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Autore: Herm735    17/11/2013    7 recensioni
Raccolta di One-Shot per provare a dimostrare che, in qualsiasi modo, in qualsiasi mondo, Callie e Arizona si sarebbero trovate. L'ambientazione cambia di capitolo in capitolo, in epoche diverse, luoghi diversi, con una sola costante: il loro amore. Almeno, è così che mi piace pensarla...
Genere: Commedia, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash | Personaggi: Arizona Robbins, Callie Torres
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Ringrazio ancora tutti quelli che hanno recensito la storia!

Avvertimenti: AU






La nostra prima automobile con autista


Quello che hai non è mai abbastanza.
Anche quando hai tutto.
Quindi succede che, giorno dopo giorno, le più grandi cose smettono di meravigliarti e diventano un'abitudine. Lo straordinario diventa ordinario. E la sorpresa smette di essere nella tua vita, perché è all'ordine del giorno.
Ecco quindi che, avere tutto, è proprio come non avere mai avuto niente, perché ogni cosa è insignificante. Minuta. Inesistente.
Ogni stella diventa una scintilla e ogni oceano appare come una goccia.
Quando hai tutto, niente è abbastanza da renderti felice. Cercherai sempre qualcosa in più.

Salii in macchina con un sospiro, richiudendomi la porta alle spalle.
“Parti pure, Kate.”
“Non aspettiamo la sua amica, signorina?”
“Non stasera. La mia amica ha trovato compagnia” guardai fuori dal finestrino, vedendola ridere insieme ad un amico di suo fratello che ci era stato presentato quella sera. “Ricordami di cancellare il suo numero dalla rubrica, se domani mattina non si è fatta ancora sentire con delle scuse.”
“D'accordo, miss.”
Mise in moto, partendo e dirigendosi, senza che neanche dicessi una parola, verso casa.

La mattina dopo, mi svegliai giusto in tempo per essere in ritardo a lezione.
“Miss Robbins, che ha deciso per quel numero di telefono?” mi domandò la mia autista, guidandomi verso l'università.
“Hai ragione Amanda” estrassi il cellulare. “Menomale che mi ricordi tu di queste cose.”
Di solito non parlavo molto con lei. L'autista precedente, non avevo idea di quale fosse il suo nome, si era licenziato un paio di mesi prima. Mio padre aveva assunto una ragazza che aveva più o meno la mia età perché pensava che sarebbe stata di miglior compagnia, ma in due mesi non avevo nemmeno imparato il suo nome. Spesso non le dicevo neanche ciao, mi limitavo a non abbassare il vetro scuro che separava la sua parte della macchina dalla mia.
“Grazie Cathleen” le dissi, scendendo diretta verso la facoltà.

“Allora, come è andata ieri sera con Joanne?”
“L'ho lasciata alla festa. Era insieme ad un amico di suo fratello, sembravano presi.”
“Stai scherzando? L'hai piantata lì?”
“L'avrà accompagnata lui, Teddy. Fidati, non ha fatto nemmeno caso al fatto che me ne stessi andando.”
“Quindi che farai?”
“Niente. Non è interessata, mi pare ovvio. Sto pensando di invitare la ragazza del corso di spagnolo a prendere un caffè dopo scuola.”
“Se tuo padre sapesse che usi questa macchina per scarrozzare le tue fidanzate in giro non sarebbe così disposto a pagare per un'autista” mi fece notare.
“Ha anche altri usi. Io e te la stiamo usando per saltare le prime due ore in favore dello shopping, se non sbaglio. E per quanto io ne sappia, tu non sei una delle mie fidanzate.”
“Hai ragione. Ma quella rimane un'alta percentuale dell'uso che ne fai, o sbaglio?”
“Che posso dire? Alle donne piacciono le macchine di lusso.”
Teddy rise, scuotendo la testa e guardando fuori dal finestrino della BMW.
“E poi mio padre farebbe qualsiasi cosa. Dopo il divorzio, i soldi sono diventati il modo dei miei genitori di litigarsi il mio affetto. Mia madre mi compra una macchina appena compio sedici anni, mio padre mi compra un autista.”
“Come si chiamava quel tizio, comunque? Non sono mai riuscita a capirlo.”
“Jeff?” domandai, ridendo. “O forse Carl.”
“Non posso credere che in due anni non sei riuscita ad imparare nemmeno il suo nome” la ragazza al mio fianco rise di nuovo di me.
“Era solo il mio autista, Teddy. Non ho tempo per imparare i nomi di tutti quelli che lavorano per i miei genitori.”
Teddy non era ricca quanto me, ma non aveva nemmeno problemi finanziari. La sua famiglia era benestante. Non come la mia, da villa privata con piscina e autista per la figlia ventenne, ma non se la passavano male.
“Anton.”
La voce dal sedile anteriore della macchina ci distrasse.
“Come?” domandai.
“Il nome dell'autista. Era mio cugino. È così che ho avuto il lavoro.”
“D'accordo” lanciai un'occhiata a Teddy, alzando gli occhi al cielo e poi tornammo a parlare del più e del meno, ignorando totalmente la terza persona all'interno della vettura.

“Allora, sei molto brava con lo spagnolo, vero?” domandai con un sorriso che voleva far trasparire velatamente le mie intenzioni.
“Praticamente è la mia seconda lingua” confermò con un sorriso che di velato aveva ben poco. “Se hai problemi posso darti una mano.”
“In effetti, sono una frana con lo spagnolo. Lo faccio solo come corso supplementare, per staccare un po' da tutti quei maledetti corsi di matematica che devo seguire.”
“Sarei felice di aiutare. Con lo spagnolo e basta, però. Niente matematica.”
Io ero bravissima in matematica. Su quello di certo non avevo bisogno di aiuto.
“Certo, perché no” le dissi, guardando gli occhi scuri che mi stavano provocando, quasi sfidando, ad accettare. “Sentiamo che sai fare.”
Lei si avvicinò un po' di più, sempre sorridendo.
“Sé que usted se está preguntando cómo se sentiría besarme, tocarme, y...” avvicinò le labbra al mio orecchio. “Apuesto a que usted está pensando en jo-”
Un rumore ci distrasse improvvisamente, il vetro tra la parte anteriore e posteriore della macchina si stava alzando.
“Perché stai...”
“Io non ho toccato niente” la guardai, confusa almeno quanto lei.
Il pannello si bloccò a metà.
“Sono stata io” rispose l'autista. “Pensavo voleste un po' di privacy.”
Tirò su anche la seconda metà del vetro, isolandosi.
“Oh, mio Dio, dimmi che la tua autista non sa parlare spagnolo. Ti prego.”
Io risi. “Certo che no. Si chiama tipo Cassy White o qualcosa del genere. Di sicuro non sa una parola di spagnolo. Piuttosto” appoggiai una mano sulla sua gamba, sorridendole. “Cosa stavi dicendo di così scandaloso da non volere che la mia autista lo capisse?” le domandai.
Lei arrossì, evitando il mio sguardo.
“Ah, Lana, credo che tu sia appena stata beccata.”
“Ho solo detto che so che stai pensando a baciarmi.”
Io sorrisi nel modo più provocante che conoscevo.
“Allora non sei l'unica che è stata beccata.”
Poi, senza aspettare che la conversazione continuasse oltre la baciai. Ricambiò quasi subito.
“Signorina, siamo arrivati.”
Il microfono interno mi distrasse.
“Grazie Kristy. Rimarremo in macchina ancora qualche minuto. Se vuoi puoi andarti a fare un giro, o a prenderti un caffè.”
Senza aspettare una risposta lasciai il pulsante dell'altoparlante e ritornai alla mia occupazione corrente.
“Allora, nient'altro che vuoi dirmi in spagnolo, adesso che nessuno può sentire? Dai pure sfogo alla tua fantasia” le dissi, scrollando le spalle. “Tanto io non ne capisco nemmeno mezza parola, quindi puoi stare sicura che non riferirò.”
Lei rise, riprendendo a baciarmi senza aggiungere altro.
La cosa delle ragazze era più che altro per suscitare l'ira di mia madre. Non le andava giù che non riuscissi ad avere una relazione seria, nonostante ormai fossi da due anni al college. Pensava che fosse il momento di crescere, mentre io pensavo che fosse l'età migliore per farla incavolare così tanto da farla impazzire.
Ogni volta che mi urlava contro le usciva una vena pulsante sul lato sinistro del collo, lo trovavo spassoso.
Erano due anni che davo il peggio di me. Letteralmente. Sceglievo ragazze a caso, le portavo nel nostro attico, le facevo sedere sul divano e offrivo loro alcolici, nonostante avessero meno di ventuno anni. Poi aspettavo che mia madre rientrasse, le cacciasse e punisse me per un paio di giorni.
Loro sparivano nel nulla, per mia fortuna. Non dovevo nemmeno lasciarle. Ed io potevo vedere quella simpatica vena pulsare. Adoravo quando si arrabbiava. Mi faceva sentire come se finalmente contassi qualcosa nella sua vita. Mi faceva sentire...sentire qualcosa.
Lana, d'altra parte, non mi faceva sentire niente. Nessuna di loro mi faceva mai sentire niente.
Mi allontanai, voltandomi verso il finestrino. Non riuscivo nemmeno a guardarla negli occhi. Era stato un pessimo bacio. Peccato, perché la ragazza sembrava avere esperienza in fatto di donne, ma invece si era rivelata una delusione, proprio come tutte le altre. Non riuscivo davvero mai a provare altro che noia, solitudine o vuoto, quando ero con una ragazza.
“Scusami, mi è venuto un mal di testa atroce” le dissi, portandomi una mano alla tempia. “Forse mi sono presa l'influenza.”
“Non è un problema, lo capisco” mi sorrise, appoggiando delicatamente una mano sulla mia. “Ti va ancora quel caffè?”
Sospirai. “Non proprio. Che ne dici se ti faccio riaccompagnare a casa?”
“Sto a un paio di minuti da qui, a dire la verità. Posso andare a piedi. Ci vediamo domani in classe, magari?”
“Certo. Se sto meglio” le rivolsi un sorriso debole.
Lei lo ricambiò, uscendo dall'auto e richiudendosi lo sportello alle spalle.
Appena fu uscita abbassai il vetro.
“Jessie” chiamai, senza però ottenere risposta. Stavo sbagliando nome? Come si chiamava quella nuova, in ogni caso? Alzai gli occhi al cielo. “Jessie” ripetei a voce più alta. Quando non rispose mi sporsi e picchiettai sulla sua spalla.
La vidi togliersi velocemente le cuffie e accorgersi che la ragazza che prima era affianco a me era sparita.
“Mi scusi. Non volevo origliare.”
“Portami a casa, Jessie.”
Lei, senza rispondere, fece quello che le avevo chiesto.

“Com'è che puoi permetterti una macchina con autista?”
La domanda mi colse un po' di sorpresa. Di solito le persone che mi conoscevano appena si facevano di me l'idea che volevano, senza porre mai quella domanda ad alta voce.
Dopo qualche minuto, decisi di rispondere onestamente.
“Mio padre è un pezzo grosso dell'esercito.”
“Beh, deve essere molto in alto per potersi permettere una cosa del genere.”
Quella tipa era davvero, davvero irritante. In meno di due minuti di viaggio mi aveva già fatto saltare i nervi.
“Siamo quasi arrivate a casa mia. Ti va di salire? Potremmo prenderci un drink e rilassarci un po', mia madre non dovrebbe essere a casa prima di altre” guardai l'orologio che avevo al polso “due ore, come minimo.”
Che, in realtà, erano cinque minuti.
Lei ci pensò. Le offrii un sorriso complice, la promessa di un po' di tempo da sole dentro un appartamento vuoto e di qualcosa che, poco ma sicuro, non avrebbe ottenuto. Almeno, non quella sera. Non da me.
“Certo. Sembra un'idea fantastica.”
Ricambiò il sorriso.
Ed io mi preparai all'ennesima scenata di rabbia.
Un giorno, continuavo a promettermi, un giorno avrei smesso di fare del male a me stessa, a mia madre e a ragazze che non conoscevo solo perché la rabbia era un sentimento, l'odio era un sentimento, ed erano entrambi migliori di non averne nessuno.
“Siamo arrivate, signorina. Pensa di dover uscire di nuovo?”
“Aspetta Beth, va bene Lindsey? Se vuole un passaggio quando scende portala dove ti chiede” guardai la ragazza al mio fianco. “Non ci vorranno più di un paio d'ore” mormorai distrattamente, sapendo benissimo che sarebbe stata di nuovo giù nell'arco di un quarto d'ora. “Se non viene a chiederti un passaggio, allora torna a casa.”
“D'accordo miss Robbins. Buona serata.”

