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Autore: La sposa di Ade    10/11/2013    1 recensioni
Yuna agitava i polsi. Duecentoventi circonduzioni in senso orario perfettamente sincronizzate. Lei la osservava con gli occhi bassi e tremava.
“Yuna, smettila”. Piegava il collo come chi teme di essere schiaffeggiata dal vuoto e si curva verso l'esterno con gli occhi socchiusi. “Yuna, ti prego”. Pigiava i denti contro il labbro inferiore, e sospirava un preghiera di fantasmi ancora vivi e astronomi danzanti in una prateria innevata.
“Hato” Un sussurro.
Yuna si spezzava. Sentì le articolazioni srotolarsi come torrenti d'acqua, il ghigno dell'opulenza imperiale, il muso lupesco sulla schiena imperlata di sudore di Yuna, le orecchie furtive come tralci di fulmini.
Yuna si ammazzava.
Genere: Angst, Guerra, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ATTENZIONE: Ambientati nel passato solo i paragrafi interamente in corsivo.

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Aveva gli occhi neri di chi non sarebbe rimasto.
Era una di quelle consapevolezze che non facevano paura, non che non facessero male, di male ne facevano eccome, ma non spaventavano perché era una fine preannunciata e le aveva insegnato che i preavvisi terrorizzano molto meno degli imprevisti.
Le gioie, invece, erano un'altra cosa: accadono così, senza dirti nulla. Quando l’ha trovata, le mani sospese tra i capelli, le labbra chiuse che ingoiavano fatica e frasi perse, quando l’ha trovata, tardi, fra il sangue, era piccola e insignificante e terribilmente piena, dentro, di altre folle e follie varie. Ha sentito come gridava sui suoi passi ed è stato come se le strappassero il cuore.
E degli equilibri e delle lezioni, poi, e della fisica sulla punta delle dita, ne sapeva meno di lei e rideva, “E cosa vuoi che mi importi come diavolo funzionano i tuoni, e poi i lampi, o…”
“No, no, era il contrario, prima i lampi e poi i tuoni.” il problema è che li confondeva sempre, a loro interessava alzare il viso, guardare la pioggia e sentirla così. Diceva che era il suo modo per sentirsi viva. In fondo, ognuno ha il suo, di modo, e non è una cosa così tremenda, anche se per molti è difficile capirla: non ci si vuole sempre sentire vivi, a volte si deve vivere. Non è diverso?
Era importante, allora, importante e bello e non tremendo o spregevole, sapere di essere loro, loro in quel modo unico, e sapere che funzionavano, funzionavano bene, ed erano di una perfezione che non andava dimenticata. Era diverso, ma non c'era nulla di sbagliato.
Ma aveva gli occhi neri di chi non sarebbe rimasto. E tutti gli insegnamenti e le grandi scoperte e le vittorie e le rincorse e la pioggia e tutto, tutto scivolava via nell'attesa delle assenze future. Perché non c'è nulla da fare, per quanto possa non far paura, se una cosa fa male non la si dimentica e non ci si può far nulla, non le si può sfuggire. Lei cercava di farla ridere, le diceva che eravamo in un film di spionaggio, spostava le tende e vedeva gli addii sotto un palo della luce fumare un sigaro ed osservarci.
Nei suoi pensieri, quel gesto, spostare la tenda con mani dolci, prendeva tutto un suo significato particolare, e non vedeva più il male, la malattia, ancora lieve, non c'era più nessun palo, e nessuna luce, nessun addio, solo le sue mani, dentro, e loro, e fuori tutto il resto che non era più nulla. Nei suoi pensieri, lei la vedeva chiuderle dentro una scatola per salvarle dal mondo.
Nei suoi pensieri, spostare la tenda era come aprire gli occhi. Era il momento di svegliarsi.
Ma come ci si sveglia, da un sogno che non resiste alle notti?

I.

