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Autore: Val_Ser    13/11/2013    1 recensioni
La raccolta di chiusura di Primari. Ogni colore primario ha un colore complementare, che idealmente chiude questo breve ciclo. Altre vite che si intrecciano, con cui venire a compromessi, da prendere per mano per buttarsi nel mondo.
Verde - Pantone 358: A me pare che tu vada oltre le cose. Allora perché le vuoi perdere, Rodya? Non sarebbe meglio strappare coi denti, azzannare tutto ciò che può farti del bene? È un modo violento e bellissimo di vivere, secondo me.
Viola - Pantone 2265: Credevano fosse davvero un disordine? Quello stato di rigore eterno era quanto più lontano possibile dal disordine. Era il pieno controllo su se stessa. Come poteva prevedere quello che sette miliardi di persone al mondo fossero in grado di fare? Il mondo esterno ruotava e rivoluzionava intorno a lei. Il suo mondo interno si arricchiva tanto più quanto lei diminuiva.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
Capitoli:
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"Ogni colore dunque, per essere visto, deve avere una luce in appoggio.
Ne deriva perciò che quanto più chiari e luminosi sono i sostrati, tanto più belli appaiono i colori."

Della teoria dei colori, Johann Wolfgang von Goethe.




Verde
Pantone 358

 
            Io non so davvero cosa ci possa fare uno come te a Kotelniki.
            È una città piccola e di merda (ed è una città solo dal 2004, pensa!) e tu eri qui. Che ci facevi?
            Prima che tu strappi questa lettera in mille pezzi, lo so. So che è al limite della normalità e oltre quello della decenza, però eri qui. Secondo me sei uno di quelli che passa e tutti si girano a guardarlo. Forse non dovrei essere così diretto però ho ancora negli occhi la forma delle tue spalle, quelle due effe di violino tatuate sulla nuca. È stato il primo dettaglio che ho notato di te.
            Scusa se hai trovato questa lettera nella cassetta della posta. Ho visto che eri con Babushka Sonya. So dove abita, scusa ancora se ti ho disturbato, ma è impossibile non conoscere chi ci porta i rifornimenti di tessuto. Forse vivi con lei da un po’, forse sei venuto a trovarla perché è una tua parente. Se fossi venuto altre volte, ti avrei notato.
            Non so cosa voglio ottenere con tutto questo, ma il tatuaggio che faceva capolino dalla sciarpa nera mi ha immobilizzato. Come i tuoi occhi. Non ho mai visto occhi così neri e profondi.
            Scusa, scusa e scusa ancora.
            Non voglio rivederti o importunarti, se tu non vorrai. Ma se invece lo vorrai, io mi chiamo Rodya. Lavoro qui, come commesso, alla sartoria. Spero resterai un poco. Spero di rivederti in giro.
 

 
*
 
           
            Caro Rodya,
            io non so che dire. Mia nonna non capiva come potesse esserci posta per me alle sette di sera, quando siamo rientrati in casa. Scrivere ‘il ragazzo con le effe di violino e la sciarpa nera’ come destinatario, l’ha lasciata perplessa. Ha detto che nessuna ragazza di Kotelniki sarebbe abbastanza sfacciata da fare una cosa del genere. Infatti, nessuna ragazza.
            Per questo mi lasci senza parole. Non intendo metterti in imbarazzo, ma ho una fidanzata, Yeva, a Mosca. Studio violino da dieci anni, ecco il perché di quel tatuaggio. Sono da mia nonna ancora per qualche settimana, per le vacanze di Natale.
            Mia madre è incinta di mia sorella Nastya, e quindi non era consigliabile mettersi in viaggio a poche settimane dal parto. Sono sceso io dalla nonna, così i miei genitori avranno un po’ di tempo per loro. È incredibile che a vent’anni diventerò un fratello maggiore, devo ancora abituarmi all’idea.
            Perdonami, sto divagando. Potrei cancellare le parti inutili e scriverci su ma non sono abituato a fare così. Io tengo tutto, anche gli errori.
            Però non so se voglio sentirti o vederti ancora. Non è una cosa che mi fa piacere, insomma. Sembri un ragazzo splendido ma non sono interessato a questo genere di cose. Però perché dirti ‘No, non scrivermi più!’, se rimarrò ancora un po’? Non ho amici qui, qualche lettera consegnata a mano, di nascosto, in silenzio, può essere divertente.
            Però non sono come te, Rodya. Non mi fanno schifo gli omosessuali o altro, però non sono come te. Amo tantissimo Yeva. Forse, quando sarò un violinista affermato, vorrò sposarla. Renderebbe felici molte persone.
            Aspetto una tua risposta, se vorrai.
            Aleksei        
 

 
*
 
 
            Aleksei.
            Sapevo che dovevi avere un nome simile. Aleksei, Aleksandr.
 
