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Autore: phoenix_esmeralda    05/11/2013    7 recensioni
"Ciò che il Granduca Roman Fedar chiedeva ai baroni e ai conti delle sue nuove terre acquisite era la più completa sottomissione, che si riconduceva all’offerta delle proprie primogenite per il suo già gremito harem. Chiunque negasse il proprio personale contributo, veniva oppresso e schiacciato fino a ridursi a veder morire di fame la propria gente. Così, uno alla volta, tutti i signori si erano ritrovati a cedere e ad offrire le proprie figlie in sacrificio per il bene delle proprie terre; erano rimasti in pochi ancora a resistere e mio padre era stato, fino a pochi giorni fa, tra quelli. Ma la situazione si era fatta insostenibile e, dopo lunghe riunioni familiari, era stato decretato il mio sacrificio.” Quarta classificata allo "Spoon River Contest" di ZKaoru69. Premio Speciale Romance Terza classificata al contest "Love is..." di milla4 Premio Speciale Miglior Personaggio Femminile
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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L’aggressività è il più grande segno di debolezza che un uomo possa mostrare. Se si comporta in modo aggressivo con te, significa che si sente talmente vulnerabile, da attaccare prima che tu possa anche solo pensare di ferirlo.”

 

“Sì, mamma”

 

“Ricordati, Helaida, che dietro ai comportamenti delle persone si nascondono sempre i loro pensieri, i loro sentimenti, la loro esperienza di vita. È fondamentale tenere presente  questo, per comprendere veramente il significato dei loro gesti. Altrimenti giudicherai sempre male.”

 

“Papà, me lo ricorderò.”

 

“E se il male genera altro male, perché il bene non dovrebbe produrre del bene?”

 

“Non c’è motivo per cui non lo faccia.”

 

 

Crebbi in compagnia di queste parole: insegnamenti che, nella mia famiglia, erano supportati da tanto fervore e tanta abnegazione da impregnare le pareti dei muri di casa, il cibo che mangiavamo e i sentimenti di tutte noi.

Non avevo mai viaggiato né incontrato persone al di fuori della cerchia più stretta delle mie conoscenze: gente mite che rinforzava la visione della vita trasmessami dai miei genitori.

Non sapevo potesse esistere qualcuno che, con tutta la sua forza, si imponeva di percorrere una strada completamente opposta.

Né sapevo, allora, che le parole dei miei genitori mi avrebbero salvato la vita.

 

 

1

 

- Helaida... il Granduca ti ha accettata!

Sollievo e orrore mi travolsero in egual misura, costringendomi a cercare un sostegno nella credenza alle mie spalle.

- Hai origliato, Lana?

- Non ho potuto farne a meno... ero talmente in ansia!

Non mentiva, lo sapevo: Lana era la sorella a me più vicina - ci separava solo un anno e mezzo - e la maggior parte delle esperienze dei miei diciotto anni di vita l’avevo vissuta accanto a lei.

- Dunque è deciso?

- Sì, ma... Hela, quell’uomo che è venuto a parlare con mamma e papà dice che dovete partire immediatamente!

- Oggi?

Annuì, con gli occhi chiari sfumati d’angoscia.

- Non piangere, Lana, lo sai che è la cosa giusta.

Deglutì e fece un cenno d’assenso con il capo.

- E poi non ho bisogno di tempo per prepararmi – aggiunsi – Non ho nulla da portare con me, se non un cambio d’abito e un paio di libri.

Se io, che ero la figlia del barone, mi ritrovavo talmente povera da non avere bagaglio, quanto più doveva soffrire la gente delle mie terre?

Mio padre raggiungeva ogni giorno a cavallo i nostri affittuari, lavorava con loro, divideva equamente tra le famiglie i frutti dei campi; ma il Granduca chiedeva sempre di più ogni mese: aumentava le tasse, affamava la nostra gente e puniva severamente chiunque tentasse di opporsi al suo volere.

Dieci anni fa aveva acquisito le nostre terre e tutte quelle confinanti quando, alla fine di una lunga guerra, il nostro vecchio sovrano aveva dovuto cedere buona parte dei suoi possedimenti. Da allora ci eravamo impoveriti, ogni anno sempre più, fino ad arrivare a una condizione di tale indigenza da dover assistere impotenti alla miseria più completa e devastante della nostra gente.

