Il
sole brillava
alto e caldo nel cielo pur essendo solo le prime ore del mattino. Il
calore non
era ancora abbastanza intenso da far evaporare le pozzanghere formatesi
la
notte precedente grazie a un temporale.
Bere
dell’acqua
fresca poteva essere la giusta contropartita di una notte passata
all’addiaccio, pensò con senso pratico un grosso
gatto assetato mentre la sua linguetta
lappava da una pozzanghera all’ombra di un caseggiato. In
quanto randagio, era
abituato a ripararsi in alloggi di fortuna ma non amava bagnarsi
– dopotutto,
era un felino.
Il
gatto sapeva
bene che nelle calde terre della Grecia meridionale non era facile
trovare
acqua ragionevolmente pulita con cui dissetarsi e aveva accolto come la
manna
dal cielo quella preziosa riserva che andava sfruttata prima che il
sole
implacabile gliela portasse via. Quello era inevitabile, ragion per cui
il
randagio aveva assunto un atteggiamento minaccioso nei confronti degli
altri
mici che osavano avvicinarsi al suo tesoro. Sapeva che non era
necessario
attaccare subito i rivali: tutti i gatti della zona, randagi e
domestici,
conoscevano quel gatto selvatico fin troppo bene. Giunto da lontano non
molto
tempo addietro, il nuovo arrivato aveva conquistato subito fama non di
un
semplice attaccabrighe, ma di un vero e proprio pericolo da cui stare
alla
larga. Ottimo cacciatore di uccellini, topolini e lucertole, non aveva
esitato
ad ammazzare qualche gatto per appropriarsi di qualche leccornia che lo
sventurato non aveva fatto in tempo a nascondere per completare il suo
pasto
giornaliero. Per questa ragione si era guadagnato il nome con cui era
conosciuto e di cui era orgoglioso: Sadik, il
“sadico”. Non avendo mai avuto un
nome in vita sua, aveva trovato che quel nome gli calzasse a pennello e
lo aveva
preso come suo.
Grazie
alla sua
abilità di cacciatore, non aveva avuto necessità
alcuna di fare il lecchino con
le gattare che portavano un po’ di cibo ai mici della zona in
cambio della loro
compagnia o, peggio ancora, barattare la sua libertà in
cambio di un giaciglio
morbido, un tetto sulla testa e croccantini mescolati agli avanzi del
“padrone”.
Il randagio disprezzava i gatti domestici: a suo modo di vedere la
situazione,
il benessere ottenuto in cambio di qualche coccola, grattatina e fusa
di “piacere”
erano un esempio di meretricio bello e buono.
La
sete intensa,
unita tuttavia alla paura di dover affrontare Sadiq faceva tentennare
diversi
gatti, posti a distanza di sicurezza dalla pozzanghera tanto ambita. Ma
ben
presto una voce umana venne accolta con gratitudine da tutti loro
(tranne che
da Sadiq ovviamente) che accorsero al richiamo.
Il
randagio si
irritò nel sentire quella voce fastidiosa, appartenente al
più assiduo tra le
gattare della zona. Era un uomo alto e giovane, l’unico tra
l’esercito di
vecchiette senza più una vita sociale - ammesso che ne
avessero mai avuta una,
pensò acido Sadiq. Provvisto di ciotole, bottiglie
d’acqua e croccantini, si
dava un bel daffare per nutrire tutte le bestiole che incontrava. Ogni
tanto se
ne portava via qualcuna malandata, dalla salute debole oppure ferita. I
primi
tempi i gatti del quartiere erano diffidenti verso il ragazzo,
soprattutto
quando qualche loro compagno anziano o malato non aveva fatto
più ritorno, e i
giovani feriti erano restii a farsi portar via. Quando però
altri mici
tornarono non solo sani e salvi ma perfettamente guariti, avevano ben
presto
capito che il ragazzo curava i gatti malati e assisteva fino alla fine
quelli
per i quali non c’era ormai più nulla da fare.
