Attenzione: Anche se a chi non l’ha letto potrebbe
sembrare di mia invenzione, c’è uno spoiler del capitolo 393!
Tutti i personaggi e i diritti appartengono a Masashi Kishimoto ©.
Poisoned
-your soul is screaming-
Lo bruciava.
Fuoco.
Lo rapiva.
Carnefice.
Lo consumava.
Assassino.
Il veleno. Quella strana sostanza che penetra nelle
vene, che diventa un tutt’uno col sangue, che intacca il corpo e la mente. Sa
uccidere, ma non ha fretta; ama prima torturare, attendere lunghi periodi per
vedere la progressiva fine delle proprie vittime. È calmo e posato, sicuro
della sua vittoria.
Si sa nascondere abilmente dietro qualsiasi forma,
nell’ombra, senza mai destare un sospetto. E quando infine rivela la propria
essenza, è quello indice che ha consumato il proprio pasto.
***
Lo bruciava.
Fuoco.
Era di fiamma. I suoi artigli lo afferravano
trascinandolo vittoriosi in una ancora più straziante incandescenza. Lo sentiva
–fuoco liquido- che covava all’interno della sua carne e ne sconvolgeva le
gesta limando i suoi pensieri su una misura di riscatto.
Lo sapeva, lo percepiva, ne era sicuro –non poteva
essere altrimenti- che quell’incendio
senza limiti e barriere lo avrebbe portato alla follia, se non lo avesse invece
prima ridotto in polvere. E in quell’agonia ignorava i segnali di distruzione,
quei muti messaggi d’avvertimento, le insensate note di pericolo.
Ma, in fondo, non era ancora veleno mortale, no.
Era solo fuoco.
Ancora, le fiamme non l’avevano devastato. Solo
bruciato.
Di nuovo, era il fuoco ad iniziarlo: un tempo alla
contesa, sfumata e breve, adesso alla distruzione, nitida e senza fine.
E mentre quell’incendio interno gli procurava la
febbre, non poteva fare a meno di ricordare quante volte quella stessa fiamma,
ardente e ribelle, l’aveva provata sulla sua pelle.
Sì, l’ultimo degli Uchiha
ricordava, nonostante il gelo che gli anni avevano instillato nei suoi occhi,
nonostante il diffuso pallore che non abbandonava mai il suo viso sfregiato da
pensieri coltivati nei più bui antri della sua mente.
Ricordava. E forse, era per questo che il nuovo
incendio bruciava più di ogni altro, era per questo che le invisibili fiamme lo lambivano con più
forza di quanto credesse possibile.
Ed erano frammenti di vita più nitidi di qualsiasi
altra cosa quelli che lo raggiungevano, perché certi pensieri –questo Sasuke lo sapeva bene- non dovevano essere dimenticati.
Bisognava nutrirsi di essi, gettarcisi come l’affamato sul tozzo di pane, su miseri
avanzi privi di gusto. Nutrirsene, e goderne,
fino a quando non sarebbe più stato possibile restarne privi.
Dipenderne, sì, era questo l’obiettivo di tali memorie, dipenderne per poi
sfruttarle, per gettare su di esse le basi della propria forza.
Di questo Sasuke Uchiha era fermamente convinto, su questo basava la propria
esistenza.
Quei ricordi non dovevano andare perduti, dovevano
alimentare il suo odio.
Il bambino
provò ancora, ma gli riuscì solo una piccola sfera di fiamme. Indispettito,
cercò di ripetere il jutsu, ma si accorse di avere
piccole dolorose ustioni sul viso.
Indugiò
solo per un attimo, e subito riprese l’allenamento. Non aveva intenzione di
essere meno forte di Itachi, non gli avrebbe permesso
di batterlo. Per quella volta, solo per quella volta, voleva per sé le lodi del
padre, quelle lodi che lui non aveva mai ricevuto.
Ripeté la
tecnica, infiammato dall’ardore che lo spingeva a migliorarsi. Forse fu per
quello che, infine, dalle sue labbra scaturì la Palla di Fuoco Suprema.
