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Autore: phoenix_esmeralda    10/11/2013    2 recensioni
"Ciò che il Granduca Roman Fedar chiedeva ai baroni e ai conti delle sue nuove terre acquisite era la più completa sottomissione, che si riconduceva all’offerta delle proprie primogenite per il suo già gremito harem. Chiunque negasse il proprio personale contributo, veniva oppresso e schiacciato fino a ridursi a veder morire di fame la propria gente. Così, uno alla volta, tutti i signori si erano ritrovati a cedere e ad offrire le proprie figlie in sacrificio per il bene delle proprie terre; erano rimasti in pochi ancora a resistere e mio padre era stato, fino a pochi giorni fa, tra quelli. Ma la situazione si era fatta insostenibile e, dopo lunghe riunioni familiari, era stato decretato il mio sacrificio.” Quarta classificata allo "Spoon River Contest" di ZKaoru69. Premio Speciale Romance Terza classificata al contest "Love is..." di milla4 Premio Speciale Miglior Personaggio Femminile
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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- Hela, abbiamo una cosa per te.

Le mie sorelle, tutte e sei dalla più piccola alla più grande, entrarono in fila indiana nella mia stanza. Le osservai posizionarsi composte davanti a me, una serie di testoline brune, alcune più scure, altre più sfumate, in silenziosa attesa. Erano giorni che cercavo di abituarmi all’idea di perderle, ma non ero ancora venuta a patti con questa realtà.

- Abbiamo messo insieme tutti i nostri averi, ma non siamo riuscite a prenderti che questo.

Lana alzò le mani e mi mostrò un nastro turchese nuovo, lucente. Ricacciai le lacrime in fondo al cuore e le abbracciai tutte una a una, non riuscivo a credere che non le avrei riviste mai più.

 

Salutare i miei genitori non fu più semplice: eravamo una famiglia affettuosa, abituata alla compagnia e al contatto fisico, non c’erano mai state separazioni, né brevi né lunghe e questo addio fra di noi suonava come qualcosa di alieno.

- Il bene che stai facendo tornerà egli stesso a ricompensarti, Helaida – disse mio padre, in un ultimo abbraccio.

- E qualunque cosa accada, non dimenticarti chi sei e come sei – aggiunse mia madre. Nutrivano uno sviscerato attaccamento per le frasi intense e io mi ero sempre imbevuta di esse. Raccolsi a coppa le loro ultime parole nelle mie mani e le riversai nel mio animo.

E, a quel punto, non restò che andarmene.

 

L’occhiata che mi riservò Tristan Arsediel la disse lunga sul mio lungo abito sdrucito, sui miei capelli mossi legati con il nastro azzurro in una coda alta e disordinata e sulla minuscola borsa che rappresentava il mio bagaglio.

- Il vostro cavallo? – domandò sprezzante.

- Non ho un cavallo, l’unico che possediamo serve a mio padre.

- E come pensate di viaggiare?

Lui teneva per le briglie un esemplare splendido: imponente, dal pelo lucido e di forma smagliante. Avrebbe sostenuto entrambi senza difficoltà, ma pareva evidente che non intendeva offrirmi aiuto.

- Andrò a piedi – dissi, stringendomi nelle spalle.

Lui rise, ma di un ghigno sarcastico che mi fece rabbrividire.

- Siete pietosa! Molto bene, camminate, ma non azzardatevi a lamentarvi per la stanchezza, il mal di piedi, la sete o il caldo, o qualunque altra cosa possa risultarvi spiacevole. Vi assicuro che non sono un compagno di viaggio gradevole e basterà molto poco per farmi irritare.

- Non mi è difficile immaginarlo.

Mi afferrò un polso con violenza e mi strattonò verso di sé.

- Non siate arrogante con me, ragazzina. Da voi pretendo occhi bassi e bocca chiusa, obbedienza cieca e rispetto; questo inizierà a mettervi dell’avviso di ciò che vi accadrà alla Roccaforte.

Mi strappò di mano la borsa, legandola al fianco della cavalcatura; poi montò in sella e mandò il cavallo al passo.

Ero abituata a camminare a lungo: le passeggiate erano tra i pochi svaghi che mi erano rimasti, poiché non costavano nulla. Così mi affrettai a seguire il cavallo ad andatura sostenuta, badando di mordermi la lingua per non replicare alle male parole di Tristan Arsediel.

 

La possibilità di offrirmi al Granduca era stata a lungo discussa, prima di arrivare alla sofferta, soffertissima, decisione finale. 