            Non capisco quello che intendi. Mi hai detto che non sei omosessuale ma che vuoi scrivermi. E vuoi che io ti scriva. Quanto tempo rimarrai ancora a Kotelniki? Per la tua felicità, vorrei che dicessi ‘poco’. Per la mia, vorrei ‘tanto’.
            Questo fa di me un omosessuale? Non ti ho mica chiesto di succhiartelo, scusami la volgarità. Mi sa che è una di quelle cose che non ti si addice.
            Pensano sempre che se un maschio guarda un altro maschio, allora ecco i gay. Ma chi se ne frega, dico io. Sono stato con Valeriya, una ragazza del mio liceo, per tre anni. Allora sono un omosessuale? E che ne so. No, davvero, non lo so.
            So solo che ho sognato i tuoi occhi neri, questo pomeriggio. Ho trovato la tua lettera incastrata nello stipite della porta di servizio. Molto furbo, Aleksei! Chissà a che ora devi esserti svegliato per infilarla lì in mezzo, se il negozio apre alle dieci del mattino.
            Io voglio solo scriverti. Non entrerò in casa tua, anche se so dove abiti. Mi accontento di essere entrato nel tuo sguardo, però, almeno per un secondo. So che probabilmente non sai nemmeno come sono fatto. Mi hai guardato solo per quel secondo, poi ti sei voltato verso Babushka Sonya e le hai sorriso. Hai un bel sorriso, spero che Yeva te lo dica spesso.
            Parlami di Yeva. Di tua madre, di tuo padre, di Nastya e del violino.
            Parlami di tutto se vuoi. Tra pochi giorni sarà come se non ci fossimo mai incontrati. Che importa confessare tutto ad uno sconosciuto? Io lo farei, se ne avessi la possibilità. Alla gente che non ti conosce puoi dire tutto, senza inibizioni, puoi giocare col tuo ruolo, con te stesso, con la tua personalità. È un’occasione d’oro, non puoi perderla. Meglio: penso che ci siano tante cose che vale la pena perdere, nella vita: un tramonto in riva al mare, una notte di sesso, il primo giorno di scuola. Ricapiteranno.
            Ma tu, tu quando mi ricapiterai?
 

