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Autore: Archybald    17/11/2013    2 recensioni
ATTENZIONE! Klaine ambientata durante la WWII (primi anni di guerra).
*
Con l'avvio della guerra, Kurt è costretto a scappare a Lipsia col padre malato per evitare l'arruolamento obbligatorio. Qui deciderà di travestirsi da donna per non farsi riconoscere, rischiando il tutto per tutto pur di salvare la famiglia. Intanto Blaine, un militare, figlio di un ufficiale tedesco, arriva in città. Nonostante il pericolo, entrambi finiranno per innamorarsi, ma Blaine non sa' che segreto nasconde la donna che ama...
*
Stato: Conclusa
Aggiornamento: Una volta a settimana.
AVVERTIMENTI: Possibile /e probabile/ OOC dei personaggi! (cercherò di starci attenta in ogni caso) Tematiche delicate. NON è incentrata sulla Shoha o le stragi ebree. Quasi nessun riferimento al razzismo e lievi accenni al nazismo. Per favore leggete il piccolo paragrafo introduttivo!
*
Ho aumentato il rating da arancione a rosso per delle scene che ho aggiunto alla bozza. Spero di renderla una storia soddisfacente! Grazie a chiunque legga, sappiate che vi adoro! ;DD
Genere: Angst, Drammatico, Erotico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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VON LEIPZIG MIT LIEBE


DAY 10th. _ GIB MIR EIN LETZTES LEBEWOHL  (Concedimi un ultimo addio)


Non vi era rimasto ormai alcun rumore nella casa. Mentre il silenzio regnava padrone, solo il suono flebile del respiro di Kurt, profondo e spezzato, accompagnato di tanto in tanto da qualche singhiozzo appena trattenuto, rimbombava sulle pareti spoglie della stanza, raccogliendo intorno a sé le mille paure della notte.

Tremava violentemente, il giovane, la schiena appoggiata completamente alla porta che dava sulla strada.

E avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto piangere disperato se solo le sue membra non fossero state tanto scosse e in confusione da lasciarlo solo, in attonito silenzio, coi suoi pensieri stremati.

Lacrime copiose avrebbero macchiato sulle sue gote e le unghie rovinate avrebbero graffiato violentemente il legno marcio dietro di lui come in un gesto istintivo, di puro terrore.

Del resto, li aveva sentiti, quello stesso pomeriggio, mentre ancora sussultava spaventato dalla sua stessa ombra per quello che era successo due notti prima, aveva udito le voci gravi e prepotenti dei soldati. Che urlavano, i vili. Davano ordini. Correvano. Aprivano porte. Cercavano.

Quell'ansia raggelante che cercassero LUI, che volessero lui, la sua testa su un palo infame.

Non avrebbe mai più vissuto alla stessa maniera con quella consapevolezza.

Eppure -Fuori, forza! Veloci!-  gridavano  -Portateli qui!-

E capì molto.

Sapeva che sarebbe successo. Presto o tardi sarebbe successo, ma gli risultava talmente orribile, inconcepibile, talmente osceno per un essere umano da non poter nemmeno sembrare vero.

Ma la civiltà appariva ormai ridotta a tribù di selvaggi, e i giornali, coi loro titoli altisonanti, presagivano da tempo quello che Kurt fingeva di non vedere per paura del vero.

Li avevano portati via, i soldati del Fuhrer.

Rachel e Noah quella sera erano partiti, ormai per sempre, lasciando l'appartamento numero 348, accanto al suo, spoglio e silenzioso, come un camposanto una mattina di novembre, e l'aria in città gelida e di morte, il tanfo della miseria e della disgrazia dell'uomo.

Oh, Kurt aveva paura. Dannatamente paura.
Qualunque cosa ormai riusciva a spaventarlo, qualunque rumore, qualunque brusio proveniente da fuori lo terrorizzava. Aveva smesso da tempo di credere e quell'iniezione di orrori, dritto sotto pelle, lo aveva ridotto allo spettro di sé stesso.

