Buonasera, stupendissimo
fandom del mio cuoricino!
Questa è una storiella scritta in tre/quattro giorni,
ispirata da una
bellissima immagine e da un meraviglioso commento di
un’amica, che mi ha
chiesto di buttar giù qualcosa con tanta di quella dolcezza
che che non ho
potuto assolutamente dire di no!
Dunque, questa è per Ilaria, in arte tea
and biscuits.
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!
S.
Like
the
rain against the window
*
«[…]Whenever
it rains you will think of her.»
― Strange
Little Girls, Neil Gaiman
E’ difficile -faticoso
quanto scalare
una montagna di roccia franosa- imporsi un limite, o ripetersi -come il
sarana di un monaco buddhista- che
Sherlock l’ha fatto per lui,
e che
proprio per questo non merita la sua completa, totale, mancanza di
fiducia.
E’ di un continuo promemoria,
quello
di cui John ha bisogno e non può fare a meno. Ha
necessità di vederlo costantemente,
per rendersi conto che è
davvero lì, che la figura magra e spigolosa del detective
esiste ed è
tangibile, fatta di carne e ossa come ogni altro essere umano. John
vorrebbe
poter toccarlo, sentire il calore della sua pelle sotto le dita, non
accontentandosi più soltanto di udire il tono profondo e
innaturalmente freddo
con cui Sherlock ha cominciato a rivolgersi a lui.
Sherlock non mostra ciò che prova, ostentando
un’apparenza d’austerità che
deforma le sue reali fattezze come una grottesca maschera teatrale,
perché
forte di una straordinaria capacità di fingere sentimenti
che in realtà non
prova, un’abilità che John non potrà
mai eguagliare. John è quello che piange
quando è triste e ride quando è felice, il tipo
di uomo che se lo offendi tiene
il muso per giorni ma che poi ti perdona, come se nulla fosse accaduto,
perché “in fondo non
è successo niente.”
John è quello che non riesce a fare a meno di mostrare
-somatizzando gioie,
delusioni o tormenti- sul proprio viso ogni emozione provata, ogni
esperienza
–felice o triste che sia- affrontata.
E’ per questo, che John non ha dubbi sul fatto che Sherlock sappia.
Giocano a un gioco degli opposti fin troppo palese perché
nessuno dei due
concorrenti possa non accorgersene, e come John lo ha accettato, anche
Sherlock
deve essere giunto a un compromesso, da qualche parte nel suo Palazzo
Mentale.
John chiede, Sherlock risponde, e così vanno avanti da
tempo, quanto è
impossibile stabilirlo.
Entrambi credono che basti, nonostante nessuno dei due sia realmente
soddisfatto di una soluzione che maschera la verità invece
di svelarla.
John crede che sapere di avere Sherlock costantemente vicino sia tutto
ciò di
cui ha bisogno, Sherlock che assecondare quell’ossessione sia
il modo giusto
per ripulirsi la coscienza.
Nessuno dei due, in fondo, ci crede davvero.
E’ qualcosa a cui preferiscono credere, per non ammettere di
aver bisogno di tornare indietro.
John è seduto in
salotto,
fissando un libro senza realmente leggerlo.
Tiene lo sguardo ancorato alla stessa parola da dieci minuti, e se
qualcuno
gliene chiedesse il significato, lui neppure ricorderebbe di averla mai
letta.
E’ come se, nel biancore della pagina frammezzato alle
infinite righe
d’inchiostro, lui scorgesse un mondo a se stante,
un’indefinito qualcosa di
cui non conosce l’entità ma che
sa, inconsciamente, di dover raggiungere a tutti i costi. Sherlock
è al piano
di sopra, da qualche parte.
Sono passati più di trenta minuti. Il cuore manca un battito.
I piedi di John si risvegliano dal proprio torpore e cominciano a
battere
contro il pavimento sotto di lui, frementi, seguendo un ritmo che lui
non ha
stabilito ma che lascia risuonare, imperterrito, nel salone in cui,
fino a quel
momento, non si è sentita volare una mosca. E’ una
eco irregolare, sincopata,
quella che gradualmente infrange il silenzio, simile al richiamo di una
bestia
morente che tenta fino all’ultimo di trovare una via di
scampo dalla sua triste
sorte.
Un rumore di passi arriva chiaro alle sue orecchie, proveniente dalle
scale, e
in un certo qual modo sembra seguire il suo stesso ritmo. E’
come se entrambi
stessero involontariamente suonando le stesse note con due diversi
strumenti,
costringendole a lottare per accaparrarsi il proprio posto su un
pentagramma
che non ha spazio per tutte e due.