Venti minuti dopo entrai di nuovo dentro la BMW.
“Guida.”
Lei raddrizzò la schiena, accendendo il motore.
“Verso dove?”
“Dovunque. Il posto più lontano da qui che conosci.”
Notando quella nota della mia voce fuori posto guardò nello specchietto ed incrociò i miei occhi, pieni di lacrime.
Iniziò a guidare senza neanche un'altra parola.
“Sta bene, miss Robbins?”
Non risposi, continuai a guardare Baltimora scorrere fuori dal finestrino.
“Quella ragazza le ha fatto qualcosa?”
“Guida e basta.”
“Vorrei solo aiutarla” mormorò piano, quasi spaventata della mia reazione.
Per qualche istante rimasi in silenzio, contemplando le sue parole.
“Mia madre l'ha cacciata via, come ha fatto tutte le altre volte” risposi dopo aver deciso che non mi importava poi molto sapere se era sincera o no. “Stavolta però non si è nemmeno arrabbiata più di tanto, mi ha solo guardato come se se lo aspettasse. Come se si fosse rassegnata al fatto che sua figlia è una ragazza facile.”
“Oh, mi creda, lei non è facile, miss Robbins. Di tutte le cose che è, in questi tre mesi ho imparato che facile non è tra quelle. No, lei è tutto tranne che facile.”
“Non mi suona molto come un complimento” replicai subito.
Vidi i suoi occhi dallo specchietto e capii che stava sorridendo.
“Oh, stai scherzando” osservai ad alta voce. “Non lo trovo molto divertente” le feci notare, stando al gioco.
Lei tornò a concentrarsi sulla strada, prendendosi un paio di minuti per elaborare una risposta diversa.
“E poi, quelle ragazze” riprese all'improvviso, come se stesse continuando un discorso avvenuto solo dentro la sua testa “non è stata mica con tutte loro, no?”
Io risi, senza rispondere.
“Lei non è una ragazza facile. In nessun senso della parola, ma soprattutto non in quello che intende sua madre. Ho capito il gioco che fa con loro. State su solo qualche minuto prima che arrivi sua madre, non mi sembra che ci sia il tempo materiale.”
“Che ne sai? Magari sono brava fino a quel punto.”
La sentii ridere, fissando lo specchietto retrovisore, mentre lei era concentratissima sulla strada.
“Nessuno è bravo fino a quel punto” alzò gli occhi ed incontrò i miei.
Ed io sorrisi sinceramente, per la prima volta da non riuscii a ricordare quanto tempo. Ma di sicuro era stato prima che avessi lei come autista e perfino quell'auto privata. Forse prima che avessi perfino compiuto sedici anni.
Non lo so. So solo che la scintilla nei suoi occhi mi fece sorridere.
“Forse sei tu che non ne hai conosciuti di così bravi. Forse sei sfortunata.”
“Forse” concesse. “Forse dovrebbe tornare a casa e provare a dormire un po'. Domani mattina deve andare a scuola.”

Era appoggiata sul cofano della macchina. Aprì la portiera per me e per Teddy e salì in macchina dopo aver richiuso, mettendo in moto.
“Ti ricordi come arrivare a casa di Teddy, vero Debby?” le domandai.
“Certo, miss Robbins.”
Accese la macchina e partì senza aggiungere altro. Era abituata al fatto che io e lei non parlavamo, era solo il modo in cui le cose erano.
“Trovo davvero esilarante il fatto che tu non abbia la più pallida idea di quale sia il suo nome ed ogni giorno ti limiti a sceglierne uno nuovo” mi disse Teddy.
“Non sembri divertita. Anzi, sembri molto seria.”
“Perché quando ho detto esilarante intendevo assurdo e presuntuoso.”
“La chiamo con nomi a caso perché non mi ha mai detto come si chiama davvero.”
“Beh, e tu chiediglielo” suggerì come se fosse ovvio.
“Non mi dirà il suo nome” la avvertii come se fosse scontato.
Lei corrugò la fronte, guardandomi come se pensasse che la stessi palesemente prendendo in giro.
“Che significa, scusa? Ci hai almeno provato?”
Io sospirai della sua caratteristica testardaggine.
“Come ti chiami, autista?” chiesi ad alta voce.
“In qualsiasi modo voglia chiamarmi oggi, miss Robbins.”
“Questa è la terza volta che lo chiedo in quattro mesi e la risposta è sempre la stessa. Lei non vuole dirmi il suo nome ed io posso benissimo vivere senza saperlo.”
“Come mai non vuoi dirle il tuo nome?” le chiese Teddy, palesemente incuriosita da quella storia, quasi quanto me. Anche se io non volevo ammetterlo.
“Un giorno se lo dimenticherà, in ogni caso. Avrà altri dieci autisti dopo di me, una quarantina almeno di camerieri, più di cinquanta dipendenti dei suoi genitori che vedrà di tanto in tanto e qualche altra dozzina di persone, che fanno lavori di giardinaggio o idraulica nella villa di suo padre. Non avrebbe senso imparare tutti quei nomi, davvero. Quindi può sceglierne uno e usarlo, così non dovrà fare un giorno la fatica di dimenticarselo.”
“Ha promesso di dirmi se un giorno dovessi indovinare il suo vero nome, però” dissi a Teddy, ridendo appena. “Allora, hai rivisto il tipo della piscina o ancora non si è nemmeno degnato di mandarti un sms?”

“Allora, è felice che sia finalmente arrivato il fine settimana?”
“Molto” risposi distrattamente.
Il viaggio in macchina da Baltimora alla villa di mio padre durava quasi tre ore, che le prime volte avevamo passato nel silenzio più totale. E anche dopo mesi, raramente parlavamo.
“Sono passati sei mesi e ancora non so il tuo nome” realizzai all'improvviso. “Se non l'ho indovinato adesso, temo che non ci riuscirò mai.”
Lei rise, senza darmi altra risposta.
“Che ha intenzione di fare questo weekend?”
“Ti piace più parlare di me, non è vero? Non so quasi niente di te.”
“Sì, miss Robbins.”
“Sai, tuo cugino non parlava mai. Avrà detto a malapena sei parole in due anni. Ero convinta che gli autisti fossero per contratto obbligati al silenzio assoluto.”
“Se preferisce posso evitare di parlare.”
“Ma no, la tua voce mi tiene compagnia.”
Catturai i suoi occhi attraverso lo specchietto.
Il suo sguardo mi faceva qualcosa di strano, non avevo ancora capito se era una cosa positiva o no. “Mi chiamo Calliope, miss Robbins. Ma tutti mi chiamano Callie.”
Mi sporsi in avanti, avvicinandomi a lei il più possibile e tendendo una mano in avanti attraverso lo spazio tra i sedili. Lei, ridendo, la prese e la strinse.
“Piacere di conoscerti, Calliope. Io mi chiamo Arizona.”
“Il piacere è tutto mio, miss Robbins.”

“Sono distrutta.”
“La vedo stanca, in effetti” osservò, vedendomi praticamente sdraiata sui sedili posteriori.
“Gli ultimi tre mesi di università mi stanno distruggendo, Calliope.”
“Ne so qualcosa” rispose ridacchiando.
“Tu frequenti l'università?” domandai incuriosita, sporgendomi immediatamente verso di lei ed appoggiando un gomito sul sedile anteriore destro.
“Frequentavo. Ho fatto due anni e poi ho smesso.”
“Come mai?”
La vidi esitare. Capii di aver probabilmente oltrepassato un limite.
“Non fa niente, se non vuoi rispondere. So che non sono affari miei.”
“Non mi potevo permettere l'iscrizione alla scuola di medicina. Ho terminato la pre-med school e ho dovuto interrompere.”
“Mi prendi in giro? Io sto finendo i due anni proprio ora.”
“Lo so, miss Robbins” mi fece notare con un sorriso.
“Puoi iscriverti il prossimo anno insieme a me.”
“Non li ho ancora, quei soldi.”
“E i tuoi genitori?” domandai di riflesso.
“Andati.”
“Oh, Dio, mi dispiace moltissimo.”
“No, non sono morti” si affrettò a chiarire. “Solo, non mi parlano più. Abbiamo litigato molto seriamente. Così sono due anni che sto facendo dei lavori per mettere insieme i soldi per l'università. Anton e gli zii mi danno una mano, mi stanno ospitando e pagano il vitto, ma non voglio pesargli più di così. Per il resto devo farcela da sola.”
Io studiai il suo profilo per qualche istante.
“Mio padre potrebbe aiutarti. Non sarebbe niente di che, per lui, in termini economici.”
“Il signor Robbins è già molto generoso a pagarmi quello che mi paga, si fidi, signorina.”
“Sono sicura che se glielo chiedi...”
“Non farò l'elemosina a suo padre miss Robbins” mi rispose con decisione. “Allora, la ragazza di ieri sera, quella Gabrielle, che fine ha fatto?”
Capii che la conversazione era finita proprio in quel momento.
Scrollai le spalle.
Tornai a sdraiarmi sui sedili posteriori.
“Mia madre l'ha cacciata, come al solito. E mi ha urlato contro per qualche minuto. Ho dato un'occhiata fuori dalla finestra ma la macchina non c'era, quindi ho pensato che fossi già tornata a casa. Peccato, mi avrebbe fatto comodo un giro in auto.”
“Mi dispiace, miss Robbins. Aveva detto di andare ed avevo un appuntamento.”
Quello attirò la mia attenzione, voltai lo sguardo verso lo specchietto. I suoi occhi sfuggirono ai miei e tornarono sulla strada. Mi stava guardando.
“Un appuntamento in senso romantico?” chiesi, non riuscendo a trattenermi.
Lei non rispose subito. Non era a suo agio a parlare con me della sua vita privata.
“Come si chiama lui?”
La vidi, o più che altro la percepii, cedere alla mia insistenza.
“George.”
“E ti piace molto?”
“Abbastanza. Ma a lui piace un'altra. Ha parlato di lei per tutta la sera.”
“Beh, allora è un idiota. O è cieco. O entrambi.”
Lei rise, scrollando le spalle.
“Ho fatto come fa di solito lei, signorina. Ho cancellato il suo numero appena stamani ho visto che non c'era nessun messaggio di scuse ad attendermi.”
“Vedi? Impari in fretta. Sarai un ottimo medico.”

“Che ti è sembrato della serata, Arizona?”
“Non lo so. Troppa gente vecchia, credo. Dovresti cercare di attirare un pubblico più giovane, mamma.”
“Tu dici? E come dovrei fare, secondo te?”
Scrollai le spalle.
“Dovresti vendere vestiti per ragazze più giovani, non solo per donne adulte.”
“Che hanno di poco giovanile i miei vestiti?” mi domandò voltandosi nella mia direzione.
Continuai a guardare in avanti, scrollando di nuovo le spalle.
“Per prima cosa, sono fatti con troppa stoffa. Le ragazze si vestono con molta di meno. Poi, i motivi floreali non vanno più di moda dagli anni '70. c'è un negozio vintage che li vende ancora, però, se proprio ti piacciono i fiori, e che riesce a farli sembrare abbastanza moderni. Se vuoi possiamo andarci, uno di questi giorni. Calliope, te lo ricordi, quello davanti alla caffetteria che fa anche cioccolata calda?” chiesi, sporgendomi verso di lei.
“Ho capito quale intende, miss Robbins.”
“Quando è l'ultima volta che ci siamo state?”
“Non saprei. Un paio di mesi fa, forse?”
“E come mai non ci torniamo da così tanto?”
“Non le piacciono i motivi floreali vintage, miss Robbins.”
“Hai ragione, come sempre, Calliope. Potremmo andare al negozio ad un paio di isolati dall'università. Quello non vende niente che abbia a che fare con i fiori ed è molto che non ci facciamo un salto.”
“Non aveva litigato con il commesso, miss Robbins? Quello era il negozio dove il ragazzo inquietante le ha toccato il sedere facendo finta di voler indovinare la sua taglia.”
“E come mai non ho fatto licenziare il commesso?”
“Forse perché è troppo gentile, miss Robbins” scherzò, strappandomi una risata.
“Va bene, Calliope. Allora la prossima volta scegli tu.”
“Come preferisce, miss Robbins.”
“Ricordami ancora perché non hai voluto prendere la mia macchina” sussurrò mia madre. “Il mio autista non parla così tanto.”
“Sono stata io a chiedere a Calliope queste cose, mamma. Ed il tuo autista non parla perché ha settantacinque anni suonati e non ci sente più da un orecchio. Non salirei in una macchina guidata da lui per nessun motivo al mondo.”
“Beh, questa ragazzina che ha assunto tuo padre non sembra avere la giusta esperienza.”
“Calliope ha un anno più di me ed ha già terminato la pre-med school, mamma. Ha un sacco di esperienza.”
Mia madre aveva un debole per i medici. Era più forte di lei. Quello era uno dei motivi per cui volevo fare medicina: guadagnarmi la sua stima.
“Da dove vieni, signorina...”
“Torres” rispose velocemente. “Vengo da Miami. Adesso vivo qui a Baltimora dai miei zii.”
“E sta ancora frequentando medicina?”
“No, signora. Lavoro sedici ore al giorno, più straordinari. Non avrei tempo, anche volendo.”
“Mia figlia sa essere molto impegnativa” concordò. “Come mai hai smesso con l'università?”
“I suoi genitori hanno smesso di pagarle la retta. Per questo ha deciso di fare questo lavoro, per potersi pagare l'università” spiegai.
“Ho molta esperienza in fatto di macchine, però, non si preoccupi signora Robbins. Mio padre ne aveva molte ed io sono cresciuta dietro il volante di una Thunderbird.”
Altro punto debole di mia madre? Le macchine d'epoca.
“Mi piace questa autista, tesoro. Ricordami di dire a tuo padre di darle un aumento.”