Sapeva che presto, molto presto, sarebbero venuti anche per lui.

Dopo 'quel' fatto, due giorni prima, non aveva avuto nemmeno la forza per muoversi. Paralizzato e chiuso in casa sua, gli scuri serrati col doppio passante e il catenaccio alla porta che lo isolavano e lo proteggevano, immerso nel silenzio del suo cantuccio, senza alcuna intenzione di rivedere il cielo.

Nulla era cambiato al di là della disposizione delle lenzuola sul letto.

La FN 1910 giaceva ancora lì, gelida, rigida e immobile sul pavimento, come una scultura o un macigno troppo pesante per essere spostato o raccolto.

La parrucca dai biondi boccoli era ancora rivoltata sul pavimento, insieme a qualche bottone della sua camicia e ad una goccia di sangue solitaria. Non avrebbe pulito. Non vi si sarebbe nemmeno avvicinato.

Persino i vestiti che indossava, gli stessi identici di quella notte, donavano ai gelidi raggi della luna, che filtravano a mala pena dai passanti, lo spettacolo osceno di quel corpo nudo e giovane, scoperto e sgraziato, sporco e a brandelli, ancora avvolto e infreddolito in stracci malconci.

Soltanto un dettaglio, di quel paesaggio di pietra, era cambiato da quel pomeriggio.

Una scritta, incisa con un piccolo coltello, sopra al legno del comodino.
 
!939
R. N.

Intagliata con mano tremante e pregna di dolore.




'Certo...' avrebbe sussurrato malignamente qualcuno se avesse potuto vederlo in quello stato di disperazione 'che immagine grottesca.''

Ma a Kurt poco importava.

C'era stato un tempo, ormai lontano, in cui si era permesso di fissarsi allo specchio e amarsi per la tanta bellezza.
Il tempo della vanità dell'uomo, quando i gesti eleganti erano spesso  accolti da sguardi e occhiate nemmeno tanto celate e i sorrisi graziosi, per quanto innocenti agli occhi delle fanciulle e dei fanciulli suoi coetanei, erano spesso volti ad ammaliare, con quell'ingenua seduzione del fanciullo.

Ma quel tempo era ormai fuggito completamente dalle sue dita, come acqua fresca in mezzo al deserto. E del suo fascino, di quella luce meravigliosa che lo irradiava, rimaneva solo il ricordo lontano, coperto e dimenticato dalle occhiaie stanche e i calli dolenti.

Così era passata anche la paura per lo specchio.

Si fissava a lungo, magro e deperito, pallido e ricoperto di lividi pesanti, spettinato e stanco, esausto, sfinito.

Rideva della sua immagine squallida riflessa e si domandava: A chi importava, infondo, di sé, quando si è così prossimi alla morte?


***


L'odore forte e amaro del sigaro riempiva l'aria della stanza, annerendo le tende e i sensi, svuotando la mente di entrambi mentre le carte pregiate rimanevano immobili e abbandonate sopra la tavola, ancora sovrapposte in quella scala incompleta.

Blaine si massaggiava le tempie. Sebastian lo fissava cercando di leggergli l'anima.

-Sei completamente distratto... Problemi d'amore? Ultimamente sembra accadere spesso.-  disse, la nota acre del sarcasmo mentre ispirava dal suo sigaro, divertito dello sguardo disperato dell'amico.

-Scusami, non voglio parlarne.- rispose Blaine, raccogliendo nuovamente quelle carte.

E nessuno, intendo nessuno, evitava di parlare con Sebastian Smythe. Soprattutto su questioni così interessanti. Soprattutto se si tratta del suo migliore amico. La pena sarebbe stata particolarmente dolorosa.