“Una volta in una fosca mezzanotte, mentre io meditavo, debole e stanco,
sopra alcuni bizzarri e strani volumi d'una scienza dimenticata;
mentre io chinavo la testa, quasi sonnecchiando - d'un tratto, sentii un colpo leggero,
come di qualcuno che leggermente picchiasse - pichiasse alla porta della mia camera.
-- « È qualche visitatore - mormorai - che batte alla porta della mia camera » --
Questo soltanto, e nulla più.” *

-Non torno, Hato.
Non torno, loro non vogliono.
Siamo un viaggio di carta, lo siamo sempre stati, siamo la rivoluzione di chi ama ma non ha il coraggio di abbandonare le armi.
Siamo troppo forti, Hato, e la violenza distrugge. Sfalda. La violenza non ama. E non abbiamo il tempo di crederci fragili, di crederci possibili.
Non c'è tempo.
Lo sai?-
“Allora non tornerò neanche io.” Una promessa fatta col sangue, infranta, altri segni rossi.

Vive, vive in un'inquietudine sterile dove si trattiene le cosce, intrattiene le angosce, costringe le decisioni a raggiri assassini, non s'accorge, la scintilla di sangue e strascichi mattutini, candidi capelli, o gracili catene, porta dietro qualcosa per non scivolare in avanti.
Immersa nell’ oscurità, ancora, perché quello era il suo luogo sicuro, il suo spazio, quello in cui stare da sola a respirare la sua aria, piena di rabbia e odio.
Non una candela, non un lume, altrimenti non sarebbe potuta restare sola.
Sentiva il cuore, battere pesante, contro lo sterno quasi nel tentativo di uscire, di liberarsi di quella prigione di carne, già largamente occupata di un’ anima marcia, fragile.
Passi lievi, quasi inudibili.
È come riascoltare la propria musica nei passi di un altro: sbagliato, ma irresistibilmente tuo.
Non li avrebbe sentiti se non si fosse immersa nel suo buio.
Eppure era tardi.
“Hato.” Un lievissimo sussurro, non poteva aspettarsi si più che quello, non dopo la guerra.
Si alzò, dirigendosi verso la porta, le sopracciglia aggrottate dal peso che sentiva dentro.
Tentennò.
Tanto non avrebbe dormito comunque, non ci riusciva più, non dopo la guerra.
Aprì la porta e contro la penombra del corridoio stava in piedi un’ esile figura, pelle pallida e dai capelli nerissimi.
Se la chiuse alle spalle, prendendo tra e braccia quell’ esile creatura e chiedendo scusa.
Erano fragili, divise. Erano l’ una il pilastro dell’ altra. Una mente distrutta con un’ anima forte, lei.
Lei che mal sopportava il buio. Lei che, infondo, era ben più forte di Hato.
E Hato, che si consumava nel proprio odio, che apriva le ferite e le lasciava sanguinare, che non si curava.

IV.

Subitamente la mia anima divenne forte; e non esitando più a lungo:
« Signore - dissi - o Signora, veramente io imploro il vostro perdono;
« ma il fatto è che io sonnecchiavo: e voi picchiaste sì leggermente,
« e voi sì lievemente bussaste - bussaste alla porta della mia camera,
« che io ero poco sicuro d'avervi udito ». E a questo punto, aprii intieramente la porta.
Vi era solo la tenebra, e nulla più.

Eravamo la giusta latitudine dei nostri respiri.
Mentre si allontanava nel verso sbagliato, voltando il viso e sorridendo come se fosse pronta a far crollare il mondo dal suo modo eterno e fallace di ruotare. Indifferente agli urti, alle bombe, martire assoluta e giocoliera mosaica di notte, tra chi non ti ha mai amata davvero, e non lo farà mai per una questione di pregiudizio. Di disillusione. Di croci sul petto a cui mentire, senza freni, senza mani, solo voce e lacrime, proprio come l'ipocondria imperiosa che frega i polsi contro ogni sua pelle.
Sei un modo strano di capire, tu.
Un modo tuo di andare a dormire, di voltarmi le spalle, di concedermi un attimo per tremare e accorgertene senza timore, mentre perdo sangue, e c'è chi muore, chi muore dentro.