E’ lento, quasi stia marciando sul lungo percorso che conduce
al patibolo, e
quando un lembo della sua camicia bianca spunta al di là
dello stipite, il
cuore di John ancora fatica a trovar la pace di cui ha bisogno.
Sherlock non lo
guarda, preferendogli un punto non ben definito alle sue spalle, e John
non
cerca la sua attenzione né lo sfiora con un sol dito, per
far sì che lui si
volti, finalmente, a incontrare i suoi occhi. E’ qualcosa che
vuole che
Sherlock faccia di sua iniziativa: ha bisogno che Sherlock abbia voglia
di
guardarlo, non che se ne senta costretto.
Il cuore torna a battere a un ritmo normale, e John sfiora leggermente
la sua
giugulare quasi abbia bisogno di mantenere un controllo costante della
propria
attività cardiaca, in presenza del detective. Guardandolo in
volto, teso e con
lo sguardo fisso su Sherlock, sembra quasi che tema di poter esplodere
da un
momento all’altro, come una botte di dinamite lasciata
pericolosamente vicina a
una miccia infuocata.
“C’è un temporale” poi
Sherlock dice, e John s’accorge che è al di
là delle
finestre, che sta guardando. “E’ la prima volta, da
quando sono tornato.”
Si ritrova a sorridere, suo malgrado. Gli piace pensare che le nuvole
abbiano
finalmente trovato la forza, dopo tanto tempo, di lasciarsi andare alle
lacrime,
inevitabili dopo l’inaspettato ritorno,
ormai certe che John stesse bene. E’ confortante pensare che
siano state sue
compagne, premurose nel non volersi mostrare addolorate
in sua presenza.
“E’ solo acqua” afferma, e si sente
stupido per averlo detto. E’ la cosa più ovvia
e idiota a cui sia riuscito a pensare, ma sa, in cuor suo, che Sherlock
non
avrebbe voluto udire nulla di artefatto o dettato da una finta
allegria, in
quel momento.
Il detective sorride, scostando lo sguardo dalla finestra e posandolo
finalmente sul volto del dottore. Sentire quegli occhi su di lui, ogni
volta, è
come essere investiti dalla luce calda e accecante del sole dopo ore di
buio
assoluto. Non c’è giorno che non si senta
così, guardandolo.
“Non pioveva mai, nell’ultimo posto in cui sono
stato” Sherlock continua, e il
suo tono di voce è il più strano che John abbia
mai sentito, “c’era sole, tanto
sole che a volte stentavi a credere che fosse effettivamente capace di tramontare, così da
far spazio
alla notte.”
Non sa cosa dire, John, perché non ha idea di dove voglia
andare a parare. Ha
parlato più quel giorno che in settimane intere e non sa se
esserne felice o se
interpretarlo come un’avvisaglia di latente follia. Lo lascia
fare,
semplicemente, indeciso su cosa credere o pensare.
“E quando scendeva il buio chiudevi gli occhi, anche cinque
minuti appena, ma
faticavi a lasciarti alle spalle quel calore
e quella luce” continua ancora, stringendosi leggermente in
se stesso come temendo
per la propria incolumità, quasi percepisca un pericolo in
agguato e voglia
esporsi il meno possibile. “Non c’era modo di
ricordarsi della pioggia, lì.”
Della pioggia, John sa che farsene. Non ha importanza in questo momento
e
vorrebbe dirglielo, ma fargli un torto è qualcosa che vuole
assolutamente
evitare. Non è sicuro di essere ancora pronto a sferrargli
un pugno, quello che
avrebbe dovuto dargli il primo giorno, intimandogli di smetterla di
dire
stronzate e cominciare a comportarsi da adulto responsabile. Non cova
nessun
rancore, almeno non così grande, da spingerlo a colpirlo
davvero.
“Ora sei qui” invece esclama, e nonostante si sia
imposto di mantener ferma la
propria voce, quel che sfiora le sue labbra e più fievole di
un soffio di
vento, “puoi recuperare il tempo perduto.”
Sherlock sorride, un po’ di più, e John non
può fare a meno di ricordarsi
quanto ama quel sorriso. Sembra timido, quasi non abbia coraggio di
esternare
qualcosa che cova dentro di sé e che pesa sul suo cuore
quanto un macigno. Il
dottore lo capisce perché non c’è
più nulla che Sherlock possa tenergli
nascosto, ed è tentato di allungare una mano a sfiorargli il
petto, volendo
afferrare qualunque cosa sia e tirarla fuori con la forza, alleviando
la
sofferenza del detective.
