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Autore: SAranel    10/11/2013    9 recensioni
E' la prima volta che succede, da quando Sherlock è tornato. E' incomprensibile, troppo perché John possa capirlo.
E per il buon, paziente Dottor Watson, guardarlo non è più abbastanza.
“Non pioveva mai, nell’ultimo posto in cui sono stato” Sherlock continua, e il suo tono di voce è il più strano che John abbia mai sentito, “c’era sole, tanto sole che a volte stentavi a credere che fosse effettivamente capace di tramontare, così da far spazio alla notte.”
Non sa cosa dire, John, perché non ha idea di dove voglia andare a parare. Ha parlato più quel giorno che in settimane intere e non sa se esserne felice o se interpretarlo come un’avvisaglia di latente follia. Lo lascia fare, semplicemente, indeciso su cosa credere o pensare.[...]"
Genere: Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Buonasera, stupendissimo fandom del mio cuoricino!
Questa è una storiella scritta in tre/quattro giorni, ispirata da una bellissima immagine e da un meraviglioso commento di un’amica, che mi ha chiesto di buttar giù qualcosa con tanta di quella dolcezza che che non ho potuto assolutamente dire di no!
Dunque, questa è per Ilaria, in arte tea and biscuits.
Sperando di non aver fatto troppo male, vi auguro buona lettura!

S.

 

FanArt

 
Like the rain against the window
*

 

 

«[…]Whenever it rains you will think of her.»
― Strange Little Girls, Neil Gaiman

 

 

 


Da quando Sherlock è tornato, John non sopporta di saperlo lontano.
E’ difficile -faticoso quanto scalare una montagna di roccia franosa- imporsi un limite, o ripetersi -come il sarana di un monaco buddhista- che Sherlock l’ha fatto per lui, e che proprio per questo non merita la sua completa, totale, mancanza di fiducia.
E’ di un continuo promemoria, quello di cui John ha bisogno e non può fare a meno. Ha necessità di vederlo costantemente, per rendersi conto che è davvero lì, che la figura magra e spigolosa del detective esiste ed è tangibile, fatta di carne e ossa come ogni altro essere umano. John vorrebbe poter toccarlo, sentire il calore della sua pelle sotto le dita, non accontentandosi più soltanto di udire il tono profondo e innaturalmente freddo con cui Sherlock ha cominciato a rivolgersi a lui.
Sherlock non mostra ciò che prova, ostentando un’apparenza d’austerità che deforma le sue reali fattezze come una grottesca maschera teatrale, perché forte di una straordinaria capacità di fingere sentimenti che in realtà non prova, un’abilità che John non potrà mai eguagliare. John è quello che piange quando è triste e ride quando è felice, il tipo di uomo che se lo offendi tiene il muso per giorni ma che poi ti perdona, come se nulla fosse accaduto, perché “in fondo non è successo niente.”
John è quello che non riesce a fare a meno di mostrare -somatizzando gioie, delusioni o tormenti- sul proprio viso ogni emozione provata, ogni esperienza –felice o triste che sia- affrontata. E’ per questo, che John non ha dubbi sul fatto che Sherlock sappia.
Giocano a un gioco degli opposti fin troppo palese perché nessuno dei due concorrenti possa non accorgersene, e come John lo ha accettato, anche Sherlock deve essere giunto a un compromesso, da qualche parte nel suo Palazzo Mentale.
John chiede, Sherlock risponde, e così vanno avanti da tempo, quanto è impossibile stabilirlo. Entrambi credono che basti, nonostante nessuno dei due sia realmente soddisfatto di una soluzione che maschera la verità invece di svelarla.
John crede che sapere di avere Sherlock costantemente vicino sia tutto ciò di cui ha bisogno, Sherlock che assecondare quell’ossessione sia il modo giusto per ripulirsi la coscienza.
Nessuno dei due, in fondo, ci crede davvero.
E’ qualcosa a cui preferiscono credere, per non ammettere di aver bisogno di tornare indietro.