È quell'acuta immagine da donna automa, da bambina dietro mura di cemento, da adolescente impervia, irrisolta, immancabilmente estranea. Di inquinamento mentale.
Da animale perso. Ai suoi piedi.
Da miracolo indegno, un momento di respiro. Dove piove sotto i piedi, dove si ride senza labbra, al di là di una frontiera umana, come piccole e salubri ossa in cui ogni dolcezza la spezza.
La occlude.
Le cammina vicino esibendo ogni scelta.
Ogni colpa.
Tutte le colpe del mondo. E le sue.
Le persone, chi non ha saputo continuare ad essere umano come lei. Chi ha trovato la salvezza, e ci è corsa dentro senza domandarsi dove fosse, chi l'avesse permessa.
Come uccelli muti, pesanti. Come sterile dolore appena cadi.
Altro dolore, dolore dentro. Con cuore e occhi stanchi, Hato si lascia trascinare dal suo passo lieve, dal tentennare continuo della sua mente.
Di nuovo a letto, di nuovo a non dormire accanto a lei, che le si sarebbe stretta addosso in una morsa famelica, fino alle prime luci del mattino. Hato sarebbe stata lì, con gli occhi aperti, a vegliare. Perché non riusciva a perdonarselo.
Nascosta, in un groviglio di lana e maniche che cadono, fa troppo caldo ma cosa importa, le hanno rubato anche la carne, cosa resta?

VI.

“Ritornando nella camera, con tutta la mia anima in fiamme;
ben presto udii di nuovo battere, un poco più forte di prima.
« Certamente - dissi - certamente è qualche cosa al graticcio della mia finestra ».
Io debbo vedere, perciò, cosa sia, e esplorare questo mistero.
È certo il vento, e nulla più
.”

Lei Sa.
Sa chi torna a casa, e lo spazio è un altro, è troppo in alto per la vita, per distruggere i legami, morire, mente il sole sorge.
“Ti prego. Perdonami”.
Sa chi non ha un tetto sulla testa, e le mura sono altre, sono troppo larghe per le braccia, per accontentarsi dei circoli viziosi, soffocare.
'L'avrei fatto. Se non me l'avessi chiesto'.

Sa la ragione, la distanza, sa chi invecchia se stesso, chi adula l'inverso; da dove cielo è mare, e la terra ha il tuo riflesso. Sa la parlantina svelta sotto al naso sporgente, di chi si ripara, da chi si colpisce; sa chi ha solo zigomi e non ha occhi per ascoltare le labbra.
Lei Sa lettere di giorni, sa viaggi solo suoi, sa di angoli rotondi e pesi minuziosi. Sa la storia di un eterno, il velo sulle loro spalle è l'inverno, sta sul nitido profondo, e si ripara da sé, da loro stesse.
Io So.
La tua spalla è come fosse casa, nonostante io ne varchi la porta e mi manchi la tua cantilena priva di parole, dal soffitto alla parete dirimpetto; però lo so, che lo spazio è un altro e che non ho tetto, come tu hai già deciso.

Tic tac, e denti su denti, negli incubi sudi via il freddo e ti appanni.
Lasciami. Ti prego
. Lasciami adorare il vetro, la tua anima, e quel suono strano da cui siamo nate, senza scegliere le parole, i fiori, e addio.
Dimmelo. A Dio, a me, che non credo.
Dimmelo

“…”
“Perché? Non mi hai perdonato.”

VII.

Quindi io spalancai l'imposta; e con molta civetteria, agitando le ali,
si avanzò un maestoso corvo dei santi giorni d'altri tempi;
egli non fece la menoma riverenza; non esitò, né ristette un istante
ma con aria di Lord o di Lady, si appollaiò sulla porta della mia camera,
s'appollaiò, e s'installò - e nulla più.

Yuna agitava i polsi. Duecentoventi circonduzioni in senso orario perfettamente sincronizzate. Lei la osservava con gli occhi bassi e tremava.
“Yuna, smettila”. Piegava il collo come chi teme di essere schiaffeggiata dal vuoto e si curva verso l'esterno con gli occhi socchiusi. “Yuna, ti prego”. Pigiava i denti contro il labbro inferiore, e sospirava un preghiera di fantasmi ancora vivi e astronomi danzanti in una prateria innevata.
“Hato” Un sussurro.
Yuna si spezzava. Sentì le articolazioni srotolarsi come torrenti d'acqua, il ghigno dell'opulenza imperiale, il muso lupesco sulla schiena imperlata di sudore di Yuna, le orecchie furtive come tralci di fulmini.
Yuna si ammazzava.
Appoggiò la nuca sul suo collo, sciogliendo ogni nodo di pece in dettagli di onice.
“Yuna”. Pianse, strofinando il naso nei capelli di pece che le infarinavano i pensieri. Posò così i polsi contro le anche, trovandoci lo spazio bastabile per riporci tutta la sua immaginazione. Senza apparire realizzabile, se non nel pulsare delle sue ossa. Scrisse. Invocando Yuna, pregandola la leggesse.
Leggimi, Yuna, ti imploro, leggimi.
Sono polvere e sete nella tua mente. Sono inchiostro e morte sulle tue anche.
Accovacciati, Yuna, sono io.