Non fa nulla di avventato, né di troppo sfacciato. Non si
chiede cosa ci sia di
sbagliato, lo ha fatto troppe volte e vuol credere che
passerà da sé, un
giorno. Non può fare a meno però di pensare,
nonostante tutto, a quante volte
ha fatto l’amore con Sherlock, in passato.
Adesso, prova imbarazzo anche nel solo toccarlo.
Sono stati catapultati entrambi, senza neppure accorgersene, in un
periodo mai
veramente vissuto della loro amicizia. E’ come se si stessero
ancora studiando in ogni minimo
dettaglio,
confrontando mentalmente i propri pregi, abitudini e difetti
con quelli dell’altro così da non sbagliare,
così da non
porre prematuramente fine a quel rapporto così promettente.
Loro, che si sono fatti dono l’uno dell’altro sin
dal primo giorno, senza
esitazioni.
L’espressione di Sherlock muta, per l’ennesima
volta, e John non può fare a
meno di chiedersi perché nessuno dei due si decida a sfogare
quel che realmente
prova. John ha pianto, tante di quelle volte da aver perso il conto,
incurante
di apparire l’antitesi del reduce di guerra nei cui panni non
si è mai sentito
veramente a suo agio. Parla della pioggia, Sherlock, con lo stesso tono
cantilenante che usava quando si chiudeva in casa per giorni senza
accorgersi
del passare del tempo.
“Una volta ti trovai addormentato sulla tua
poltrona” Sherlock ricomincia e
John non ancora ha compreso cos’è che voglia
dirgli e, soprattutto, se sia
davvero intenzionato a dirgli
qualcosa, “mi sedetti accanto a te, con la mia tazza di
tè freddo in mano e un
libro che quella sera non avrei nemmeno aperto.”
Non sa di quale giorno Sherlock stia parlando ma solo sentirlo
menzionare
quell’intimità una volta esistita fra loro, lo fa
arrossire come un bambino
alla sua prima cotta. Cerca di non immaginarsi impegnato
a sfiorare di Sherlock quanto più possibile, percependo
la sua pelle di porcellana sotto le dita callose; tenta come
può di respingere
in un angolino del suo cervello qualunque cosa possa far riaffiorare
quel
desiderio alla superficie, dopo aver fatto tanto per imporsi di non
commettere
quell’errore, di non lasciar correre
come ogni altra volta.
John vuole baciarlo e fare l’amore con lui come non ha mai
voluto nient’altro
in tutta la sua vita. Eppure, cerca di farsi bastare l’averlo
di nuovo davanti
agli occhi. Amare vuol dire
proteggere, ma anche accettare una vita di privazioni per affetto
dell’altro.
“Non ti svegliasti, nonostante il rumore, e io mi sentii
abbastanza sicuro da appoggiare la
testa sul tuo
petto” continua, imperterrito, incurante
dell’espressione di profondo sconforto
sul mio viso, “ti dicevo sempre di non essere incline a
simili gesti, ma quel
giorno non potei farne a meno. Posai l’orecchio sul tuo
cuore, poi, e cominciai
ad ascoltare tutto quello che aveva da dirmi.”
Vorrebbe ricordare quel momento con tutto il suo cuore, John. Vorrebbe
tanto
riuscire a ricordare di aver schiuso leggermente gli occhi, quella
lontana
sera, così da scorgere la zazzera di capelli scuri di
Sherlock che lambiva il
suo petto, ma mentirebbe a se stesso se s’imponesse di far
riaffiorare alla
mente qualcosa che in realtà non ha mai vissuto da cosciente.
“Sherlock” s’impone però di
dire, cercando di metter fine a tutto quanto prima
che la questione si spinga fino a livelli assai impervi,
“Sherlock, ti prego,
basta.”
Il detective non presta ascolto alla sua implorazione.
“Pioveva, quella notte. Poche ore prima avevi quasi rischiato
di farti sparare”
afferma, e l’episodio di cui racconta è qualcosa
accaduto tante di quelle volte
da non restringere assolutamente il campo, “eppure eri
tranquillo, quasi
percepissi la mia presenza. Il cuore batteva forte e la eco dei tuoi
battiti,
mescolata al tuo respiro, mi riportò alla mente un suono
familiare, quasi
rassicurante.”
Non occorre molto a John per uscire dall’offuscato oblio in
cui è piombato,
anche se, in cuor suo, avrebbe voluto non intendere il significato
sottointeso
di quel racconto. Non gli piace la direzione che il discorso sta
lentamente
intraprendendo, fondamentalmente perché sa di non aver
abbastanza forza per resistere,
ormai.
“Pioggia” finalmente dice, palesando quel che John
già sa e che lo spaventa,
“come durante un temporale. Un boato, seguito da uno scroscio
incessante, a sua
volta accompagnato dal vento contro i vetri di una finestra.”
