando aggiunge: - Perché tu ci tornerai a casa, Katniss. –
 
Sono così impegnata a guardarlo negli occhi che ci metto un po’ per accorgermi che mi sta stringendo entrambe le mani, e quando me ne accorgo è perché la mia pelle, a contatto con la sua, si è fatta bollente.
Scuoto la testa alle sue parole. Perché deve sempre essere così buono, con me?
 
- Ehi, no. Guardami. – dice, spostando una mano sul mio viso.
Potrei cuocere qualcosa sulle mie guance, adesso.
 – Tu tornerai a casa. Non voglio discutere ancora di questo. È una promessa. – il suo tono è talmente serio e tormentato da cancellarmi il sorriso, come quando, nella grotta, mi fece promettere che non sarei andata al festino per recuperare la sua medicina.
Ha la stessa espressione stanca di allora, malgrado si sia appena svegliato, e capisco che probabilmente la avrà per sempre: a diciassette anni ha visto gente morire sotto i suoi occhi, ha rischiato di morire a sua volta e ha perso una gamba, e ora si ritrova ad aspettare che due persone a lui care rientrino nello stesso posto da cui lui è faticosamente uscito, senza avere certezza di vederli tornare indietro.
 
- Va bene – gli dico, ma lo faccio solo per non vederlo ancora più stanco, per non sentirlo di nuovo urlare, perché continuo a credere che non ne uscirò.
 
- Aaaah! – esclama lui. – So cosa stai pensando. Mi sono appena ricordato di quando, nella grotta, ti ho chiesto di non andare al festino. Mi hai assecondato allo stesso modo, per poi addormentarmi con lo sciroppo. Non ci casco una seconda volta! – scuote la testa, ma sorride, e paradossalmente vien da ridere anche a me.
 
- E’ stato un bello scherzetto, quello. – confermo, annuendo soddisfatta.
– Avevi anche appena detto che non sapevo mentire. – ricordo, a occhi chiusi. Faccio appena in tempo a riaprirli per vedere Peeta che mi schiaccia un cuscino in faccia, rovinandomi addosso.
 
- Sta zitta! – esclama ridendo, e rido anch’io, sotto il cuscino leggermente premuto su di me. Ne prendo un altro alla cieca, cercando di colpire Peeta, che distratto molla la presa sul suo.
Così me lo tolgo di dosso, ma quando finalmente riesco a vedere di nuovo, mi fermo.
 
Sono sdraiata sul divano, le gambe leggermente aperte, la pancia scoperta dalla maglia che nella foga si è sollevata, e ho il respiro corto per via delle risate.
Peeta è sopra di me, una gamba tra le mie; e mi tiene un polso bloccato, mentre con l’altra mano ha appena afferrato il mio cuscino, col quale però ho fatto in tempo a scompigliargli i capelli. Mi fissa con quei suoi occhi luminosi, ora più allegri, il volto ancora disteso in un sorriso dei suoi, di quelli che mozzano il fiato.
Tendo la mano libera, con l’improvviso desiderio di far scivolare le dita fra i suoi capelli, quando sento un rumore improvviso:
 
- Ahem! –
 
Ci voltiamo entrambi di scatto, ritrovandoci fissati da Haymitch, Cinna e Portia, seduti al tavolo poco lontano.  Dietro di loro, in attesa contro la parete, c’è Darius.
Rabbrividisco e mi alzo a sedere di scatto, sistemandomi la maglietta, mentre un pensiero si affaccia alla mia mente: che cosa starà pensando Darius di me, in questo momento? Che non m’interessa nulla di quello che lui ha passato e sta passando.
Che io penso a giocherellare con Peeta mentre lui ci osserva, privato di qualcosa di prezioso come la propria voce e la propria libertà.  Se potesse ancora parlare, probabilmente m’insulterebbe: non è forse colpa mia, se lui si trova qui? Non posso permettermi il lusso di comportarmi come se nulla fosse.
 