Scritto sulle anche. “Lo so, Yuna, dove sei. Lo vedo anch'io”.

VIII.

Allora, quest'uccello d'ebano, inducendo la mia triste fantasia a sorridere,
con la grave e severa dignità del suo aspetto:
« Sebbene il tuo ciuffo sia tagliato e raso - io dissi - tu non sei certo un vile,
« orrido, torvo e antico corvo errante lontano dalle spiagge della Notte
« dimmi qual' è il tuo nome signorile sulle spiagge avernali della Notte! »
Disse il corvo: « Mai più ».

“Guarda Yuna, avevano ragione: la tramontana, sta arrivando.” Parlò senza pensarci, con gli occhi fissi sulle nuvole che creavano leggerezze cromatiche quasi perfette, come dipinte, c'era una certa logica tra di loro, a partire dai colori, sino a finire nelle forme, insane, anziane, arrancavano una sopra all'altra, a sfiorarsi, a cercarsi, una mestizia insicura che librava nell'aria sin dentro i capelli. E poi il pianto, un pianto secco, ruvido, da fregarsi le mani.
“Yuna, piove, stai tremando, Dio, andiamo via” Si alzò veloce, lo sguardo di chi ha paura sia troppo tardi. Yuna era immobile, rigida, e nonostante questo sapeva di liquido, di delicato, di vetro. Una donna di vetro.
Le prese una mano infilandola tra le sue, fregò piano, a distoglierla da quel gelo, le sussurrava piano, le parole si confondevano, non si capivano, erano lente e troppo veloci al tempo stesso.
Una ninnananna. Le stava cantando una ninnananna. La voce asciutta, glabra, si spingeva in alto e poi tornava giù a toccare, o forse no, a sfiorare, leggiadra, a camminare a piccoli passi sin dentro la pelle, a sciogliere i nodi.
Poggiò la fronte sulla sua, attenta nei gesti, le mani ancora strette, si facevano calore, insieme, si sentivamo, attraverso il corpo, io e te.
La tirò verso di sé con delicatezza, lasciò una mano con lei e l'altra a saggiare il freddo dell'aria, si fece un po' più avanti, guida, e portò con sé la donna di vetro, ora un po' più vera, ora un po' più calda.

IX.

Mi meravigliai molto udendo parlare sì chiaramente questo sgraziato uccello,
sebbene la sua risposta fosse poco sensata - fosse poco a proposito;
poiché non possiamo fare a meno d'ammettere, che nessuna vivente creatura umana,
mai, finora, fu beata dalla visione d'un uccello sulla porta della sua camera,
con un nome siffatto: « Mai più ».

"Sai quante stelle ci sono nel cielo? Il numero giusto per non addormentarsi mai, e non desiderare più di farlo. Mai più. " Le spiegava una mattina, Prima, tra i crisantemi morti sul lavandino che guardava col viso austero di chi assiste a un sacrilegio.
“Se è mai, e poi più, allora io non capisco davvero.” Aveva borbottato tamponando gli steli da cui scivolava il sangue di una vita, senza accorgersi di essersi appena persa nell'incredibile mistero delle parole.

X.

Ma il corvo, appollaiato solitario sul placido busto, profferì solamente
quest'unica parola, come se la sua anima in quest'unica parola avesse effusa.
Niente di nuovo egli pronunziò - nessuna penna egli agitò -
finché in tono appena più forte di un murmure, io dissi: « Altri amici mi hanno già abbandonato,
domani anch'esso mi lascerà, come le mie speranze, che mi hanno già abbandonato ».
Allora, l'uccello disse: « Mai più ».