Sorrise,
fiero del proprio successo. Certo, un giorno avrebbe senza dubbio raggiunto e
sconfitto Itachi.
Fiamme nel fuoco, fuoco in quelle iridi.
Il rosso
di quegli occhi non gli era mai parso
tanto vivo e brillante. Rilucevano di sangue quelle cupe iridi, sangue versato
quella stessa sera, sangue su cui lui, impotente, posava i piedi, terrorizzato
e scosso dai singulti.
Quando
quegli occhi diversi -che nulla avevano del normale sharingan-
lo rapirono, comprese per la prima volta qual era il sapore dell’odio, e quando
quello sguardo muto lo trascinò in quell’universo rosso e ipnotico, seppe che
da quel momento cambiava la sua vita. Quando infine, torturato, tornò alla
brulla realtà, capì che l’inferno era tinto di sangue, e che il rosso che vi permeava
ardeva di un fuoco mai visto da occhio mortale. Fiamme immobili e spente che
sgretolavano l’anima, fiamme che vi si insidiavano come un seme maligno, come
un cancro maledetto.
Ed ogni
volta che rivedeva gli occhi di Itachi, lo
sterminatore, quelle fiamme dentro di lui prendevano bruscamente vita.
Ogni
giorno, ogni minuto, l’incendio crepitava in lui.
Ma attento. I ricordi possono unirsi, possono
aggrovigliarsi, impigliarsi nei meandri della memoria, portare alla follia la
mente, formare forti catene.
Guardati alle spalle, Uchiha
Sasuke. Sarà difficile districarsi e prevalere,
impossibile forse sanarsi. Mai più il fuoco potrà estinguersi, costante
tortura, indelebile marchio di una muta promessa.
Lo rapiva.
Carnefice.
A volte, quando le sue memorie si infiammavano
senza controllo, allora sentiva chiaramente che il veleno lo rapiva, che lo
trascinava via. Non nell’inferno che aveva già visitato, non in oscuri antri
sepolti. Perdeva il controllo, la vista gli si appannava; in quei momenti non
aveva piena coscienza di cosa fosse
davvero la realtà. Perché, in fondo, lui avrebbe voluto modificarla, quella
realtà infangata; sarebbe prevalso su di lei, l’avrebbe modellata a suo
piacimento, costringendola a chinare il capo. E una volta averla cambiata,
sarebbe sgusciato infine da quella staticità, da quella immobilità sfiancante
in cui era immerso. Era fermo, nell’inutilità di quel villaggio, circondato da
perdenti, da un sistema che minava la sua forza. Ed era abbandonato. Lasciato
indietro, lasciato vilmente e crudelmente vivere.
E questo no, non poteva accettarlo. Sopravvivere
perché troppo debole! Lasciato da parte perché sdegnato da lui, l’assassino, il
traditore!
Un giorno tutto sarebbe cambiato. Non rimpiangeva
di non aver impedito la strage, non cercava l’introvabile modo di vedere
nuovamente vivo il suo clan: non sarebbe stato il giusto antidoto al suo male. L’Uchiha voleva un riscatto dal fratello, voleva che il
sangue di cui si era sporcato gli occhi fosse pagato da altro sangue, questa
volta versato da lui, Sasuke. Avrebbe gioito, avrebbe
esultato alla vista delle mani finalmente macchiate. Perché era quello che voleva.
Vendetta.