 
Mi alzo dal divano e me ne vado in camera, senza dire nulla a nessuno, senza guardare Peeta che però mi sta seguendo. Mi parla solo quando poso la mano sulla maniglia della porta.
 
- Io non credo che perdere qualcosa ci autorizzi a far si che anche gli altri soffrano. –
 
Mi volto verso di lui, sorpresa. – Che vuoi dire? –
 
- Voglio dire che non devi pensare che Darius possa odiarti, vedendoti sorridere una volta tanto. - risponde, - Non se è una persona buona. Non se ti vuole anche solo un po’ bene. Non credo che Cinna e Portia odino vederci sorridere, e nemmeno Haymitch ed Effie. Anzi penso l’esatto opposto. – mi spiega.
– Penso che vederti felice sia la prima cosa cui una persona che ti vuole bene pensa, Katniss. – specifica. – Perciò perché ti senti in colpa, a ridere un po’? Non ti vedevo ridere così da quando ... – scuote la testa. – Pensa! Non me lo ricordo più! – conclude quasi divertito.
 
Mi ha preso di nuovo per mano, parlando, e il mio sguardo vola inevitabilmente sulle nostre dita intrecciate.
 
- Nemmeno io – confesso, ed è vero. Non ricordo più quanto tempo era che non mi sentivo tanto rilassata quanto poco fa.
 
- Però ... Peeta io non posso dimenticare, nemmeno per un secondo, tutto questo ...-
 
- E non devi farlo! Non sono forse stato io il primo a dire di non voler dimenticare? Solo ... non lasciare che tutto questo ti distrugga dentro, com’è successo a Haymitch. Combatti. Vivi finché il tuo cuore batte ancora, non morire prima che sia finita davvero! –
 
Non faccio in tempo ad assimilare quanto mi ha appena detto, perché mi avvolge in un abbraccio improvviso e forte, ed io mi ritrovo immersa tra le sue braccia, con la testa sul suo petto. Sento il suo cuore battere forte, ed il mio si unisce rapidamente.
 
- Ti prego. – dice. – Non pensare di dover morire per forza, neanche per un attimo. Farò di tutto, per portarti a casa. –
 
Stringo la sua maglietta tra le dita e annuisco. Lo so.
So che mentre sarò nell’arena a combattere contro chissà quale trappola di Capitol City lui sarà qui, a fare quello in cui ha più talento: plasmare la gente con le parole.
Non potrei essere in mani migliori, l’ho sempre saputo; ma l’emozione nel riscoprire questo pensiero è tanta e tale che il bacio che gli poso sulle labbra subito dopo è il più vero che gli abbia mai dato.
Spero con tutta me stessa, quando mi separo da lui, che non mi chieda perché l’ho fatto, perché non saprei rispondergli.
                
Ritorniamo entrambi nel salone, e subito mi sento osservata dallo sguardo indagatore di Haymitch che, col suo solito atteggiamento, non fa che innervosirmi. Continua a fissarmi, mentre si porta alla bocca diversi cucchiai di stufato, e io faccio fatica a mangiare, impegnata ad osservarlo di sottecchi, sperando che la smetta.
Ad un tratto sembra accorgersene e mi sorride, con dispetto. Distolgo lo sguardo in fretta per trovarmi in guai peggiori, perché di fronte ho Peeta che, anche se con più discrezione, mi osserva a sua volta, ponendomi proprio quella domanda cui non so rispondere e costringendomi ad inchiodare gli occhi al piatto, così bianco da farmi lacrimare gli occhi. La presenza di Darius, in attesa assieme a Lavinia, peggiora soltanto le cose: vorrei parlargli, chiedergli scusa anche se le scuse sono inutili, a questo punto.
Alla fine della cena ho lo stomaco sottosopra e il cibo minaccia di riuscire tutto fuori. Incrocio di nuovo lo sguardo di Peeta mentre mi alzo, dicendo che ho assoluto bisogno di dormire, ma lo distolgo subito.
 