 
*
 
 
            Caro Rodya,
            mi confondi. Se di presenza parlassi nella stessa maniera di come scrivi, non so se riuscirei a seguire i tuoi discorsi. Eri così silenzioso, l’altra volta, per questo non ti ho guardato. Di solito tendo a guardare tutto, mi affascina ogni cosa. Le cose che dici di poter perdere, io le considero fondamentali. Non si può perdere nulla, in questa vita. È troppo breve.
            Siamo profondamente diversi, mi pare di capire.
            E scusa se ho dato per scontato che tu fossi gay. Insomma, sembrava la lettera di un pazzo psicopatico o di un ammiratore segreto. Le due cose, tra l’altro, hanno un confine molto sottile.
            E allora, vogliamo aprirci? Facciamolo.
            Davvero, sono molto più aperto di quanto possa sembrare. Ho un’impostazione un po’ rigida, lo immagino, ma cerco di essere sempre educato quando posso. Evito i pregiudizi. Evito di saltare alle conclusioni. Lo faccio perché tenderei a fare entrambe le cose, e mi rendo conto che non è una cosa molto saggia.
            Tu non sei molto saggio, vero Rodya?
            Vedi? Sto saltando alle conclusioni. Non voglio indovinare nulla di te. Mi stai lasciando libero di parlare, voglio che tu faccia lo stesso, così come sto per fare io. È come tenere un diario, solo che, oltre a scrivere sulla carta, lo faccio anche su un’altra persona.
            Sono nato il tre gennaio 1993. Già, manca poco al mio compleanno. Ignoralo, ti prego, ignoralo. Fai finta che non ti abbia detto niente. Probabilmente non avrai neanche avuto il tempo di elaborare un pensiero a riguardo: annullalo prima ancora che esista. Non c’è molto da dire sulla mia esistenza. Ho cominciato a studiare violino perché mia madre ama Vivaldi. Sarebbe meglio dire che lo amava. A me piace moltissimo e non sopporta che lo suoni in continuazione.
            Ho avuto un maestro privato per un po’ di tempo prima di iscrivermi al Conservatorio. È per questo che voglio insegnare musica. Fare concerti è divertente e magico, ma non è la mia strada. Sono abbastanza bravo con i bambini, è anche per questo che non vedo l’ora che Nastya nasca. Sembra essere una bambina sanissima, per ora, e sicuramente anche bella, appena nascerà.
            Ci sono sicuramente più cose da dire su Yeva, ma non starò qui a scriverle tutte. Yeva è il mio esatto opposto. Mette spesso il broncio per le questioni più assurde, ma si illumina in un secondo. È davvero la donna perfetta. Ha due anni più di me, disegna mobili per un’azienda di arredamento. È un piccolo genio, nel suo campo. Stiamo insieme da cinque anni. È continuamente in preda alle idee e non sta ferma un attimo. Si agita per un nonnulla. Mi fa sorridere così spesso.
            Sì, me lo dice. Il mio sorriso le piace. A me piace il suo, soprattutto quando esce dalla doccia e ha allagato tutto il pavimento. Sorride per discolparsi, io la trovo buffa e poi… be’, poi succede quel che succede.
            Non ci credo. Sto dicendo certe cose ad un ragazzo di cui so a stento il nome. Un po’ ti ho guardato, che credi? Sì, hai i capelli biondi. Mio padre è originario del Libano. Non ho preso nulla dei colori chiari di mia madre. In quel caso, noi due saremmo risultati uguali.
            Ho gli occhi neri, sì, ma i tuoi occhi? Vorrei ricordarmelo. Chiari, sicuramente. Azzurri, forse? O castani? No, sono certo che siano chiari.
            Me lo dirai?
            È una cosa che non ricapiterà, probabilmente.
            Aleksei        
 

 
*
 
 
            Sei saltato alle conclusioni.
 
            No, non li ho azzurri, ma non sono castani. Provaci ancora. Non mi offendo, puoi supporre tutto, a me non dà fastidio. Abbiamo poco tempo.
Domani è il Natale cattolico. Sei cattolico, Aleksei? Io sono ortodosso, ma non so se ci credo troppo. Invidio un po’ chi ha una fede solida.
            Se io sapessi suonare il violino, sarebbe quella la mia fede. Invece sono qui, a diciannove anni, in una sartoria, senza sapere che fare della mia vita. Siamo aperti anche oggi. Non credo che chiuderemo, se non per Capodanno. Ma poi, chi ci deve venire qua? Non siamo mica a Mosca.
            Saprai tutto di Mosca, no? Ma io no, e non lo voglio sapere. Questa città inutile non è troppo distante dalla capitale, ma la mia vita è tutta qua. Niente di eccitante da raccontare.
            Sei tu la cosa più eccitante degli ultimi mesi, che strano, eh? Hai una grossa responsabilità. E auguri per il tuo compleanno. Me ne frego se non vuoi gli auguri, se ti mette ansia o chissà cosa. Non me ne importa, in maniera egoistica. L’ho già detto che abbiamo poco tempo? E allora perché fare queste scene? Beccati gli auguri, Aleksei.
            È il mio turno di essere supponente. Sei rigido abbastanza da seguire le regole matematiche della musica, da voler sposare una ragazza a soli vent’anni e poi hai quel tatuaggio sulla nuca? No, Aleksei. Non sei rigido.
            La gente ha gli strati. Nessuno è una cosa sola. Non credere che sia uno di quelli che si innamora delle persone appena le vede (e quando dico persone, intendo proprio il genere umano) però so riconoscere gli strati quando li vedo. Puoi coprirti con tutte le sciarpe e i cappotti che vuoi, ma un ago ti ha bucato la pelle ripetutamente e ci ha messo dell’inchiostro sotto. Hai sopportato del dolore. Lo so perché mio fratello Roman si è fatto tatuare un teschio nello stesso punto. Ha detto che ha fatto malissimo. Roman è un cretino. Si veste tutto di nero e si fa tatuare teschi e ascolta metal, ma lo fa così, per gioco.
            Anche noi stiamo giocando.
            Ci sono due tipi di gioco: quello inutile e quello istruttivo. Il nostro è istruttivo, non lo facciamo per passare il tempo. O sì, passiamo il tempo, ma stiamo facendo qualcosa di strano, di fuori dagli schemi. Non mi credevi capace di tante, vero? Puoi continuare a supporre, a tirare a indovinare, a me non importa.
            Appena finirò di scrivere mi infilerò sotto le coperte e dormirò. Domani mi sveglierò, farò colazione e verrò al lavoro. Non troverò una tua lettera perché questa la riceverai domani mattina. L’inverno è freddo qua e tu porti un po’ di calore. Un po’, non tanto, non scioglierai la neve davanti alla porta di casa mia.
            Ma quel poco non ritorna, sai? Non si può perdere.
           
