ATTENZIONE: Ambientati
nel passato solo i paragrafi interamente in corsivo.
Era una di quelle
consapevolezze che non facevano paura, non che non facessero male, di
male ne
facevano eccome, ma non spaventavano perché era una fine
preannunciata e le
aveva insegnato che i preavvisi terrorizzano molto meno degli
imprevisti.
Le gioie, invece, erano
un'altra cosa: accadono così, senza dirti nulla. Quando
l’ha trovata, le mani
sospese tra i capelli, le labbra chiuse che ingoiavano fatica e frasi
perse,
quando l’ha trovata, tardi, fra il sangue, era piccola e
insignificante e
terribilmente piena, dentro, di altre folle e follie varie. Ha sentito
come
gridava sui suoi passi ed è stato come se le strappassero il
cuore.
E degli equilibri e
delle lezioni, poi, e della fisica sulla punta delle dita, ne sapeva
meno di lei
e rideva, “E cosa vuoi che mi importi come diavolo funzionano
i tuoni, e poi i
lampi, o…”
“No, no, era il contrario,
prima i lampi e poi i tuoni.” il problema è che li
confondeva sempre, a loro
interessava alzare il viso, guardare la pioggia e sentirla
così. Diceva che era
il suo modo per sentirsi viva. In fondo, ognuno ha il suo, di modo, e
non è una
cosa così tremenda, anche se per molti è
difficile capirla: non ci si vuole
sempre sentire vivi, a volte si deve vivere. Non è diverso?
Era importante,
allora, importante e bello e non tremendo o spregevole, sapere di
essere loro, loro
in quel modo unico, e sapere che funzionavano, funzionavano bene, ed
erano di
una perfezione che non andava dimenticata. Era diverso, ma non c'era
nulla di
sbagliato.
Ma aveva gli occhi neri
di chi non sarebbe rimasto. E tutti gli insegnamenti e le grandi
scoperte e le
vittorie e le rincorse e la pioggia e tutto, tutto scivolava via
nell'attesa
delle assenze future. Perché non c'è nulla da
fare, per quanto possa non far
paura, se una cosa fa male non la si dimentica e non ci si
può far nulla, non
le si può sfuggire. Lei cercava di farla ridere, le diceva
che eravamo in un
film di spionaggio, spostava le tende e vedeva gli addii sotto un palo
della
luce fumare un sigaro ed osservarci.
Nei suoi pensieri,
quel gesto, spostare la tenda con mani dolci, prendeva tutto un suo
significato
particolare, e non vedeva più il male, la malattia, ancora
lieve, non c'era più
nessun palo, e nessuna luce, nessun addio, solo le sue mani, dentro, e
loro, e
fuori tutto il resto che non era più nulla. Nei suoi
pensieri, lei la vedeva
chiuderle dentro una scatola per salvarle dal mondo.
Nei suoi
pensieri, spostare la tenda era come aprire gli occhi. Era il momento
di
svegliarsi.
Ma come ci
si sveglia, da un sogno che non resiste alle notti?
I.
“Una
volta in una fosca mezzanotte, mentre io meditavo, debole e stanco,
sopra alcuni bizzarri e strani volumi d'una scienza dimenticata;
mentre io chinavo la testa, quasi sonnecchiando - d'un tratto, sentii
un colpo
leggero,
come di qualcuno che leggermente picchiasse - pichiasse alla porta
della mia
camera.
-- « È qualche visitatore - mormorai - che batte
alla porta della mia camera »
--
Questo soltanto, e nulla più.” *
-Non
torno, Hato.
Non torno, loro non vogliono.
Siamo un viaggio di
carta, lo siamo sempre stati, siamo la rivoluzione di chi ama ma non ha
il
coraggio di abbandonare le armi.
Siamo troppo forti, Hato, e la violenza distrugge. Sfalda. La violenza
non ama.
E non abbiamo il tempo di crederci fragili, di crederci possibili.
Non c'è tempo.
Lo sai?-
“Allora non tornerò
neanche io.” Una promessa fatta col sangue, infranta, altri
segni rossi.