E, ne era sicuro, con la vendetta avrebbe infine
annientato quel veleno che gli penetrava nelle carni, il veleno che gli si era
insediato nelle vene alla vista dello strazio dei corpi, che lo aveva rapito
per la prima volta quando il fratello l’aveva torturato con i suoi occhi
maledetti; ed altre volte dopo quella notte l’avrebbe trascinato con sé in un
vortice che lui ancora non comprendeva. Follia, riscatto, brama e ambizione
forse lo potevano ben descrivere; di certo, non il rimpianto. Quello l’aveva
abbandonato da tempo, da quell’ultima battaglia prima di diventare un
traditore, quando il rapimento era stato
più forte di quanto avesse previsto o di quanto avesse mai provato. Quella
volta, l’incendio dentro di sé l’aveva fatto completamente soccombere, e le
corde che lo tenevano legato non potevano rompersi; non avrebbero potuto,
neanche se lui l’avesse desiderato –lui che alimentava le fiamme, lui che era
grato di quella prigionia, lui che era per la prima volta succube.
Lui che, infine, tradiva se stesso e i propri
legami, perché aveva infine trovato in quel veleno la forza necessaria per la
sua rivalsa.
Il suo coprifronte giaceva nella pioggia, rigato, accanto a Naruto -un fratello migliore di quello che lui si apprestava
a raggiungere, un fratello che abbandonava per amor di vendetta, per desiderio
di riscatto. Qualcosa lo spinse a trattenersi, mentre lo fissava. Il suo
compagno –ora nemico- era svenuto e la pioggia la colpiva.
Ma il suo
carnefice non gli concesse quella tregua e lo portò via da quella valle.
Perdeva per la seconda volta la famiglia, ma qualcosa lo costrinse a non
provare rimpianto.
Il veleno,
penetrato più a fondo che mai, lo tormentò ancora e lo costrinse a sorridere,
cupo. In fondo, che importava? La vendetta, solo quella aveva valore. Il resto
poteva aspettare, o marcire nell’attesa.
Lui che, infine, aveva gli stessi occhi del
fratello.
Lo sguardo gli si spense, privo di vita. Le
spalle erano chine. Non sapeva dove andava, era il rapitore a condurlo.
E come Itachi aveva tradito, lui tradiva. Come Itachi
aveva sterminato, lui aveva ferito a morte. Come Itachi
era fuggito, lui fuggiva.
E come Itachi era diventato un’ombra, lui era ora un’ombra che
vagava.
Ma un
sorriso inquietante e dal sapore di vittoria gli squarciò il volto martoriato
dalla pioggia. In fondo, che importava? Andava verso la vittoria, verso il
potere.
Solo la
vendetta era nei suoi pensieri.
Il carceriere, invisibile, rideva. Vinceva, e
un’altra goccia di veleno si insediava nel sangue della sua vittima. Sentiva
che, ormai, aveva la vittoria in pugno: l’Uchiha non
avrebbe mai avuto la forza di ribellarsi al suo potere. E come le fiamme si
erano trasformate nel carnefice, ora anche lui cambiava forma, soddisfatto
della sua opera, pronto a diventare l’assassino.
E dopo anni di paziente attesa, di infinito veleno
instillato goccia a goccia, si sarebbe infine saziato di quelle carni.
Lo consumava.
Assassino.
Sasuke Uchiha non era ancora
riuscito a rendersi conto che in quella corsa al sangue lui stava miseramente
perdendo. Aveva visitato l’inferno, ma solo ora si compiva la dannazione della
sua anima, che si appesantiva ogni giorno di più -soppressa da lui stesso, annientata
dal veleno e macchiata dal morboso desiderio di uccidere.
Eppure, si sentiva nel pieno delle sue forze. Né
l’incendio né il carceriere osavano più tormentarlo; forse erano inorriditi di
fronte ai suoi nuovi poteri, forse era semplicemente la calma prima della
tempesta. Di certo, non era guarito: non aveva intenzione di lasciare tanto
presto, dopo anni di agonia, quando era a un passo dal suo trionfo. Orochimaru lo aveva addestrato bene; peccato che fosse
stato così stolto da non rendersi conto che aveva allevato una serpe in seno,
ed ora era miseramente morto.
Nessun rimorso. La sostanza incandescente e senza
pietà che gli scorreva nelle vene gli aveva insegnato anche questo.