         Hai mai perso qualcosa, Aleksei? Che discorsi sconclusionati che faccio. Tu rispondi meglio alle mie lettere e sai scrivere meglio. Scommetto che a scuola andavi bene. Sarai un sacco intelligente.
Scrivimi, Aleksei.
                       Rodya.
 

 
*
 
Che è successo? Tua nonna ha scoperto qualcosa?
           
Babushka Sonya, scusa, stavo solo parlando con tuo nipote. Rispondimi, Aleksei. O vieni in negozio, vorrei rivederti.
 

 
*
 
 
            Caro Rodya,
            sei davvero impaziente, e questa non è una supposizione. Mi ero semplicemente scordato di risponderti. Yeva mi ha chiamato per farmi gli auguri. Lei è cattolica, io sono ebreo, come mio padre. E no, neanche la mia è una fede solida, ma la mia religione mi piace.
            Mi piace per un motivo stupido, forse un po’ infantile. Quando mio padre mi insegnò a leggere l’ebraico, da bambino, rimasi affascinato da quei segni. Mi insegnò, per prima cosa, a trascrivere alcuni versi della Torah. Adesso non ricordo molto, né dell’ebraico né della Torah, ma so ancora scrivere in maniera discretamente fluida. Mi piace per questo. L’alfabeto ebraico è diverso da quello russo. Non so quale dei due preferisco, e non credo debba fare una scelta. Sono metà e metà: va bene così. Sarà parte delle mie stratificazioni?
            Vedi in me cose strane, Rodya. Yeva, la mamma, il papà, non mi hanno mai fatto questi discorsi. Sarà l’aria di Kotelniki. Non capisco perché odi tanto questa città. Non è Mosca, è vero, ma ha il suo perché. La chiesa di S. Nicola mi piace, ad esempio.
            Secondo me, tu non ti accontenti. Dici che non sai che fare della tua vita, ma credo che tu ci stia pensando, in realtà. Non sei stupido.
            E io non ero così intelligente, a scuola. Ero furbo, l’hai già detto tu. Facevo simpatia ai professori. Ero gentile con tutti. Tu stavi simpatico ai tuoi compagni?
            È stato uno dei miei compagni a farmi il tatuaggio. Bravo, davvero. Era uno dei suoi primi, ma ha sempre avuto una mano ferma. Sembra quasi che io conosca gente eccellente.
            Ancora però non mi spiego cosa vedi in me, Rodya.
            Perché ti interesso?
            Perché mi hai guardato?
            Sai, nemmeno Yeva mi ha mai fatto un discorso simile. L’ho corteggiata io, l’ho conquistata e ci amiamo. Alle volte mi sembra troppo perfetto perché funzioni. Hai mai avuto qualcosa di troppo perfetto, Rodya?
 
            Non so se ho perso mai niente. No, credo di no. Dipende, poi, cosa intendi per perdere. Tu credi che ci siano delle cose alle quali si possa rinunciare, io forse sono troppo impegnato a non perdere niente, a nutrirmi di tutto.
            Lascia stare tutta la lettera scritta fino ad adesso. Parlami di questo.
            Perché vorresti perdere qualcosa? Non ti brilla tutto davanti? Non dirmi di nuovo ‘questa merdosa Kotelniki’, questo tuo non saper cosa fare.
            A me pare che tu vada oltre le cose. Allora perché le vuoi perdere, Rodya? Non sarebbe meglio strappare coi denti, azzannare tutto ciò che può farti del bene? È un modo violento e bellissimo di vivere, secondo me.
            Siamo così diversi, Rodya. Fra poco avremo entrambi un anno in più.
            Aleksei        
 