Come
ovvia
conseguenza, il ragazzo era divenuto ben presto l’idolo dei
gatti, che come i
fans adoranti di una rockstar si strusciavano addosso al loro beniamino
per
elargire tutte le coccole e l’affetto che il giovane sembrava
gradire molto.
Tutte
puttane i
gatti di questa zona, pensò schifato Sadiq. Nella sua terra
natìa, la Turchia,
i gatti non erano così ben visti. Erano tollerati per la
loro utilità nel far
sparire i topi, quello era vero, ma comunque non erano molto amati
dagli umani.
Sadiq aveva deciso che non avrebbe mai avuto a che fare con loro da
quando uno
di essi ebbe avuto la bella idea di usarlo come bersaglio col fucile.
Così, per
divertimento. Uno dei pallini l’aveva centrato a una natica,
lasciandogli vistosa
cicatrice, non appena la ferita si fu rimarginata. Una vera fortuna che
non era
finito azzoppato, e da quel giorno Sadiq aveva preso a vagabondare
sempre più
lontano, senza mai guardarsi indietro. Attraversato lo stretto dei
Dardanelli a
bordo di una nave – gli spazzini dei topi non potevano che
essere i benvenuti –
non aveva avuto particolari motivi per fermarsi in un villaggio situato
sulla
costa greca, semplicemente voleva riposare un po’ prima di
riprendere col suo vagabondaggio.
La
sua presenza
non era passata inosservata dagli umani stessi. La maggior parte
ovviamente lo
aveva ignorato, i bambini, avendo a disposizione gatti ben
più docili con cui
giocare, avevano imparato a non avvicinarsi (erano ben memori di pianti
disperati di alcuni compagni di giochi dopo qualche profondo graffio
ben
assestato dal gatto turco); persino le gattare non gli si avvicinavano,
ben
interpretando i soffi minacciosi di Sadiq, ciononostante non mancavano
mai di
lasciare una manciata di croccantini anche per lui. Il randagio non
disprezzava
certo il cibo ma non aveva mai mostrato un briciolo di gratitudine
verso quelle
megere.
Ma
se c’era
qualcosa che la Storia insegnava, era che i tiranni, presto o tardi,
sarebbero
stati costretti ad affrontare la propria caduta, e questo, un giorno,
fu
proprio ciò che accadde a Sadiq.
All’interno
di
un gruppo – nel caso specifico, un gruppo capitanato da dei
fratelli scansafatiche
provenienti dall’Italia – anche i gattoni
più mollaccioni si fanno coraggio e
tirano fuori un’indole vendicativa che mai avresti
sospettato. Sadiq si vide
ben presto chiuso in un’imboscata tenuta dai gatti adulti del
quartiere,
arcistufi di subire le angherie del turco. Fu una lotta impari, ma
anche se i
primi morsi e graffi avevano centrato efficacemente alcuni avversari,
nessuno
dei gatti della zona era fuggito, anzi, erano tornati alla carica per
sconfiggere l’odiato tiranno. Era troppa
l’esasperazione accumulata.
Non
era morto. Una
parte di Sadiq lo avrebbe desiderato, quale liberazione dalle
sofferenze per le
spaventose ferite su tutto il corpo. Un’altra parte aborriva
tale prospettiva –
no, non era paura – in quanto mai avrebbe voluto dare questa
soddisfazione a
quei vigliacchi che non avevano avuto il coraggio di affrontarlo uno
alla
volta. Piuttosto, sarebbe arso dal desiderio di vendetta se non fosse
stato per
il fatto che, in quel momento, ardeva soltanto per il dolore fisico e
l’umiliazione della sconfitta.
Alla
coscienza del
dolore e del desiderio di vendetta si sostituiva sempre più
spesso
l’incoscienza del delirio. Da quanto tempo stava fluttuando
nell’agonia? Non
avrebbe saputo dirlo, non riusciva a tenere il conto
dell’alternanza della luce
e del buio, e comunque non gli importava.
Sapeva solamente che, solo e senza cure, il destino a cui
stava andando
incontro era uno soltanto. Si abbandonò per
l’ennesima volta all’incoscienza,
rassegnato.