John è seduto in salotto, fissando un libro senza realmente leggerlo.
Tiene lo sguardo ancorato alla stessa parola da dieci minuti, e se qualcuno gliene chiedesse il significato, lui neppure ricorderebbe di averla mai letta. E’ come se, nel biancore della pagina frammezzato alle infinite righe d’inchiostro, lui scorgesse un mondo a se stante, un’indefinito qualcosa di cui non conosce l’entità ma che sa, inconsciamente, di dover raggiungere a tutti i costi. Sherlock è al piano di sopra, da qualche parte.
Sono passati più di trenta minuti. Il cuore manca un battito.
I piedi di John si risvegliano dal proprio torpore e cominciano a battere contro il pavimento sotto di lui, frementi, seguendo un ritmo che lui non ha stabilito ma che lascia risuonare, imperterrito, nel salone in cui, fino a quel momento, non si è sentita volare una mosca. E’ una eco irregolare, sincopata, quella che gradualmente infrange il silenzio, simile al richiamo di una bestia morente che tenta fino all’ultimo di trovare una via di scampo dalla sua triste sorte.
Un rumore di passi arriva chiaro alle sue orecchie, proveniente dalle scale, e in un certo qual modo sembra seguire il suo stesso ritmo. E’ come se entrambi stessero involontariamente suonando le stesse note con due diversi strumenti, costringendole a lottare per accaparrarsi il proprio posto su un pentagramma che non ha spazio per tutte e due.
E’ lento, quasi stia marciando sul lungo percorso che conduce al patibolo, e quando un lembo della sua camicia bianca spunta al di là dello stipite, il cuore di John ancora fatica a trovar la pace di cui ha bisogno. Sherlock non lo guarda, preferendogli un punto non ben definito alle sue spalle, e John non cerca la sua attenzione né lo sfiora con un sol dito, per far sì che lui si volti, finalmente, a incontrare i suoi occhi. E’ qualcosa che vuole che Sherlock faccia di sua iniziativa: ha bisogno che Sherlock abbia voglia di guardarlo, non che se ne senta costretto.
Il cuore torna a battere a un ritmo normale, e John sfiora leggermente la sua giugulare quasi abbia bisogno di mantenere un controllo costante della propria attività cardiaca, in presenza del detective. Guardandolo in volto, teso e con lo sguardo fisso su Sherlock, sembra quasi che tema di poter esplodere da un momento all’altro, come una botte di dinamite lasciata pericolosamente vicina a una miccia infuocata.
“C’è un temporale” poi Sherlock dice, e John s’accorge che è al di là delle finestre, che sta guardando. “E’ la prima volta, da quando sono tornato.”
Si ritrova a sorridere, suo malgrado. Gli piace pensare che le nuvole abbiano finalmente trovato la forza, dopo tanto tempo, di lasciarsi andare alle lacrime, inevitabili dopo l’inaspettato ritorno, ormai certe che John stesse bene. E’ confortante pensare che siano state sue compagne, premurose nel non volersi mostrare addolorate in sua presenza.
“E’ solo acqua” afferma, e si sente stupido per averlo detto. E’ la cosa più ovvia e idiota a cui sia riuscito a pensare, ma sa, in cuor suo, che Sherlock non avrebbe voluto udire nulla di artefatto o dettato da una finta allegria, in quel momento.
Il detective sorride, scostando lo sguardo dalla finestra e posandolo finalmente sul volto del dottore. Sentire quegli occhi su di lui, ogni volta, è come essere investiti dalla luce calda e accecante del sole dopo ore di buio assoluto. Non c’è giorno che non si senta così, guardandolo.
“Non pioveva mai, nell’ultimo posto in cui sono stato” Sherlock continua, e il suo tono di voce è il più strano che John abbia mai sentito, “c’era sole, tanto sole che a volte stentavi a credere che fosse effettivamente capace di tramontare, così da far spazio alla notte.”
Non sa cosa dire, John, perché non ha idea di dove voglia andare a parare. Ha parlato più quel giorno che in settimane intere e non sa se esserne felice o se interpretarlo come un’avvisaglia di latente follia. Lo lascia fare, semplicemente, indeciso su cosa credere o pensare.
“E quando scendeva il buio chiudevi gli occhi, anche cinque minuti appena, ma faticavi a lasciarti alle spalle quel calore e quella luce” continua ancora, stringendosi leggermente in se stesso come temendo per la propria incolumità, quasi percepisca un pericolo in agguato e voglia esporsi il meno possibile. “Non c’era modo di ricordarsi della pioggia, lì.”