-Questa volta cos'è successo? Ti ha costretto a lavorare a maglia? Ti ha presentato al padre decrepito? O peggio... Ma certo! Ti ha bloccato un'altra volta ai preliminari e non sei ancora andato in buca. Un classico.-   disse ridendo, mentre a quell'affermazione lo sguardo di Blaine si perdeva e il naso ri arricciava in una smorfia, quasi non ne concepisse neppure l'idea.

Sebastian elaborò ognuna di queste informazioni.


Del resto, lui era fatto così.

L'essere umano, per i suoi occhi svelti, era diventato ormai un pozzo di prevedibilità. Riconosceva chi mentiva, chi fingeva, chi dissimulava. Da un movimento di labbra poteva trarne fuori un intero avvenimento. Per questo lo avevano promosso a sottufficiale già all'età di 19 anni.

Perché lui, prima di tutti, sapeva mentire.

Accadeva con tutti ormai, persino coi genitori e Blaine.
Se notava un particolare interessante incalzava con domande, metteva in imbarazzo, fino a raccontarti con tragica ironia ciò di cui tu magari non eri pienamente cosciente.

E non lo faceva per aiutare qualcuno. Praticamente mai.

Ma la cosa lo divertiva, lo divertiva incredibilmente.

Così manteneva quel sorriso sadico, ormai parte di sé, e proponeva accordi, dava suggerimenti, a volte celati.

Per molti era una figura di fiducia, Sebastian Smythe.

L'unico che lo conosceva davvero, che capiva quando fingeva, era per controsenso Blaine, il più ingenuo e sciocco di tutti. Per l'appunto, il suo unico amico.


-Blaine, centra parecchio quel graffio che hai sul polso, giusto?-    calcolò ogni parola. E il moro lo fissava allibito.

-Come...? Diciamo che potrei aver avuto una discussione.-

-Una discussione che prevede graffi e pugni allo stomaco, visto che cammini come un castrato.-

-Non cammino come un castrato!- si difese l'uomo. -Dio Sebastian! Cercherai a tutti i costi di capire cos'è successo?!-    

Il nervosismo di tutto quello che aveva passato, in quei giorni, lo stava logorando bruciandogli il cervello, gettando odio verso sé stesso e rabbia nera verso gli altri.

Se non fosse stato Lui, a quest'ora avrebbero già fatto a pugni di brutto.

-Assolutamente.    Blaine, amico... cosa ti ha detto? O per intenderci, cosa hai scoperto?-

E sembrava serio. Forse per la prima volta in vita sua, o almeno la prima da quando conosceva il moro, Sebastian sembrava dannatamente serio.

Questo spaventò un poco l'uomo, che tornò a sedersi. ù
E, inutile dire, oltre a spaventarlo lo mise PARECCHIO sull'attenti.

-Cosa intendi dire? Cosa sai?-     la risposta fu uno sbuffo irritato.

-Un'infinità di cose, visto che mi racconti persino di che colore porta il rossetto quando si imbelletta. Dimmi soltanto se ti ha raccontato qualcosa, e finiamola qui.-

Blaine elaborò quelle parole con un groppo ala gola. Faticava a capacitarsene persino allora, non avrebbe mai potuto dire nulla ad alta voce, persino volendo.

-Tu sapevi già che Elizabeth è....-    l'amico aspetto che finisse, ma il resto della frase non arrivò mai.

-Sì.-    e fu un colpo duro, per il moro, da digerire. Fissò Sebastian come se lo avesse appena colpito con un destro, sconvolto e leggermente amareggiato, consapevole tuttavia che avrebbe potuto essere perfettamente normale, per quando riguardava l'amico.

-Dio.... Da quanto?-

-Dalla notte del ballo. Dico, me l'hai presentata davanti. DAVANTI. E ci hai persino lasciati soli... Non è stato molto furbo.-

-Giusto. Cazzo.-    sussurrò, rimettendo insieme gli avvenimenti. Il sorriso dell'amico. Il pallore dell'amata. Quelle lacrime....