“Non scendi mai insieme a me, Calliope.”
Lei accostò la macchina, parcheggiando quasi davanti al negozio in cui eravamo dirette.
“No, miss.”
“Le cose devono cambiare, allora. Ti annoierai in macchina da sola, giusto? Quindi perché non vieni con me?”
“Pensa davvero che sia una buona idea, miss Robbins?”
“Certo, perché non dovrebbe? Puoi aiutarmi a scegliere un nuovo completino intimo.”
“Questo è esattamente il motivo per cui non mi sembra una buona idea.”
“Hai ragione” concordai, aprendo lo sportello e scendendo. Poi, senza pensarci, aprii anche il suo, osservandola guardarmi con aria sorpresa e confusa. “Ci conosciamo a malapena. Inizieremo con un vestito da sera, o un paio di jeans, o qualcosa del genere, e lasceremo il completino intimo per la prossima volta.”
Lei, capendo che non avrei mollato, si affrettò a scendere dalla macchina, richiudendo la portiera e poi l'auto con il comando centralizzato.
“Ne è proprio sicura, miss Robbins?”
Io, senza rispondere, sorrisi ed iniziai a camminare.
Quando uscimmo dal negozio lei si affrettò a prendere le buste al posto mio, rivolgendomi un sorriso debole.
“Mi permetta almeno di aiutarla, se proprio vuole portarmi con sé.”
Io la lasciai fare, persa nel suo sguardo gentile e in quel suo timido sorriso.

“Dove andiamo?”
“Dovunque. In un posto bello. Basta che sia lontano da qui.”
Lei, senza dire niente, partì. Sapevo che le domande sarebbero arrivare prima che la macchina svoltasse l'angolo dell'isolato.
“Ha di nuovo litigato con sua madre?”
“Guida e basta, Calliope” la risposta uscì più dura di quella che avevo programmato.
“Mi scusi, miss Robbins. So che non sono affari miei.”
Io sospirai, sentendo il peso del silenzio che presto scese sulla macchina.
“È solo che...non va mai bene, capisci? Non è mai abbastanza, qualsiasi cosa faccia.”
Lei non rispose, cercando di capire che intendessi.
“Non porto più ragazze a casa, non faccio più tardi se il giorno dopo ho scuola, cerco di comportarmi al meglio. Ma lei continua a trovare cose da criticare. A volte penso che ci provi davvero gusto.”
“Cosa le ha detto?”
“Ha detto che dovrei mettere la testa a posto. Che sta arrivando l'estate e il prossimo anno frequenterò medicina, che non posso più tornare a casa la domenica mattina perché sabato sera c'è una festa, che dovrei trovare una persona e frequentarla seriamente, che dovrei smettere di spendere tutti i soldi che spendo per vestiti e altra roba inutile. In questi mesi il conto della carta di credito è stato particolarmente alto.”
“Non voglio farla arrabbiare, miss Robbins, ma ha mai pensato che forse sua madre potrebbe avere ragione su alcune di queste cose?”
“Oh, certo, come no. Ho ventuno anni, dovrei smettere di bere adesso che è legale e sposarmi.”
Lei rise, incontrando i miei occhi nello specchietto retrovisore.
“Magari non su quello. Ma sullo spendere troppo per i vestiti e il diradare un po' gli eventi mondani, senza abbandonarli del tutto.”
“Ma i vestiti che compro sono molto belli. Tu lo sai, negli ultimi due mesi mi hai accompagnato sempre.”
“I suoi vestiti sono bellissimi, ma ha davvero bisogno di tutti? Lo sa, suo padre lavora duramente per guadagnare quei soldi, così come sua madre.”
Pensai al valore che quei soldi avevano, che era così diverso per me e per lei.
Con i vestiti che avevo comprato nell'ultimo anno, lei si sarebbe probabilmente potuta pagare almeno un paio d'anni di college. Il senso di colpa bussò subito insistentemente.
“Hai ragione, Calliope” concessi in un sussurro. “Tu hai sempre ragione.”
Tornai a guardare fuori dal finestrino, rendendomi conto che non riconoscevo le strade che stavamo percorrendo.
“Dove stiamo andando?”
“In un posto dove fanno un caffè ottimo, l'unico che conosco aperto di domenica mattina.”
Io sorrisi a me stessa.
“Ho proprio voglia di un caffè.”
“Perfetto, miss Robbins.”
Quando arrivammo si affrettò a scendere e ad aprire la portiera per me.
“Vuole che la accompagni?”
“Che domande, certo che devi accompagnarmi. Voglio offrirti questo caffè che dici essere così buono, Calliope.”
“Allora andiamo, signorina” mi sorrise, facendomi strada.
Quando ci sedemmo dentro quel piccolo locale, i nostri caffè in mano, per la prima volta ci trovammo faccia a faccia.
“Sai, è strano. Sono abituata a vedere sempre le tue spalle” realizzai.
Lei rise, facendo fare mezzo giro alla sedia.
“Adesso va meglio?” domandò. “Certo, la gente potrebbe prenderci per pazze, però almeno lei non si sentirebbe a disagio.”
“Non sono affatto a disagio, Calliope. E preferisco vedere i tuoi bellissimi occhi e il tuo sorriso disarmante. Non che tu non abbia una bella schiena.”
Lei, pensando che scherzassi, rise, voltandosi poi di nuovo nella mia direzione con la sedia.
“Allora, le piace questo caffè?”
“È eccellente. Ricordami di non dubitare mai dei tuoi gusti.”
“Lo farò, signorina” rispose, ancora ridendo.
“Dove mi porti a pranzo?”
“A pranzo?”
“Sì, a pranzo. Non voglio tornare a casa e non puoi farmi morire di fame.”
“Il suo ristorante preferito?”
“Quello giapponese?”
“Il francese.”
“Ah, ho capito. Certo, se a te piace il francese.”
Lei mi rivolse un mezzo sorriso.
“Non posso permettermi quel ristorante, miss Robbins. Non posso permettermi i posti dove va lei di solito.”
“Non preoccuparti di quello, oggi sei mia ospite. È un ringraziamento per il consiglio che mi hai dato, e da domani, niente più spese folli.”
“Non deve preoccuparsi per me, signorina Robbins. Io posso aspettare in macchina.”
“E farmi pranzare da sola? Non se ne parla, mi annoierei a morte. Consideralo parte del tuo lavoro, Calliope. Non te lo sto nemmeno chiedendo, in realtà. Andiamo, ci vuole un po' per arrivarci ed io sto iniziando ad avere fame.”
“Non ha fatto colazione neanche stamani, miss Robbins?”
“Ero di fretta” minimizzai.
Lei lasciò dieci dollari sul tavolo, alzandosi.
“Calliope...”
“Mi lasci almeno offrirle il caffè. So che non è molto, paragonato al ristorante francese, ma...”
“È perfetto” la bloccai. “Il gesto, il pensiero, è davvero perfetto. Ti ringrazio.”
Lei corrugò la fronte, aprendo la porta per me. Poi, all'improvviso, lo capì.
“Nessuno le aveva mai offerto un caffè?”
“Io sono sempre quella più ricca. Tra i miei amici, o con le ragazze con cui esco, così mi sento sempre in dovere di offrire tutto. No, nessuno mi aveva mai offerto un caffè.”
Lei mi sorrise.
“Sono onorata di essere la prima.”
“Sei davvero affascinante” sorrisi, studiando i suoi lineamenti. “Scommetto che i ragazzi cadono ai tuoi piedi. Come è andata a finire con come-si-chiamava?”
Lei, come sempre pensando che scherzassi, si limitò a ridere.
“Ho cancellato il suo numero, non si ricorda?”
“Ah, hai ragione. Allora dobbiamo trovarti un altro ragazzo.”
“A dire la verità, qualcuno ci sarebbe.”
Io finsi di trasalire. “Ti prego, dimmi che sono io” mi appoggiai una mano sul cuore teatralmente, usando l'altra per prendere la sua.
Lei rise, arrossendo leggermente.
“Una delle assistenti personali di sua madre. È un po' troppo grande per me, però, mi tratta come una ragazzina.”
Corrugai la fronte.
“Ti piacciono anche le ragazze?” domandai, onestamente curiosa.
Lei annuì, incerta.
“Non pensavo sarebbe stato un problema, miss Robbins.”
“Ma no, come ti viene in mente. Sono solo molto curiosa, Calliope. Tu sai tutto di me ed io ho ancora un sacco di cose da imparare su di te.”
Aprì la porta dell'auto per me, sorridendomi in modo disarmante ed aiutandomi a salire grazie alla mano che ancora mi stava tenendo. Io sorrisi a me stessa della gentilezza che risiedeva nel cuore di quella donna e la guardai di sottecchi, le fossette in mostra.
“Non si arrabbi se glielo dico, miss Robbins” sussurrò guardandomi a sua volta di sfuggita. “Ma lei ha il più bel sorriso che io abbia mai visto.”
Richiuse la portiera, salendo poi sul sedile anteriore.
“Non quanto il tuo, Calliope. Non quanto il tuo” mormorai.

“Buongiorno!” salutai allegramente, entrando in auto.
“Buongiorno, miss Robbins.”
La guardai iniziare a guidare e solo dopo qualche istante mi resi conto della busta bianca al mio fianco.
“Calliope, hai messo tu questa busta qui o stiamo per saltare in aria?”
Lei rise, scuotendo la testa.
“Non oggi, miss Robbins. Quella è la sua colazione, so che corre sempre fuori dall'attico prima che sua madre possa trovarla, quindi le ho portato io la qualcosa da mangiare.”
Sfiorai la busta con le mani, aprendola per dare un'occhiata all'interno.
“Non ce n'era bisogno, non dovevi farlo.”
“No, non dovevo. Ma volevo farlo.”
“Ti sei ricordata la mia preferita. Ripiena alla crema con glassa al cioccolato” mormorai, estraendo una ciambella dalla busta.
“E le ho preso un caffè, miss Robbins” ricordò all'improvviso, afferrandolo dal porta bevande al suo fianco e tendendolo nella mia direzione. “Cappuccino con panna.”
“Sei troppo buona con me” mormorai, ancora incredula.
“Non sia ridicola, miss Robbins, nessuno potrebbe mai essere troppo buono con lei. Si merita ben più di una ciambella ed un caffè.”
Sentii una stretta al cuore. Aveva speso i soldi della sua colazione per portarla a me? Solo perché ero troppo testarda per vedere mia madre di mattina il tempo necessario da versarmi una tazza di caffè?
“Ti va di fare colazione insieme, da domani mattina?” buttai lì casualmente, addentando la ciambella. “Potrei scendere qualche minuto prima e così mi faresti compagnia. Potremmo fermarci al bar all'isolato prima dell'università, prendere un caffè.”
“Come preferisce, signorina.”
Io rimasi in silenzio, osservando il caffè tra le mie mani, mangiando la ciambella che mi aveva portato.
“È incredibile come riesci sempre a sorprendermi, Calliope. Anche con il più piccolo dei genti. Non pensavo che niente potesse più riuscirci, ormai.”
“Ne sono felice, miss Robbins.”

La colazione insieme diventò ben presto un rituale mattutino. Lei prendeva sempre solo un caffè, quindi era stato facile convincerla a lasciarmi pagare.
“Indossi sempre la stessa divisa. È stato mio padre a sceglierla?”
“Sì, miss Robbins.”
“Quante te ne ha comprate?”
“Quattro. Ma una l'ho lasciata da parte, se mai una delle altre si rompesse.”
“È troppo cupa. Pantaloni e giacca neri, camicia bianca, troppo classica. Non è per niente nel mio stile.”
Lei rise, aprendo la portiera dell'auto per me.
“Guidare con un vestito da sera non sarebbe il massimo per la sua sicurezza, temo.”
“Ma sarebbe il massimo per i miei occhi” mormorai, salendo.
“Prego?”
“Niente.”
Lei, con un sorrisetto consapevole, richiuse la portiera, accomodandosi nel sedile anteriore.
Non mi piaceva più essere confinata sul retro. Non quando significava che non potevo più vederla, una volta che eravamo salite in macchina.
“Credo di essere dipendente da questo caffè. È spettacolare, il più buono della città” osservò.
“Fidati Calliope, tu non sai cosa significa essere dipendenti da qualcosa” le dissi con leggerezza, ridendo.
“E lei lo sa, miss?” domando ridendo di cuore.
Io sorrisi appena della domanda così casualmente tirata nella mia direzione.
“Chi ha una dipendenza è intelligente, è furbo, tiene sempre d'occhio la situazione. Sa esattamente cosa ha preso, quanto e quando e sa che lo farà di nuovo, quando e quanto. Conta le ore, i minuti, conta e non fa altro. Tutto il resto, mangiare, dormire, diventano solo cose fatte per non morire nel frattempo, per arrivare alla fine del conto alla rovescia che stai tenendo con te stesso. La cosa divertente è che è impossibile da vedere. Diventa così paranoico, chi ha bisogno di qualcosa al punto da sviluppare una dipendenza, che fa di tutto per nasconderlo, perché ha troppa paura di perderlo. E ci riesce, ci riesce così bene che nessuno potrebbe mai accorgersene. Se non sai che c'è un problema, se non sai cosa e dove cercare, scoprire una dipendenza è impossibile. Questo è il bello, il problema non si vede, non esiste finché qualcuno non lo scopre, ma a quel punto è troppo tardi. Sia che ad accorgertene per primo sia tu o qualcun altro, è troppo tardi. È già lì, è già troppo forte, ti sta già trascinando a fondo. La caduta diventa inevitabile. Tanto inevitabile che non ci provi neanche a smettere, continui a cedere, ripetendoti che è l'ultima volta, quando sai benissimo che non è vero. Vai avanti finché la verità non viene alla luce. O finché tu sparisci nelle tenebre.”
Non potevo vedere il suo viso, ma percepivo la sua perplessità.
“Mi scusi, miss Robbins. Non volevo essere invadente.”
“Non lo sei stata. Non avrei risposto se non avessi voluto farlo, Calliope.”
Lei si voltò appena, gli occhi sempre sulla strada, pronta per dire qualcosa. Ma non parlò.
“Qualche volta ho bisogno che qualcuno sia invadente. Nessuno lo è mai, con me. Nessuno sa niente su chi sono davvero, nemmeno le persone che mi stanno più vicine.”
“C'è un problema da cercare, signorina?” si decise a chiedere.
“Non preoccuparti per me, Calliope. Non c'è niente che non sia come deve essere.”
“Ma, miss Robbins, io non faccio altro. Non faccio che preoccuparmi per lei ogni volta che arriva con due minuti di ritardo. È il mio lavoro.”
“Il tuo lavoro è guidare. Non tenerci. Ma tu ci tieni ed è una cosa che mi piace di te. E continuerà a piacermi anche quando smetterà di importarti di me, quando capirai che non ne vale la pena.”
“Lei si sottovaluta, miss Robbins. Dice sempre che sono troppo buona con lei o che non se lo merita, qualsiasi cosa faccia, anche il gesto più piccolo, e anche quando non lo dice so che lo sta pensando. Ma io faccio l'autista di mestiere, lei un giorno sarà un grande medico, laureata alla Hopkins, farà grandi cose.”
“Posso confessarti una cosa?”
“Spari.”
“Tra trent'anni non mi ricorderò il nome di più di metà delle persone nella mia classe, ma mi ricorderò di quella prima mattina in cui mi hai portato la mia ciambella preferita, Calliope.”
Lei mi guardò attraverso lo specchietto e, dopo un attimo di sorpresa, sorrise.
“Grazie, miss Robbins.”