Sì, Sasuke Uchiha si sentiva potente e pronto infine a compiere la sua
desiderata vendetta. Per sette anni, dal giorno di quella terribile strage,
aveva sognato il momento in cui avrebbe affogato lo sguardo nel lago di sangue
che sarebbe sgorgato dal petto del fratello. Per sette anni, cullato dal suo
fuoco interiore, aveva immaginato ogni dettaglio dell’omicidio; aveva
progettato, fantasticato, si era preparato. Aveva basato su quello la sua giovane
vita.
E sapeva già come sarebbe finita, sì, non aveva
dubbi: aveva pensato talmente tante volte a quel momento che non avrebbe
accettato qualsiasi altro epilogo, non era concepibile.
Si sarebbero avvicinati, e si sarebbero guardati
negli occhi; non troppo a lungo, solo il tempo di trasmettergli uno sguardo
volutamente glaciale. Non odio, no, non si sarebbe mai abbassato a tanto: era
già caduto troppo in basso quando l’aveva pregato di non ucciderlo, piangendo.
Ma in fondo allora era solo un bambino, una nullità. Ora Itachi
avrebbe trovato a fissarlo solo due iridi fredde, e pronto a batterlo solo un
corpo marmoreo, gelido.
Non avrebbe tradito la più piccola emozione.
Poi avrebbero combattuto. E anche col suo sharingan privo di mangekyou,
sarebbe stato un duello memorabile –o almeno, lui se lo sarebbe di certo
ricordato. Itachi non avrebbe avuto quel privilegio.
Pregustava già il momento in cui avrebbe sfoderato la sua arma segreta, quella
che aveva affinato in quei tre anni, e l’avrebbe ucciso. Ma prima di
incenerirlo con i fulmini, l’avrebbe trafitto con la katana. Lui non voleva
solo la sua morte, voleva vedere il sangue sgorgare senza controllo, inondare
il terreno come quella sera, desiderava vederlo morire sotto la sua presa,
fissare i suoi occhi –quegli occhi che popolavano i suoi incubi- mentre diventavano vacui.
Le fantasie dell’Uchiha
si fermavano lì. Non gli interessava sapere cosa ne sarebbe stato di lui dopo,
cosa avrebbe fatto o dove sarebbe andato. E l’assassino, ascoltando silenzioso
quei pensieri, rideva – di gusto. Sasuke non poteva
saperlo, ma si stava comportando esattamente come la marionetta che il veleno
aveva deciso che lui dovesse diventare: percorreva il sentiero che l’omicida
gli aveva già messo davanti ai piedi, e ora non rimaneva all’aguzzino che
attendere la sconfitta della sua vittima, quando quel sentiero si sarebbe
estinto in un profondo baratro.
Infine, dopo sette anni di fremente attesa, il
momento delle vendetta arrivò. E Sasuke, che aveva
già programmato lo scontro, rimase interdetto nel vedere quanti pochi
particolari coincidessero con la sua versione: prima di tutto, per quanto si
sforzasse, gli occhi di Itachi erano sempre più
freddi e impassibili dei suoi. Non poteva assolutamente accettarlo, non dopo
aver rinunciato alla propria anima per ottenere quello sguardo di ghiaccio.
Secondariamente, l’altro sembrava essere ancora nettamente più forte di lui. In
un momento di disperazione, quando vide la mano caina
avvicinarsi minacciosa ai suoi occhi per strapparglieli come Madara aveva fatto col fratello, arrivò a pensare che non
ne sarebbe uscito vivo. In quell’attimo, terrorizzato, si stupì di quanto poco
controllo avesse sul suo corpo: voleva reagire, ma l’orrore lo bloccava, e non
riusciva ad impedire a dei gemiti di paura di uscire dalle sue labbra,
confondendosi col suo respiro affannato.
Sì, la sua anima era già dannata, su questo non
aveva dubbi; ma pensò, nell’angoscia, che sarebbe diventata un’anima inquieta e
tormentata in eterno se fosse morto senza la sua vendetta, ucciso da quella
mano odiata e sporca di quel sangue di cui lui bramava il riscatto.
