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Autore: Elwerien    23/04/2008    3 recensioni
Lo bruciava.
Fuoco.
Lo rapiva.
Carnefice.
Lo consumava.
Assassino.
A volte, quando le sue memorie si infiammavano senza controllo, allora sentiva chiaramente che il veleno lo rapiva, che lo trascinava via. Non nell’inferno che aveva già visitato, non in oscuri antri sepolti. Perdeva il controllo, la vista gli si appannava; in quei momenti non aveva piena coscienza di cosa fosse davvero la realtà. Perché, in fondo, lui avrebbe voluto modificarla, quella realtà infangata; sarebbe prevalso su di lei, l’avrebbe modellata a suo piacimento, costringendola a chinare il capo.
E, ne era sicuro, con la vendetta avrebbe infine annientato quel veleno che gli penetrava nelle carni, il veleno che gli si era insediato nelle vene alla vista dello strazio dei corpi, che lo aveva rapito per la prima volta quando il fratello l’aveva torturato con i suoi occhi maledetti.
[Seconda classificata al concorso sul Veleno di Immaginaria]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sasuke Uchiha
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Attenzione: Anche se a chi non l’ha letto potrebbe sembrare di mia invenzione, c’è uno spoiler del capitolo 393

Attenzione: Anche se a chi non l’ha letto potrebbe sembrare di mia invenzione, c’è uno spoiler del capitolo 393!

Tutti i personaggi e i diritti appartengono a Masashi Kishimoto ©.

 

Poisoned

-your soul is screaming-

 

Lo bruciava.

Fuoco.

Lo rapiva.

Carnefice.

Lo consumava.

Assassino.

 

Il veleno. Quella strana sostanza che penetra nelle vene, che diventa un tutt’uno col sangue, che intacca il corpo e la mente. Sa uccidere, ma non ha fretta; ama prima torturare, attendere lunghi periodi per vedere la progressiva fine delle proprie vittime. È calmo e posato, sicuro della sua vittoria.

Si sa nascondere abilmente dietro qualsiasi forma, nell’ombra, senza mai destare un sospetto. E quando infine rivela la propria essenza, è quello indice che ha consumato il proprio pasto.

 

***

Lo bruciava.

Fuoco.

 

Era di fiamma. I suoi artigli lo afferravano trascinandolo vittoriosi in una ancora più straziante incandescenza. Lo sentiva –fuoco liquido- che covava all’interno della sua carne e ne sconvolgeva le gesta limando i suoi pensieri su una misura di riscatto.

Lo sapeva, lo percepiva, ne era sicuro –non poteva essere altrimenti-  che quell’incendio senza limiti e barriere lo avrebbe portato alla follia, se non lo avesse invece prima ridotto in polvere. E in quell’agonia ignorava i segnali di distruzione, quei muti messaggi d’avvertimento, le insensate note di pericolo.

Ma, in fondo, non era ancora veleno mortale, no. Era solo fuoco.

Ancora, le fiamme non l’avevano devastato. Solo bruciato.

Di nuovo, era il fuoco ad iniziarlo: un tempo alla contesa, sfumata e breve, adesso alla distruzione, nitida e senza fine.

E mentre quell’incendio interno gli procurava la febbre, non poteva fare a meno di ricordare quante volte quella stessa fiamma, ardente e ribelle, l’aveva provata sulla sua pelle.

Sì, l’ultimo degli Uchiha ricordava, nonostante il gelo che gli anni avevano instillato nei suoi occhi, nonostante il diffuso pallore che non abbandonava mai il suo viso sfregiato da pensieri coltivati nei più bui antri della sua mente.

Ricordava. E forse, era per questo che il nuovo incendio bruciava più di ogni altro, era per questo che  le invisibili fiamme lo lambivano con più forza di quanto credesse possibile.

Ed erano frammenti di vita più nitidi di qualsiasi altra cosa quelli che lo raggiungevano, perché certi pensieri –questo Sasuke lo sapeva bene- non dovevano essere dimenticati. Bisognava nutrirsi di essi, gettarcisi come l’affamato sul tozzo di pane, su miseri avanzi privi di gusto. Nutrirsene, e goderne,  fino a quando non sarebbe più stato possibile restarne privi. Dipenderne, sì, era questo l’obiettivo di tali memorie, dipenderne per poi sfruttarle, per gettare su di esse le basi della propria forza.