Ciò che il Granduca Roman Fedar chiedeva ai baroni e ai conti delle sue nuove terre acquisite era la più completa sottomissione, che si riconduceva all’offerta delle proprie primogenite per il suo già gremito harem. Chiunque negasse il proprio personale contributo, veniva oppresso e schiacciato fino a ridursi a veder morire di fame la propria gente. Così, uno alla volta, tutti i signori si erano ritrovati a cedere e ad offrire le proprie figlie in sacrificio per il bene delle proprie terre; erano rimasti in pochi ancora a resistere e mio padre era stato, fino a pochi giorni fa, tra quelli. Ma la situazione si era fatta insostenibile e, dopo lunghe riunioni familiari, era stato decretato il mio sacrificio.

Le voci che arrivavano dalla Roccaforte circa la crudeltà del Granduca Roman Fedar non avevano facilitato la decisione: non si trattava solo di offrirmi a un harem, ma ad una vera e propria vita di supplizio. L’avevo accettato, certo, mi sentivo pronta. Ma anche terribilmente spaventata.

 

Per mia fortuna non mancavo di ostinazione, così, quando i miei piedi da indolenziti si fecero insopportabilmente doloranti, strinsi le labbra e continuai a camminare. La velocità, la mancanza di soste e di acqua e le distanze che mai si colmavano mi avevano sfinita fin quasi a perdere i sensi, e tuttavia non cedevo: l’arroganza di Tristan Arsediel e la sua cafoneria mi avevano a tal punto indisposta da preferire i piedi sanguinanti alla prospettiva di dargli soddisfazione.

Quando, al tramonto, entrammo in un villaggio e ci fermammo presto un’osteria per la cena, per poco non svenni dal sollievo. Ma non avevo previsto quello che sarebbe venuto.

- Avete soldi per pagarvi la cena? – mi domandò gelidamente il mio compagno di viaggio, mentre sedevamo a un tavolo.

Alzai su di lui un paio di occhi sgranati che dicevano, con tutta chiarezza, che non avevo una sola moneta in tasca. Pensavo avrebbe pagato lui... Ero o non ero diventata proprietà del Granduca?

Beh, evidentemente non ancora, perché Tristan Arsediel ordinò minestra e carne per sé lasciandomi a bocca asciutta.

- Se non avete i soldi per comprarvi da mangiare, digiunerete – commentò, nella più assoluta indifferenza – Ma se non potete neppure pagarvi una stanza per la notte, dovremo ripartire e cercare un luogo dove accamparci.

Le sue parole mi scivolarono lungo la schiena come ghiaccio e non potei trattenere un sussulto di sconforto: ero affamata, affamata da morire dopo tanto cammino, e andando a piedi mancavano ancora giorni all’arrivo alla Roccaforte. Avrei dovuto digiunare tutto il tempo?

L’indifferenza con cui Tristan Arsediel masticava davanti al mio sguardo sofferente mi diceva che sì, avrei digiunato, a meno che non mi fossi messa a raccogliere radici e bacche per strada sperando di non morire avvelenata.

- E voi, figliola, non mangiate? Sembrate così stanca, dovreste mandare giù qualcosa!

La locandiera, paffuta e gioviale, mi rivolse uno sguardo di comprensione. Appoggiò la caraffa di vino di fronte a Tristan e aspettò una risposta che le mie labbra si rifiutarono di dare.

- Non ha soldi per pagare – disse lui, al posto mio.

- Non ha soldi per pagare? – La locandiera mostrò con evidenza tutta la sua costernazione – E voi non potete offrirle qualcosa, giovanotto? Non posso certo credere che la lascerete patire la fame, mentre voi v’ingozzate!

- Potete crederlo, invece.

Il tono di lui era sufficiente a smorzare ogni dissenso, la sua voce si colorava di una perentorietà che sfiorava senza malintesi la minaccia.

- Oh, bene! – lo rimbrottò la donna, incrociando le braccia sopra il seno – Vorrà dire che farò io la vostra parte e offrirò di mio pugno la cena alla vostra accompagnatrice!

Non credetti ai miei occhi, quando un piatto ricolmo comparve davanti alla voragine del mio stomaco. Tristan non commentò, mentre divoravo tutto ciò che la donna mi offriva né disse nulla quando mi sperticai in ringraziamenti, ma fui certa di scorgere del disappunto sul suo viso.

Per qualche motivo, l’uomo inviato a scortarmi dal Granduca mi disprezzava. Non poteva trattarsi di qualcosa di personale: mi aveva detestata dal primo momento in cui aveva posato su di me il suo sguardo, prima ancora che io avessi aperto bocca o fatto alcunché, e questo lo rendeva pericoloso, poiché godeva nell’umiliarmi e nel mettermi in difficoltà.

Credevo che le mie pene avrebbero avuto inizio con l’arrivo alla Roccaforte, ma era chiaro che già questo viaggio mi avrebbe fatto consumare una buona dose di pazienza.

 

  
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