Non sapeva però che ormai la trappola tesagli dal
veleno era scattata, e che per quanto si affannasse non avrebbe potuto
intervenire e bloccare la morsa.
E quando davanti ai suoi occhi passò l’unica scena
che l’azione della sua mente non aveva mai creato perché troppo impensabile, troppo
assurda, avrebbe voluto urlare, inorridito. Ma prima che potesse farlo, il suo
corpo cedette alla fatica e al veleno, stramazzando al suolo.
Nelle sue iridi risplendeva ancora il riflesso di Itachi che gli dava un buffetto sulla fronte, come quando Sasuke era bambino -prima di quella notte funesta, prima
della lacerazione e del veleno, quando ancora la realtà non gli pareva così
infangata e non pensava che fosse necessario manipolarla mettendo in gioco se
stesso.
Dopo quel gesto che ancora la sua mente non aveva
accettato, aveva visto suo fratello cadere. Era stramazzato al suolo.
Morto.
La sua anima gridò per il furto di cui era stata
vittima, per la vendetta che non aveva potuto compiere direttamente con le sue
mani, per la sua debolezza nel momento cruciale, per il sangue che non aveva
gustato, per aver infine compreso che era stata vittima di un losco tranello.
Fu sopraffatto dall’ira, e da altre emozioni che
non avrebbe potuto descrivere, perché non ricordava di averle mai provate.
L’assassino rideva: la sua opera era compiuta e lui era sazio.
Sasuke ancora non capiva perché lo sguardo di Itachi, mentre lo aveva colpito leggermente alla fronte con
le dita, fosse tanto velato. Non era più lo sguardo di ghiaccio che lo aveva
ossessionato per tutta la vita: credeva di aver visto in quegli occhi ciechi la
malinconia, il rimorso, il rimpianto.
***
L’aveva bruciato.
Fuoco.
L’aveva rapito.
Carnefice.
L’aveva consumato.
Assassino.
E, nel buio in cui era precipitato, gli occhi del
morto continuavano a ossessionarlo, ma non quanto quella risata fredda e
lontana che continuava a rimbombare nei suoi pensieri, senza sosta. E non
riusciva a capire a chi appartenesse, da dove venisse, per quale motivo
tormentasse lui, ora un essere senza più obiettivo.
Perché era così che ora si sentiva.
Vuoto.
Aveva dedicato l’intera vita all’omicidio, aveva
spezzato la propria anima e i propri legami per lei, la vendetta. Ma adesso che
Itachi era morto, solo adesso comprendeva ciò che la
sua pure acuta vista non gli aveva permesso di scorgere.
Il
fallimento.
Vincitore e al contempo perdente, sopravvissuto e
moribondo: nonostante la vittoria, la vita non avrebbe più avuto alcun senso
senza l’obiettivo che le dava sapore, senza quel pensiero fisso che gli faceva trascorrere
ogni istante. E Sasuke sapeva, come non era mai stato
certo di nessun’altra cosa, che in quel momento la sua vita finiva, in quella
solitudine che lui stesso si era creato.
La risata continuava ad echeggiare fra le pareti
della sua mente. E ad ucciderlo, a dargli il colpo di grazia, fu l’improvvisa
consapevolezza che il veleno che in quegli anni l’aveva plasmato e che
subdolamente l’aveva sostenuto nel suo proposito di vendetta, era la vendetta
stessa.
Lei l’aveva abilmente raggirato, solo ora lo
capiva, solo ora la vedeva come era nelle sue vere spoglie.
In quell’esatto momento, la risata cessò.
Era definitivamente solo.
Era stato avvelenato, e la sua anima urlava.
***Fine***
Sono arrivata seconda partecipando con questa storia al Terzo concorso: Veleno di Immaginaria,
in collaborazione con “I diari degli eroi”. Hanno giudicato le storie =Pe= e Lady Butterfly.
Spero che vi sia piaciuta!
Elwerien*