Immersa nell’ oscurità, ancora, perché
quello era il suo
luogo sicuro, il suo spazio, quello in cui stare da sola a respirare la
sua
aria, piena di rabbia e odio.
Non una candela, non un lume, altrimenti non sarebbe
potuta restare sola.
Sentiva il cuore, battere pesante, contro lo sterno quasi
nel tentativo di uscire, di liberarsi di quella prigione di carne,
già
largamente occupata di un’ anima marcia, fragile.
Passi lievi, quasi inudibili.
È
come riascoltare la propria musica nei passi di un altro: sbagliato,
ma irresistibilmente tuo.
Non li avrebbe sentiti se non si fosse immersa nel suo
buio.
Eppure era tardi.
“Hato.” Un lievissimo sussurro, non poteva
aspettarsi si
più che quello, non dopo la guerra.
Si alzò, dirigendosi verso la porta, le sopracciglia
aggrottate dal peso che sentiva dentro.
Tentennò.
Tanto non avrebbe dormito comunque, non ci riusciva più,
non dopo la guerra.
Aprì la porta e contro la penombra del corridoio stava in
piedi un’ esile figura, pelle pallida e dai capelli nerissimi.
Se la chiuse alle spalle, prendendo tra e braccia quell’
esile creatura e chiedendo scusa.
Erano fragili, divise. Erano l’ una il pilastro
dell’
altra. Una mente distrutta con un’ anima forte, lei.
Lei che mal sopportava il buio. Lei che, infondo, era ben
più forte di Hato.
E Hato, che si consumava nel proprio odio, che apriva le
ferite e le lasciava sanguinare, che non si curava.
IV.
Subitamente
la mia anima divenne forte; e non esitando più a lungo:
« Signore - dissi - o Signora, veramente io imploro il vostro
perdono;
« ma il fatto è che io sonnecchiavo: e voi
picchiaste sì leggermente,
« e voi sì lievemente bussaste - bussaste alla
porta della mia camera,
« che io ero poco sicuro d'avervi udito ». E a
questo punto, aprii intieramente
la porta.
Vi era solo la tenebra, e nulla più.
Mentre si allontanava nel verso sbagliato, voltando il
viso e sorridendo come se fosse pronta a far crollare il mondo dal suo
modo
eterno e fallace di ruotare. Indifferente agli urti, alle bombe,
martire
assoluta e giocoliera mosaica di notte, tra chi non ti ha mai amata
davvero, e
non lo farà mai per una questione di pregiudizio. Di
disillusione. Di croci sul
petto a cui mentire, senza freni, senza mani, solo voce e lacrime,
proprio come
l'ipocondria imperiosa che frega i polsi contro ogni sua pelle.
Sei un modo strano
di capire, tu.
Un modo tuo di
andare a dormire, di voltarmi le spalle, di concedermi un attimo per
tremare e
accorgertene senza timore, mentre perdo sangue, e c'è chi
muore, chi muore
dentro.
È quell'acuta immagine da donna automa, da bambina dietro
mura di cemento, da adolescente impervia, irrisolta, immancabilmente
estranea. Di
inquinamento mentale.
Da animale perso. Ai suoi piedi.
Da miracolo indegno, un momento di respiro. Dove piove
sotto i piedi, dove si ride senza labbra, al di là di una
frontiera umana, come
piccole e salubri ossa in cui ogni dolcezza la spezza.
La occlude.
Le cammina vicino esibendo ogni scelta.
Ogni colpa.
Tutte le colpe del mondo. E le sue.
Le persone, chi non ha saputo continuare ad essere umano
come lei. Chi ha trovato la salvezza, e ci è corsa dentro
senza domandarsi dove
fosse, chi l'avesse permessa.
Come uccelli muti, pesanti. Come sterile dolore appena
cadi.
Altro dolore, dolore dentro. Con cuore e occhi stanchi,
Hato si lascia trascinare dal suo passo lieve, dal tentennare continuo
della
sua mente.
Di nuovo a letto, di nuovo a non dormire accanto a lei,
che le si sarebbe stretta addosso in una morsa famelica, fino alle
prime luci
del mattino. Hato sarebbe stata lì, con gli occhi aperti, a
vegliare. Perché
non riusciva a perdonarselo.