Una volta tornata nella mia stanza riesco a trovare un po’ di sollievo nella solitudine che avvolge ogni cosa.
Prendo il telecomando sul mobile, che sembra starsene lì come in attesa, e giro la manopola fin quando tutto quel che riesco a vedere dalla finestra non è che un fitto bosco.
Mi disfo di tutti gli abiti, pesco una camicia da notte leggera da uno dei cassetti, e così messa mi lascio cadere sul letto, foderato di raso e seta.
 
Non so quanto tempo ho passato a scrutare i meandri del bosco proiettato sulla finestra, ma sussulto quando sento un bussare sommesso alla porta.
 
- Avanti – dico, senza soffermarmi a pensare allo stato in cui mi trovo, fin quando non mi volto e mi rendo conto che si tratta di Peeta. Mi getto sotto le lenzuola all’istante: non posso fare a meno di vergognarmi.
 
- Scusa! – esclama, - Ma sei stata tu a dirmi di entrare ... – si giustifica. Scuoto la testa.
 
- No, scusa tu ... è solo che non ci ho pensato. –
 
Silenzio.
 
- Volevi dirmi qualcosa? – chiedo, dopo un po’ che ce ne stiamo così a guardarci a vicenda; visto che la situazione, con lui lì in piedi vicino alla porta ed io sdraiata nel letto, sta diventando imbarazzante.
 
Scuote la testa. – No, volevo solo vedere se stavi bene. – dice, e mi sento sciogliere sotto le lenzuola, perché non è umanamente possibile essere tanto buoni col prossimo; e mi chiedo come faccia a essere sempre comprensivo e gentile e trovare persino il tempo di preoccuparsi per gli altri.
Soprattutto, mi chiedo come faccia a preoccuparsi ancora per me.
 
Annuisco, e cala di nuovo il silenzio. All’improvviso il mio letto sembra freddo e vuoto, anche se ci sono io dentro, come se mancasse qualcosa.
Di nuovo, vorrei che restasse a dormire con me: non posso farne a meno, ed è il bisogno che mi spinge, alla fine, a tirar fuori una mano da sotto le lenzuola e chiedergli di avvicinarsi.
 
Senza che io gli dica nient’altro, lui si avvicina ed io scosto le lenzuola, così che poi possa coprirsi. Si toglie le scarpe e si sdraia affianco a me, mentre io cerco di dimenticare di essere mezza nuda.
Ci riesco solo quando sento il suo petto contro le mie guance e le gambe intrecciate alle sue, una calda e l’altra gelida come il ghiaccio: la protesi.
Un brivido mi passa lungo la schiena: è colpa mia se a diciassette anni si ritrova senza una gamba, lo so, e sento le lacrime spuntarmi agli angoli degli occhi, così seppellisco la testa ancor più giù, tra le sue braccia, perché non se ne accorga.
Solo che Peeta Mellark non si smentisce mai.
 
- Ti da fastidio? – chiede, e so che si riferisce proprio alla sua gamba artificiale. Resto immobile, fingendo di dormire.
 
- Katniss, so che non stai dormendo. – mi rimprovera, alzandomi il viso con una mano sotto il mento. – Allora? –
 
Scuoto la testa. – Pensavo solo ... insomma, è colpa mia, se ora non hai più ... -.
 
Sbuffa, alzando gli occhi al cielo. – Sai che non è così. Se non avessi fermato il sangue, oggi non sarei qui. –
 
- Ma io ... – tento di ribattere.
 