Di questo Sasuke Uchiha era fermamente convinto, su questo basava la propria esistenza.

Quei ricordi non dovevano andare perduti, dovevano alimentare il suo odio.

 

Il bambino provò ancora, ma gli riuscì solo una piccola sfera di fiamme. Indispettito, cercò di ripetere il jutsu, ma si accorse di avere piccole dolorose ustioni sul viso.

Indugiò solo per un attimo, e subito riprese l’allenamento. Non aveva intenzione di essere meno forte di Itachi, non gli avrebbe permesso di batterlo. Per quella volta, solo per quella volta, voleva per sé le lodi del padre, quelle lodi che lui non aveva mai ricevuto.

Ripeté la tecnica, infiammato dall’ardore che lo spingeva a migliorarsi. Forse fu per quello che, infine, dalle sue labbra scaturì la Palla di Fuoco Suprema.

Sorrise, fiero del proprio successo. Certo, un giorno avrebbe senza dubbio raggiunto e sconfitto Itachi.

 

Fiamme nel fuoco, fuoco in quelle iridi.

 

Il rosso di quegli  occhi non gli era mai parso tanto vivo e brillante. Rilucevano di sangue quelle cupe iridi, sangue versato quella stessa sera, sangue su cui lui, impotente, posava i piedi, terrorizzato e scosso dai singulti.

Quando quegli occhi diversi -che nulla avevano del normale sharingan- lo rapirono, comprese per la prima volta qual era il sapore dell’odio, e quando quello sguardo muto lo trascinò in quell’universo rosso e ipnotico, seppe che da quel momento cambiava la sua vita. Quando infine, torturato, tornò alla brulla realtà, capì che l’inferno era tinto di sangue, e che il rosso che vi permeava ardeva di un fuoco mai visto da occhio mortale. Fiamme immobili e spente che sgretolavano l’anima, fiamme che vi si insidiavano come un seme maligno, come un cancro maledetto.

Ed ogni volta che rivedeva gli occhi di Itachi, lo sterminatore, quelle fiamme dentro di lui prendevano bruscamente vita.

Ogni giorno, ogni minuto, l’incendio crepitava in lui.

 

Ma attento. I ricordi possono unirsi, possono aggrovigliarsi, impigliarsi nei meandri della memoria, portare alla follia la mente, formare forti catene.

Guardati alle spalle, Uchiha Sasuke. Sarà difficile districarsi e prevalere, impossibile forse sanarsi. Mai più il fuoco potrà estinguersi, costante tortura, indelebile marchio di una muta promessa.

 

 

Lo rapiva.

Carnefice.

 

A volte, quando le sue memorie si infiammavano senza controllo, allora sentiva chiaramente che il veleno lo rapiva, che lo trascinava via. Non nell’inferno che aveva già visitato, non in oscuri antri sepolti. Perdeva il controllo, la vista gli si appannava; in quei momenti non aveva piena coscienza di cosa fosse davvero la realtà. Perché, in fondo, lui avrebbe voluto modificarla, quella realtà infangata; sarebbe prevalso su di lei, l’avrebbe modellata a suo piacimento, costringendola a chinare il capo. E una volta averla cambiata, sarebbe sgusciato infine da quella staticità, da quella immobilità sfiancante in cui era immerso. Era fermo, nell’inutilità di quel villaggio, circondato da perdenti, da un sistema che minava la sua forza. Ed era abbandonato. Lasciato indietro, lasciato vilmente e crudelmente vivere.

E questo no, non poteva accettarlo. Sopravvivere perché troppo debole! Lasciato da parte perché sdegnato da lui, l’assassino, il traditore!

Un giorno tutto sarebbe cambiato. Non rimpiangeva di non aver impedito la strage, non cercava l’introvabile modo di vedere nuovamente vivo il suo clan: non sarebbe stato il giusto antidoto al suo male. L’Uchiha voleva un riscatto dal fratello, voleva che il sangue di cui si era sporcato gli occhi fosse pagato da altro sangue, questa volta versato da lui, Sasuke. Avrebbe gioito, avrebbe esultato alla vista delle mani finalmente macchiate. Perché era quello che  voleva.