 
*
 
 
            Aleksei. Aleksei. Aleksei.
            Come posso ignorare il fatto che hai scordato di scrivere subito una risposta? Sembra che tu non ci abbia fatto caso. Mi fai sorridere. Hai un po’ di casualità pure tu? Io sono tutto casualità. 
            Per questo, di tanto in tanto, devo scegliere. Quando scegli, perdi. Hai mai letto Kierkegaard? Ovvio che sì. I miei genitori hanno una libreria immensa. Io e Roman ne approfittiamo raramente. Siamo scemi in due.
            Non riesco a pensare a te che vivi in maniera violenta e bellissima. Bellissima, sì. Violenta, no.
            Sembri  così posato, così tranquillo, e poi parli di violenza. Non ha senso, Aleksei. Non sei così, ci posso giurare. Ci scriviamo da sei giorni e so già questo. Non sei violento. Non puoi avere questo dentro di te.
            Oppure sì. È questo il bello di noi due, puoi avere tutto. Puoi essere qualsiasi cosa, e posso scegliere io quello che sei. O accettare tutto.
            Come sei Aleksei? Il tempo stringe. Come sei? Come sei?
 
 
*
 
 
            Caro Rodya,
            lo sono.
            Le effe di violino hanno un significato. Sono i fori di risonanza. Hanno tante, tantissime particolarità, ma -in breve- hanno un solo compito: fanno uscire il suono.
            Sai quanto tempo ho impiegato affinché ‘suonassi’? Non ero un bambino tranquillo, affatto. Il violino mi ha disciplinato. Mi ha fatto avere uno scopo. Secondo me, tutti i bambini vorrebbero suonare. Stavo per scrivere ‘dovrebbero’, ma non è così. Nessuno dovrebbe dovere, ma dovrebbe volere.
            Complicato, ma è così.
            Tu, se vuoi, vedi quello che più ti piace. Forse non voglio sforzarmi. La mia vita è semplice e bella. Prendo quello che mi spetta, senza fare male a nessuno. Non è così difficile, credo.
            Scusa se questa risposta arriverà in fretta. Non capisco come pensi. Mi confondi, Rodya, te l’ho detto. Dici di poter vedere tutto in me, ma alla fine non sono poi così complicato. Tu, invece, hai violenza dentro di te?
            Ti lascio questa lettera nella tua buca della posta. Mia nonna parlava di te oggi, mi ha detto il tuo cognome. Ha detto che vivi lì, a pochi passi dal negozio. Dice che sei un ragazzo un po’ strano. Le credo, eccome se le credo. Ma in maniera buona.
            Sono anche buono, ci crederesti, Rodya?
            Tuo, Aleksei.         
 
 
*
 
 
            No, no Aleksei.
            Perché hai scritto ‘tuo’? Così sei tu a confondermi.
            Se tu mi appartenessi davvero, suoneresti in continuazione. E non il violino, suoneresti te stesso. Mi pare di capire che non sei così come dai ad intendere. C’è molto dentro te, non è tutto così semplice come crediamo.
            È giusto non volere sforzarsi. È giusto fare un po’ tutto. Vedi come sono casualità? E lo sei anche tu, sotto la tua pelle, lo siamo un po’ tutti.         
            Sei casualità perché hai intuito il posto dove vivo.
            Cosa c’è di male a fare un po’ come faccio io? Secondo me, se mettiamo insieme le nostre vite, viene fuori qualcosa di incredibile. Se io ti dico se ho violenza dentro di me, tu mi dici se c’è qualcosa di incredibile?
            No, non c’è violenza. Sono più innamorato della vita di quanto tu creda. Quando la mia gatta (che con grande creatività abbiamo chiamato Koshka) mi sale sulle gambe, la sera, e guardo la televisione, penso di avere il mondo ai miei piedi. Invece è solo un gatto sulle gambe.
            Le piccole cose mi piacciono, Aleksei.
            Le cose incredibili? Forse. Non saprei saltare giù da un palazzo, ma forse saprei stare sul tetto, a guardare il panorama. È una cosa che si può perdere,  però forse, se aggiungo te, diventa irrinunciabile.
            Mi aggiungeresti da qualche parte?
            Ti mancherò in qualche cosa quando sarai a Mosca?
            Se sono ‘tuo’, cosa significherebbe non mancarti? E se ti volessi incontrare? Non dirmi di no, però pensaci. Non salteremo, però guarderemo il panorama.
            Così scopri di che colore sono i miei occhi.
               Tuo, Rodya.
 