Della pioggia, John sa che farsene. Non ha importanza in questo momento e vorrebbe dirglielo, ma fargli un torto è qualcosa che vuole assolutamente evitare. Non è sicuro di essere ancora pronto a sferrargli un pugno, quello che avrebbe dovuto dargli il primo giorno, intimandogli di smetterla di dire stronzate e cominciare a comportarsi da adulto responsabile. Non cova nessun rancore, almeno non così grande, da spingerlo a colpirlo davvero.
“Ora sei qui” invece esclama, e nonostante si sia imposto di mantener ferma la propria voce, quel che sfiora le sue labbra e più fievole di un soffio di vento, “puoi recuperare il tempo perduto.”
Sherlock sorride, un po’ di più, e John non può fare a meno di ricordarsi quanto ama quel sorriso. Sembra timido, quasi non abbia coraggio di esternare qualcosa che cova dentro di sé e che pesa sul suo cuore quanto un macigno. Il dottore lo capisce perché non c’è più nulla che Sherlock possa tenergli nascosto, ed è tentato di allungare una mano a sfiorargli il petto, volendo afferrare qualunque cosa sia e tirarla fuori con la forza, alleviando la sofferenza del detective.
Non fa nulla di avventato, né di troppo sfacciato. Non si chiede cosa ci sia di sbagliato, lo ha fatto troppe volte e vuol credere che passerà da sé, un giorno. Non può fare a meno però di pensare, nonostante tutto, a quante volte ha fatto l’amore con Sherlock, in passato.  Adesso, prova imbarazzo anche nel solo toccarlo.
Sono stati catapultati entrambi, senza neppure accorgersene, in un periodo mai veramente vissuto della loro amicizia. E’ come se si stessero ancora studiando in ogni minimo dettaglio, confrontando mentalmente i propri pregi, abitudini e difetti con quelli dell’altro così da non sbagliare, così da non porre prematuramente fine a quel rapporto così promettente.
Loro, che si sono fatti dono l’uno dell’altro sin dal primo giorno, senza esitazioni.
L’espressione di Sherlock muta, per l’ennesima volta, e John non può fare a meno di chiedersi perché nessuno dei due si decida a sfogare quel che realmente prova. John ha pianto, tante di quelle volte da aver perso il conto, incurante di apparire l’antitesi del reduce di guerra nei cui panni non si è mai sentito veramente a suo agio. Parla della pioggia, Sherlock, con lo stesso tono cantilenante che usava quando si chiudeva in casa per giorni senza accorgersi del passare del tempo.
“Una volta ti trovai addormentato sulla tua poltrona” Sherlock ricomincia e John non ancora ha compreso cos’è che voglia dirgli e, soprattutto, se sia davvero intenzionato a dirgli qualcosa, “mi sedetti accanto a te, con la mia tazza di tè freddo in mano e un libro che quella sera non avrei nemmeno aperto.”
Non sa di quale giorno Sherlock stia parlando ma solo sentirlo menzionare quell’intimità una volta esistita fra loro, lo fa arrossire come un bambino alla sua prima cotta. Cerca di non immaginarsi impegnato a sfiorare di Sherlock quanto più possibile, percependo la sua pelle di porcellana sotto le dita callose; tenta come può di respingere in un angolino del suo cervello qualunque cosa possa far riaffiorare quel desiderio alla superficie, dopo aver fatto tanto per imporsi di non commettere quell’errore, di non lasciar correre come ogni altra volta.
John vuole baciarlo e fare l’amore con lui come non ha mai voluto nient’altro in tutta la sua vita. Eppure, cerca di farsi bastare l’averlo di nuovo davanti agli occhi. Amare vuol dire proteggere, ma anche accettare una vita di privazioni per affetto dell’altro.
“Non ti svegliasti, nonostante il rumore, e io mi sentii abbastanza sicuro da appoggiare la testa sul tuo petto” continua, imperterrito, incurante dell’espressione di profondo sconforto sul mio viso, “ti dicevo sempre di non essere incline a simili gesti, ma quel giorno non potei farne a meno. Posai l’orecchio sul tuo cuore, poi, e cominciai ad ascoltare tutto quello che aveva da dirmi.”
Vorrebbe ricordare quel momento con tutto il suo cuore, John. Vorrebbe tanto riuscire a ricordare di aver schiuso leggermente gli occhi, quella lontana sera, così da scorgere la zazzera di capelli scuri di Sherlock che lambiva il suo petto, ma mentirebbe a se stesso se s’imponesse di far riaffiorare alla mente qualcosa che in realtà non ha mai vissuto da cosciente.
“Sherlock” s’impone però di dire, cercando di metter fine a tutto quanto prima che la questione si spinga fino a livelli assai impervi, “Sherlock, ti prego, basta.”
Il detective non presta ascolto alla sua implorazione.
“Pioveva, quella notte. Poche ore prima avevi quasi rischiato di farti sparare” afferma, e l’episodio di cui racconta è qualcosa accaduto tante di quelle volte da non restringere assolutamente il campo, “eppure eri tranquillo, quasi percepissi la mia presenza. Il cuore batteva forte e la eco dei tuoi battiti, mescolata al tuo respiro, mi riportò alla mente un suono familiare, quasi rassicurante.”