-E' stata lei... lui a dirtelo?-  

-No.-    fu la risposta tagliente dell'uomo. E Sebastian scosse il volto. Sarebbe stato più complicato del previsto.

Stava pensando a come formulare il prossimo pensiero, la prossima domanda, per evitare di peggiorare la situazione, quando il moro interruppe bruscamente i suoi pensieri.

-Perché non reagisci? Non stai dicendo nulla, né mi è parso di capire che fossi sconvolto, quando l'hai intuito. Come se non ti toccasse neanche. Come se non ti importasse poi molto se il tuo migliore amico di punto in bianco scoprisse di star pomiciando con un uomo! Dimmi con sincerità, QUESTA SITUAZIONE TI DIVERTE, SEBASTIAN??-

L'amico alzò perplesso un sopracciglio, mentre Blaine, ormai al limite, dava sfogo alla sua rabbia gettando per terra il mazzo di carte e il portacenere ormai inutile, portandosi poi le mani alla testa con un gemito d'ira.

-Pensi che io, IO, sia in grado di giudicare quel ragazzo? Cosa te lo fa pensare?-

-Ci ha presi in giro entrambi...-  sussurrò debolmente, mentre l'amico si alzava per avvicinarsi alla vetrina dei liquori.

-Non direi. No. Correggimi se sbaglio, ma non si è finto donna per piacerti, per sedurti. L'hai incontrato che vestiva già, giusto? Ti si è presentato come una fanciulla ancor prima di conoscerti...-

-Dove vuoi arrivare, scusa?-   il suono del Brandy che riempiva due piccoli bicchieri di cristallo risuonò nella stanza interrompendo pochi attimi i pensieri dei due.

-Sto dicendo che quel ragazzo ha fatto questa scelta per altri motivi, motivi che immagino tu non conosca affatto, e a cui non dai nemmeno una possibilità. Che differenza ci sarebbe, per cui, tra lui e noi?
Conosci molto di me, Blaine. Non sempre lo hai accettato, ma non mi hai mai ripudiato per nulla. Neppure quando tentavo di tirarti in ballo nelle mie cose..,- disse ridacchiando, porgendo all'amico un bicchiere. -Manda giù. E dopo fermati a pensare se questa incazzatura ha ancora senso. Del resto, non mi risulta che lui ti debba niente...-

-Sebastian, come puoi metterla su questo piano?-

-Su che piano dovrei metterla? Conosco persone, proprio nel nostro reggimento, che ordiscono rivolte, che giocano coi soldi, che hanno contatti con le mafie. Sembra un'assurdità, ma basta far finta di nulla e tornano ad essere compagni di medaglia. Se parli, lo uccidi. Se taci, tornerà ad essere la solita Elizabeth. E se proprio non riesci a concepire di amare un uomo, Blainey, allora ti basterà ignorarla. Non rimarremmo qua a lungo, immagino.-

-Devo lasciarlo andare?-     sussurrò Blaine, e respirava appena, pensando a quel ragazzo biondo, che con solo una parrucca ed una gonna aveva amato come mai nessun altro, e che adesso gli  tormentava il cuore, uccidendolo piano piano sempre di più.

-Se non puoi averlo, sì. Ma sappi solo una cosa...-

Blaine alzò lo sguardo perplesso, fissando l'amico scolarsi piano il suo bicchiere.

-E' raro incontrare ragazzi giovani COSI' attraenti e dal sedere di marmo. Tu rifiutalo e sappi che potrebbe non volerci molto perché cada tra le mie braccia. Personalmente, non vedo l'ora.-


Il moro, a quelle parole, quasi non perse un battito, fissando l'amico sconvolto mentre questo tornava a riempirsi il bicchiere di liquore, con quel ghigno in volto, classico presagio di qualcosa di molto spiacevole.