John non è in grado, di nuovo, di capire. Crede che Sherlock
voglia prenderlo
in giro ma, allo stesso tempo, pensa che stia cercando, in un modo nuovo e per nulla affine al vecchio se
stesso, di ricostruire un traballante ponte di congiunzione fra loro
due. Quel
che dice è forte, intenso, distruttivo come un uragano che
rade al suolo tutto
quello che incontra. John non sa se potrà far forza su se
stesso ancora per
molto, imponendosi di non fuggir via come un ragazzino spaventato.
“E mentre ero via, John” poi finalmente il suo tono
di voce muta, e diventa più
deciso, categorico, segno che la resa dei conti sta avvicinandosi
sempre di
più, “non udire il suono della pioggia fu la cosa
più terribile di tutte, anche
della nostalgia, persino della lontananza forzata. Più del
senso di colpa.”
Vorrebbe replicare, John, con tutto se stesso, ma quel che
può fare è stringere
i pugni fino a ferirsi, incurante del dolore che punge i palmi e che
gli offre
un diversivo dai suoi pensieri, seppur per un attimo appena.
“Il rumore della pioggia mi ricordava che esistevi, che eri
vivo. Non udirlo
per mesi, fu come poggiare ogni notte l’orecchio al tuo petto
e non sentire
alcun battito” afferma, e trema, per la prima volta in
assoluto. “Abituato a
considerare il tuo cuore come pioggia contro un vetro, la sua completa
assenza
mi convinse del fatto che, forse, non ti avrei mai più
rivisto.”
Per John è il definitivo colpo di grazia. Il decisivo colpo
di martello che
abbatte un muro pericolante, l’ultimo stantuffo della siringa
che inietta una
pozione letale nelle vene di un condannato alla pena capitale.
E’ stato
confortante, per un po’, credere che Sherlock avesse perso la
capacità di
amarlo, che non ne avesse più la forza, che avesse
completamente perduto ogni
interesse nei baci, nelle carezze, in tutto quello che aveva condiviso
con John
e che lo aveva reso felice, una volta. E’ stato liberatorio,
in un certo qual
modo, pensare a Sherlock come a un essere umano ormai privo di
qualunque
traccia di sentimento, nel proprio cuore. Guardalo, John, assicurati
che sia
qui. Poi torna a fare quello che stavi facendo, il tuo dovere
è stato compiuto.
A questo John ha sempre creduto si sarebbe limitato, per il resto della
sua
vita.
Non è mai stato così. Nemmeno per un solo momento.
John ha dato per scontato, pensandoci durante le notti trascorse a
fissare
l’oscurità della sua stanza, che a Sherlock doveva
essere bastato soltanto focalizzare
il proprio interesse altrove, per non sentire la mancanza
dell’uomo che aveva
professato di amare. Ha pensato che
non doveva essere stato minimamente difficile per lui chiudere a chiave
quella
stanzetta denominata ‘John’ nel suo Mind Palace,
così da respingere il suo
ricordo per il tempo necessario. L’uomo che invece gli sta
parlando, adesso, è
più tormentato, impotente e pieno di rimpianto di quanto
John avrebbe mai
potuto immaginare.
John si avvicina, senza nemmeno accorgersene. Sa che è
lì, perché può vederlo,
ma per la prima volta dopo mesi non gli basta. Potrebbe essere un
fantasma,
un’impalpabile prodotto della sua mente, e non ha la minima
intenzione di
restare con quel dubbio costante senza fugarlo.
Le sue mani si sporgono per sfiorarlo ma esitano, perché
è tanto che non lo
tocca e ha paura che gli appaia estraneo, come un uomo in preda a
un’improvvisa
amnesia che non trova calore nell’abbraccio di sua moglie. Prova ma ha paura che, adesso che ha
nuovamente coraggio di
tentare, non sentirà più niente. Ha paura che la
sua mano possa attraversarlo, che
Sherlock si riveli inesistente.
Alza gli occhi, ed è qualcosa che vede a motivarlo, a
spingerlo ad abbandonare
la sua insicurezza. Gli occhi di Sherlock sono diversi
tutt’un tratto, come non
li ha mai visti e come mai avrebbe creduto di poterli vedere. Sembrano
quasi
appartenere a un altro uomo quelle gemme azzurre ricoperte di una
patina umida
di lacrime, trattenute con scarso successo. E’ uno Sherlock
che ha cominciato a
esistere in quell’esatto momento, infuso della vita da uno
scroscio di parole
venute dal cuore, colme di una dolcezza di cui il detective non era mai
stato
capace, prima, ma che in quel momento sembra essere per lui la cosa
più
naturale e semplice del mondo.