La vidi sorridere appena aprii la porta dell'edificio. Mi stava già aspettando.
“Miss Robbins” mi salutò.
“Da quanto ci conosciamo, Calliope?” le domandai, accettando la mano che mi porgeva e salendo mentre lei teneva aperto lo sportello.
“Più o meno un anno, miss Robbins.”
“Più o meno” concessi. “Sai, le persone che conosco da così tanto mi chiamano Arizona.”
“Non mi permetterei mai” si affrettò a dire, accendendo il motore.
“Stamani andiamo a casa di Teddy” mormorai, sporgendomi verso di lei. “Ha detto che stava preparando la colazione, ha insistito perché ci unissimo a lei.”
“Perfetto, signorina Robbins.”
Le era forse sfuggito il plurale nella mia frase?
Guidò fino all'appartamento di Teddy, parcheggiando alla fine dell'isolato.
“Andiamo” la incoraggiai.
Lei scese dalla macchina, richiudendola e guardandomi con un sorriso impacciato. Il sorriso impacciato più affascinante del mondo.
“Spero che ti piaccia anche il salato, per colazione. Di solito Teddy esagera, con queste cose. E ti avverto che dirle che non hai più fame, non funzionerà” la avvertii mentre ci avvicinavamo all'ingresso dell'edificio.
Solo allora la vidi corrugare la fronte.
“Pensavo di doverla aspettare nell'atrio.”
Scossi la testa. “Sono mesi che non aspetti più Calliope, vieni sempre con me, no? Sei sempre al mio fianco.”
“Ma stavolta ci sarà Teddy. Non ha bisogno della mia compagnia.”
“Non ne ho mai bisogno. È solo che la tua compagnia mi piace così tanto che non vedo perché dovrei privarmene. E poi, Teddy ha invitato entrambe.”
“Non ci credo neanche per un momento, miss Robbins.”
“Aspetta e vedrai.”
Quando bussai all'appartamento, Teddy aprì dopo un paio di minuti.
“Siete arrivate. Entrate, mia madre ci ha preparato la colazione. Callie, finalmente ti vedo anche fuori dalla BMW” ci salutò, abbracciando prima me e poi lei, cogliendola alla sprovvista. “Spero che vi piacciano le uova strapazzate. Sono il piatto del giorno.”

“Allora, ci ho pensato e, per quanto mi sarebbe piaciuto da morire poter frequentare medicina insieme, così è anche meglio” iniziai, sporgendomi come sempre nella sua direzione. “Sì, perché non dovrai comprare i libri, potrai usare i miei. È un passo avanti, Calliope, giusto?”
Lei mi sorrise, voltando appena la testa di lato e tenendo gli occhi sulla strada.
“Sarebbe fantastico, miss Robbins.”
“Certo, avrei preferito essere nella stessa classe. Avremmo potuto preparare tutti gli esami insieme, io, te e Teddy. Ci saremmo divertite un sacco.”
“Non penso che io, lei e Teddy avremmo studiato molto, insieme.”
“Ma è proprio quello il bello del college, Calliope.”
Lei sospirò, fermandosi alla luce rossa di un semaforo e voltandosi verso di me con un mezzo sorriso.
“Il prossimo anno, magari, miss Robbins.”
Ricambiai il sorriso tirato.
“Già. Il prossimo anno” mormorai. “Vedrai, Calliope, userai i miei libri e ti aiuterò a studiare, se lo vorrai. Andrai alla grande, lo so.”
Riprese a guidare, senza rispondere.
Odiavo quando lo faceva, lo odiavo. Non riuscivo a capire quello che pensava, se non mi parlava, perché non potevo vedere i suoi occhi.
“Accosta.”
“Come?”
“Accosta, per favore.”
Lei fece come richiesto, accostando la macchina e mettendo le quattro frecce.
“Si sente bene, miss Robbins? Questo è un posto pericoloso in cui sostare, forse è meglio...” smise di parlare quando mi vide scendere dalla macchina. Si voltò con aria confusa, vedendomi rientrare nel posto del passeggero anteriore. “Che sta facendo?”
“Non voglio più che mi porti in macchina” ammisi. “Voglio solo stare in macchina insieme a te.”
Mi rivolse un sorriso piccolo, ma così tenero.
“Lei è davvero speciale, miss Robbins.”
Sospirai, studiando il suo profilo mentre mi allacciavo la cintura.
“Allora, come posso convincerti a chiamarmi Arizona?”
Rise, ma non rispose.