Il popolo iniziava a morire di fame. A morire davvero.

- Hela...

Rika mi scrutava dalla soglia della porta, gli occhi acquosi di lacrime, il mento tremante.

- Mamma e papà ti vogliono di là.

- Vado.

- Hela... non lasciarti portare via subito!

Scossi la testa, cercando di darmi un’aria insofferente – Anche tu hai origliato? Ma le buone maniere che vi hanno insegnato con tanta cura dove sono finite?

Il mento le tremò con maggior violenza e immediatamente accantonai ogni proposito di rimprovero.

- Oh, Rika, se è necessario che io parta immediatamente, partirò. Non dobbiamo irritare il Granduca, sai, dobbiamo pensare alla nostra gente.

Aveva solo undici anni, ma sapevo che poteva comprendere: non aveva vissuto alcuna infanzia rosea lei, era nata durante la guerra e cresciuta tra privazioni di anno in anno sempre più acerbe.

La lasciai con un sorriso di incoraggiamento e mi diressi verso il salone, davanti alla porta chiusa del quale, accovacciate e con l’orecchio attento oltre l’uscio, scorsi altre tre delle mie sorelle: Alama, tredici anni, Jolanda, nove, e Sophia, sette. Rowanda mancava solamente perché, a tre anni, non nutriva ancora sufficiente cognizione da comprendere cosa stesse accadendo.

Gettai a tutte quante occhiatacce di disapprovazione e le allontanai a suon di smorfie, sistemai il vestito, raddrizzai le spalle e attraversai la soglia incontro al mio destino.

- Helaida, avvicinati.

Mio padre indossava il migliore dei suoi vestiti che, tuttavia, non era scevro di rattoppi sui gomiti e lungo gli orli; mia madre invece, meno incline a scorazzare per i campi, vantava un aspetto più curato e meno sdrucito.

- Il Granduca ha accettato la nostra richiesta – proseguì, cercando di mantenersi calmo quando invece nel suo sguardo scorgevo tanta eccitazione quanta disperazione – Abbiamo patteggiato meno tasse, più cibo, più libertà. Lo scambio è vantaggioso e risolleverà le sorti della nostra gente.

Annuii, sforzandomi di sorridere. Quello che mio padre stava dicendo era che ce l’avevamo fatta. E che io ero perduta.

- Questo è il signor Tristan Arsediel – aggiunse mia madre, portando finalmente la mia attenzione all’uomo in piedi di fronte a loro – È stato inviato dal Granduca a riferirci la notizia e ti scorterà fino a lui.

Chinai il capo verso l’uomo in segno di rispettoso saluto, ma lui non ricambiò. Mi gettò un’unica occhiata indifferente, sporcata di un’arroganza che mi indispettì.

Era alto e asciutto, la pelle scurita dal sole; i capelli folti e scompigliati, neri come la notte, gli incorniciavano selvaggiamente il volto. Aveva occhi torbidi: non neri, mi accorsi, ma piuttosto fumosi come un falò di legna bagnata.

Non era una persona in grado di far sentire gli altri a proprio agio, si presentiva in lui un temperamento nervoso, quasi violento. La mascella contratta, i muscoli tesi pronti a scattare, lo rendevano minaccioso nonostante l’apparente immobilità.

Non doveva avere più di trent’anni, probabilmente meno, e tuttavia c’era qualcosa in lui che lo faceva sembrare molto più vecchio della sua età. Non nell’aspetto fisico, no... Piuttosto nello spirito. Uno spirito invecchiato all’improvviso.

- Helaida?

La voce di mia madre mi riscosse da quell’analisi. Avevo fissato quell’estraneo troppo a lungo e troppo apertamente, dando modo di apparirgli maleducata. Ma lui sembrava non aver neppure notato il mio sguardo.

- Vi ringrazio di essere venuto – dissi, incerta su come comportarmi in quel frangente – Quanto tempo mi date per prepararmi?

Il suo sguardo mi raggiunse ancora per un solo, brevissimo istante. Sembrava che i suoi occhi non riuscissero a restare sullo stesso soggetto per più di qualche secondo.

- Una mezzora vi sarà sufficiente – rispose. Il suo tono non ammetteva possibilità di repliche e così non replicai. Chinai il capo in cenno d’assenso e uscii.

  
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