 
*
 
 
            Mio, Rodya.
            In questi giorni sei mio. Non so cosa voglia dire. È un brivido strano ricevere una tua lettera. Puoi essere mio finché non parto?
            Nessuna notizia da casa. Mi sento un po’ abbandonato qui a Kotelniki. Mi chiedo cosa starà facendo Yeva, e poi mi chiedo se tu hai già lasciato la tua lettera. Sei un fantasma, non riesco mai ad scorgerti quando consegni la tua busta bianca nella bocca di metallo della mia cassetta della posta.
            È bastato così poco? Rodya.
            Voglio abbandonarmi a te, con la mente. Voglio che tu mi entri ancora più dentro. Non ho mai parlato così con nessuno, mi elevi senza che io me ne renda conto. Sì, se noi unissimo le nostre vite sarebbe incredibile, ma lo dico perché ancora non ti conosco. Nella conoscenza non c’è nulla di meraviglioso, solo abitudine.
            Forse è meglio non vederci. Accontentiamoci di quello che abbiamo visto e sentito quel giorno, poco, distrattamente. Ma allora, se sono stato così distratto, non è vero che approfitto di ogni cosa la vita mi offra.
            Posso pensare a te come a un dono. Voglio farlo.
            Ma non illuderti. Mi stai offrendo pochi giorni di frasi comprensive, di carta e occhi che ancora non riesco a ricordare. Forse dovrei solo tirare ad indovinare. Quando tornerò a Mosca, però, tu non ci sarai. Rimarrai qui. Viviamola tutta, guardiamo quello che preferisci ma non saltiamo.
            Salta tu, Rodya. Metaforicamente, è chiaro. Hai mai saltato? Dovresti provare. Io salto in continuazione. Mi mancherai, un po’, ma non puoi saltare con me. Ho la mia famiglia, ho Yeva. Ho il violino.
            Mi esercito tutte le sere, lo sai?
            Domani è il trentuno dicembre. Rodya, Rodya, Rodya. Partirò il tre gennaio. Prendo il treno. Devo decidere se voglio interrompere questa breve follia salendo con te su un tetto o rimanere a metà. Ti sentiresti a metà se lasciassi tutto in silenzio, se non ti rispondessi più? Non senti che un po’ ci apparteniamo, ma è in quel poco che noi viviamo? A lettere brevi consegue una storia breve.
            Che tipo di amicizia è la nostra? Siamo amici, Rodya? Che razza di amici sono quelli che si scrivono per un paio di settimane dal nulla, e che poi separano le loro vite? Non capisco come due esistenze possano incontrarsi per poi svanire nella lontananza.
            Questa volta ti confondo io, ancora.
            Tuo, almeno per ora, Aleksei.
 
 
*
 
 
            Caro Rodya,
            mi fai preoccupare. Cosa ho fatto per questo silenzio?
            Ti ho offeso, vero?
            Domani partirò. Cosa hai fatto per Capodanno? Ho guardato la televisione con la nonna e a mezzanotte ho chiamato Yeva. Non mi ha risposto. Mi ha mandato un messaggio, due ore dopo, dicendomi che non c’era campo. Dice che le manco.
            I miei stanno bene. Fra poco nascerà Nastya.
            La vita che ho a Mosca e la mia breve, brevissima vita qua sembrano due mondi separati. A nord-est di Mosca si consumano due ragazzi tramite parole cartacee, mentre tutto il mondo continua a girare?
            Ci pensi mai a questo?
            Rispondimi.
            Aleksei.
 
 
*
 
 
            Rodya, cos’è successo?
            Sono passato al negozio e mi hanno detto che non sei tornato dopo Capodanno. Non pensavo potessero mancarmi i tuoi ragionamenti un po’ fuori dal comune. Ma tu dove sei? Non oso spiare dal vetro di casa tua. Domani parto.
            Nel bigliettino in fondo alla busta c’è il mio numero di telefono. Non chiamarmi a Mosca, non farlo mai. Chiamami adesso. Chiamami e dimmi se vuoi saltare. Non posso tornare senza sapere il colore dei tuoi occhi. Grigi? Ho indovinato?
            Sì, mi hai convinto.
            Saltiamo, Rodya. È una frenesia, ormai. Questa notte mi sono svegliato. Ho sognato che mi abbracciavi. Non so nemmeno quanto sei alto, eri seduto dietro al bancone. Rodya, abbracciami, prima che parta.
            Tuo, davvero tuo, ancora per poco, Aleksei.       
                                                Tempus fugit         
 