Aprii lo sportello dal lato del guidatore, porgendole una mano. Lei corrugò la fronte, fissando la mia mano tesa come se ci fosse stato un unicorno sopra.
“Che sta facendo, signorina?” domandò, accettando però la mano ed uscendo dalla macchina.
“C'è una festa, stasera. Ci sarà un sacco di gente, tutti ragazzi della nostra età” le spiegai, mentre, senza lasciare la sua mano, la trascinavo verso l'edificio in cui abitavo, a una decina di metri di distanza. “Ci saranno i figli degli amici dei miei genitori e mia madre vuole che mi faccia almeno vedere.”
“Oh, vuole che l'aiuti a scegliere un vestito?”
La guardai come se fosse pazza, conducendola all'interno e, fermandomi davanti agli ascensori, premetti il pulsante di chiamata.
“Ti prego, Calliope. Io sono nata con addosso un vestito, il trucco e dei tacchi alti sette centimetri, non scordartelo mai.”
“Allora cosa stiamo facendo?” domandò salendo sull'ascensore dopo di me.
La guardai di nuovo, rivolgendole un sorriso enigmatico e premendo il pulsante per l'attico.
“Miss Robbins, i suoi silenzi non mi piacciono. Ha in mente qualcosa di pericoloso, posso praticamente percepire i suoi pensieri fluttuarmi attorno.”
Ridendo, la trascinai dentro l'appartamento e verso camera mia. Quando fummo all'interno la feci fermare al centro, facendo poi un passo avanti ed aprendo l'immenso armadio davanti a noi.
“Scegli un vestito, Calliope. Sarai il mio appuntamento di stasera” le annunciai. Poi mi resi conto della scelta di parole. “In un senso amichevole e totalmente platonico, per niente romantico del termine” le rivolsi un sorriso corredato di fossette.
Lei guardò prima me e poi l'armadio, poi di nuovo me.
“Miss Robbins, sarei tra tutti i suoi amici” la sua voce aveva il tono di una supplica. “Non sarei a mio agio, e lei merita un'accompagnatrice molto più degna di lei.”
Io inclinai la testa leggermente di lato.
“Non ho una scelta, non è vero?” domandò con un sospiro dopo aver notato la mia espressione.
Scossi la testa, sentendo i miei ricci muoversi in sincronia con il mio segno di negazione.
Lei sospirò. “Dove ha detto che è questa festa?”
“Nel locale all'angolo vicino al posto in cui prendiamo sempre il caffè insieme.”
La vidi corrugare la fronte. “Ci saranno parecchie persone che conosco, lì, stasera.”
“E allora? Ti vergogni di me?”
“È lei che dovrebbe vergognarsi di me. Io sono la sua autista, miss Robbins.”
Scossi la testa, prendendole una mano e facendo un passo verso di lei.
“Bassa priorità.”
“Come, scusi?”
“Ha una bassa priorità nella lista, Calliope. Nella lista delle cose che sei. È una lunghissima lista, prima di autista c'è un'infinità di altre cose. Sei bellissima, latina, futuro medico, gentile, premurosa, affascinante, più alta di me – cosa che suscita la mia invidia, sappilo. Sei mia amica. Tu sei Calliope” lo dissi come se fosse l'aggettivo più eloquente del mondo. Come se, con una parola, fossi riuscita a spiegare tutto. “Ma neanche queste cose importano, perché ce n'è una che conta molto, molto di più, in cima a quella lista e fa sì che tutte le altre non siano importanti.”
“Sentiamo allora” mi sfidò, sorridendo. “Che cosa sono?”
Io la guardai, l'aria seria.
“Una persona. Questo significa che conti e che conterai sempre qualcosa, che dovresti essere trattata come tale, rispettata. Amata. Sei un essere umano, pregi e difetti, come tutti noi.”
Ricambiò silenziosamente il mio sguardo, tornando seria a sua volta. Intensificò la stretta sulla mano con cui stavo ancora tenendo la sua.
“Quindi” sospirai “scegli un vestito” feci un gesto in direzione dell'armadio. “O non sceglierlo, non importa. Sei perfetta anche così, con questa giacca addosso” non allontanai gli occhi dai suoi neanche mentre afferravo con la mano libera dalla sua presa un lembo della suddetta giacca.
Lei coprì la mia mano con la sua, stringendosela contro il cuore.
“Facciamo così” propose. “Scelga lei un vestito per me, miss Robbins.”
Io le sorrisi, le fossette in piena vista. “Quindi verrai alla festa con me?”
“Verrò alla festa, sì.”
“Allora devi per forza chiamarmi per nome. Sarebbe strano il contrario.”
Mi allontanai da lei, scegliendo un vestito dall'armadio, uno nero che sapevo le sarebbe stato benissimo. Glielo porsi e le indicai il bagno in cui poteva cambiarsi. Mentre lo faceva, le scelsi delle scarpe ed una borsa abbinate.
“E non preoccuparti, Calliope. Prometto di comportarmi bene e non provarci con te” risi della mia stessa battuta, voltandomi per vederla uscire dal bagno. La risata mi morì in gola. Deglutii. “Beh, me lo rimangio. Posso tentare di trattenermi, ma non faccio promesse” le dissi, cercando di riprendermi porgendole le scarpe e la borsa che avevo scelto per lei.
Notai che era arrossita incredibilmente.
“Mi cambio e poi andiamo. Dieci minuti significa arrivare elegantemente in ritardo, un'ora significa maleducazione.”
Mi sorrise, aspettando che mi cambiassi. Quando uscii dal bagno, già truccata, la trovai a percorrere nervosamente la stanza.
“Ti sei rimessa le scarpe da tennis? Non puoi venire con quelle” le sorrisi.
“No, mi servono solo per guidare. Le cambierò prima di scendere, promesso” si affrettò a chiarire, come se pensasse che potessi prendermela per una cosa del genere.
Io scrollai le spalle. “Stavo scherzando, Calliope. Se i tacchi sono un problema, possiamo cambiare.”
“No, non è quello. È solo che...Miss Robbins-”
“Arizona.”
“-è davvero sicura di volere me come accompagnatrice? Voglio dire...me? Io sono davvero imbranata con queste cose e lei, si guardi, è bellissima.”
“Anche tu” risposi a voce bassa. “Perché non vuoi venire?” chiesi, un po' rattristata.
“Perché cosa potrei mai portarle di buono, io? Lei merita il meglio, miss Robbins. E, se non l'ha ancora capito lasci che glielo dica, il meglio non sono io. Non mi ci avvicino nemmeno. Non vado bene per lei.”
“Sei perfetta per me. Ai miei occhi, tu sei” le parole mi sfuggirono prima che riuscissi a rendermene conto. “Sei perfetta. Vorrei che vedessi quello che vedo io.”
“Come posso essere perfetta? Sono un disastro, sono al verde, vivo nella casa dei miei zii perché i miei genitori non vogliono più parlarmi. La mia vita è un casino.”
“Ok, quindi forse non sei perfetta. Forse sei solo umana, ma indovina un po'? Anche io sono solo umana, lontana dall'essere perfetta. Ma se tu pensi di poterci convivere, io so che posso.”
“Miss Robbins-”
“Arizona.”
“-ne è davvero sicura?” domandò ancora una volta.
Io sollevai la mano destra, mostrandole alcuni trucchi.
“Se vuoi posso pensarci io” proposi, vedendola esitare. Non l'avevo mai vista indossare del trucco, se non forse un po' di eyeliner.
“Credo sia meglio” annuì.
Le rivolsi un sorriso, facendole cenno di sedersi sul letto.
Dieci minuti più tardi ci incamminammo verso la macchina, io con i suoi tacchi in una mano ed entrambe le nostre borse nell'altra, lei con i suoi vestiti. Appoggiai tutto nei sedili posteriori e salii davanti con lei. Ormai non salivo più dietro, la vista da lì mi piaceva di più.
“Allora, chi è tutta questa gente che conosci che sarà lì stasera?”
Lei mi lanciò un'occhiata di sottecchi.
“La mia migliore amica sarà lì. Addison Montgomery.”
“Whoa. Questa non l'avevo vista arrivare. Tu e Addison?”
“So che la conosce.”
“Sì, e molto bene anche. Lei e Teddy sono molto unite, usciamo spesso insieme. Credo di averti anche parlato di lei, qualche volta.”
“Sa che lavoro per lei. Le ho solo chiesto di evitare l'argomento. Non volevo che fosse un problema, per nessuna delle due.”
“Chi altro?”
“Mark dovrebbe essere lì.”
“Mark Sloan? Oh, Calliope, dimmi di no” osservai la sua espressione, mentre guardava verso il finestrino alla sua sinistra per evitare il mio sguardo. Risi, non riuscendo a trattenermi. “Non posso crederci, tu e Sloan avevate una cosa?”
“Una piccola cosa, un'estate di un sacco di tempo fa. Una piccolissima cosa. Talmente piccola che è come se non fosse mai successa.”
“Non dirmelo. È stato il tuo primo.”
Arrossì quasi oltre l'inverosimile. Io ricominciai a ridere.
“Ok, la smetta di prendermi in giro, la prego.”
“Non sto ridendo di te, rido di me” le spiegai, voltando la testa verso di lei. “Mai in un milione di anni, Calliope, giuro che mai avrei pensato di poter invidiare così tanto Mark Sloan. Quel fortunatissimo bastardo.”
Lei arrossì ancora di più, scuotendo la testa. “Non è stato il mio primo ragazzo” puntualizzò. “Ma è stato il mio primo bacio.”
Io le sorrisi. “Venivi spesso a trovare i tuoi zii anche prima, allora?”
“Molto spesso, sì.”
Rimasi a guardarla in silenzio, lasciando che guidasse.
“Calliope?”
“Sì?”
“Cosa c'è nella mia lista?”
“Cosa?”
“Nella mia lista. Nella lista di cose che sono per te, quanto è in alto la voce 'figlia dell'uomo che firma gli assegni del mio stipendio'?”
Lei sospirò, guardandomi per un istante.
“Non c'è sulla lista” mormorò, riportando gli occhi sulla strada. “C'è mozzafiato e bellissima, c'è intelligente, divertente, riservata, testarda, carina con le persone a cui tiene, c'è il sorriso con le fossette e c'è difficile, c'è perfino un punto che dice 'assolutamente proibito contaminare', ma 'figlia del mio capo' non c'è.”
“Che significa 'proibito contaminare'?”
“Significa che non devo mai lasciare che la mia infelicità la renda infelice” rispose dopo un momento di esitazione.
“Non mi hai mai reso altro che felice, Calliope.”
Dopo aver posteggiato ed essersi cambiata le scarpe, mi guardò e chiese ancora una volta se ne fossi sicura. Io le sorrisi, rispondendole solo: “Non muoverti” per poi fare il giro della macchina ed aprire la sua portiera, tendendole la mano per la seconda volta quel giorno.
Era una festa di quelle con champagne e tartine. Non il mio genere preferito di festa, ma, per una serata con Calliope, potevo decisamente accontentarmi.
La prima persona che incontrammo fu Teddy, ci stava aspettando fuori.
“Cavolo, sei bellissima.”
“Neanche tu stai tanto male” la presi in giro.
“Io parlavo con Callie.”
“Ouch” finsi di essere risentita delle sue parole, voltandomi verso la donna al mio fianco. “Eppure, non posso darti torto” risposi distrattamente.
“Vedo che il piano di Arizona ha funzionato.”
“Piano?” chiese la mora.
“Sì, ha rifiutato ragazze per tutta la settimana, continuando a dirmi testardamente che sarebbe venuta a questa festa con te o non ci sarebbe venuta affatto.”
Io, lanciandole un'occhiataccia, mi mossi verso la porta di ingresso. Calliope fu veloce ad aprirla per me. Mi fermai per un istante, guardandola.
“È la prima volta che qualcuno apre una porta per me senza essere pagato per farlo. Continui a sorprendermi.”
“Lei è facile da sorprendere” ritorse con un sorriso.
“Il fatto è che davvero non lo sono” ritorsi, precedendola all'interno. “Sembri un po' nervosa.”
“Mi dispiace. Non sono esattamente nel mio elemento, qui.”
“Non preoccuparti, ok?” le rivolsi un sorriso calmo. “Facciamo solo un giro veloce di saluti e poi possiamo andare.”
“Non si preoccupi, davvero miss Robbins, possiamo rimanere quanto vuole. Di solito torna molto più tardi a casa.”
“Non ho detto che saremmo andate a casa. Ho detto che saremmo andate via.”
Lei mi guardò con un cipiglio confuso.
“Hai fatto cena?”
Scosse la testa negativamente.
“Nemmeno io. Pensavo che magari potrei portarti a cena fuori. Amichevolmente” aggiunsi ancora una volta. “Totalmente non romantico. Solo una serata diversa dal solito.”
Stava per replicare quando una voce ci distrasse.
“Callie?” Addison Montgomery ci si avvicinò, l'aria confusa. “Non sapevo che saresti venuta” la salutò, abbracciandola.
“Nemmeno io” ritorse lei, un po' in imbarazzo.
“Ho insistito” intervenni. “Ho insistito molto. Ora che ci penso, credo di averla obbligata. Non avevo un'accompagnatrice” offrii come spiegazione.
“Ma se hai rifiutato ragazze per tutta- Cosa?” domandò vedendo Teddy scuotere in modo non così sottile la testa.
Io afferrai due bicchieri di champagne da uno dei camerieri, offrendone uno alla donna al mio fianco.
“Non dovrei bere. Per via della macchina.”
Il mio sorriso non si spostò di un millimetro.
“Hai ragione. Me ne farò lasciare una bottiglia da parte, allora. Dovresti assaggiarlo, lo champagne qui è sempre ottimo.”
Lei mi guardò di nuovo con il suo sguardo 'non ce n'è bisogno', ma io la ignorai, porgendo il bicchiere che avevo in mano a Teddy, che lo accettò volentieri.
Rimanemmo per circa mezz'ora, io feci quello che dovevo e salutai i figli degli amici dei miei genitori. Poi, veramente stufa di quella noia, le chiesi se le andava di uscire da lì.
Annuì, cercando di non sembrare troppo grata di sentirmelo dire.
“Allora, dove vuole andare a mangiare?”
Io ci pensai per un momento, guardando fuori dal finestrino. Improvvisamente, l'illuminazione arrivò.
“Qui.”
“Qui?” chiese confusa.
Le indicai l'insegna rossa alla mia destra. “Proprio qui.”
Lei rise, pensando che scherzassi. Poi vide l'espressione di sfida nei miei occhi.
“No, non me lo dica. Non è mai stata al McDonald, miss Robbins?”
Io scossi la testa, negativamente.
“Beh, dobbiamo rimediare. Assolutamente” decise, assecondando il mio desiderio di fermarci.
Eravamo vestite un po' troppo eleganti per quel posto. Ci sedemmo ad uno dei tavoli e mi trovai davanti il più grande panino che avessi mai visto.
“Non sono più così sicura che lasciarti ordinare sia stata una buona idea.”
“Si fidi, miss Robbins, le piacerà.”
“Voglio chiedere quante calorie ci sono qui dentro?” chiesi, indicando la confezione.
“No, assolutamente no. Mangi e basta, non ci pensi.”
Io scrollai le spalle, rassegnata al mio destino. Sollevai il panino e ne presi un morso.
“Cavolo, ma è buonissimo.”
“Questo è proprio il motivo per cui non deve chiedersi quante calorie contiene. Non lo faccia mai con cose che sono troppo buone, perché la risposta non le piacerebbe.”
Addentai alla svelta un altro morso. La vidi sorridere a prendere un fazzoletto.
“È davvero, davvero carina” mi disse, togliendomi della maionese dalla punta nel naso “miss Robbins.”
“Calliope, siamo in un fast food, il vestito che stai indossando costa quasi quanto la BMW che guidi e io non ho fatto altro che pensare a quanto sei bella per tutta la sera. Chiamami Arizona e basta, ok?”
Lei rimase ferma per un momento, pensando alle mie parole.
“D'accordo” acconsentì alla fine. “Il vestito non costa davvero quanto una macchina, però, vero?”
“No, certo che no” le sorrisi in modo rassicurante, pensando che in fondo le stavo mentendo a fin di bene. Mi rivolse uno sguardo scettico. “Facciamo così, io non chiedo le calorie di quello che mangiamo, tu non chiedi il prezzo di quello che ti offro.”
Mi guardò negli occhi per un lungo istante. “Affare fatto, Arizona.”
Io sorrisi come un'idiota quando le sentii pronunciare il mio nome per la prima volta.
Mi riaccompagnò davanti all'edificio.
“Restituirò il vestito appena sarà lavato.”
“Non farlo lavare, non ce n'è bisogno.”
“Ma-”
“Profumerà di te” spiegai con semplicità. “Posso indossarlo e, anche se per una volta soltanto, profumerà di te.”
Lei, a corto di parole, mi prese delicatamente una mano, portandosela alle labbra. I miei occhi si illuminarono.
“Giuro, mi sono appena sentita come una principessa.”
“Anche questa era una prima volta?” domandò.
Io annuii. “Nessuno è mai stato così gentile con me, prima che incontrassi te.”
“Il mondo è un posto molto ingiusto, perché dovresti avere qualcuno che ogni giorno ti faccia sentire come una principessa. Ed è...” si bloccò.
“Cosa?” la guardai negli occhi, divertita dalla sua espressione dolce.
“È la prima voce. In cime alla lista, c'è principessa” confessò, baciando di nuovo la mano che stava ancora tenendo e poi sparendo nel buio della notte.

“Come mai i tuoi genitori non ti parlano più?”
Scrollò le spalle. “Ho detto loro che stavo con una ragazza. Mi hanno completamente tagliato fuori da tutto.”
Io fui presa in contropiede da quella confessione.
“Perché non hai mentito?”
“È il mio turno” mi fece notare con un sorriso. Ma poi vide il mio sguardo serio. “Non volevo farlo. Non volevo mentire. Volevo che fossero pronti, se un giorno avessi fatto conoscere loro l'amore della mia vita, che avessero potuto accettarlo o accettarla indipendentemente. Avrei voluto che riuscissero a capire che ero ancora io.”
“Ma non ci sono riusciti” conclusi per lei.
“No. Ma va bene comunque, presumo. Non sarei qui se loro non mi avessero cacciato via. Quindi forse questo è il posto in cui sono destinata ad essere.
Sorrisi, osservandola guardarmi di sottecchi. “È il tuo turno.”
Rimase in silenzio per qualche istante, giocando con le chiavi che aveva in mano. Eravamo sedute dentro la BMW, fuori da un negozio in cui non avevo nemmeno più voglia di entrare, mi bastava stare lì, con lei.
“Chi era la persona con una dipendenza? C'era qualcuno, vero?”
Il mio sorriso sparì lentamente. Era difficile parlarne, anche dopo anni che era successo. Non era una delle storie che mi piaceva raccontare.
“Era mio fratello.”
Corrugò la fronte. “Non sapevo che avessi un fratello.”
“Ce lo avevo” sospirai. “È morto per un'overdose. Cocaina. Avevo sedici anni.”
Prese immediatamente la mia mano, così sorpresa dalle mie parole che non riuscì neanche a pronunciare la frase scritta sulla sua faccia. Le dispiaceva per me.
“Mia madre ha incolpato mio padre, mio padre ha incolpato mia madre, hanno divorziato. Era il mio migliore amico. Era tutto quello che avevo, l'unica persona che mi conosceva davvero.”
“Mi dispiace così tanto.”
“Non è colpa tua. Così come non è colpa mia, o dia madre, o di mio padre. Ci ho messo un sacco di tempo, ma l'ho comunque capito prima di loro. La colpa era di Tim. Era una persona forte, sai? Ma non è riuscito ad esserlo quando contava davvero. Si è lasciato condizionare, si è fatto trascinare a fondo. Una volta, dopo essere entrato in riabilitazione, mi ha detto che quelle erano le sue ali, che lo facevano volare. Invece era la sua ancora. La ho portato giù e alla fine lo ha fatto annegare.” “Tu hai mai...”
“No. Sarebbe stato stupido fare lo stesso errore solo per capirlo meglio. La verità è che non lo capirò mai. Non capirò mai perché ha deciso di lasciarci così presto. Aveva ancora un sacco di cose che lo aspettavano. Ma ha preferito rinunciarci.”
Accarezzò la mia mano con la sua, lasciando che fossi pronta per rompere il silenzio, aspettando una mia parola che non arrivò mai.

Ero seduta sul cofano della macchina. Lei era in piedi davanti a me, le chiavi nella mano destra ruotavano ritmicamente attorno al suo indice.
“Mi stai guardando in modo strano” buttò lì casualmente.
Mi aveva portato in un posto isolato, uno che solo lei sembrava conoscere.