Nascosta, in un groviglio di lana e maniche che cadono,
fa troppo caldo ma cosa importa, le hanno rubato anche la carne, cosa
resta?
VI.
“Ritornando
nella camera, con tutta la mia anima in
fiamme;
ben presto udii di nuovo battere, un poco più forte di prima.
« Certamente - dissi - certamente è qualche cosa
al graticcio della mia
finestra ».
Io debbo vedere, perciò, cosa sia, e esplorare questo
mistero.
È certo il vento, e nulla più.”
Sa chi torna a casa, e lo spazio è un altro, è troppo in alto per la vita, per distruggere i legami, morire, mente il sole sorge.
“Ti prego. Perdonami”.
Sa chi non ha un tetto sulla testa, e le mura sono altre, sono troppo larghe per le braccia, per accontentarsi dei circoli viziosi, soffocare.
'L'avrei fatto. Se non me l'avessi chiesto'.
Sa la ragione, la distanza, sa chi invecchia se stesso, chi adula l'inverso; da dove cielo è mare, e la terra ha il tuo riflesso. Sa la parlantina svelta sotto al naso sporgente, di chi si ripara, da chi si colpisce; sa chi ha solo zigomi e non ha occhi per ascoltare le labbra.
Lei Sa lettere di giorni, sa viaggi solo suoi, sa di angoli rotondi e pesi minuziosi. Sa la storia di un eterno, il velo sulle loro spalle è l'inverno, sta sul nitido profondo, e si ripara da sé, da loro stesse.
Io So.
La tua spalla è come fosse casa, nonostante io ne varchi la porta e mi manchi la tua cantilena priva di parole, dal soffitto alla parete dirimpetto; però lo so, che lo spazio è un altro e che non ho tetto, come tu hai già deciso.
Tic tac, e denti su denti, negli incubi sudi via il freddo e ti appanni.
Lasciami. Ti prego. Lasciami adorare il vetro, la tua anima, e quel suono strano da cui siamo nate, senza scegliere le parole, i fiori, e addio.
Dimmelo. A Dio, a me, che non credo.
Dimmelo
“…”
“Perché? Non mi hai perdonato.”
VII.
Quindi
io spalancai l'imposta; e con molta civetteria,
agitando le ali,
si avanzò un maestoso corvo dei santi giorni d'altri tempi;
egli non fece la menoma riverenza; non esitò, né
ristette un istante
ma con aria di Lord o di Lady, si appollaiò sulla porta
della mia camera,
s'appollaiò, e s'installò - e nulla
più.
Yuna agitava i polsi.
Duecentoventi circonduzioni in
senso orario perfettamente sincronizzate. Lei la osservava con gli
occhi bassi
e tremava.
“Yuna, smettila”. Piegava il collo come chi teme di
essere schiaffeggiata dal vuoto e si curva verso l'esterno con gli
occhi
socchiusi. “Yuna, ti prego”. Pigiava i denti contro
il labbro inferiore, e
sospirava un preghiera di fantasmi ancora vivi e astronomi danzanti in
una
prateria innevata.
“Hato” Un sussurro.
Yuna si spezzava.
Sentì le articolazioni srotolarsi come torrenti d'acqua, il
ghigno
dell'opulenza imperiale, il muso lupesco sulla schiena imperlata di
sudore di
Yuna, le orecchie furtive come tralci di fulmini.
Yuna si ammazzava.
Appoggiò la nuca sul suo collo, sciogliendo ogni nodo di
pece in dettagli di onice.
“Yuna”. Pianse, strofinando il naso nei capelli di
pece
che le infarinavano i pensieri. Posò così i polsi
contro le anche, trovandoci
lo spazio bastabile per riporci tutta la sua immaginazione. Senza
apparire
realizzabile, se non nel pulsare delle sue ossa. Scrisse. Invocando
Yuna,
pregandola la leggesse.
Leggimi, Yuna, ti
imploro, leggimi.
Sono polvere e sete
nella tua mente. Sono inchiostro e morte sulle tue anche.
Accovacciati, Yuna,
sono io.
Scritto sulle anche.
“Lo so, Yuna, dove sei. Lo vedo anch'io”.