Vendetta.

E, ne era sicuro, con la vendetta avrebbe infine annientato quel veleno che gli penetrava nelle carni, il veleno che gli si era insediato nelle vene alla vista dello strazio dei corpi, che lo aveva rapito per la prima volta quando il fratello l’aveva torturato con i suoi occhi maledetti; ed altre volte dopo quella notte l’avrebbe trascinato con sé in un vortice che lui ancora non comprendeva. Follia, riscatto, brama e ambizione forse lo potevano ben descrivere; di certo, non il rimpianto. Quello l’aveva abbandonato da tempo, da quell’ultima battaglia prima di diventare un traditore, quando  il rapimento era stato più forte di quanto avesse previsto o di quanto avesse mai provato. Quella volta, l’incendio dentro di sé l’aveva fatto completamente soccombere, e le corde che lo tenevano legato non potevano rompersi; non avrebbero potuto, neanche se lui l’avesse desiderato –lui che alimentava le fiamme, lui che era grato di quella prigionia, lui che era per la prima volta succube.

Lui che, infine, tradiva se stesso e i propri legami, perché aveva infine trovato in quel veleno la forza necessaria per la sua rivalsa.

 

Il suo coprifronte giaceva nella pioggia, rigato, accanto a Naruto -un fratello migliore di quello che lui si apprestava a raggiungere, un fratello che abbandonava per amor di vendetta, per desiderio di riscatto. Qualcosa lo spinse a trattenersi, mentre lo fissava. Il suo compagno –ora nemico- era svenuto e la pioggia la colpiva.

Ma il suo carnefice non gli concesse quella tregua e lo portò via da quella valle. Perdeva per la seconda volta la famiglia, ma qualcosa lo costrinse a non provare rimpianto.

Il veleno, penetrato più a fondo che mai, lo tormentò ancora e lo costrinse a sorridere, cupo. In fondo, che importava? La vendetta, solo quella aveva valore. Il resto poteva aspettare, o marcire nell’attesa.

 

Lui che, infine, aveva gli stessi occhi del fratello.

 

 Lo sguardo gli si spense, privo di vita. Le spalle erano chine. Non sapeva dove andava, era il rapitore a condurlo.

E come Itachi aveva tradito, lui tradiva. Come Itachi aveva sterminato, lui aveva ferito a morte. Come Itachi era fuggito, lui fuggiva.

E come Itachi era diventato un’ombra, lui era ora un’ombra che vagava.

Ma un sorriso inquietante e dal sapore di vittoria gli squarciò il volto martoriato dalla pioggia. In fondo, che importava? Andava verso la vittoria, verso il potere.

Solo la vendetta era nei suoi pensieri.

 

Il carceriere, invisibile, rideva. Vinceva, e un’altra goccia di veleno si insediava nel sangue della sua vittima. Sentiva che, ormai, aveva la vittoria in pugno: l’Uchiha non avrebbe mai avuto la forza di ribellarsi al suo potere. E come le fiamme si erano trasformate nel carnefice, ora anche lui cambiava forma, soddisfatto della sua opera, pronto a diventare l’assassino.

E dopo anni di paziente attesa, di infinito veleno instillato goccia a goccia, si sarebbe infine saziato di quelle carni.

Lo consumava.

Assassino.

 

Sasuke Uchiha non era ancora riuscito a rendersi conto che in quella corsa al sangue lui stava miseramente perdendo. Aveva visitato l’inferno, ma solo ora si compiva la dannazione della sua anima, che si appesantiva ogni giorno di più -soppressa da lui stesso, annientata dal veleno e macchiata dal morboso desiderio di uccidere.