Erano del loro silenzio di vetro, quei solchi, cicatrici. Bruciavano sotto i muri dell'est, in guerra finita, con i piccoli respiri in fermo, sotto il ghiaccio di un mondo, e il fumo.
Ha una vaga memoria su quelli che furono i suoi anni, e gli anni del sangue, dove vivere con il busto piegato e i piedi bassi era il compito di chi era sopravvissuto, e aveva deciso di non morire. Ricorda di aver pregato, in febbraio, lei che non credeva neppure nel sole, e dormiva con gli occhi mai chiusi, ha l'immagine di loro, alte, erano altissime, il collo inarcato e la camicia sfibrata, sua sorella distesa sopra le gambe, minuscola, zuppa di lacrime, e di estati piccole, poi realmente mai realizzate, mai realmente sua sorella, allora premeva il vetro della finestra contro il naso, e parlava a Dio delle sue libertà, lei che non credeva, numerandole per ordine di importanza, perfettamente allineate, con i gomiti infilzati nei fianchi.
Hanno caricato i tuoni, e hanno fatto fuoco.
E si sono scoperte realmente sole, e di non aver mai perso nient’ altro se non i loro timori per poterci decidere del fato, e mai dei giorni.
Abbiamo finto la vita. Da sane.
Hato ha smesso di vivere, ha incendiato un libro, ha ascoltato i musei dei suoi istanti, privandosi il sorriso come una vendetta distorta, di armi.
Presa dalla malattia.
E tutta quella fame, quel posto, il suo modo di rimarcare il passato per accorgersi che non c’è nulla di salvo, niente di buono è nato.
Avevano smesso di cercarle. Il mare aveva taciuto, gli uomini si erano persi, quell'ultimo anfratto di oceani soccombe al futuro e ai presenti. Uno spettacolo di folli, di padri, minatori, dei e santi, una di storia di storie, reperti, acqua e ferri.
È come raccontare degli astri, e dei pazzi, prima il grido dei sogni, poi le urla.
Alla fine del muro, le hanno trovate.
Hanno chiesto loro a cosa avessero pensato, prima dei fiori, dei solchi, dei santi.
Prima di morire dentro.
Abbiamo scritto con le unghie sui palmi, per non farci vedere.
-A lei.

Guarda, hanno chiuso gli occhi.

XII.

Ma il corvo inducendo ancora tutta la mia triste anima al sorriso,
subito volsi una sedia con ricchi cuscini di fronte all'uccello, al busto e alla porta;
quindi, affondandomi nel velluto, mi misi a concatenare
fantasia a fantasia, pensando che cosa questo sinistro uccello d'altri tempi,
che cosa questo torvo sgraziato orrido scarno e sinistro uccello d'altri tempi
intendeva significare gracchiando: « Mai più ».

La tocca, la pesta, la assale, la vomita, la sfinisce, la acceca, la violenta, la desta, la uccide, la tiene sveglia. Poco tempo per sopravvivere. Piegata sulle sue mani, sangue che scorre come code di serpenti, abbacinante, seducente, pregevole, caldo fluido che la percuote, dolore su carne, dolore dentro la mente, la fede di ciò che le strappa la pelle, e brucia qualsiasi cosa.
Assassina.
Tra il calore del suo magro corpo, tra la lattea purezza che li scivola sul volto perdendo candore, asseconda i suoi tumori, le sue ossee mancanze, lascia che la sterminino con carezze come fruste, e voci come spade, lascia il suo affanno tra le labbra liquide di sudore e le clavicole spezzate in ansimi trattenuti di dolore.
È difesa. Ossessiva, convulsiva, brutale, perfetta. Occhi lucidi di dolore, pupille accese nell'incendio, impregnata di umida tempesta, ascolta. Il crepitare silenzioso dei passi della disfatta, vivida e dorata fierezza che nutre la sua breve corsa, conquistatrice, ladra, regina. Misero dolore inarrestabile, il deserto sotto le unghia, le scapole strette in un abbraccio di vita, desiderio peccaminoso della morte, surreale, la distrazione del tempo, la distruzione di un cuore perso.
Mostrami il cielo. Da sotto le mie lunghe, puerili gambe, mostrami il mondo, sfama il mio corpo, impediscimi di lottare, di amare, ripulisci le mie costole, grigie come sale, piovimi nel mare, assecondami, lasciami capire, permettimi di andare. Nei morti dei tuoi uragani, nei cacciatori di notte, tra i loro alibi, nella fine di tutti i giorni, nell'esercito di uomini che comandi. Baciami. Soave come la terra che mi cedi, i passi di cui mi avverti, le gioie che temi, e da cui mi guarisci. La guerra è per te.
L'ha sentito, l'ha letto, l'ha scritto sotto i polsi, l'ha cantato. “La guerra è per te.” Ha pianto. Ha sorriso, felice, ha volteggiato sui suoi piedi tremando sotto i fulmini, sola rappresentazione dei suoi presagi, oratrice di silenzi, domatrice di ricordi, genitrice di madri sterili.
Sei me. Lo riconosco, lo patisco, lo lavo dalle cosce bruciando di paura, le tue mani strette attorno alla nuca, la consapevolezza di essere amante dei fantasmi, gracile armatura di creta.
Le toglie il respiro. Mentre giace tra i vetri della sua forza, e la sabbia che profuma di pioggia.
Mi raccogli. Come se fossi cosa tua. Solo e soltanto tua.
Acqua salvifica che le scorre negli organi, nella pancia, sulle pallide palpebre.
Strappami. Malattia.

