Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: amandasilbermond    09/11/2013    0 recensioni
Yuri aveva diciotto anni.
Yuri è morto.
Mia aveva quattordici anni quando suo fratello se n'è andato.
Mia deve imparare a vivere, senza di lui.
Genere: Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La evitavamo tutti, quasi avesse la peste, non perchè scontrosa o di carattere malvagio, ma al contrario, perché troppo assente: parlava poco o non spiccicava parola per ore e questo la rendeva, ai nostri occhi, il bersaglio perfetto.
La torturammo per quattro anni, senza che lei si ribellasse o qualcuno la aiutasse: nessuno intervenne in suo aiuto o in nostro sfavore.
Una mattina la legammo ad una sedia. Sì, ad una sedia. Uno di noi aveva in tasca le sigarette rubate al padre ed un accendino: ne spegnemmo una sul suo braccio candido.
L'odore di carne bruciata invase l'aria insieme ad i suoi mugolii sommessi, bloccati da un fazzoletto che le avevamo annodato in viso.
Quando la slegammo corse in bagno in lacrime, senza una parola.
Un mio compagno, settimane successive, la tenne sospesa a mezz'aria contro una parete con una mano premuta sul collo.
La umiliammo con appellativi ridicoli che a ripeterli adesso mi appaiono privi di senso e che forse lo erano anche allora, la deridemmo con sostantivi offensivi che dagli altri venivano accolti con risate e sogghigni.
La portammo lentamente al rifiuto totale del cibo con frasi mirate a distruggerla.
Era divertenete per noi.
Era un gioco che ci rendeva potenti.
Lei in fondo ci spaventava, per questo nessuno l'ha mai aiutata: solo Dio sa quanto abbia sofferto, nel silenzio della sua anima.
Suo fratello maggiore, Yuri, si era suicidato pochi mesi prima, sparandosi un colpo di pistola nella tempia di fronte a lei.
Lei era lì.
Lei era lì con il suo segreto ed il suo dolore.
Frequentavamo la terza media quando, durante la ricreazione, Jared le disse la frase che scatenò tutto il male: "Sei così strana che persino tuo fratello ha preferito uccidersi piuttosto che vederti tutti i giorni".
L'ho sentita la sua anima spezzarsi, ho sentito il rumore dei cocci che cadevano sul pavimento del suo stomaco.
Non ha proferito verbo neppure in quell'occasione.
L'ora successiva la docente d'inglese entrò in classe urlando "Ha uno pezzo di vetro nel braccio!"
Nessuno si era accorto che fosse uscita, era un'ombra: lo era sempre stata, diventava interessante solamente quando poteva essere oggetto di derisione.
Quando la vidi tra le braccia del professore di scienze, con un frammento di specchio conficcato nel braccio, mi sono reso conto di quando magra fosse diventata.
Alla vista del sangue che scorreva copioso dal taglio che si era procurata, correndo lungo il suo polso scheletrico, qualcosa in me si ruppe come lo specchio che lei aveva frantumato con un pugno.
Con lo scorrere del sangue giunse anche la consapevolezza: eravamo tutti colpevoli.
Noi l'avevamo lentamente portata a quel gesto, la maggioranza della scolaresca non l'aveva soccorsa; noi saremmo stati in grado di fermarci, loro avrebbero potuto fermarci.
Eravamo tutti ugualemente colpevoli.
L'avevamo portata alla tomba. Lentamente, giorno dopo giorno.
Guardando lo sconforto, l'ansia e l'incredulità dei miei compagni, dei suoi persecutori, lessi in loro la domanda che angustiava me "Perchè non ho fatto nulla?"
Uno spettacolo del genere valse mille parole: ricordo tutt'ora il pallore che la sua pelle aveva assunto in quei mesi, lo sguardo vitreo, la bocca scorticata, il segno della bruciatura perfettamente circolare sul braccio scoperto, il suono dell'ambulanza in arrivo, le voci dei medici.
La professoressa, con le lacrime agli occhi, ci chiese il possibile motivo di quel gesto, cercando di raccogliere uno sfogo che qualcuno di noi avrebbe dovuto ricevere da parte sua.
Di lei rimase il sangue sulle pavimento e nelle fughe delle piastrelle del bagno, rimase una scritta di rosso "Non dovrete più sopportarmi".
Jared, seduto accanto a me, fissava il vuoto con insistenza, rendendosi conto probabilmetne solo allora della portata delle sue parole.
Perché, nonostante la frase fosse stata sua, ero io a sentirmi più colpevole degli altri?
Quando la camapanella suonò non corsi fuori come al solito, non me ne andai ridacchiando e scherzando con gli altri: rimasi seduto al mio posto finchè tutti non se ne furono andati.
Rimasi in attesa tutto il pomeriggio, senza notizie per paura di chiederle.
Rimasi la notte sveglio a fissare il display del cellulare come in attesa di un messaggio che ero certo non sarebbe arrivato. E che non aveva motivo di arrivare.
 
I suoi genitori vennero a scuola disperati il giorno seguente, chiedendo a noi, gli amici della figlia, il perché di quella pazzia.
Lei non aveva amici.
Nessuno parlò, per celare ancora una volta la verità sotto una coperta di omertà e silenzio, chi per paura dell'accusa, chi per timore delle conseguenze, chi per vergogna.
L'avevo uccisa io. Io. Io. Io. Io. Poco importa che non fossi solo, la colpa di quel gesto è sempre stata mia.
 
Tornò. Lei tornò.
Più pallida, più smorta, più triste, più silenziosa del silenzio stesso, meno lei di quanto fosse stata mai stata.
Avevo mai conosciuto, in fondo, la vera lei?
La vidi per la prima volta per ciò che probabilmente era sempre stata: una ragazza vittima di venti persone meschine, persa nel suo dolore come una nave alla deriva, una ragazza che per anni aveva urlato il suo dolore senza voce.
Nessuno andò a trovarla in ospedale.
Sola ancora una volta in un luogo non suo, tornò con una lunga benda sul braccio e nessuno ebbe il coraggio di rivolgerle la parola.
Lei era la suicida, noi tuttavia gli omicidi.
La torturammo, la ignorammo, ma nessuno tentò mai di esserle amico.
Forse disse qualcosa ai suoi genitori, perchè l'anno successivo cambiò scuola, eppure nessuno dei due venne a parlarci.
Dalle sue labbra distrutte dai morsi non uscirono mai parola di alcun genere: il loro stato ed il suo pallore cereo sono rimaste impresse in me più del suo tentato suicidio, poiché esso fu per me un simbolo di ribellione; il suo triste pallore era il segno invece di una ribellione sedata, di un fuoco spento, di una consapevolezza tremenda: aver fallito nell'impresa di mettere fine ad una vita che io l'avevo portata ad odiare.
 
 
Quando moriremo andremo sicuramente in paradiso perché l'inferno l'abbiamo già vissuto qui.
(Jim Morrison)
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: amandasilbermond