Non occorre molto a John per uscire dall’offuscato oblio in cui è piombato, anche se, in cuor suo, avrebbe voluto non intendere il significato sottointeso di quel racconto. Non gli piace la direzione che il discorso sta lentamente intraprendendo, fondamentalmente perché sa di non aver abbastanza forza per resistere, ormai.
“Pioggia” finalmente dice, palesando quel che John già sa e che lo spaventa, “come durante un temporale. Un boato, seguito da uno scroscio incessante, a sua volta accompagnato dal vento contro i vetri di una finestra.”
John non è in grado, di nuovo, di capire. Crede che Sherlock voglia prenderlo in giro ma, allo stesso tempo, pensa che stia cercando, in un modo nuovo e per nulla affine al vecchio se stesso, di ricostruire un traballante ponte di congiunzione fra loro due. Quel che dice è forte, intenso, distruttivo come un uragano che rade al suolo tutto quello che incontra. John non sa se potrà far forza su se stesso ancora per molto, imponendosi di non fuggir via come un ragazzino spaventato.
“E mentre ero via, John” poi finalmente il suo tono di voce muta, e diventa più deciso, categorico, segno che la resa dei conti sta avvicinandosi sempre di più, “non udire il suono della pioggia fu la cosa più terribile di tutte, anche della nostalgia, persino della lontananza forzata. Più del senso di colpa.”
Vorrebbe replicare, John, con tutto se stesso, ma quel che può fare è stringere i pugni fino a ferirsi, incurante del dolore che punge i palmi e che gli offre un diversivo dai suoi pensieri, seppur per un attimo appena.
“Il rumore della pioggia mi ricordava che esistevi, che eri vivo. Non udirlo per mesi, fu come poggiare ogni notte l’orecchio al tuo petto e non sentire alcun battito” afferma, e trema, per la prima volta in assoluto. “Abituato a considerare il tuo cuore come pioggia contro un vetro, la sua completa assenza mi convinse del fatto che, forse, non ti avrei mai più rivisto.”
Per John è il definitivo colpo di grazia. Il decisivo colpo di martello che abbatte un muro pericolante, l’ultimo stantuffo della siringa che inietta una pozione letale nelle vene di un condannato alla pena capitale. E’ stato confortante, per un po’, credere che Sherlock avesse perso la capacità di amarlo, che non ne avesse più la forza, che avesse completamente perduto ogni interesse nei baci, nelle carezze, in tutto quello che aveva condiviso con John e che lo aveva reso felice, una volta. E’ stato liberatorio, in un certo qual modo, pensare a Sherlock come a un essere umano ormai privo di qualunque traccia di sentimento, nel proprio cuore. Guardalo, John, assicurati che sia qui. Poi torna a fare quello che stavi facendo, il tuo dovere è stato compiuto.
A questo John ha sempre creduto si sarebbe limitato, per il resto della sua vita.
Non è mai stato così. Nemmeno per un solo momento.
John ha dato per scontato, pensandoci durante le notti trascorse a fissare l’oscurità della sua stanza, che a Sherlock doveva essere bastato soltanto focalizzare il proprio interesse altrove, per non sentire la mancanza dell’uomo che aveva professato di amare. Ha pensato che non doveva essere stato minimamente difficile per lui chiudere a chiave quella stanzetta denominata ‘John’ nel suo Mind Palace, così da respingere il suo ricordo per il tempo necessario. L’uomo che invece gli sta parlando, adesso, è più tormentato, impotente e pieno di rimpianto di quanto John avrebbe mai potuto immaginare.
John si avvicina, senza nemmeno accorgersene. Sa che è lì, perché può vederlo, ma per la prima volta dopo mesi non gli basta. Potrebbe essere un fantasma, un’impalpabile prodotto della sua mente, e non ha la minima intenzione di restare con quel dubbio costante senza fugarlo.
Le sue mani si sporgono per sfiorarlo ma esitano, perché è tanto che non lo tocca e ha paura che gli appaia estraneo, come un uomo in preda a un’improvvisa amnesia che non trova calore nell’abbraccio di sua moglie. Prova ma ha paura che, adesso che ha nuovamente coraggio di tentare, non sentirà più niente. Ha paura che la sua mano possa attraversarlo, che Sherlock si riveli inesistente.