VIII.
Allora,
quest'uccello d'ebano, inducendo la mia triste
fantasia a sorridere,
con la grave e severa dignità del suo aspetto:
« Sebbene il tuo ciuffo sia tagliato e raso - io dissi - tu
non sei certo un
vile,
« orrido, torvo e antico corvo errante lontano dalle spiagge
della Notte
« dimmi qual' è il tuo nome signorile sulle
spiagge avernali della Notte! »
Disse il corvo: « Mai più ».
“Guarda Yuna, avevano
ragione: la tramontana, sta
arrivando.” Parlò senza pensarci, con gli occhi
fissi sulle nuvole che creavano
leggerezze cromatiche quasi perfette, come dipinte, c'era una certa
logica tra
di loro, a partire dai colori, sino a finire nelle forme, insane,
anziane,
arrancavano una sopra all'altra, a sfiorarsi, a cercarsi, una mestizia
insicura
che librava nell'aria sin dentro i capelli. E poi il pianto, un pianto
secco,
ruvido, da fregarsi le mani.
“Yuna, piove, stai tremando, Dio, andiamo via” Si
alzò
veloce, lo sguardo di chi ha paura sia troppo tardi. Yuna era immobile,
rigida,
e nonostante questo sapeva di liquido, di delicato, di vetro. Una donna
di
vetro.
Le prese una mano infilandola tra le sue, fregò piano, a
distoglierla da quel gelo, le sussurrava piano, le parole si
confondevano, non
si capivano, erano lente e troppo veloci al tempo stesso.
Una ninnananna. Le
stava cantando una ninnananna. La voce asciutta, glabra, si spingeva in
alto e
poi tornava giù a toccare, o forse no, a sfiorare,
leggiadra, a camminare a
piccoli passi sin dentro la pelle, a sciogliere i nodi.
Poggiò la fronte sulla sua, attenta nei gesti, le mani
ancora strette, si facevano calore, insieme, si sentivamo, attraverso
il corpo, io e te.
La tirò verso di sé con delicatezza,
lasciò una mano con
lei e l'altra a saggiare il freddo dell'aria, si fece un po'
più avanti, guida,
e portò con sé la donna di vetro, ora un po'
più vera, ora un po' più calda.
IX.
Mi
meravigliai molto udendo parlare sì chiaramente
questo sgraziato uccello,
sebbene la sua risposta fosse poco sensata - fosse poco a proposito;
poiché non possiamo fare a meno d'ammettere, che nessuna
vivente creatura
umana,
mai, finora, fu beata dalla visione d'un uccello sulla porta della sua
camera,
con un nome siffatto: « Mai più ».
"Sai
quante
stelle ci sono nel cielo? Il numero giusto per non addormentarsi mai, e
non
desiderare più di farlo. Mai più. " Le spiegava
una mattina, Prima, tra i crisantemi
morti sul lavandino che
guardava col viso austero di chi assiste a un sacrilegio.
“Se è mai, e poi
più, allora io non capisco davvero.” Aveva
borbottato tamponando gli steli da
cui scivolava il sangue di una vita, senza accorgersi di essersi appena
persa
nell'incredibile mistero delle parole.
X.
Ma
il corvo, appollaiato solitario sul placido busto,
profferì solamente
quest'unica parola, come se la sua anima in quest'unica parola avesse
effusa.
Niente di nuovo egli pronunziò - nessuna penna egli
agitò -
finché in tono appena più forte di un murmure, io
dissi: « Altri amici mi hanno
già abbandonato,
domani anch'esso mi lascerà, come le mie speranze, che mi
hanno già abbandonato
».
Allora, l'uccello disse: « Mai più ».
Erano del loro silenzio di vetro,
quei solchi, cicatrici.
Bruciavano sotto i muri dell'est, in guerra finita, con i piccoli
respiri in
fermo, sotto il ghiaccio di un mondo, e il fumo.