John non può fare a meno di lasciare che i suoi occhi lo
prendano a esempio,
mostrando però una resistenza praticamente nulla al suo
confronto. Lascia che
le lacrime scorrano e lavino via dal suo viso ogni giorno trascorso a
interrogarsi su cosa fare, sulla vita che lo avrebbe atteso, sul giorno
in cui
inevitabilmente avrebbe dovuto troncare quella deleteria relazione mai
realmente interrotta.
Posa il palmo aperto sul suo petto, John, e percepisce il battito folle
dell’uomo più alto lungo le sue dita, una
sensazione che si rastrema fino alle
punte e poi scende al centro, scorrendo nel suo polso fino al proprio,
di
cuore.
Quello che Sherlock dice è vero, completamente,
e il dottore se ne accorge per la prima volta in quel momento,
voltandosi verso
la finestra e notando che nessuna goccia sta più battendo
contro i vetri umidi.
Quel che sente, che sente chiaro, forte, rimbombante nella sua testa
come un
rullo di tamburi, è il suo cuore. Il loro.
Non lo bacia, ma spinge la mano più su, fino allo scollo
della camicia,
sbottonandolo senza lascivia alcuna, soltanto desideroso di sentirlo
più intimamente, senza
barriere di tessuto a
frapporsi fra loro. La pelle di Sherlock è calda, come se
fino a quel momento
fosse rimasto sotto il getto bollente della doccia, leggermente
arrossata, e
John respinge il desiderio di assaggiarla, di lambirla con le sue
labbra, di
tornare a saggiarne il sapore asprigno. Sherlock tiene le mani lungo i
fianchi,
senza accennare nemmeno a sfiorarlo, lasciando che sia John a prendere
la sua
decisione, a leggere in quelle lacrime rare tutto quello che avrebbe
voluto
dire ancora e non sarebbe mai riuscito a fare.
“Sherlock” John cinge il collo dell’uomo
più alto con la mano destra,
stringendolo senza fargli male, incerto se osare un bacio o se
accontentarsi di
quel che hanno adesso, di quella vicinanza ritrovata, di quel suono che
adesso
riempie la stanza e che è più dolce di una sonata
per pianoforte e violino. Ha
ricominciato a piovere, al di là dei vetri. La sinistra
afferra saldamente un
lembo della camicia di Sherlock e lo tira a sé, scoprendo
più pelle,
assicurandosi, con quel gesto, che non vada da nessun’altra
parte. Vuole
possederlo di nuovo, come in passato. Vuole con ogni fibra del suo
essere che
Sherlock torni ad essere suo, solo e soltanto.
“Sei tornato indietro” John sussurra, come se lo
realizzasse veramente per la
prima volta, dopo tanto tempo. Dopo secondi lunghi millenni, si
avvicina di più
a Sherlock e poggia la fronte
e le
labbra al suo petto, per sentire meglio, per udire quel battito
rimbombare nel
suo cervello e percepirlo riverberarsi ovunque nel proprio corpo. Lo
sente, bene,
perfettamente, così come
non lo ha
mai sentito. Sherlock è qui, John ha la sua conferma, non
gli serve più niente
adesso che sa, che è sicuro, ora che è
consapevole che niente lo porterà mai
più lontano da lui.
“Sei tornato indietro” John dice di nuovo, come se
capace di pronunciare solo
quelle parole.
“Non indietro. A casa”¹
Sherlock
infine risponde, lasciando che le sue lacrime si mescolino a quelle di
John,
bagnando il tessuto della propria camicia.
John non sa se lo vedrà piangere ancora, così
come non sa se quel pianto sia
sincero o solo un mezzo abilmente utilizzato da Sherlock per
raggiungere il suo
scopo.
Non lo sa e forse non lo
saprà mai, ma può decidere di fidarsi, per nulla
intenzionato a ripetere lo
stesso errore compiuto in passato. Sherlock lo ha fatto per lui,
dopotutto.
Per il suo bene e per il proprio, affinché entrambi non
dovessero rinunciare
alla persona amata, una volta che tutto sarebbe finito.
Non soffrirà, qualcosa glielo dice, anche se non saprebbe
ben definire cosa. Concedergli di
nuovo la propria
fiducia è un passo difficile, ma Sherlock potrà
aiutarlo fin quando non
riuscirà a compierlo con più facilità,
come la cosa più naturale del mondo.
Gli insegnerà di nuovo a camminare da solo, Sherlock. E John
lo farà con lui.
Un passo alla volta.
*