Eppure, si sentiva nel pieno delle sue forze. Né l’incendio né il carceriere osavano più tormentarlo; forse erano inorriditi di fronte ai suoi nuovi poteri, forse era semplicemente la calma prima della tempesta. Di certo, non era guarito: non aveva intenzione di lasciare tanto presto, dopo anni di agonia, quando era a un passo dal suo trionfo. Orochimaru lo aveva addestrato bene; peccato che fosse stato così stolto da non rendersi conto che aveva allevato una serpe in seno, ed ora era miseramente morto.

Nessun rimorso. La sostanza incandescente e senza pietà che gli scorreva nelle vene gli aveva insegnato anche questo.

Sì, Sasuke Uchiha si sentiva potente e pronto infine a compiere la sua desiderata vendetta. Per sette anni, dal giorno di quella terribile strage, aveva sognato il momento in cui avrebbe affogato lo sguardo nel lago di sangue che sarebbe sgorgato dal petto del fratello. Per sette anni, cullato dal suo fuoco interiore, aveva immaginato ogni dettaglio dell’omicidio; aveva progettato, fantasticato, si era preparato. Aveva basato su quello la sua giovane vita.

E sapeva già come sarebbe finita, sì, non aveva dubbi: aveva pensato talmente tante volte a quel momento che non avrebbe accettato qualsiasi altro epilogo, non era concepibile.

Si sarebbero avvicinati, e si sarebbero guardati negli occhi; non troppo a lungo, solo il tempo di trasmettergli uno sguardo volutamente glaciale. Non odio, no, non si sarebbe mai abbassato a tanto: era già caduto troppo in basso quando l’aveva pregato di non ucciderlo, piangendo. Ma in fondo allora era solo un bambino, una nullità. Ora Itachi avrebbe trovato a fissarlo solo due iridi fredde, e pronto a batterlo solo un corpo marmoreo, gelido.

Non avrebbe tradito la più piccola emozione.

Poi avrebbero combattuto. E anche col suo sharingan privo di mangekyou, sarebbe stato un duello memorabile –o almeno, lui se lo sarebbe di certo ricordato. Itachi non avrebbe avuto quel privilegio. Pregustava già il momento in cui avrebbe sfoderato la sua arma segreta, quella che aveva affinato in quei tre anni, e l’avrebbe ucciso. Ma prima di incenerirlo con i fulmini, l’avrebbe trafitto con la katana. Lui non voleva solo la sua morte, voleva vedere il sangue sgorgare senza controllo, inondare il terreno come quella sera, desiderava vederlo morire sotto la sua presa, fissare i suoi occhi –quegli occhi che popolavano i suoi incubi-  mentre diventavano vacui.

Le fantasie dell’Uchiha si fermavano lì. Non gli interessava sapere cosa ne sarebbe stato di lui dopo, cosa avrebbe fatto o dove sarebbe andato. E l’assassino, ascoltando silenzioso quei pensieri, rideva – di gusto. Sasuke non poteva saperlo, ma si stava comportando esattamente come la marionetta che il veleno aveva deciso che lui dovesse diventare: percorreva il sentiero che l’omicida gli aveva già messo davanti ai piedi, e ora non rimaneva all’aguzzino che attendere la sconfitta della sua vittima, quando quel sentiero si sarebbe estinto in un profondo baratro.

 

Infine, dopo sette anni di fremente attesa, il momento delle vendetta arrivò. E Sasuke, che aveva già programmato lo scontro, rimase interdetto nel vedere quanti pochi particolari coincidessero con la sua versione: prima di tutto, per quanto si sforzasse, gli occhi di Itachi erano sempre più freddi e impassibili dei suoi. Non poteva assolutamente accettarlo, non dopo aver rinunciato alla propria anima per ottenere quello sguardo di ghiaccio. Secondariamente, l’altro sembrava essere ancora nettamente più forte di lui. In un momento di disperazione, quando vide la mano caina avvicinarsi minacciosa ai suoi occhi per strapparglieli come Madara aveva fatto col fratello, arrivò a pensare che non ne sarebbe uscito vivo. In quell’attimo, terrorizzato, si stupì di quanto poco controllo avesse sul suo corpo: voleva reagire, ma l’orrore lo bloccava, e non riusciva ad impedire a dei gemiti di paura di uscire dalle sue labbra, confondendosi col suo respiro affannato.