Ha una vaga memoria su quelli che furono i suoi anni, e
gli anni del sangue, dove vivere con il busto piegato e i piedi bassi
era il
compito di chi era sopravvissuto, e aveva deciso di non morire. Ricorda
di aver
pregato, in febbraio, lei che non credeva neppure nel sole, e dormiva
con gli
occhi mai chiusi, ha l'immagine di loro, alte, erano altissime, il
collo
inarcato e la camicia sfibrata, sua sorella distesa sopra le gambe,
minuscola,
zuppa di lacrime, e di estati piccole, poi realmente mai realizzate,
mai
realmente sua sorella, allora premeva il vetro della finestra contro il
naso, e
parlava a Dio delle sue libertà, lei che non credeva,
numerandole per ordine di
importanza, perfettamente allineate, con i gomiti infilzati nei fianchi.
Hanno caricato i tuoni, e hanno fatto fuoco.
E si sono scoperte realmente sole, e di non aver mai
perso nient’ altro se non i loro timori per poterci decidere
del fato, e mai
dei giorni.
Abbiamo finto la
vita. Da sane.
Hato ha smesso di vivere, ha incendiato un libro, ha
ascoltato i musei dei suoi istanti, privandosi il sorriso come una
vendetta
distorta, di armi.
Presa dalla malattia.
E tutta quella fame, quel posto, il suo modo di rimarcare
il passato per accorgersi che non c’è nulla di
salvo, niente di buono è nato.
Avevano smesso di cercarle. Il mare aveva taciuto, gli
uomini si erano persi, quell'ultimo anfratto di oceani soccombe al
futuro e ai
presenti. Uno spettacolo di folli, di padri, minatori, dei e santi, una
di
storia di storie, reperti, acqua e ferri.
È come raccontare degli astri, e dei pazzi, prima il
grido dei sogni, poi le urla.
Alla fine del muro, le hanno trovate.
Hanno chiesto loro a cosa avessero pensato, prima dei
fiori, dei solchi, dei santi.
Prima di morire dentro.
Abbiamo scritto con le unghie sui palmi, per non farci
vedere.
-A lei.
Guarda, hanno
chiuso gli occhi.
XII.
Ma
il corvo inducendo ancora tutta la mia triste anima
al sorriso,
subito volsi una sedia con ricchi cuscini di fronte all'uccello, al
busto e
alla porta;
quindi, affondandomi nel velluto, mi misi a concatenare
fantasia a fantasia, pensando che cosa questo sinistro uccello d'altri
tempi,
che cosa questo torvo sgraziato orrido scarno e sinistro uccello
d'altri tempi
intendeva significare gracchiando: « Mai più
».
La tocca, la pesta, la assale, la
vomita, la sfinisce, la
acceca, la violenta, la desta, la uccide, la tiene sveglia. Poco tempo
per
sopravvivere. Piegata sulle sue mani, sangue che scorre come code di
serpenti,
abbacinante, seducente, pregevole, caldo fluido che la percuote, dolore
su
carne, dolore dentro la mente, la fede di ciò che le strappa
la pelle, e brucia
qualsiasi cosa.
Assassina.
Tra il calore del suo magro corpo, tra la lattea purezza
che li scivola sul volto perdendo candore, asseconda i suoi tumori, le
sue
ossee mancanze, lascia che la sterminino con carezze come fruste, e
voci come
spade, lascia il suo affanno tra le labbra liquide di sudore e le
clavicole
spezzate in ansimi trattenuti di dolore.
È difesa. Ossessiva, convulsiva, brutale, perfetta. Occhi
lucidi di dolore, pupille accese nell'incendio, impregnata di umida
tempesta,
ascolta. Il crepitare silenzioso dei passi della disfatta, vivida e
dorata
fierezza che nutre la sua breve corsa, conquistatrice, ladra, regina.
Misero
dolore inarrestabile, il deserto sotto le unghia, le scapole strette in
un
abbraccio di vita, desiderio peccaminoso della morte, surreale, la
distrazione
del tempo, la distruzione di un cuore perso.
Mostrami il cielo.
Da sotto le mie lunghe, puerili gambe, mostrami il mondo, sfama il mio
corpo,
impediscimi di lottare, di amare, ripulisci le mie costole, grigie come
sale,
piovimi nel mare, assecondami, lasciami capire, permettimi di andare.