- Ssssssh! – esclama lui, mettendomi un dito sulle labbra. – No, Katniss. È fuori discussione, e adesso cerca di dormire.  Ti aspetta una giornata dura. –
 
Sprofondo di nuovo con la testa tra le sue braccia e lo sento carezzarmi i capelli, come quando eravamo nella grotta.
Mi sento improvvisamente a casa, nel mio letto. Quando mi sveglierò, sarà per andare a caccia nei boschi e poi al Forno a fare qualche baratto; e quando tornerò a casa, troverò ad aspettarmi mia madre e Prim, come al solito intenta a mungere Lady.
Perfino quel mostriciattolo spelacchiato di Ranuncolo sembra una buona prospettiva, a confronto con quanto dovrò affrontare domani; quando mi troverò a guardare in faccia gli altri tributi, ad allenarmi con loro, quando ognuno di noi cercherà di intimidire l’altro mostrando di cos’è capace o non mostrando nulla, per lasciare tutti a cuocere nei propri dubbi.
Eppure, questo pensiero resta ai margini della mia coscienza, mentre mi lascio cullare dal respiro regolare e dal battito del cuore di Peeta, che si agita a pochi centimetri dal mio orecchio, ricordandomi che se c’è stata una cosa buona che ho fatto, è stata tenere in vita questo ragazzo.
 
 
 
 
 
- No, Effie! – esclama Peeta, quando lei sembra manifestare la volontà di accompagnare me e Haymitch al centro d’addestramento. – Lascia che vadano da soli. Sarà meglio. –
 
Poi si rivolge a noi.
 
- Insomma... non devo certo dirvi io di non mostrare le vostre abilità agli altri, no? Mantenete un basso profilo. Haymitch ... puoi venire un secondo? -
 
Vedo Haymitch e Peeta confabulare in un angolo per qualche minuto, poi partiamo. Non sono riuscita a sentire una sola parola di quel che si sono detti, ma Haymitch, prima che le porte dell’ascensore di aprano, sussurra:
 
- Non darmi troppa confidenza. Non dovrebbe risultarti difficile. –
 
Ha ragione, e infatti non trovo alcuna difficoltà ad ignorare la sua presenza, dal momento in cui mettiamo piede nella palestra del Centro.
Atala, la capo istruttrice, ci fornisce un breve ripasso delle regole della palestra: niente scontri con gli altri tributi, mantenere l’ordine, cercare di seguire il maggior numero di lezioni, concentrandoci sui nostri punti deboli.
Non manca di ricordarci, con sconcertante freddezza, che molti di noi moriranno quasi certamente per cause naturali, all’interno dell’arena.
 
Ovunque si metta Haymitch, io mi trovo sempre al lato opposto. In questo modo facciamo il giro delle postazioni senza mai incontrarci, anche se, così come ogni tanto mi volto a guardarlo per vedere in che situazione si trovi; così talvolta sento il suo sguardo su di me.
                                                     
Sto cercando di infilzare un manichino con una lancia, dritto sul cuore e con scarsi risultati, quando sento il respiro di qualcuno sul mio collo e una voce, suadente, profonda, sussurrare:
 
- Non sei molto pratica di lance, ragazza in fiamme? –
 
Mi volto di scatto, trovandomi a pochi centimetri dal volto di Finnick Odair, che mi sorride mostrando una fila di denti dritti bianchissimi. Mi trovo costretta ad ammettere che si tratti di un gran bel ragazzo, anche se non capisco l’atteggiamento svenevole delle donnette di Capitol City. Ringrazio il cielo che oggi sia completamente vestito, mentre mi torna in mentre una sua fugace immagine, con indosso solo una sorta di mutanda di rete.
 
- No, in effetti. Me la cavo di più con le frecce, ma immagino che tu lo sappia. – rispondo.
 
- E chi non lo sa? Eppure sono convinto di non aver visto nulla di quello che sai fare, nei giochi passati ... insomma, non è che tu abbia usato molto l’arco, direi piuttosto che queste ... – e mi sfiora le labbra col pollice – ... sono state la tua arma migliore. –
 
Mi sento a disagio, devo essere diventata di qualche colore piuttosto vicino al bordeaux, ma resisto, gli occhi piantati nei suoi.
 