XIV.

Allora mi parve che l'aria si facesse più densa, profumata da un incensiere invisibile,
agiato da Serafini, i cui morbidi passi tintinnavano sul soffice pavimento,
- « Disgraziato! - esclamai - il tuo Dio per mezzo di questi angeli ti à inviato
« il sollievo - il sollievo e il nepente per le tue memorie di Eleonora!
« Tracanna, oh! tracanna questo dolce nepente, e dimentica la perduta Eleonora!
Disse il corvo: « Mai più ».


“Stavo dicendo” Inizia, lasciandola sospirare di pensieri, non è così che si inizia, non quando non stavi dicendo niente.
“Quando è iniziata?” Appunto.
“Mai.” Articola, schiacciandosi un pollice contro le labbra per tamponare il sangue. È una bella risposta, mai, tre lettere, esaustive come un'epopea, quasi da cucirsele sulla pelle e lasciarle tirare, tirare, tirare.
“Mai.” Ripete.
Singhiozza, sfregando il pollice contro il maglione chiaro. “Guardi” Sussurra, dopo un minuto di silenzio, forse meno, chi ti dice se sai contare, mentre sanguini? Si sfila piano il maglione, parte dalle maniche; non ha mai saputo spogliarsi, e non perché ci fosse un uomo al suo cospetto, adesso, ognuno è incapace, nelle proprie mani.
“Cosa stai facendo?” è la prima volta che le dà del tu, gli trema appena la voce, non riesce a vedere, ma l'empatia le dice, le parla, si morde l'interno delle guance. Lei rimane ferma, muove solo il busto, sfila via il collo, lascia scivolare la lana sulla poltroncina marrone, e tira su il viso. La treccia candida ormai è solo un dolce e sinuoso ammasso informe, lascia gli occhi del suo interlocutore alle proprie spalle, la penna gli picchietta sulle unghie, riderebbe, se ne avesse voglia.
“Guardi.” ripete, facendo cadere l'indice sulla spalla sinistra, dall'apice sino alla schiena, sgretolando piano la polvere di emoglobina che le cinge le pelli, tenendole unite.
“Cos'è?” Si incammina verso una risata atona, gira il viso verso l'uomo, e lo osserva. Per un attimo si soffermo sulle gote scavate, bianche, anche se sanno di grigio, come gli occhi, grigi di pioggia, di ricordo. E ricorda anche lei.
“Le piace la neve?” Domanda, traslando il corpo verso di lui, e muovendosi, lenta, lenta, si muove, ma sembra che tutto muova secondo lui, un tentativo di leggerezza, quasi innaturale per lei, che non è Yuna. “A me sì.” E sembra l'inizio, avrebbero dovuto iniziare così, senza dire, stare, quel senso di andare. Torna indietro, una giostra, quello studio, una nave di trenta metri quadri senza mare, puoi respirare, ma devi stare attento a saperti fermare. Poggia le dita contro la porta, trema appena, fuori grandina, il peso del cielo, il peso della terra, sulle sue labbra.
“Chi le ha fatto male?” Lui decide di finire così, lui decide, perché lasciarlo fare? “È statala guerra. Però è successo dopo.” E dire che lì dovrebbe esserci proprio Yuna, non lei, che ha già la morte addosso.