Nei morti dei tuoi uragani, nei cacciatori
di notte, tra i loro alibi, nella fine di tutti i giorni, nell'esercito
di
uomini che comandi. Baciami. Soave come la terra che mi cedi, i passi
di cui mi
avverti, le gioie che temi, e da cui mi guarisci. La guerra è per te.
L'ha sentito, l'ha letto, l'ha scritto sotto i polsi,
l'ha cantato. “La guerra è per te.” Ha
pianto. Ha sorriso, felice, ha volteggiato sui suoi piedi tremando
sotto i
fulmini, sola rappresentazione dei suoi presagi, oratrice di silenzi,
domatrice
di ricordi, genitrice di madri sterili.
Sei me. Lo
riconosco, lo patisco, lo lavo dalle cosce bruciando di paura, le tue
mani
strette attorno alla nuca, la consapevolezza di essere amante dei
fantasmi,
gracile armatura di creta.
Le toglie il respiro. Mentre giace tra i vetri della sua forza,
e la sabbia che profuma di pioggia.
Mi raccogli. Come
se fossi cosa tua. Solo e soltanto tua.
Acqua salvifica che le scorre negli organi, nella pancia,
sulle pallide palpebre.
Strappami.
Malattia.
XIV.
Allora
mi parve che l'aria si facesse più densa,
profumata da un incensiere invisibile,
agiato da Serafini, i cui morbidi passi tintinnavano sul soffice
pavimento,
- « Disgraziato! - esclamai - il tuo Dio per mezzo di questi
angeli ti à
inviato
« il sollievo - il sollievo e il nepente per le tue memorie
di Eleonora!
« Tracanna, oh! tracanna questo dolce nepente, e dimentica la
perduta Eleonora!
Disse il corvo: « Mai più ».
“Stavo
dicendo” Inizia, lasciandola sospirare di
pensieri, non è così che si inizia, non quando
non stavi dicendo niente.
“Quando è iniziata?” Appunto.
“Mai.” Articola, schiacciandosi un pollice contro
le
labbra per tamponare il sangue. È una bella risposta, mai,
tre lettere,
esaustive come un'epopea, quasi da cucirsele sulla pelle e lasciarle
tirare,
tirare, tirare.
“Mai.” Ripete.
Singhiozza, sfregando il pollice contro il maglione
chiaro. “Guardi” Sussurra, dopo un minuto di
silenzio, forse meno, chi ti dice se
sai contare, mentre sanguini? Si sfila piano il maglione, parte dalle
maniche;
non ha mai saputo spogliarsi, e non perché ci fosse un uomo
al suo cospetto,
adesso, ognuno è incapace, nelle proprie mani.
“Cosa stai
facendo?” è la prima volta che le dà
del tu, gli trema appena la voce, non
riesce a vedere, ma l'empatia le dice, le parla, si morde l'interno
delle
guance. Lei rimane ferma, muove solo il busto, sfila via il collo,
lascia
scivolare la lana sulla poltroncina marrone, e tira su il viso. La
treccia
candida ormai è solo un dolce e sinuoso ammasso informe,
lascia gli occhi del
suo interlocutore alle proprie spalle, la penna gli picchietta sulle
unghie,
riderebbe, se ne avesse voglia.
“Guardi.” ripete, facendo cadere l'indice sulla
spalla
sinistra, dall'apice sino alla schiena, sgretolando piano la polvere di
emoglobina che le cinge le pelli, tenendole unite.
“Cos'è?” Si incammina verso una risata
atona, gira il
viso verso l'uomo, e lo osserva. Per un attimo si soffermo sulle gote
scavate,
bianche, anche se sanno di grigio, come gli occhi, grigi di pioggia, di
ricordo. E ricorda anche lei.
“Le piace la neve?” Domanda, traslando il corpo
verso di
lui, e muovendosi, lenta, lenta, si muove, ma sembra che tutto muova
secondo
lui, un tentativo di leggerezza, quasi innaturale per lei, che non
è Yuna. “A
me sì.” E sembra l'inizio, avrebbero dovuto
iniziare così, senza dire, stare,
quel senso di andare. Torna indietro, una giostra, quello studio, una
nave di
trenta metri quadri senza mare, puoi respirare, ma devi stare attento a
saperti
fermare. Poggia le dita contro la porta, trema appena, fuori grandina,
il peso
del cielo, il peso della terra, sulle sue labbra.