 
*
 
 
            Non posso concludere senza scriverti.
            L’hai sentita anche tu, allora.
            L’hai chiamata frenesia. Quale frenesia? Per me è stata una febbre, un delirio. Ho avuto paura a pensare che tornassi a Mosca. So ancora troppo poco di te, e in quel poco potevo idealizzare tutto. Ora quella mancanza mi stringe la gola. Ti chiamerò fra poco, Aleksei.
            Dovrò sentire la tua voce? Dovrò.
            Mi fa paura anche questo.
            Scusa per il sasso che sto per lanciare verso la tua finestra. No, non mi vedrai, sono venuto in bici e pedalo velocemente. Scrivo tutto storto perché ho il foglio appoggiato sulle gambe.
            Ti ho scritto un indirizzo. Vediamoci lì tra due ore.
            Non siamo niente, noi due. Non siamo amici, non siamo amanti, non siamo fratelli. Siamo Rodya e Aleksei. È abbastanza per saltare.
                        Rodya.                                            
 
 
*
 
 
            Rodya guardò la scala antincendio del vecchio palazzo abbandonato. La periferia di Kotelniki non era una gran vista. Non sapeva perché aveva pensato a quel posto in particolare, però era capitato. Casualità, sempre casualità.
            E poi Aleksei gli aveva scritto quella frase in latino. Ma che stava facendo, quel tipo aveva già tutto. Una ragazza, aveva specialmente quella. Non esistevano amori del genere. Non ci si innamorava in quel modo. Infatti Rodya non era innamorato. Era più complicato, meno stratificato, più leggero.
            Non ricordava di sentirsi leggero.
            Guardò su di nuovo. Non c’era segno del passaggio di Aleksei. E allora perché salire? Salire per chi? La sua spontaneità era accartocciata sul fondo del suo cuore.
            Ma come negare i brividi di quel tatuaggio, di quegli occhi neri? Di un ragazzo conosciuto in maniera caotica e incredibilmente velata? Non conosceva Aleksei. E Aleksei non conosceva Rodya. Due sconosciuti su un  tetto, a parlare di cosa? Rodya non aveva chissà quale cultura. Aleksei sì. Non avevano parlato di niente, in quelle lettere, ma era stato bello scriverle.
            Rodya strinse il corrimano della scala.
            Va bene, Aleksei poteva anche non esserci ma lui sarebbe salito. Se fosse andata male, pazienza. Avrebbe guardato il tramonto su Kotelniki da solo. Una volta aveva letto una poesia che parlava di scendere le scale. Ne avrebbe scritta una solo per descrivere quella sensazione. Era quello, il saltare? Non aveva idea di cosa stesse facendo. Salire, e trovare chi? Essere felici per chi? Delusi da chi?  Cosa aspettarsi una volta in cima?
            Il freddo pungente di gennaio si infilava dentro il giaccone, sulla sua pelle. Rodya sbuffò, infastidito dal vento e dalla fatica. Altri cinque scalini e avrebbe capito. Forse Aleksei non lo intendeva davvero. Forse voleva attirare solo la sua attenzione.
            Ma come poteva pretendere di pensare per lui, se lo conosceva da così poco? Mordere la vita, diceva, bellezza e violenza. No, Rodya necessitava solo di un paio di palle. Aleksei le aveva avute. Aveva accettato di scrivergli. E ora lui doveva salire solo cinque miseri gradini.
            Quattro.
            Tre
            Due.
            Uno.
            Non c’era Aleksei. Non c’era l’uomo fatto di parole e di carta con il quale aveva parlato decisamente troppo poco.
            C’era un ragazzo, però, dai capelli scuri, un maglione verde, stinto, le gambe penzoloni oltre la balaustra. Accanto, una custodia dalla forma strana.
            Rodya ebbe un tuffo al cuore. Si diresse verso di lui. Ogni passo sembrava smuovere la terra dalle sue profondità.
            «Non ti avvicinare.»
            La voce di Aleksei lo fermò. Fermò il suo cuore, i suoi passi, la sua mente. Era più profonda di quanto ricordasse. Al telefono aveva parlato lentamente, lo aveva sentito distante. Ora era di spalle, davanti a lui.
            Aleksei si alzò. Era due, tre dita più alto di lui.
            «Non mi girerò. Prima ascolta.»