“Sto cercando di decidere se mi hai portato qui per uccidermi o no.”
Lei rise, avvicinandosi di un paio di passi.
“Perché dovrei ucciderti? Passo con te la maggior parte del mio tempo, mi annoierei a morte se tu non ci fossi.”
Mi spostai in avanti, facendole cenno di avvicinarsi.
“Mi stai ancora guardando strano” osservò, facendo però ciò che le stavo chiedendo.
“Ho aspettato più di un anno, Calliope. E forse ho aspettato troppo. Avrei dovuto dire qualcosa prima, vero?” domandai, sentendo una nota di tristezza far tremare la mia voce. “Avrei dovuto dire qualcosa appena ho iniziato a sentire le farfalle allo stomaco ogni volta che mi stavi vicina, o che il cuore mi batteva all'impazzata quando alzavi gli occhi verso lo specchietto retrovisore e incontravi i miei.”
“Arizona...”
“No. Lo so. Non puoi farlo, perché questo lavoro è tutto quello che hai, quello che ti permetterà di andare al college, la tua più grande speranza di avere quello che vuoi. Questo lavoro-”
“Questo lavoro non vale quanto te.”
La sua risposta mi spiazzò.
Si avvicinò ancora, sedendosi accanto a me e sospirando.
“E neanche io.”
“Non essere ridicola.”
“Non lo sono, sono onesta” rispose, voltando la testa di lato per guardarmi. “Pensa al futuro che vuoi, Arizona. Potrei mai riuscire io a dartelo?”
“Certo che ci riusciresti, perché non dovresti? Sarai un medico, un bravo medico e...”
“Non sarò un medico” mi fermò. Io scossi la testa ostinatamente, ma lei si allontano di nuovo dal cofano e si mise davanti a me, prendendo le mie mani tra le sue e cercando i miei occhi. “Io non sarò un medico, Arizona.”
“No, certo che lo sarai, Calliope, devi soltanto” scossi di nuovo la testa. “Dobbiamo soltanto trovare un modo.”
Lasciò le mie mani per prendere il mio viso. “Dicevo sul serio, questo lavoro non vale quanto te, per me” ripeté, accarezzando le mie guance mentre io alzavo gli occhi su di lei e le permettevo di avvicinarsi a me ancora di più, in senso sia metaforico che letterale.
“Mi sento come se fosse colpa mia” confessai in un sussurro. “Se il tuo destino era venire qui, per incontrare me? Se io ero il tuo destino ed hai dovuto litigare con la tua famiglia solo per poter trovare me? Ci hai mai pensato che allora è colpa mia se il tuo sogno non diventerà realtà?”
“Arizona” pronunciò il mio nome con una risata, facendomi alzare il viso verso i suoi occhi. “Se il mio destino sei tu, tanto meglio per me. Se non sarò mai un medico, non importa. Certo, quello lì era un bel sogno, un ottimo sogno, ma le cose non vanno come vorremmo. Mai. Questo è quello che sono adesso. Un'autista. Forse è quello che sarò per il resto della mia vita. Io sono un'autista e tu sei una principessa. Ma se puoi accontentarti, se posso andarti bene anche così, allora sono disposta a fare un tentativo.”
“Accontentarmi? Calliope, tu sei la cosa migliore che sia mai stata mia. Non solo mia autista, ma mia amica, mia complice, mia persona cara. Sei la cosa migliore che io abbia mai avuto il privilegio di toccare.”
“Se cambi idea-”
“Non lo farò.”
“Se cambi idea in un qualsiasi momento, io lo capirò.”
“Non lo farò” ripetei, alzando il viso verso il suo e chiudendo gli occhi.
Non mi deluse, non mi fece aspettare molto. Un istante dopo sentii le sue labbra morbide posarsi contro le mie nel più delicato dei baci. Mi stava davvero trattando come una principessa.
“Non sarà facile, non ti mentirò, lo sai” sussurrò. “Non ci saranno regali e ristoranti costosi, non ci sarà champagne. Al massimo posso permettermi la pizza.”
“Perfetto. Perché amo la pizza” risposi, cercando nuovamente le sue labbra con le mie.

Si fermò e spense il motore, sospirando. Avevo tenuto la mano appoggiata sulla sua per tutto il tragitto. Ero così felice, mi sentivo come se stessi volando.
“Sembri felice.”
“Per merito tuo” risposi, un sorriso fermo al suo posto. “Tu sembri nervosa, invece. E se la cosa non rende felice anche te, non ha senso.”
“Sono al settimo cielo. Ma ho paura. Potrei perderti così facilmente...”
“Lo so. Potrei perderti anche io. Credo che dovremo imparare a vivere con la paura, però, perché io non ti lascio andare.”
Quello la fece sorridere.
“A domani” sussurrò.
La baciai velocemente sulle labbra. “A domani.”

Il cambiamento avvenne gradualmente nel corso del mese successivo.
Camminavamo per strada mano nella mano. Quando guidava, la mano destra ogni tanto trovava la mia e la stringeva finché non era costretta a spostarla di nuovo. Io appoggiavo la testa sulla sua spalla solo per respirare il suo profumo, quando mi accompagnava a casa rimanevamo per ore in macchina a parlare, ormai quasi non salivo più in camera se potevo evitarlo.
Ci comportavamo sempre più da coppia.
Così una sera presi il coraggio a quattro mani e glielo feci notare.
“È questo che siamo io e te?” domandò, la mano sinistra sul volante. “Una coppia?”
“Penso di sì, se è quello che vuoi.”
“Tu cosa vuoi?” domandò con la sua tipica gentilezza.
“Io voglio te.”
La vidi sorridere e un po' arrossire. “Bene. Allora siamo una coppia.”
Eravamo ferme davanti all'isolato da più di mezz'ora, buona parte del tempo lo avevamo passato a baciarci. Così, mi decisi a scendere. Lei, come sempre, fece lo stesso per accompagnarmi fino al portone.
“Vuoi salire?” domandai, sorprendendo perfino me stessa con la calma nella mia voce.
“La signora Robbins non sarà a casa a momenti?”
Guardai l'orologio che avevo al polso. “Aveva una cena. Non dovrebbe tornare prima di mezzanotte, ma non mi ha dato un vero e proprio orario, quindi non ne sono sicura.”
Lei sembrò persa in un pensiero quasi inafferrabile, per un momento. Poi ci arrivai.
“No, non è quello che sto facendo. Non voglio farla arrabbiare. Ma te l'ho detto, non ho idea di quando potrebbe tornare, non voglio mentirti. Potrebbe addirittura essere già a casa” le dissi onestamente. “Vorrei solo...Vorrei un po' di tempo in più con te, tutto qui.”
Lei annuì. “Lo so. Non è quello che stavo pensando.”
Cercai altri possibili motivi della sua indecisione, ma non me ne vennero in mente molti. Solo uno, in realtà.
“Calliope, senti” sospirai. “So di non essere una santa, ma non sono neanche-”
“Non è quello” mi bloccò. “E non mi importa. So che hai un passato, tutti hanno un passato. E sì, se avessi avuto le cose a modo mio, ti avrei incontrato un sacco di tempo fa. Ma non è successo e va bene. Sei sempre la mia principessa” prese una ciocca dei miei capelli tra le dita.
“E allora cos'è?”
Scrollò le spalle. “Voglio aspettare che tu sia sicura che è quello che vuoi. Non voglio rovinarti, non voglio...'contaminarti' con la mia infelicità. Stai andando così bene, Arizona, non spendi più soldi per dei vestiti che non metteresti mai, niente più ragazze, niente più feste se il giorno dopo hai scuola, hai diradato le uscite durante i fine settimana. Non voglio essere io a rovinare tutto, non voglio causarti problemi. Sei così speciale, ho sempre saputo che lo eri. Ora che finalmente stai iniziando a vederlo anche tu, io non voglio rovinarlo.”
“Hai ragione. Sto iniziando a vederlo anche io, sai come? Grazie a te. Perché tu mi hai ripetuto che ero speciale, ma non bastava, no. Me lo hai dimostrato ogni giorno, con dei gesti così piccoli e così straordinari, che hanno riportato la mia vita nella giusta prospettiva. Nella giusta proporzione. Ora so di nuovo cosa è grande, cosa è piccolo, cosa merita e cosa è stupido. E so che tu sei importante, tu sei la cosa più importante” mi alzai in punta di piedi e la baciai sulle labbra. “E non importa, possiamo aspettare tutto il tempo che vuoi. Promettimi che non te ne andrai e basta, del resto non mi importa.”
“Te lo prometto. Sarò al tuo fianco ogni giorno.”
Mi strinse ed io la lasciai fare, respirando il suo profumo e lasciando che il ritmo del suo cuore cullasse le mie paure fino a farle addormentare e, finalmente, tacere.

La mattina dopo uscii dall'edificio insieme a mia madre. Calliope aprì la porta posteriore, sorridendo gentilmente mentre entrambe salivamo sulla macchina.
“Come stai, Callie?”
“Io bene, signora Robbins. Lei come sta?”
“Benissimo, ti ringrazio.”
Iniziò a guidare per le strade di Baltimora, verso l'ufficio di mia madre.
“Mi ero quasi dimenticata, è arrivato il resoconto della tua carta di credito ieri. Sono colpita.”
“Questa è la prima volta che te lo sento dire senza un'intonazione negativa, credo.”
“Dico sul serio, le spese si sono praticamente ridotte a zero, la minaccia di togliertela ha funzionato.”
Corrugai la fronte. “Non mi hai minacciato di togliermela.”
“Doveva farlo tuo padre.”
“Beh, non l'ha fatto.”
“E allora come mai il conto è così basso?”
Scrollai le spalle. “Non sono tanto per i negozi, ultimamente.”
Lei mi guardò come se stessi per svenire.
“Sono passati mesi dall'ultima volta che hai portato una ragazza all'appartamento, ora che ci penso. Non c'è più odore di fumo da...un sacco di tempo e tuo padre non ha chiamato con una crisi isterica da non ricordo più neanche quanto.”
Io, ancora una volta, mi limitai a scrollare le spalle.
“Che ti è successo?” domandò, la voce velata di preoccupazione.
Chi ha una dipendenza è intelligente. Diventa così paranoico che fa di tutto per nasconderlo. E ci riesce, ci riesce così bene che nessuno potrebbe mai accorgersene. Se non sai che c'è un problema, se non sai cosa e dove cercare, scoprire una dipendenza è impossibile.
Capii immediatamente la sua paura. Aveva perso Tim perché si era distratta per un minuto. Un minuto, ecco tutto quello che gli c'era voluto per fare quella chiamata. Poi era uscito di casa dicendo di voler fare una passeggiata, papà lo aveva accompagnato ed avevano per caso incontrato quel suo vecchio amico per strada. Lui e Tim si erano stretti la mano, incontrandosi e poi quando si erano salutati. Due volte. Una volta i soldi, una volta la busta. Papà non si era accorto di niente.
Nessuno si era accorto di niente. Non finché non ci rendemmo conto che Tim ci stava mettendo troppo tempo, in bagno.
“Io sto bene, mamma” le dissi con voce ferma ma rassicurante. “Anzi, sto meglio che bene, sto alla grande. Sto...sto vedendo qualcuno, in realtà. Qualcuno a cui tengo molto.”
“Tesoro mio, ma è fantastico” mi disse, tirando un sospiro di sollievo e baciandomi sulla testa. “E quando potremmo incontrare questo qualcuno, io e tuo padre?”
“Beh, per prima cosa, non so se questo qualcuno vuole incontrare voi” le dissi, ridendo, cercando di misurare le parole con massima attenzione, consapevole del fatto che Callie stava ascoltando. “E poi, questo qualcuno potrebbe sorprendervi.”
Mia madre ci pensò su per qualche istante. “Non si tratta di un ragazzo, vero?” domandò, quasi come se l'ipotesi la preoccupasse.
“No, mamma.”
“Beh, allora non vedo come potrebbe sorprenderci.”
Io sorrisi a me stessa. “So che io sono sempre sorpresa da quello che fa. Passa la maggior parte delle sue giornate a sorprendermi, in realtà. Quindi volevo solo avvertirvi, potrebbe sorprendere anche voi.”
Mia madre rise. “Ok. Beh, da come ne parli sembra che questo qualcuno sia molto, molto speciale per te. Scommetto che Callie l'ha già incontrata.”
Feci del mio meglio per non andare nel panico.
“In un certo senso, signora Robbins.”
“Allora dovremmo incontrarla al più presto anche noi. Sempre che lei sia disponibile. Che ne pensi, Callie? Secondo te vorrà incontrarci?”
“Non vedo perché non dovrebbe, signora Robbins.”
La macchina rallentò davanti all'edificio in cui era l'ufficio di mia madre.
“Sentito, Arizona? Se questa ragazza ti vuole bene, verrà a cena a casa nostra” sottolineò con un sorriso soddisfatto. “Quindi” si voltò in avanti “questo venerdì può andare bene a questa ragazza o dovrei cercare di liberarmi per sabato, Callie?”
“Venerdì sarà perfetto, signora Robbins.”
Sentii la mia bocca aprirsi contro la mia volontà.
“Mamma, non posso credere che hai appena...” spostai lo sguardo da lei a Callie più volte, semplicemente incredula.
“Oh, tesoro, quanto credi che sia ingenua? L'ho visto arrivare da così lontano che dovranno inventare una nuova scala in ventesimi per misurare la mia vista.”
Baciandomi sulla testa, uscì dalla macchina.
“A venerdì, Callie.”
“A venerdì, signora Robbins.”
Io uscii dopo di lei, sedendomi sul sedile anteriore e guardando la donna al mio fianco con estrema confusione.
“Cosa cavolo è appena successo?”
“Non lo so. Ma non promette bene.”