-E' tardi...- sussurrò ancora scosso -Mi conviene andare se domani mattina voglio alzarmi presto.-


-Ecco bravo, vai fuori e schiarisciti le idee! Magari col freddo torni a ragionare.-


Blaine sbuffò irritato, salutando l'amico con una mano, mentre si allacciava la giacca della divisa che aveva usato quel pomeriggio.


-AH, Blainey?-  alzò il tono l'altro, mentre già questi scendeva le scale.

-Ti ha detto come si chiama?-   gridò, e il moro trattenne il fiato.




-KURT.-



****


Fu con uno scatto improvviso, un gesto istintivo, pieno di bisogno che Kurt si portò dritto verso il cassettone, aprendolo e sperando di trovare ancora quelle vesti antiche, che avevano accompagnato tanto di sé da fare male.

Forse fu per paura, certo non con molta lucidità, che con foga si sfilò quello che rimaneva della gonna e della sottana infilandosi un paio di vecchi calzoni da uomo, leggermente sporchi del primo fango di Lipsia, quella notte in cui giunse in città col padre..

Non si cambiò neppure la camicetta, che rimase quella sgualcita di giovane donna che portava durante il giorno, ormai scoperta sul suo petto glabro e leggermente muscoloso.

Con ansia e necessità afferrò quanto più denaro potesse prendere dal fondo dei cassetto e se lo infilò velocemente in una tasca, riempiendone il peso, senza badare ai pochi spiccioli caduti in terra che ruzzolarono rumorosamente.  

Infine fissò poi, ancora una volta, un ultima volta, quella pistola nera, lucida, che giaceva sul pavimento del suo salotto. Quella stessa pistola che era stata puntata alla sua testa, lì dove ora segnava un piccolo graffio dalla forma circolare, come la canna infernale.

Se avesse pensato con ragione, avrebbe dovuto quantomeno portarsela dietro, come minimo, Non sarebbe andato molto lontano senza nulla per difendersi e un'arma lo rendeva potente, sebbene per pochi attimi e qualche colpo.

Eppure quella stessa pistola lo angosciava, quasi potesse bruciargli l'anima oltre che i polpastrelli se l'avesse toccata. La morte degna di un peccatore, del resto.

Deglutì e afferrò un coltello da cucina, quello che usò sul comodino, nascondendoselo dentro la cintura, la lama fredda a contatto col fianco, prima di aprire quella porta di legno marcio e uscire, forse per non tornare mai più, forse per scomparire per sempre.




Un vento gelido gli colpì il volto e le membra nude, e i suoi vestiti aderirono quasi immediatamente al corpo dalla tanta pioggia che scendeva e di cui, sorprendentemente, non si era accorto che in quel momento.

Prese un respiro profondo e a passo spedito, quasi correndo, si avviò verso la piazza principale, consapevole che lì avrebbe sicuramente trovato qualcuno disposto a dargli un passaggio fuori città.

Camminò veloce, pensieroso e scosso, sotto la pioggia. Teneva le labbra strette e stringeva quel manico logoro e la lama d'acciaio. Sapeva che era un addio.

Con quelle pietre e quella città, non avrebbe più rivisto nemmeno il suo povero padre, o i pochi ricordi della madre, o gli occhi di quell'uomo che lo aveva ucciso e che lo costringevano a risorgere sotto nuovo nome e nuova identità. Incredibilmente, di nuovo.


Stanco e spossato camminava sbilenco lungo i vicoli, le ombre straniere che si riflettevano sui muri erano ormai le uniche testimoni del suo dolore.



Si appoggiò di peso contro il muro freddo di un palazzo, quando il corpo esausto non gli permise di procedere ancora e le gambe doloravano, i muscoli tesi vibravano nervosi e irrigiditi dalla stanchezza e le ginocchia tremavano non garantendo l'equilibrio.

Non aveva neppure ancora raggiunto la fontana che dovette concedersi di chiudere gli occhi un secondo, Kurt, lasciando, per pochi istanti, la sua mente tornare a vivere, solo un poco ancora, ascoltando in quel silenzio meschino ogni singola goccia di purezza che picchiettava sul suo corpo ignudo.