“Chi le ha fatto male?” Lui decide di finire
così, lui decide,
perché lasciarlo fare? “È statala
guerra. Però è successo dopo.” E dire
che lì
dovrebbe esserci proprio Yuna, non lei, che ha già la morte
addosso.
Ha paura, ha paura a tornare a casa.
Ha timore dei suoi occhi, che come specchi le riflettono
addosso le sue colpe.
E ancora si scusa con Yuna.
XV.
-
« Profeta - io dissi - creatura del male! -
certamente profeta, sii tu uccello o demonio! -
- « Sia che il tentatore l'abbia mandato, sia che la tempesta
t'abbia gettato
qui a riva,
« desolato, ma ancora indomito, su questa deserta terra
incantata
« in questa visitata dall'orrore - dimmi, in
verità, ti scongiuro -
« Vi è - vi è un balsamo in Galaad?
dimmi, dimmi - ti scongiuro. -
Disse il corvo: « Mai più ».
Lei è quella forte, che
guarda negli occhi senza timore
alcuno, ti tira fuori l’ anima e le lacrime, anche se non ne
hai più. Quella
che legge, in silenzio dentro gli altri, quella che capisce, ma che non
parla.
Uno strato di vetro, lei è trasparente ma dura. È
lei.
Lei che realmente è, la sua presenza che infesta la casa,
come uno spettro
nero. Hato è quella fragile, parole sulle labbra, sangue
sulle labbra. Lei è
quella più
morta delle due, perché non
ha un suo mondo in testa, vive affianco a Yuna, vive nella
realtà, nel passato,
e questo la uccide.
“Allora sii non
umana.” Non parole, ma segni, segni neri sulla
carta bianca, perché lei
riusciva a leggerla, come quelli rossi che invece lasciavo Hato,
involontariamente.
I suoi, quelli di Yuna, erano precisi, belli, erano belle
parole, quelle che la guerra le aveva tolto, che aveva perso per la
rabbia che divorava
e uccideva Hato. Stavamo morendo, morendo dentro.
XVII.
-
« Sia questa parola il nostro segno d'addio, uccello
o demonio! » - io urlai, balzando in piedi.
« Ritorna nella tempesta e sulla riva avernale della notte!
« Non lasciare nessuna piuma nera come una traccia della
menzogna che la tua
anima ha profferita!
« Lascia inviolata la mia solitudine! Sgombra il busto sopra
la mia porta!
Disse il corvo: « Mai più ».
Le tremano le gambe. Il busto
curvato sulle cosce, le
spalle strette, troppo strette, la mano che si tocca le labbra, ross di
sangue.
Le tremano le gambe.
Poggiò le dita sugli occhi chiusi, e pianse. Senza una
sola lacrima. "È il suono del tuo tremare. A farmi piangere,
Yuna."
Aveva lasciato un fazzoletto bianco, aperto a metà, aveva
lasciato una riga di sangue incredibilmente dritta, quasi perfetta,
è sicura
che fosse l'ultima. Era quasi certa non l'avesse vista.
La mattina si sveglia, e a
volte sembra esser tornato l’inverno.
La mattina si sveglia, e a
volte vomita sangue come fosse peggiorata la malattia
La mattina si sveglia, e a
volte avverte i pianti di una ragazza che mi chiamano, nel passato, nel
presente.
La mattina si sveglia, e a
volte il colore dei suoi capelli sembra dipingerle l’anima.
La mattina si sveglia, e a
volte l'odore di nostalgia la percuote.
La mattina si sveglia, e a volte si chiede
come ha fatto a respirare la prima volta.
La mattina si sveglia, e a
volte i suoi occhi che non son verdi, né blu, riescono ad
attaccarsi sui suoi.
La mattina si sveglia, e a
volte gli anni sono pianeti.
La mattina si sveglia, e a
volte una sorella dalla voce bassa la chiama dicendole il suo nome.
La mattina si sveglia, e a
volte una sorella non l’ha neanche.