“Come mai tua madre non è venuta con noi?”
“Non ne ho idea. Forse voleva assicurarsi che papà non avesse un infarto scoprendo chi era la persona che dovevo portare a casa” scherzai.
“Carino” mormorò, lo sguardo serio, gli occhi sulla strada.
Io mi accorsi solo in quel momento di quanto era nervosa per quella cena.
“Calliope, mia madre ti adora. Mio padre ha messo la mia vita nelle tue mani, dandoti questo lavoro. Sai quanti incidenti stradali avvengono ogni giorno? Fidati, non dovrai nemmeno provarci a conquistarli, nemmeno lontanamente, perché ti adorano già.”
Lei mi guardò di sottecchi, un cipiglio preoccupato ancora sul suo viso, ma notevolmente diminuito rispetto a poco prima.
“Sei fantastica, Calliope. Non hai niente di cui preoccuparti.”
Lei sospirò, cercando di scacciare il nervosismo, appoggiando la mano destra sulla mia gamba.
“Grazie.”
“Figurati” risposi sfiorando la sua mano con la mia.
Quando arrivammo alla villa, mi accorsi che il nervosismo era tornato in piena carica. Così mi sporsi verso di lei, le sfiorai una guancia e la baciai.
“Non importa quello che ne pesano loro” sussurrai. “Non cambierà quello che ne penso io, che è l'unica cosa che importa.”
Continuò a guardarmi completamente ammutolita. Per la prima volta, ero io che avevo stupito lei.
I miei genitori ci stavano aspettando nel soggiorno, seduti sul divano, entrambi con un drink in mano.
“Siete arrivate. Giusto in tempo, la cena è pronta” ci salutò mia madre, abbracciando entrambe.
Mio padre mi baciò sulla testa e strinse la mano a Callie con uno sguardo talmente inquietante che mi avrebbe fatto scoppiare in lacrime, se diretto a me, a causa dei miei problemi con le autorità. Ma lei ricambiò la stretta con un sorriso tirato.
La cena passò con me e mia madre che cercavamo di tenere alta la conversazione e mio padre e Callie che intervenivano quando esplicitamente richiesto. Lo sguardo di mio padre era fisso sulla ragazza al mio fianco, che faceva del suo meglio per guardare ovunque tranne che verso di lui.
“L'ultima volta che sono stata qui ho dimenticato degli orecchini. Mi accompagni a prenderli, papà?” gli chiesi con un sorriso corredato di fossette.
“Certo” annuì, alzandosi, nonostante fosse consapevole che era solo una scusa per poter parlare in privato con lui.
Uscii dalla sala da pranzo ed attraversai il soggiorno, marciando fino al suo studio senza neanche prendermi la briga di fingere di salire al secondo piano. Aspettai che entrasse e mi richiusi la porta alle spalle.
“Deve finire.”
“Non credo che i tuoi orecchini siano dentro il mio studio, tesoro” mi fece notare, sedendosi sul divano sulla sinistra.
Io rimasi in piedi, incrociando le braccia al petto.
“Sono seria, papà. Deve finire. Non puoi prendertela con lei, questa situazione è colpa mia.”
“Come può essere colpa tua?”
“Perché sono io che mi sono innamorata di lei.”
Quello, finalmente, gli fece passare l'aria da sbruffone.
“Non so se lei ricambia o no, ma non ti lascerò metterti in mezzo e impedirmi di avere l'occasione di scoprirlo.”
“Arizona, ragiona per un momento...”
“No. Ho ragionato anche troppo, ma non si può ragionare con ciò che vuole il cuore, papà. Non mi importa se fai così perché è una ragazza o perché non è nella situazione economica migliore o non ha un lavoro strapagato. Non mi importa cos'è che non ti piace di lei, perché io amo tutto di lei, ognuna di queste cose che la rendono chi è. Quindi te lo ripeto per la terza e ultima volta. Deve finire.”
Lui si alzò, sospirando. “Hai ventuno anni, tesoro. Questa storia risulterà in un cuore spezzato e potrebbe essere il tuo. Quindi Callie potrebbe essere l'uomo più ricco del mondo con un ottimo lavoro e sarebbe la stessa identica cosa, per me. Io voglio solo proteggerti.”
“Papà, l'unico modo che hai per proteggere me, è proteggere lei. Mi hai insegnato questo, che amare qualcuno significa stare male quando loro stanno male e sorridere dei loro sorrisi. E quando lei sta male, papà, io mi sento morire. Fa di tutto per tenere quella che lei chiama infelicità lontana da me, ma più la allontana, più perdo anche lei, e sono infelice ancora di più. L'unico modo che ho per essere felice è se lo è anche lei.”
Lui sospirò, premendo le labbra l'una contro l'altra.
“Va bene, Arizona. Niente più sguardi intimidatori.”
“Ti ringrazio, papà.”
Aprì la porta dello studio, facendo cenno di precederlo nel soggiorno. Mi bloccai, sentendo mia madre ridere.
“Un McDonald, sul serio?”
“Giuro, avevo la sua stessa faccia, signora Robbins. Pensavo mi stesse prendendo in giro.”
Sorrisi a me stessa, ascoltando mia madre ridere di nuovo. Mio padre appoggiò una mano sulla mia spalla.
“Quindi è così che l'hai conquistata? Con cibo da fast food?”
Il mio sorriso sparì, potevo praticamente percepire Callie che prendeva sul serio la battuta di mia madre. Sentii una risata inconfondibile, quella di Calliope, e rilasciai il respiro che stavo trattenendo, anche se mi ero accorta che era forzata.
“Senta, signora Robbins...”
“Stavo solo scherzando, tesoro” si affrettò a chiarire mia madre.
Feci un passo verso la sala da pranzo, ma mio padre appoggiò una mano sulla mia spalla, bloccandomi. Voleva sentire la fine di quella conversazione.
“No, io so di non essere all'altezza di Arizona. E so anche che nessuno potrebbe mai esserlo. Lei è una principessa ed io...io guido la sua macchina. Ma lei dice che non le importa” sospirò nervosamente. “Dice che le sta bene anche se dovessi fare questo lavoro per il resto della sua vita, ma io so che non posso darle il futuro che si merita. Ma non posso sopportare di vederla infelice e se io la rendo felice, signora Robbins, perché dovrei scegliere al posto suo? Finché posso renderla felice, finché lei mi dirà di rimanere, io lo farò. E quando cambierà idea, io mi aggiusterò.”
“Non cambierà idea tanto presto, Callie. Lo vedo da come ti guarda.”
“Mi ha detto, una volta, che si sente in colpa” io e mio padre ci avvicinammo di qualche passo per poter origliare meglio. “Che crede che sia colpa sua, che io sia qui. Che il mio destino fosse lei e che la vita che ho, il fatto che i miei mi hanno tagliato i fondi, il mio lavoro, sia solo perché così potessi incontrare lei. Le confesso che ho iniziato a crederlo anche io. Non posso che amare i sacrifici che faccio e il lavoro che ho per avermi portato da lei. Se sta con me perché si sente in colpevole, il senso di colpa svanirà con il tempo. Ma se sta con me nonostante il senso di colpa, forse ha ragione lei. Forse questo è il posto in cui sono destinata ad essere.”
Le mie gambe si mossero prima che riuscissi a rendermene conto, portandomi di nuovo in sala da pranzo. Loro due furono veloci a fingere di aver discusso del più e del meno fino a quel momento, stampandosi dei sorrisi in faccia.
“Ehi, hai ritrovato gli orecchini?” domandò Calliope.
Scossi appena la testa. “Devo averli persi” mormorai, sedendomi di nuovo al suo fianco e prendendole una mano con la mia sotto il tavolo.
Lei ricambiò la stretta, leggermente confusa ma sorridendomi.
“Non erano quelli rosa a forma di farfalla, vero? Sono i tuoi preferiti.”
“No, non erano quelli a forma di farfalla” sussurrai, perdendomi per un istante nei suoi occhi.
Rimanemmo in silenzio per qualche momento, finché mia madre si alzò da tavola.
“Beh, si è fatto tardi. Credo che sia ora di tornare a casa.”
Io annuii, alzandomi. “Torni insieme a noi?” chiesi, rendendomi conto che non avevo idea di come fosse arrivata lì.
“Se non è un problema” rispose annuendo. “Ho detto ad Eric di tornare in città. Non guida più molto bene al buio.”
“Per via dei suo ottant'anni, mamma” replicai con una risata, salutando mio padre con un bacio sulla guancia.
Lui strinse la mano a Callie dopo un'occhiata fugace nella mia direzione.
“A presto, Callie” la salutò con una sorta di sorriso.
Lei annuì, cercando di mascherare la sua confusione.
Uscimmo dalla villa, dirigendoci verso la BMW che Calliope aveva aperto con il comando centralizzato. Aprì la porta posteriore, aspettando che mia madre salisse e poi guardando verso di me. Io aprii la portiera anteriore da lato del passeggero.
“Che stai facendo?” domandò.
“Salgo davanti” spiegai come se fosse ovvio, cosa che in realtà era.
“Ma...”
“Sei qui come mia fidanzata, non come mia autista. L'unico motivo per cui stai guidando è che io non ho la patente.”
Lei cercò di trattenere un sorriso mentre chiudeva la portiera posteriore.
“Allora tuo padre dovrà farmi una lunga ramanzina per aver usato l'auto di servizio per scopi personali, credo” ritorse, aspettando che salissi e richiudendo la portiera al posto mio.
Iniziò a guidare, preparandosi alle successive tre ore con mia madre che ci attendevano.
“Allora, raccontatemi di come è successo” propose quasi all'improvviso.
“L'ho costretta ad accompagnarmi ad una festa” buttai lì casualmente. “E poi abbiamo cenato dentro un McDonald.”
Mia madre finse di essere stupita. Io finsi di crederle.

Stava ridendo di una mia battuta stupida, quando la voce di Addison ci trascinò via dalla piccola bolla in cui esistevamo solo io e lei e di nuovo dentro la realtà.
“Ma voi due non fate altro che baciarvi, ultimamente? Ogni volta che vi vedo siete appiccicate” ci disse, passandoci accanto con un sorriso enorme.
“Senti chi parla, dove hai lasciato la tua fidanzata, Montgomery?” replicò Callie, stringendo ancora di più la presa sui miei fianchi.
Io sorrisi, riprendendo a baciarla.
“Voi due mi fate stare male” mormorò la rossa. “Siete così dolci e carine” usò un tono che li fece sembrare due dei peggiori aggettivi al mondo.
Sventolai una mano nella sua direzione, senza nemmeno voltarmi.
Callie era appoggiata al cofano della macchina, le braccia attorno alla mia vita, un sorriso stampato sulle labbra.
“Ehi, ho una sorpresa per te” mormorò, non facendo però ulteriori movimenti per allontanarsi.
“Sai che non mi piacciono le sorprese.”
“Lo so, perché sei una maniaca del controllo. Ma questa qui ti piacerà.”
Decisi di fidarmi di lei, salendo in macchina e lasciando che mi portasse verso questa sorpresa di cui parlava. Arrivate in un posto molto isolato fermò la macchina, spense il motore e scese, io feci lo stesso, facendo il giro dell'auto e mettendomi davanti a lei, in attesa della sorpresa. Fece un gesto ad indicare il sedile del guidatore.
“Benvenuta alla sua prima lezione di guida, miss Robbins.”
I miei occhi si illuminarono all'istante.
“Mi prendi in giro?” lei rise e scosse la testa. “Sei fantastica Calliope, sei la migliore” mi lasciai andare ad un piccolo grido di gioia mentre le gettavo le braccia attorno al collo e la baciavo.
“Ti avevo detto che ti sarebbe piaciuto.”