Ha paura, ha paura a tornare a casa.
Ha timore dei suoi occhi, che come specchi le riflettono addosso le sue colpe.
E ancora si scusa con Yuna.

XV.

- « Profeta - io dissi - creatura del male! - certamente profeta, sii tu uccello o demonio! -
- « Sia che il tentatore l'abbia mandato, sia che la tempesta t'abbia gettato qui a riva,
« desolato, ma ancora indomito, su questa deserta terra incantata
« in questa visitata dall'orrore - dimmi, in verità, ti scongiuro -
« Vi è - vi è un balsamo in Galaad? dimmi, dimmi - ti scongiuro. -
Disse il corvo: « Mai più ».

Lei è quella forte, che guarda negli occhi senza timore alcuno, ti tira fuori l’ anima e le lacrime, anche se non ne hai più. Quella che legge, in silenzio dentro gli altri, quella che capisce, ma che non parla.
Uno strato di vetro, lei è trasparente ma dura. È lei. Lei che realmente è, la sua presenza che infesta la casa, come uno spettro nero. Hato è quella fragile, parole sulle labbra, sangue sulle labbra. Lei è quella più morta delle due, perché non ha un suo mondo in testa, vive affianco a Yuna, vive nella realtà, nel passato, e questo la uccide.
Allora sii non umana.” Non parole, ma segni, segni neri sulla carta bianca, perché lei riusciva a leggerla, come quelli rossi che invece lasciavo Hato, involontariamente.
I suoi, quelli di Yuna, erano precisi, belli, erano belle parole, quelle che la guerra le aveva tolto, che aveva perso per la rabbia che divorava e uccideva Hato. Stavamo morendo, morendo dentro.

XVII.

- « Sia questa parola il nostro segno d'addio, uccello o demonio! » - io urlai, balzando in piedi.
« Ritorna nella tempesta e sulla riva avernale della notte!
« Non lasciare nessuna piuma nera come una traccia della menzogna che la tua anima ha profferita!
« Lascia inviolata la mia solitudine! Sgombra il busto sopra la mia porta!
Disse il corvo: « Mai più ».

Le tremano le gambe. Il busto curvato sulle cosce, le spalle strette, troppo strette, la mano che si tocca le labbra, ross di sangue. Le tremano le gambe.
Poggiò le dita sugli occhi chiusi, e pianse. Senza una sola lacrima. "È il suono del tuo tremare. A farmi piangere, Yuna."
Aveva lasciato un fazzoletto bianco, aperto a metà, aveva lasciato una riga di sangue incredibilmente dritta, quasi perfetta, è sicura che fosse l'ultima. Era quasi certa non l'avesse vista.

La mattina si sveglia, e a volte sembra esser tornato l’inverno.

La mattina si sveglia, e a volte vomita sangue come fosse peggiorata la malattia

La mattina si sveglia, e a volte avverte i pianti di una ragazza che mi chiamano, nel passato, nel presente.

La mattina si sveglia, e a volte il colore dei suoi capelli sembra dipingerle l’anima.

La mattina si sveglia, e a volte l'odore di nostalgia la percuote.

La mattina si
sveglia, e a volte si chiede come ha fatto a respirare la prima volta.
La mattina si sveglia, e a volte i suoi occhi che non son verdi, né blu, riescono ad attaccarsi sui suoi.

La mattina si sveglia, e a volte gli anni sono pianeti.

La mattina si sveglia, e a volte una sorella dalla voce bassa la chiama dicendole il suo nome.

La mattina si sveglia, e a volte una sorella
non l’ha neanche.
La mattina si sveglia, e a volte vorrebbe svanire.

La mattina si sveglia, e sbattendo contro il pavimento si rendo conto che la crescita non l’ha res
a meno rotta: cade, e le ossa spezzate son sempre le stesse.
Di notte si rimargina, lei se ne accorge, non dorme.