- Immagino che tu, di armi di seduzione, ne sappia qualcosa. Quanto ti pagano Odair? –
 
Non so da dove mi sia uscita questa frase, che mi suona anche più cattiva di quanto intendessi, ma lui non sembra scomporsi. Piuttosto le sue dita, dalle mie labbra, volano a spostarmi dall’orecchio alcuni ciuffi sfuggiti alla treccia, mentre sussurra:
 
- Niente soldi, è roba troppo volgare per me. Solo segreti. –
 
Sorrido ironica.
 
- Mi spiace, non sono la persona per te. Non ho segreti da rivelare. –
 
- Io non ne sarei così sicuro ... – risponde subito, facendomi l’occhiolino.
Poi si allontana da me e solo allora noto che stringe una lancia tra le mani. La scaglia, dandomi l’impressione di non metterci alcuna forza, malgrado io riesca a vedere distintamente i muscoli del braccio tendersi.
La seguo con lo sguardo fin sul cuore dello stesso manichino che sto cercando di infilzare da mezz’ora.
 
Quando mi volto di nuovo alle mie spalle, Finnick non c’è più; ma colgo Haymitch intento a lanciare coltelli. Ha preso buona parte dei bersagli.
Un brivido mi corre lungo la schiena quando sento il tonfo sordo dell’ennesima lama che si conficca nel legno.
 
Quando l’istruttore della postazione trappole mi vede, sembra quasi contento di riavermi come sua allieva. Si complimenta con me per le trappole che ho utilizzato nell’arena lo scorso anno, commentando con fredda efficienza ogni particolare per poi iniziarmi a una serie di tecniche più complesse. Vorrei concentrarmi, ma la mia attenzione è spezzata dalle imprecazioni che la ragazza accanto a me lancia ogni volta che scopre di aver fatto male un nodo, o le cade la corda dalle mani.
 
- Ma come diavolo fai, a muovere le dita a quel modo? – mi chiede, dopo un po’.
La guardo e ci metto un secondo di più a riconoscerla, perché sul suo carro era vestita da albero; ma il suo sguardo sprezzante e privo di inibizioni mi torna subito alla memoria: è Johanna Mason, del distretto sette; che ha vinto i suoi giochi fingendosi una santarellina, incapace di far male perfino a una mosca.
Per un attimo, vorrei risponderle che quello davvero bravo con le trappole è Gale, ma mi rendo conto che non capirebbe. Scuoto la testa.
 
- Solo pratica. – rispondo, osservando il nodo malriuscito della sua trappola per conigli. Mi viene in mente la prima volta che ho provato a farne una io, diversi anni fa.
 
 
 
- No, Katniss, non così ... devi far passare la corda sotto, in questo modo, vedi? E poi ... oplà! –
 
Con un rapido gesto, mio padre aveva concluso il nodo su cui stavo lavorando da più di mezz’ora, lasciandomi insoddisfatta; poi gli avevo chiesto di farmi rivedere il passaggio diverse volte, fino a ritenermi contenta del risultato.
Il giorno in cui riuscii a farne una davvero decente, mio padre decise che da allora in poi dei conigli mi sarei occupata io, mentre lui andava in cerca di cervi: il mio arco era ancora troppo poco potente, per utilizzarlo con qualcosa di più grosso di uno scoiattolo, o di qualche piccolo tacchino selvatico.
 
- Guarda, si fa così ... – sciolgo il nodo e lo rifaccio, cercando di non essere troppo veloce nei passaggi, mentre la ragazza del sette mi osserva, concentrata. Quando ho finito, annuisce.
 
- Be, se ci riesci tu, non vedo perché non dovrei riuscirci io! – esclama, per poi tornare a immergersi nella pratica di nodi. Sto per ribattere, irritata, quando vengo interrotta da un forte fragore alle mie spalle.
 
I tributi del sei, divorati dalla Morfamina, hanno rovesciato alcune ciotole della postazione di mimetizzazione, macchiando il pavimento di tinta e sporcandosi tutti a loro volta. Tutti gli altri li osservano, vedo perfino qualcuno sghignazzare. Me ne sto lì a guardare, fin quando la vista delle mani tremanti della ragazza, che raccolgono una ciotola, non mi spinge ad andare a dar loro una mano.
 