Respirava piano, solo con sé stesso e in armonia con tempo, ascoltando i suoi stessi battiti, così accelerati eppure così deboli.

Diamine. Così tanto deboli....


Mentre il suo respiro diminuiva piano piano d'intensità e la mente sembrava essersi ormai svuotata del tutto, Kurt si concesse di riaprire gli occhi, due specchi d'argento che risaltavano per bellezza di fronte alla nebbia fredda della sera..

Fissò il nulla come incantato quella foschia chiara e la figura nera, sbiadita, lontana, che per puro caso andò a trovarsi sulla sua traiettoria di fronte a sé per un omento non gli piacque per nulla.

Eppure non mosse un muscolo.

Rimase a fissarlo, inerte, stanco. Il suo corpo completamente abbandonato contro quel muro di pietra, che ne reggeva le membra molli.

Quella spossatezza, sia fisica che mentale, non gli permetteva di rendersi ormai conto del pericolo, in quel mondo in cui ogni cosa possedeva una doppia faccia che presto, investendolo, gli si sarebbe rivolta contro.

Proprio per questo più quella figura si avvicinava, più a Kurt passava la voglia di scappare, di allontanarsi.

Se gli avesse chiesto un'informazione, gliel'avrebbe data. Se gli avesse puntato contro un coltello per dei soldi, se li sarebbe fatti prendere.

Se avesse tirato fuori un paio di manette lucide, avrebbe congiunto le mani per lui.




Solo quando la luce giallognola di un lampione  riuscì ad accarezzare quell'uomo, oramai abbastanza vicino a lui da poterlo toccare se avesse allungato bene il braccio, solo allora il ragazzo si concesse un sorriso stanco.

Un sorriso amaro, che gli curvava tragicamente le labbra sottili,  mentre con lo sguardo riconosceva le mani callose e quella giacca scura dai risvolti in oro, e un'altra lacrima solcò il suo viso, tuttavia senza poter essere confusa nuovamente con la pioggia, senza poterlo salvare almeno un poco da quella lenta ricaduta.


Quindi era così?    Non sollevò neppure il capo dal muro. Non incontrò neppure i suoi occhi.
Non sarebbe servito.


***


Si era avvicinato a quell'uomo poco distante da lui per prestargli soccorso. Sembrava un barbone, raggelato dal freddo. Pur di distrarsi gli avrebbe regalato di suo anche la giacca...

Eppure quando distinse le ciocche dorate, quando riconobbe per suoi i lividi violacei e pesanti sul collo, non ebbe il coraggio di voltarsi e scappare.

Era come il fantasma di un antenato. Avrebbe potuto nascondersi, avrebbe potuto fuggire lontano, eppure, o nei suoi pensieri, o accanto a lui, si sarebbe sempre dovuto scontrare di petto con la dura e tremenda realtà, che in quel momento gli sputava in volto la presenza costante dei suoi pensieri


Blaine non parlava. Non un sospiro o un gemito. A mala pena respirava.

Non si attentava a squarciare per primo quel silenzio pregno di angoscia e aspettativa.


Così eccolo lì.

Elizabeth... no, Kurt.

Kurt Hummel.


Quel nome gli si incise sulla pelle, facendolo tremare per un secondo. Ma faceva freddo, particolarmente freddo, e c'era la nebbia. Doveva essere per forza colpa del tempo inclemente se le sue braccia non riuscivano a muoversi e se l'intero suo corpo era rimasto congelato sul posto vedendo come era ridotto quel ragazzo.

Già, Blaine. RAGAZZO. Non si è mai trattato di altro.

Osservarlo faceva male. Gli ricordava le parole di Sebastian, quando diceva che era ingiusto condannarlo per una cosa che non conosceva.

Lui non si era mai limitato a condannarlo.