La mattina si sveglia, e a
volte vorrebbe svanire.
La mattina si sveglia, e
sbattendo contro il pavimento si rendo conto che la crescita non
l’ha resa meno rotta: cade, e
le ossa spezzate son sempre le stesse.
Di notte si rimargina, lei
se ne accorge, non dorme.
XVIII.
E
il corvo, non svolazzando mai, ancora si posa,
ancora è posato
sul pallido busto di Pallade, sovra la porta della mia stanza,
e i suoi occhi sembrano quelli d'un demonio che sogna;
e la luce della lampada, raggiando su di lui, proietta la sua ombra sul
pavimento,
e la mia, fuori di quest'ombra, che giace ondeggiando sul pavimento
non si solleverà mai più!
“Eri del vento. Eri
delle cose mai viste, dell'Artico
d'inverno, della bassa marea, delle lunghe, lunghissime vie dell'oceano
con le
lentiggini tra le scapole, come un sogno.
Eri tutto ciò che poteva essere.
Sulla Terra, nelle speranze di ognuno, nelle scelte di
chi giace seduto a gambe incrociate in mezzo ad un campo e aspetta la
pioggia.
Eri una regina senza alcun potere, se non di rendermi una vita unica
come tante
altre.
Eri Yuna.
Come un graffio di gentilezza sul palmo di una mano.
Sei ancora tu, Yuna.
Ma senza spazi dove scrivere.” Strinse tra le mani il
piccolo mazzo di crisantemi, dita macchiate di sangue e terra. Le manca
già,
con i suoi passi delicati, lo sguardo affilato perso nel suo mondo
pulito. Le manca
da morire, a lei, che non si sarebbe mai aspettata di rimanere
più a lungo di
Yuna.
Qualcuno aveva detto che le
sarebbe stato utile ‘il
corsivo del corsivo’ ora capisco cosa intendeva. Non ho idea
di quello che sia successo con l' HTML, scusate, ma sto tentando di
rimediare..
Una storia un po’ confusa, dal dubbio genere, ma sapete,
quando ci si mette l’ ispirazione e Poe…
c’è poco da fare, se ci si mettono
anche gli Apocalyptica poi.
Per la poesia de ‘Il corvo’ ho scelto di usare
questa
traduzione:
* http://www.freaknet.org/martin/libri/Poe/corvo.html
trovo adatto il modo in cui viene suddivisa, al contrario di altre, che
vengono
impostate come un blocco unico (non ho inserito tutti i passaggi!).
Credo che questa storia tratti di guerra e malattie. Di due
sopravvissute e sensi di colpa. Non ho voluto specificare cosa
è accaduto a
Yuna, né perché Hato continui a scusarsi,
nonostante si tratti di un fatto che
colleghi le due cose e che sia più o meno ben chiaro nella
mia mente. Ma ho lasciato
piccoli indizi, piccoli piccoli,nei primi paragrafi. I nomi? Beh, il
fatto è
che aveva in mente una fan fiction (O.O) ma quando mi sono accorta di
non
essere più in grado di manovrare personaggi non miei senza
farli andare OOC ho
deciso di mettere insieme le piccole cose che avevo scritto riguardo a
due
nuovi eventuali personaggi e di creare questa cosa. Ed essendomi
abituata a
questi nomi ho deciso di lasciarli..
E il finale… se vi è sembrato inaspettato..
credetemi se
vi dico che lo è stato anche per me.
Tornando alla poesia di Poe, l’ ho scelta perché
la
colpa, per Poe, è "perversa", e la perversione è
il desiderio di
auto-distruzione. È totalmente indifferente alla distinzione
della società tra
giusto e sbagliato. Il "senso di colpa" è l'inspiegabile ed
inesorabile desiderio di ognuno di distruggere "eo ipso"
(se stesso). Quindi mi
è sembrata adatta. (ringrazio zia Wiki
In conclusione, mi scuso se questa.. cosa vi ha causato confusione,
i paragrafi hanno viaggiato tanto tra le pagine prima di trovare una
sistemazione adesso ancora dubbia.
Grazie a te, folle, che sei arrivato fino a qui.