Quando li raggiungo, mi osservano con quegli occhi enormi mentre raccolgo altre ciotole, cercando di recuperare quanto più colore possibile. Non appena finisco, si avvicinano entrambi, con dei pennelli in mano, quasi intrappolandomi in un angolo; e cominciano a dipingermi, fermandosi ogni tanto per intingere i pennelli nei vari colori.
 
Penso che non faranno altro che assurdi scarabocchi, e la voglia di scappare è tanta quando cominciano a toccarmi; ma poi, quando i primi tocchi di colore iniziano a prendere forma sulle mie braccia, mi ritrovo a fissare incantata il loro lavoro, come se stessi guardando Peeta all’opera.
In effetti, le loro espressioni, adesso, somigliano molto alla sua.
Sembrano persi in un loro mondo, forse fatto degli stessi colori che mi stanno stendendo sulla pelle. Decido di lasciare che mi usino come tela e, quando dopo un’ora sembrano aver finito e mi guardo allo specchio, potrei quasi convincermi di star davvero prendendo fuoco, tanto realistiche sono le fiamme che mi hanno dipinto addosso.
 
- Grazie ... – sussurro ammirata, ma non mi ascoltano: si dipingono fiori variopinti sulle guance, tirate in due sorrisi  identici, ignorando il mondo che vive loro attorno.

 
 
- Cos’è questa novità? – mi chiede Peeta, decisamente divertito, quando mi vede rientrare dipinta di fiamme. Faccio spallucce.
 
- Sono stati i due del sei ... sono bravi, però! Certo, niente a che fare con te ... – le ultime parole le dico quasi senza voce, ma il salone è immerso nel più profondo silenzio, e vedo Peeta sorridere imbarazzato, portandosi una mano dietro la nuca.
 
- Hai poi fatto altri dipinti, dopo quelli che  mi hai mostrato durante il tour? – chiedo presa da un’improvvisa curiosità, mentre si riaffaccia alla mente il ricordo di quelle tele, testimonianze tremendamente realistiche dei nostri primi Hunger Games.
Peeta annuisce.
 
- Vuoi vederle? – chiede poi, e stavolta sono io ad annuire, per poi ritrovarmi a sorridere alla stessa maniera dei morfaminomani, quando mi prende delicatamente per mano, in un gesto spontaneo e senza troppe pretese, come non ce n’erano da qualche tempo.
 
Nella sua stanza non c’è traccia dei dipinti a un primo sguardo, ma questi si scoprono trovarsi dietro l’ultima anta dell’immenso armadio: Peeta deve aver chiesto di togliere una parte dei vestiti, per conservare quelle tele.
 
Mi basta vedere la prima, per avere voglia di scappare via all’istante: siamo io e Prim, nel salotto confortevole della nostra casa al villaggio dei vincitori.
Siamo sul divano, e Prim ha poggiato la testa sulla mia spalla ed io le carezzo i capelli, mentre lei rifila qualche grattino tra le orecchie a Ranuncolo, accovacciato sulle sue gambe. Sorrido.
 
- Poi me la sono ricordata ... – comincia.

- Cosa? – gli chiedo, senza capire.
 
- L’ultima volta che ti ho vista sorridere davvero. – risponde. – è stato qui, mentre chiacchieravi con tua sorella ed io e Haymitch giocavamo a scacchi. Non voglio dimenticare questi momenti, e non devi scordarli nemmeno tu, perché tornerai a viverli. – dice, senza guardarmi, continuando a fissare la tela.
Io mi fisso sulla sua espressione, e noto che i suoi occhi meravigliosi sono lucidi di lacrime, e ciò che queste lacrime mi suscitano è troppo complesso da raccontare, da riassumere in parole, così che mi riduco ai gesti, e lo stringo in un abbraccio, forte, più forte che posso.
 