Quei segni sul collo, la camicia, quella dannata camicia, ancora lì, distrutta. E quel graffio, quello lasciato dalle sue unghie, proprio sotto al segno della canna di pistola.

Che avesse voltato il viso apposta per mostrarglieli?

Che infame era stato!

Eppure ancora non riusciva ad odiarsi per quello. Ancora non riusciva a perdonarlo.


E Kurt dovette accorgersene perché la sua espressione in quel momento cambiò.
Non erano più grigi e spenti, i suoi occhi. Ora brillavano, anche se di un sentimento che Blaine non avrebbe saputo riconoscere.

Quando il biondo tuttavia tentò un sorriso, sottile e stanco, timido e tremante, capì che probabilmente si trattava di PIETA'.

E Blaine si sentì ancora una volta ferito come mai da quel ragazzo davanti a lui.


-Deve essere questa città, porca puttana. Più ci vivo, più sembra minuscola.-   sussurrò il moro con amarezza, fissandolo negli occhi.

-... forse perché lo è....-    la risposta di quella voce dolce e così femminile lo spiazzò.

Non avevano più parlato.

Nemmeno quella notte aveva potuto sentire il suo tono colloquiale. Avevano gridato, si erano odiati, ma mai come in quel momento aveva amato quella voce sottile e leggermente acuta, così tiepida e piena di dolore e tenerezza.

Blaine ne era terrorizzato.

Non solo perché era la voce della sua Elizabeth, perfettamente uguale, così sua. Così loro.

Ma anche perché gli mancava. Gli mancava la sua donna. Quella donna che lui, Kurt, non avrebbe mai potuto sostituire.



-Vattene.-

Erano venute fuori da sole, quelle parole. Ma era l'unica cosa che gli sembrava giusta in quel momento.

Non aveva ancora smaltito tutta la rabbia che provava. E il risentimento, oh, il risentimento gli offuscava la vista ogni volta che pensava a lui.

Non avrebbe mai potuto dimenticarlo se fosse rimasto in quella città. Non sarebbe mai riuscito ad ignorarlo.

Tanto meno a perdonarlo. A conoscerlo.

Tanto meno a ricominciare da capo.


Gli occhi di Kurt non sembrarono affatto meravigliarsi di quell'ordine.

-Non ti arresterò con l'accusa di tradimento. Né farò parola di te alle forze dell'ordine.
Ma non puoi più restare in questa città.

Non voglio più vedere la tua faccia da nessuna parte.-

E faceva male.

-Non voglio più sentire parlare di te, né di Elizabeth, né di Kurt.-

Diavolo, quanto faceva male.

-Non voglio vederti girare qui intorno, né rischiare di incontrarti ancora.
Vattene lontano, il più lontano possibile.

Sparisci dalla mia vita, per favore.

Se tornerò ad incontrarti non sarò così clemente con te.-



E un singhiozzo sordo, un gemito strozzato, scaturì dalle labbra gonfie e socchiuse di Kurt.

Blaine avrebbe potuto puntare l'arma contro di lui in qualunque momento. La vedeva, nuova, sul fianco destro.

Lo vedeva tremare ed evitare il suo sguardo, puntandolo al pavimento, senza riuscire tuttavia a trattenere l'odio che provava per lui in quelle parole.

Il tono era calmo e freddo. Come se non fosse mai stato nulla.

Kurt si perse tra le lacrime e i suoi pensieri, desiderando soltanto di poter dimenticare ogni cosa.



Avrebbe dovuto scappare.

Avrebbe dovuto andarsene, fuggire.

Stavolta, tuttavia, senza il terrore cieco a frenare la ragione, a fargli dimenticare cosa davvero significava lasciare quel luogo. Suo padre. La sua vita.

Stavolta, per davvero, non avrebbe potuto tornare mai più.



Eppure non riuscì a muoversi.

Eppure chiuse gli occhi, continuando a piangere, provando paura per quel futuro privo di certezze.