Stava guidando, la mano destra ferma sulla mia gamba. Io la stavo studiando. Non fissando, non nel senso inquietante della parola. La stavo solo...memorizzando.
E se l'avessi persa? Quale era la cosa peggiore che poteva succederci? Sentii una fitta acuta di panico allo stomaco. Domanda sbagliata. Quale era la cosa peggiore che potevo sopportare? La peggiore a cui potevo sopravvivere?
“Calliope?”
“Mh?”
Stavo per farlo. Stavo per dirlo. Quasi.
Ma poi mi chiesi perché. Potevo ancora aspettare, in fondo. C'era tempo. Un sacco di tempo, prima che tutto iniziasse a precipitare. Ero ancora in controllo, potevo fermarmi quando volevo. Avrei potuto fermarmi perfino in quel preciso istante, se avessi voluto.
Ma non volevo.
“Siamo quasi arrivate” mi informò.
Appoggiai una mano sopra quella che aveva sulla mia gamba, facendole scorrere entrambe lentamente verso l'alto di qualche centimetro.
Lei mi guardò, accostando, poi portò di nuovo gli occhi sulla strada e parcheggiò l'auto.
“Vuoi salire?” domandai.
Lei si voltò, guardandomi per diversi istanti con espressione estremamente seria, contemplando le mie parole. Io avevo la testa appoggiata al sedile, la guardai, mordendomi il labbro inferiore per non dire qualcosa che le avrebbe fatto pressione. I suoi occhi si spostarono, concentrandosi su quel gesto. Una frazione di secondo dopo, la sua mano scivolò via dalla mia. Stavo per scusarmi quando la vidi slacciarsi la cintura di sicurezza e sporgersi per baciarmi come non aveva mai fatto. Misi una mano tra i suoi capelli e ricambiai il bacio con altrettanta passione. Era dolce e lento, ma allo stesso tempo stava accendendo il fuoco dentro me.
Mi spostai, appoggiando le ginocchia a lato dei suoi fianchi e sistemandomi sopra di lei. Portai la mano destra sopra la mia testa per sfiorare il tettino dell'auto e rendermi conto di quanto spazio avevo ancora a disposizione prima di uno spiacevole incontro con il metallo. C'era poco posto, ma sarebbe bastato.
“Calliope” sussurrai contro le sue labbra.
Sentii le sue mani scendere dai miei fianchi sulle mie gambe e poi spostarsi verso l'alto, sotto il vestito che stavo indossando.
I baci erano diventati affannati, respirare stava diventando un problema.
Afferrai il colletto della sua camicia, tirandola verso di me nella speranza di averla più vicina, nonostante sapessi che era fisicamente impossibile. Sentii le sue mani spostarsi più in alto.
E poi, all'improvviso, ci paralizzammo. Qualcuno aveva picchiettato sul finestrino. Entrambe guardammo fuori dall'auto. Lei tolse subito le mani e risistemò il mio vestito sopra le mie gambe, aspettando che mi spostassi di nuovo nel mio sedile e inspirando prima di abbassare il finestrino.
“Buonasera, signora Robbins” fece del suo meglio per far smettere di tremare la propria voce.
“Buonasera Callie. Spero di non aver interrotto qualcosa.”
“Affatto, Arizona stava giusto per salire.”
“Ne sono sicura” rispose con un sorriso furbo. “In tal caso, posso accompagnarla io, così non devi scendere dall'auto.”
“Perfetto, signora Robbins” rispose facendo del suo meglio per sorridere a mia madre. Tirò su il finestrino, voltandosi verso di me. “Devi andare” sospirò, visibilmente scontenta.
“Devo proprio?” domandai, provando e fallendo nello scacciare il nodo che avevo allo stomaco.
Lei annuì. “Devi proprio” si sporse baciandomi velocemente sulle labbra. “Ci siamo messe abbastanza in imbarazzo per una sola sera. Dormi bene, ok?”
“Lo farò. Subito dopo una doccia gelata” la baciai un'ultima volta, poi uscii dalla macchina.

Non lo dissi a nessuno, quel giorno. Lo sapeva solo Calliope. Mi accompagnò lei e fece in modo che avessi tutto quello di cui avevo bisogno.
Mi aspettò all'uscita, come sempre. Mi aspettò e quando uscii lei era lì che camminava nervosamente vicino alla BMW, rigirandosi le chiavi in mano. Era la cosa più carina che avessi mai visto.
Alla fine, si accorse che ero in piedi a qualche metro da lei e si fermò, guardandomi con espressione interrogativa. Io alzai quello che stavo tenendo in mano con un sorriso corredato di fossette.
“Ho la patente.”
In tre lunghi passi fu davanti a me, mi prese tra le braccia, baciandomi teneramente.
“Sapevo che ce l'avresti fatta, lo sapevo. Sono così fiera di te.”
“Calliope, io...” iniziai sommessamente.
“Sì?” chiese, la voce tremante di gioia.
“Io ti amo.”
Quelle parole la paralizzarono.
“Ti amo così tanto che è assurdo, Calliope. Ti amo a tal punto che pensare di vivere senza di te è come pensare di poter sopravvivere ad un incidente aereo. Con un po' di fortuna ci riuscirei, certo, ma le conseguenze sarebbero devastanti.”
“Ti amo anch'io” rispose subito. Mi strinse le braccia attorno alla vita, sollevandomi da terra, io appoggiai i gomiti sulle sue spalle, intrecciando le braccia dietro la sua testa. “Ti amo così tanto e non sono mai stata così felice, Arizona.”

“Credo di avere un problema. Uno di quelli grandi.”
Chi ha una dipendenza diventa così paranoico che fa di tutto per nasconderlo.
“Di che si tratta?”
E ci riesce così bene che, se non sai che c'è un problema, scoprirlo è impossibile.
“Penso che dovresti lasciarmi.”
La caduta diventa inevitabile. Vai avanti finché la verità non viene alla luce.
“Stai scherzando? Non è divertente.”
O finché tu sparisci nelle tenebre.
“Dico sul serio, Calliope. Dovresti andartene finché puoi.”
Lei accostò immediatamente. “È per quello che è successo ieri? Per la patente?”
Scossi la testa, senza dire una parola.
“Allora per l'altra cosa? Perché ti ho detto che ti amo?”
Chiusi gli occhi, la testa voltata verso il finestrino.
“Cosa c'è che non va? Ho fatto qualcosa di sbagliato?” chiese in un sussurro. “Perché se ho fatto qualcosa...”
“E se io sono come lui?”
Rimase in silenzio, colta completamente in contropiede. “Cosa?”
Io mi portai le ginocchia al petto. “Se io sono come lui, Calliope? Se anche io vivo le cose in modo così...amplificato?”
“Stai parlando di Tim?” non capii se era una domanda o un'affermazione.
“Ho così bisogno di te, Calliope” mormorai. “Così tanto, che conto i minuti perché possa vederti di nuovo, conto e non faccio altro. Tutto il resto lo faccio solo nell'attesa di essere di nuovo tra le tue braccia. Tu sei le mie ali, Calliope.”
“Ma non voglio essere anche la tua ancora. Non voglio portarti a fondo e farti annegare.”
Voltai il viso e incontrai il suo sguardo. “So che non lo faresti mai.”
Lei mi fece segno di avvicinarmi, quando lo feci mi abbracciò dolcemente e mi baciò sulla tempia.
“Tu mi hai reso migliore, tanto che sembra impossibile pensare che sono la stessa persona di un anno e mezzo fa. La nostra non è una relazione dannosa, vero? Non ti sto troppo addosso, non ti ho costretto a stare con me, giusto?”
“Arizona, ma cosa stai dicendo? Certo che non è una relazione dannosa, l'hai detto tu stessa. Io e te ci aiutiamo, io e te ci rendiamo migliori, io e te ci amiamo.”
Mi aggrappai a lei con tutte le mie forze, sentendo le prime lacrime iniziare a scendere.
“Pensavo lo sapessi” sussurrò, stringendomi ancora di più. “Pensavo avessi capito che sono innamorata di te a tal punto che farei qualsiasi cosa per te. Io non voglio essere la tua ancora e quando vorrai volare, se sarò un peso, ti lascerò andare.”
“Tu sei le mie ali, Calliope” sussurrai. “Tu sei la mia vita. Non posso sopravvivere se tu mi lasci andare.”
“Allora non lo farò” mi disse immediatamente. “Non lo farò, te lo prometto.”
Continuò a tenermi stretta contro di sé.

“Allora, ho detto a tuo padre che mi dimetto. Smetto di lavorare alla fine di questo mese.” Sentii il cuore precipitare sotto le mie scarpe. “Cosa?”
“Adesso puoi guidare tu. Sarà un risparmio enorme per i tuoi. Ti ho già detto quanto sono fiera di te?” mi rivolse un sorriso enorme. Poi vide la mia espressione. “Che c'è?”
“Ho preso la patente la settimana scorsa, ho parlato con mio padre solo un paio di giorni fa e tu già hai deciso di dare le dimissioni?”
Lei sorrise, guardandomi per un istante, poi riportando gli occhi sulla strada.
“Certo. Sei praticamente nata per guidare, non hai bisogno di me. E poi, questa macchina si guida quasi da sola.”
“Tu hai un'altra auto?”
Corrugò la fronte.
“No. Non qui a Baltimora.”
“I tuoi zii vivono distanti dall'attico?”
“Una ventina di minuti se non c'è traffico, perché?”
“Quando ti vedrò? Se non dovrai lavorare con me, quando ci vedremo esattamente? Io studio un sacco di ore al giorno e tu dovrai trovare un altro lavoro, probabilmente pagato meno di questo. Se vuoi fare medicina alla Hopkins-”
“Non andrò alla Hopkins.”
“-avrai bisogno di questo lavoro, di questi soldi, o ti ci vorrà un'infinità di tempo.”
“Non andrò a medicina.”
“Sì che ci andrai.”
“Arizona, ascolta...”
“No, Calliope. Ascoltami tu, per una volta. Non rimarrò da una parte a guardare mentre sei infelice, ok? Io so che non è l'autista, o la cameriera, o qualsiasi altra cosa il lavoro che vuoi fare per i prossimi cinquant'anni. Non mi importerebbe se guadagnassi cinquecento dollari al mese, se ti rendesse felice, e potrei conviverci. Te lo giuro. Ma io so che non si tratta di soldi, si tratta della tua felicità, del tuo futuro. E non riesco a capire perché non mi permetti di aiutarti e basta. Tu non hai idea di quanto poco significhino i soldi per me e di quanto invece significhi la tua felicità. È solo un prestito, ok? Vai alla Hopkins. Diventa un medico. Ripaga mio padre facendo il lavoro che ti meriti e che sogni di fare. Ti prego, ti prego Calliope. Fallo per me, sii felice per me.”
“Ti sto portando a fondo. E ho promesso che non lo avrei fatto.”
“Cosa? No.”
“Sì, invece. Ti sto portando a fondo con me.”
“Te l'ho detto, i soldi non contano niente per me.”
“Non quello. La mia infelicità ti sta rendendo infelice. Ed io avevo promesso che non lo avrei mai permesso. Quindi sì” sospirò pesantemente. “Ok” inspirò, voltandosi verso di me. “Chiederò un prestito a tuo padre e studierò medicina.”
Sono sicura che riuscì a vedere il mio volto illuminarsi.

Salii sulla macchina, richiudendomi la portiera alle spalle.
“Dove la porto, signora Robbins?”
Io sentii una stretta al cuore, come ogni volta che mi chiamava in quel modo.
“Portami a casa, Calliope” sussurrai piano.
Eravamo cresciute un sacco dai tempi dell'università. Ma, ancora dopo tutti quegli anni, ovunque mi voltassi vedevo qualcosa che mi ricordava di lei, anche nel più piccolo dei modi. Anche solo in quella stessa macchina, avevo decine di ricordi di noi due.
Quando entrai dentro l'appartamento sentii una strana calma. C'era troppo silenzio. Di solito quando la casa era troppo silenziosa, c'era un uragano in arrivo. Una cosa tipo la quiete prima della tempesta.
“Dove sono tutti?” chiesi corrugando la fronte.
“Jessica e Sara sono agli allenamenti di calcio, Sofia ha portato Jamie a giocare al parco, ma forse Bubble...” proprio mentre stava finendo la frase, il nostro labrador salvato qualche anno prima dal canile corse nella nostra direzione.
Mi abbassai, accarezzandolo sulla testa mentre scodinzolava. Bubble era il nome perfetto quando pesava pochi chili appena comprato, quando Sofia aveva dieci anni, ma adesso che lei ne aveva sedici e lui era cresciuto quasi quanto lei, non sembrava più così perfetto.
“Allora, signora Robbins. Sembra che abbiamo la casa tutta per noi.”
Alzai lo sguardo, guardandola togliersi il giacchetto.
“Adoro quando mi chiami così. Ogni volta che lo fai mi viene in mente il giorno del nostro matrimonio, sai?”
Lei mi sorrise. “Perché credi che lo faccia?”
“Bene, dottoressa Torres. Vediamo allora di non sprecare questo raro avvenimento di avere la casa vuota.”
Mi sollevai in piedi, guardandola negli occhi. Il suo sorriso rimase fermo in posto.
“Adoro quando mi chiami così. Ogni volta mi ricorda che ce l'abbiamo fatta.”
Risi, avvicinandomi e passandole le braccia attorno al collo. Lei strinse le sue attorno alla mia vita. “Perché credi che lo faccia?” le accarezzai i capelli guardandola negli occhi. “Sei un chirurgo ortopedico fantastico, Calliope, hai salvato così tante vite che ho perso il conto.”
“E ho fatto del mio meglio per non tenerti a freno.”
Scossi la testa, sorridendo di nuovo.
“Sei stata la mia ancora, Calliope. Per tutto questo tempo.”
Lei mi guardò, tornando seria, presa in contropiede.
“Sei stata le mie ali, ogni volta che ho dovuto volare, sei stata tu a permettermi di farlo. Ma, ancora più importante, sei stata la mia ancora. Quando dovevo rimanere con i piedi per terra, sei tu che mi hai tenuto ben salda. Mi hai impedito di montarmi la testa, di lasciare che i soldi o i vestiti contassero troppo, hai rimesso la mia vita dentro la giusta prospettiva, facendomi capire quello che conta. Tu sei stata la mia ancora, più di ogni altra cosa, Calliope.”
“E tu sei stata le mie ali. E la mia ancora. Sei stata e sei tutto, per me” rispose in un sussurro.
Senza lasciare che dicesse altro, la baciai.




Un grazie di cuore a Lara per il supporto morale e per la pazienza di sopportarmi anche nei miei momenti di follia. Grazie davvero!

Alla prossima!


  
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