- Grazie – dico, la voce un po’ soffocata, il viso premuto nell’incavo del suo collo, e lui per risposta mi stringe forte in vita, premendo il suo corpo sul mio; respirando tra i miei capelli e sul mio orecchio.
Un brivido mi percorre la schiena mentre di nuovo mi sento, semplicemente, a casa.
 
Ma c’è qualcos’altro, di consistenza fumosa, fragile e trasparente come cristallo, che passa attraverso quei gesti. Ne cerco il significato, mentre continuiamo a stringerci e nessuno dei due parla, o si muove di un solo centimetro. Non ci riesco. Solo, non voglio separarmi da lui.
 
Poi qualcosa accade, ancora.
Peeta si sposta di poco, e le sue labbra mi sfiorano inavvertitamente il collo.
La mia bocca si apre, alla ricerca di ossigeno, prendendoselo bruscamente, lasciando fuoriuscire un suono che non credevo sarei stata mai capace di produrre, un ansito sommesso. Le mie mani si muovono a sfiorare la sua gola, poi le spalle e le braccia, scoprendole forti come non le ricordavo. Io che del ragazzo del pane mi ostino ad avere sempre la solita, bonaria immagine, negando a me stessa di avere di fronte un uomo fatto e finito.
 
Lui continua a stringermi per la vita con una mano, spingendomi all’indietro, finché finisco la mia breve corsa urtando leggermente contro l’ampio specchio dell’armadio.
Il contatto con quella superficie fredda mi mette la pelle d’oca, o forse è Peeta.
Sento il suo respiro ora più profondo, agitato, rispecchiare perfettamente il mio fin quando non ci baciamo. Ricama la mia bocca, la mascella e il collo di baci mentre io non riesco a fare altro che stringergli i capelli, carezzargli il collo, premere le mie mani contro il suo petto solido.
Il mio cuore minaccia di esplodere e ho la testa annebbiata, ogni pensiero mi sfugge appena cerco di artigliarlo dall’oscurità in cui è immerso, ogni minimo movimento di Peeta mi strappa alla ragione.
La mia pelle si fa bollente ovunque passi la sua. Sento scie di calore attraversarmi il ventre quando le sue mani s’insinuano sotto la maglietta. La mia schiena s’inarca d’istinto, come per non voler perdere il contatto con le sue mani, e non mi sottraggo al suo tocco nemmeno quando mi ritrovo con indosso solo il reggiseno, e poi senza. E poi senza pantaloni. E lui lo stesso.
 
- Katniss ... – lo sento sussurrare, con voce innaturale, eccitata, profonda.
 
È una vibrazione ancestrale che mi scuote da qualche parte nel ventre, per poi risalire lungo la mia gola e prendere la forma del suo nome.
 
-Peeta ... – bisbiglio a mia volta, respirando a fatica, sussultando sorpresa quando la sua bocca si posa sul mio seno.
Mi scopro a premergli il viso sul mio petto, guardando il soffitto senza in realtà vederlo, la bocca spalancata alla ricerca di ossigeno: di aria fresca che non arriverà, perché tutto è caldo qui, soffocante, come fossi circondata dalle stesse fiamme che mi ornano le braccia. 



*Angolo autrice*  Ciao a tutti :) Come state? Voglio chiedervi scusa. Per vari motivi, ultimamente è stato difficile pubblicare a scadenza precisa, e non l'ho fatto in effetti ... ho impegato molto tempo, per scrivere questo capitolo, mentre MatitaGialla ha impiegato un'ora e venti per betarlo O.O Non so come faccia a sopportarmi ( o forse non mi sopporta e si maledice per essersi proposta come beta reader XD) ... fatemi sapere se il capitolo vi è piaciuto :) 
Un bacio :*

Una rosa di Versailles

 
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Hunger Games / Vai alla pagina dell'autore: I Fiori del Male