Quando li riaprì, fissò gli occhi chiari dell'uomo, scoperti ad osservarlo, e lentamente come se avessero tutto il tempo dell'universo a disposizione, le dita gelide, morbide nonostante fossero leggermente graffiate in più punti, andarono a posarsi sulla guancia ruvida del soldato.

E Blaine perse un battito, e tutto l'odio scomparve per pochi secondi.

E Kurt si sentì morire del tutto, sapendo che nonostante tutto, anche Lui sarebbe stato motivo di rimpianto, quando avrebbe lasciato Lipsia.



-Perdonami.-    

Molto probabilmente lo aveva solo mimato con le labbra, troppo stanco e infreddolito per parlare ancora.


Ma Blaine lo aveva sentito. Eccome se lo aveva sentito.

E quella parola, sussurrata tra la nebbia, aveva lacerato il suo corpo come la peggiore delle baionette.

Ed era doloroso. Dannatamente doloroso.

E si chiese, tutto sommato, il perché.



Non durò che qualche manciata di secondi.

Con lentezza, lasciò quella carezza, Kurt, e con quella il suo posto su quel muro.

Non si voltò mentre prendeva a correre lontano, dalla parte opposta in cui doveva andare.

Non si voltò più, non dopo aver congedato il soldato in quel modo.



Eppure in quei pochissimi istanti Blaine aveva avuto modo di vederlo. Vedeva quegli occhi che lo avevano stregato.

La pelle pallida umida di condensa.

L'aria stremata e sfatta, e quell'alone di morte sul volto di un ragazzo che alla fine, nonostante tutto, aveva appena vent'anni.

Non si era mai concesso di pensare agli uomini, Blaine.

Non si era mai concesso d pensare nemmeno all'essere innamorato di qualcuno, in verità.

Come un tabù proibito, come una malattia indecente, a chiunque, da bambino, veniva da sempre imposto l'altro genere di amore, quello puro, quello concesso, verso l'altro sesso.

Eppure, quel ragazzo pallido doveva aver fatto i conti con questa cosa, se lo bacia consapevole.

E Sebastian stesso, nonostante la posizione che ricopriva, non era mai riuscito a provare se non disgusto verso le donne, concedendosi svaghi passeggeri, piccoli peccati, che non sarebbero mai trapelati.


Era davvero così giusto odiare qualcuno con crudeltà per questo?

Avrebbe dovuto odiare e ripudiare il suo migliore amico... avrebbe dovuto condannare Kurt, e probabilmente

anche sé stesso.


Con l'alone di quella morte cieca e indegna, a cui aveva condannato il giovane, Blaine pianse contro quello stesso muro.

Smoderatamente. Violentamente. Singhiozzando, aggrappato come in fin di vita a quei mattoni che contenevano ancora un po' del calore di quel corpo.

Pianse come mai si era concesso prima, e quei pensieri che gli rodevano la testa e lo uccidevano.

Pianse soprattutto per tutta la rabbia e l'amore che avevano accompagnato le loro ultime parole insieme.

Quelle ultime parole che lo avrebbero accompagnato forse per sempre, insieme all'odio e al rimpianto.




 

PICCOLO ANGOLINO APPARTATO

Buonsalveeee! :DD

Spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto, come anche la pubblicazione in anticipo! <3

Come vi avevo promesso, eccoci qua.
Sebastian è riapparso, con un ruolo davvero importante! Spero solamente di averlo reso abbastanza IC, è la prima volta con questa fanfiction che scrivo di lui D:

Che dire, capitolo sempre abbastanza tosto, ma appena più leggero del precedente!

Il prossimo è davvero , DAVVERO importante! Potreste desiderarlo in molte xD

Solo che come sempre aggiornerò Martedì, quindi l'attesa potrebbe essere un po' più lunga <.<…

Auguratemi buon viaggio, alla settimana prossima!! :DDD

Grazie mille a tutti!! çAAç <3
  
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