Sei ancora tu, Rachel. Ma senza spazi dove scrivere.Sai quante stelle ci sono nel cielo? Il numero giusto per non addormentarsi mai, e non desiderare più di farlo. Mai più. Te lo spiegavo una mattina, tra i crisantemi morti sul lavandino che tu guardavi col viso austero di chi assiste a un sacrilegio. 'Se è mai, e poi più, allora io non capisco davvero.' avevi borbottato tamponando gli steli da cui scivolava il sangue di una vita, senza accorgerti di esserti appena persa nell'incredibile mistero delle parole.

XVIII.

E il corvo, non svolazzando mai, ancora si posa, ancora è posato
sul pallido busto di Pallade, sovra la porta della mia stanza,
e i suoi occhi sembrano quelli d'un demonio che sogna;
e la luce della lampada, raggiando su di lui, proietta la sua ombra sul pavimento,
e la mia, fuori di quest'ombra, che giace ondeggiando sul pavimento
non si solleverà mai più!

“Eri del vento. Eri delle cose mai viste, dell'Artico d'inverno, della bassa marea, delle lunghe, lunghissime vie dell'oceano con le lentiggini tra le scapole, come un sogno.
Eri tutto ciò che poteva essere.
Sulla Terra, nelle speranze di ognuno, nelle scelte di chi giace seduto a gambe incrociate in mezzo ad un campo e aspetta la pioggia. Eri una regina senza alcun potere, se non di rendermi una vita unica come tante altre.
Eri Yuna.
Come un graffio di gentilezza sul palmo di una mano.
Sei ancora tu, Yuna.
Ma senza spazi dove scrivere.” Strinse tra le mani il piccolo mazzo di crisantemi, dita macchiate di sangue e terra. Le manca già, con i suoi passi delicati, lo sguardo affilato perso nel suo mondo pulito. Le manca da morire, a lei, che non si sarebbe mai aspettata di rimanere più a lungo di Yuna.

Qualcuno aveva detto che le sarebbe stato utile ‘il corsivo del corsivo’ ora capisco cosa intendeva. Non ho idea di quello che sia successo con l' HTML, scusate, ma sto tentando di rimediare..
Una storia un po’ confusa, dal dubbio genere, ma sapete, quando ci si mette l’ ispirazione e Poe… c’è poco da fare, se ci si mettono anche gli Apocalyptica poi.
Per la poesia de ‘Il corvo’ ho scelto di usare questa traduzione:
* http://www.freaknet.org/martin/libri/Poe/corvo.html trovo adatto il modo in cui viene suddivisa, al contrario di altre, che vengono impostate come un blocco unico (non ho inserito tutti i passaggi!).
Credo che questa storia tratti di guerra e malattie. Di due sopravvissute e sensi di colpa. Non ho voluto specificare cosa è accaduto a Yuna, né perché Hato continui a scusarsi, nonostante si tratti di un fatto che colleghi le due cose e che sia più o meno ben chiaro nella mia mente. Ma ho lasciato piccoli indizi, piccoli piccoli,nei primi paragrafi. I nomi? Beh, il fatto è che aveva in mente una fan fiction (O.O) ma quando mi sono accorta di non essere più in grado di manovrare personaggi non miei senza farli andare OOC ho deciso di mettere insieme le piccole cose che avevo scritto riguardo a due nuovi eventuali personaggi e di creare questa cosa. Ed essendomi abituata a questi nomi ho deciso di lasciarli..
E il finale… se vi è sembrato inaspettato.. credetemi se vi dico che lo è stato anche per me.
Tornando alla poesia di Poe, l’ ho scelta perché la colpa, per Poe, è "perversa", e la perversione è il desiderio di auto-distruzione. È totalmente indifferente alla distinzione della società tra giusto e sbagliato. Il "senso di colpa" è l'inspiegabile ed inesorabile desiderio di ognuno di distruggere "eo ipso" (se stesso). Quindi mi è sembrata adatta. (ringrazio zia Wiki
In conclusione, mi scuso se questa.. cosa vi ha causato confusione, i paragrafi hanno viaggiato tanto tra le pagine prima di trovare una sistemazione adesso ancora dubbia.
Grazie a te, folle, che sei arrivato fino a qui.

  
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