Sì, la sua anima era già dannata, su questo non aveva dubbi; ma pensò, nell’angoscia, che sarebbe diventata un’anima inquieta e tormentata in eterno se fosse morto senza la sua vendetta, ucciso da quella mano odiata e sporca di quel sangue di cui lui bramava il riscatto.

Non sapeva però che ormai la trappola tesagli dal veleno era scattata, e che per quanto si affannasse non avrebbe potuto intervenire e bloccare la morsa.

E quando davanti ai suoi occhi passò l’unica scena che l’azione della sua mente non aveva mai creato perché troppo impensabile, troppo assurda, avrebbe voluto urlare, inorridito. Ma prima che potesse farlo, il suo corpo cedette alla fatica e al veleno, stramazzando al suolo.

Nelle sue iridi risplendeva ancora il riflesso di Itachi che gli dava un buffetto sulla fronte, come quando Sasuke era bambino -prima di quella notte funesta, prima della lacerazione e del veleno, quando ancora la realtà non gli pareva così infangata e non pensava che fosse necessario manipolarla mettendo in gioco se stesso.

Dopo quel gesto che ancora la sua mente non aveva accettato, aveva visto suo fratello cadere. Era stramazzato al suolo.

Morto.

La sua anima gridò per il furto di cui era stata vittima, per la vendetta che non aveva potuto compiere direttamente con le sue mani, per la sua debolezza nel momento cruciale, per il sangue che non aveva gustato, per aver infine compreso che era stata vittima di un losco tranello.

Fu sopraffatto dall’ira, e da altre emozioni che non avrebbe potuto descrivere, perché non ricordava di averle mai provate. L’assassino rideva: la sua opera era compiuta e lui era sazio.

Sasuke ancora non capiva perché lo sguardo di Itachi, mentre lo aveva colpito leggermente alla fronte con le dita, fosse tanto velato. Non era più lo sguardo di ghiaccio che lo aveva ossessionato per tutta la vita: credeva di aver visto in quegli occhi ciechi la malinconia, il rimorso, il rimpianto.

 

***

L’aveva bruciato.

Fuoco.

L’aveva rapito.

Carnefice.

L’aveva consumato.

Assassino.

 

E, nel buio in cui era precipitato, gli occhi del morto continuavano a ossessionarlo, ma non quanto quella risata fredda e lontana che continuava a rimbombare nei suoi pensieri, senza sosta. E non riusciva a capire a chi appartenesse, da dove venisse, per quale motivo tormentasse lui, ora un essere senza più obiettivo.

Perché era così che ora si sentiva.

Vuoto.

Aveva dedicato l’intera vita all’omicidio, aveva spezzato la propria anima e i propri legami per lei, la vendetta. Ma adesso che Itachi era morto, solo adesso comprendeva ciò che la sua pure acuta vista non gli aveva permesso di scorgere.

Il fallimento.

Vincitore e al contempo perdente, sopravvissuto e moribondo: nonostante la vittoria, la vita non avrebbe più avuto alcun senso senza l’obiettivo che le dava sapore, senza quel pensiero fisso che gli faceva trascorrere ogni istante. E Sasuke sapeva, come non era mai stato certo di nessun’altra cosa, che in quel momento la sua vita finiva, in quella solitudine che lui stesso si era creato.

La risata continuava ad echeggiare fra le pareti della sua mente. E ad ucciderlo, a dargli il colpo di grazia, fu l’improvvisa consapevolezza che il veleno che in quegli anni l’aveva plasmato e che subdolamente l’aveva sostenuto nel suo proposito di vendetta, era la vendetta stessa.

Lei l’aveva abilmente raggirato, solo ora lo capiva, solo ora la vedeva come era nelle sue vere spoglie.

In quell’esatto momento, la risata cessò.

Era definitivamente solo.

 

Era stato avvelenato, e la sua anima urlava.

 

 

***Fine***

 

 

Sono arrivata seconda partecipando con questa storia al Terzo concorso: Veleno di Immaginaria, in collaborazione con “I diari degli eroi”. Hanno giudicato le storie =Pe= e Lady Butterfly.

Spero che vi sia piaciuta!

Elwerien*

   
 
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