            Senza farsi vedere in viso, si chinò ad aprire la custodia. Prese il suo violino. Mentre si chinava, Rodya vide il suo tatuaggio seguire i movimenti della testa. Si morse un labbro, impaziente. Non capiva cosa stesse facendo.
            Poi suonò.
            Suonò. E suonò ancora. L’archetto si muoveva su e giù, in maniera frenetica. Le note danzavano, quasi cozzando tra loro. Poi rallentavano. Poi acceleravano. Le dita di Aleksei violentavano le corde, le premevano così velocemente che Rodya non riusciva a seguirne correttamente la traiettoria.
            Sembrava tutto casualità.
            Era impossibile che dalla percezione di disordine che aveva si collegasse quella musica struggente. Era struggente. Non era una parola che Rodya usava spesso. Ma su quell’edificio abbandonato, davanti alla merdosa Kotelniki, davanti al sole che calava sulle strade imbiancate, sopra il maglione traforato di Aleksei, sull’inchiostro delle effe sulla nuca, c’era solo bellezza struggente.
            E violenza.
            Bellezza e violenza.
            Era armonia.
            Era la sua disciplina, il suo rigore, il suo non sbilanciarsi e il suo prendere tutto e accogliere ogni cosa. Come poteva essere possibile?
            Non c’erano due note uguali. Non c’era nulla che sembrasse pensato, in quella melodia. Rodya non ne capiva niente, di violino, di musica, di quel ragazzo distante e incredibilmente vicino. Tutto, però, gli era chiaro.
            Su tre ultime, lunghe note, Aleksei si interruppe. Non si girò.
            Rodya poteva sentirne il respiro. Era accelerato. Come il suo, d’altronde.
            Era la cosa più intima che avesse vissuto con qualcuno. Sembrava non avere senso e invece straripava logica.
            «Avevi mai sentito Bach, prima?»
            «No» rispose Rodya. Al suono della sua voce, Aleksei abbassò lo strumento.
            «Ora mi volterò. Chiudi gli occhi, Rodya.»
            Rodya obbedì. Chiuse gli occhi. Sentì Aleksei armeggiare col violino, riporlo nella custodia. Tenne gli occhi chiusi per un po’. Li aprì.
            C’era Rodya e c’era Aleksei.
          Aleksei che non sembrava avesse fatto nient’altro che essere là per tutta la sua vita, Aleksei che aveva suonato Bach, con le sue dita lunghe e gli occhi scuri e il suo tatuaggio e il suo maglione e la sua altezza in più.
           Rodya, col giubbotto nero e le mani lungo i fianchi, il naso dritto e il suo lavoro alla sartoria, Rodya con la sua prima lettera piena di luce, coraggio e spavalderia, Rodya con se stesso e le sue domande nulle su un mondo che non gli apparteneva più di tanto.
            C’erano Rodya e Aleksei.
            E poi ci furono le loro labbra.
            Labbra che si toccavano, sfioravano, baciavano. Labbra di carta, di inchiostro, di violino e di tessuto. Labbra di neve, labbra di Mosca e di Kotelniki. Labbra di uomini che non si amano, che non sono amici, che non si conoscono.
            Labbra di due ragazzi che saltano.
            «Non ci crederai, ma ci avevo pensato.»
            Gli occhi verdi di Rodya brillavano. «Hai messo questo maglione apposta, ci scommetto.»
            «Non vedi più oltre le cose, Rodya? L’ho messo perché fa freddo!»
            Aleksei rise. Rodya rise.
            Ridere era come saltare.






A/N: Non ho resistito, oggi dovevo pubblicare Verde. E, avviso fin da ora, Arancione è ancora in fase di completamento. L'Accademia inizia ad essere caotica, come al solito, quindi spero di tenere un certo ritmo, almeno per un po', o almeno velocizzare i tempi.
La mia grande ispirazione, per questa storia, è stata 'Che tu sia per me il coltello', di David Grossman. E non mi vergogno ad ammetterlo. É stato difficile destreggiarsi con le lettere -praticamente prive di senso- di questi fanciullini. É proprio quello che mi piace, però: come la frenesia oscuri anche il colore, per un breve tempo.
Spero vi piaccia, e grazie per seguire anche Complementari <3 Se non avete letto Primari, questo è il momento giusto!
A presto <3
 
   
 
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