Alza gli occhi, ed è qualcosa che vede a motivarlo, a spingerlo ad abbandonare la sua insicurezza. Gli occhi di Sherlock sono diversi tutt’un tratto, come non li ha mai visti e come mai avrebbe creduto di poterli vedere. Sembrano quasi appartenere a un altro uomo quelle gemme azzurre ricoperte di una patina umida di lacrime, trattenute con scarso successo. E’ uno Sherlock che ha cominciato a esistere in quell’esatto momento, infuso della vita da uno scroscio di parole venute dal cuore, colme di una dolcezza di cui il detective non era mai stato capace, prima, ma che in quel momento sembra essere per lui la cosa più naturale e semplice del mondo.
John non può fare a meno di lasciare che i suoi occhi lo prendano a esempio, mostrando però una resistenza praticamente nulla al suo confronto. Lascia che le lacrime scorrano e lavino via dal suo viso ogni giorno trascorso a interrogarsi su cosa fare, sulla vita che lo avrebbe atteso, sul giorno in cui inevitabilmente avrebbe dovuto troncare quella deleteria relazione mai realmente interrotta.
Posa il palmo aperto sul suo petto, John, e percepisce il battito folle dell’uomo più alto lungo le sue dita, una sensazione che si rastrema fino alle punte e poi scende al centro, scorrendo nel suo polso fino al proprio, di cuore.
Quello che Sherlock dice è vero, completamente, e il dottore se ne accorge per la prima volta in quel momento, voltandosi verso la finestra e notando che nessuna goccia sta più battendo contro i vetri umidi. Quel che sente, che sente chiaro, forte, rimbombante nella sua testa come un rullo di tamburi, è il suo cuore. Il loro.
Non lo bacia, ma spinge la mano più su, fino allo scollo della camicia, sbottonandolo senza lascivia alcuna, soltanto desideroso di sentirlo più intimamente, senza barriere di tessuto a frapporsi fra loro. La pelle di Sherlock è calda, come se fino a quel momento fosse rimasto sotto il getto bollente della doccia, leggermente arrossata, e John respinge il desiderio di assaggiarla, di lambirla con le sue labbra, di tornare a saggiarne il sapore asprigno. Sherlock tiene le mani lungo i fianchi, senza accennare nemmeno a sfiorarlo, lasciando che sia John a prendere la sua decisione, a leggere in quelle lacrime rare tutto quello che avrebbe voluto dire ancora e non sarebbe mai riuscito a fare.
“Sherlock” John cinge il collo dell’uomo più alto con la mano destra, stringendolo senza fargli male, incerto se osare un bacio o se accontentarsi di quel che hanno adesso, di quella vicinanza ritrovata, di quel suono che adesso riempie la stanza e che è più dolce di una sonata per pianoforte e violino. Ha ricominciato a piovere, al di là dei vetri. La sinistra afferra saldamente un lembo della camicia di Sherlock e lo tira a sé, scoprendo più pelle, assicurandosi, con quel gesto, che non vada da nessun’altra parte. Vuole possederlo di nuovo, come in passato. Vuole con ogni fibra del suo essere che Sherlock torni ad essere suo, solo e soltanto.
“Sei tornato indietro” John sussurra, come se lo realizzasse veramente per la prima volta, dopo tanto tempo. Dopo secondi lunghi millenni, si avvicina di più a Sherlock e poggia la  fronte e le labbra al suo petto, per sentire meglio, per udire quel battito rimbombare nel suo cervello e percepirlo riverberarsi ovunque nel proprio corpo. Lo sente, bene, perfettamente, così come non lo ha mai sentito. Sherlock è qui, John ha la sua conferma, non gli serve più niente adesso che sa, che è sicuro, ora che è consapevole che niente lo porterà mai più lontano da lui.
“Sei tornato indietro” John dice di nuovo, come se capace di pronunciare solo quelle parole.
“Non indietro. A casa”¹ Sherlock infine risponde, lasciando che le sue lacrime si mescolino a quelle di John, bagnando il tessuto della propria camicia.
John non sa se lo vedrà piangere ancora, così come non sa se quel pianto sia sincero o solo un mezzo abilmente utilizzato da Sherlock per raggiungere il suo scopo.
Non lo sa e forse non lo saprà mai, ma può decidere di fidarsi, per nulla intenzionato a ripetere lo stesso errore compiuto in passato. Sherlock lo ha fatto per lui, dopotutto.
Per il suo bene e per il proprio, affinché entrambi non dovessero rinunciare alla persona amata, una volta che tutto sarebbe finito.
Non soffrirà, qualcosa glielo dice, anche se non saprebbe ben definire cosa. Concedergli di nuovo la propria fiducia è un passo difficile, ma Sherlock potrà aiutarlo fin quando non riuscirà a compierlo con più facilità, come la cosa più naturale del mondo.
Gli insegnerà di nuovo a camminare da solo, Sherlock. E John lo farà con lui.
Un passo alla volta.

 

 

 

*



 

 

 

¹ Gentilmente ispirata da un commento di Ilaria.

  
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