Sento
un rumore strano, ma il sonno e l’annebbiamento che esso mi
produce in testa,
mi impediscono di capire di che cosa si tratta. Inconsciamente decido
di
ignorarlo, per cui mi rimetto comoda sulla mia parte di letto
– sono riuscita a
confinare Rain nel divano a suon di minacce – e mi faccio
avvolgere di nuovo
dal tepore di Morfeo. Per qualche motivo, comunque, il rumore si fa
più
fastidioso. Sprango la mia mente, impedendole di continuare ad udirlo,
ma
niente, quel suono mi si insinua fin dentro l’ultima cellula
del cervello e lo riscuote
incitandomi a svegliarmi una volta per tutte. Quando lo sto per fare,
il rumore
molesto viene sovrapposto da un «ma che cazzo
è?» pronunciato da Frances. Mi
volto verso di lei e apro gli occhi lentamente – io e la luce
di mattina non
siamo mai andate d’accordo.
«Non
sapevo nemmeno ci fosse, un telefono, in questo schifo di
posto», borbotta
alzando la cornetta del telefono che, effettivamente, è
sempre stato sul suo
comodino. «Pronto?»
«O-okay,
grazie», risponde qualche secondo dopo, prima di attaccare e
voltarsi verso di
me con la faccia corrucciata. «Era una della reception. A
quanto pare abbiamo
ospiti».
«In
che senso?»
«Ha
solo detto che qualcuno sarebbe salito nella nostra stanza, e poi ha
chiuso».
«Non
c’è nessuna possibilità che sia mia
mamma, vero?», chiedo ironicamente, ma un
po’ allarmata. Nell’istante in cui lo pronuncio,
comunque, bussano alla porta.
Frances e io ci guardiamo, poi lei si alza e va ad aprirla.
«Shannon?»,
esclama lei.
«Hi».
Perché anche se non l’ho ancora visto i miei
ormoni si sono risvegliati dal
sonno profondo in cui li avevo costretti a rimanere? Basta la sua voce
a farmi
andare letteralmente su di giri? Evidentemente sì.
«Che
cosa ci fai qua?»
«Se
mi fai entrare te lo spiego».
Mi
accorgo che sono in pigiama, che non mi sono ancora pettinata
né lavata il viso
e i denti e che Rain sta ancora dormendo. Mi allungo e le pizzico un
braccio,
poi acciuffo un elastico per i capelli e faccio una coda.
«Hei»,
dice Shannon facendo un cenno del capo verso di me. «Vi ho
svegliate a quanto
pare».
«Perché
mi hai pizzicato un braccio, cretina?», abbaia Rain in
italiano.
«Shannon»,
dico soltanto, sperando si accorga che è a pochi passi da
lei.
«Cos’ha
Shannon?»
«Morning»,
ridacchia lui.
La
testa di Rain scatta verso la voce che l’ha appena salutata,
e la sua faccia
assume un’espressione indecifrabile. «Che cosa ci
fai qua?», annaspa.
«Ve
l’ho già detto un po’ mi fate paura?
fate le stesse domande. Vivere in simbiosi
non vi fa bene, ve lo dico io. Comunque ho portato del
caffè», dice alzando dei
contenitori che non mi ero accorta avesse in mano.
«Grazie
al cielo!» Scatto sul letto, sentendo il richiamo della
caffeina, e ne acciuffo
uno.
«Grazie
Shannon, casomai», dice lui.
«Grazie
Shannon per avermi portato questo caffè, non ti
risponderò più in modo
sarcastico, non ti prenderò più in giro
né manderò a fanculo».
«Dovrei
crederti?»
«No».
«Lo
sapevo», dice lui alzando gli occhi al cielo.
«Cosa
diavolo ci fai qui?», chiedo. Infine sono l’unica
che non ha ancora posto la
domanda.
Shannon
guarda l’orologio che tiene al polso e poi ci guarda.
«Avete mezz’ora per
preparare una valigia con dei vestiti, uno spazzolino da denti e del
gel
antibatterico che non si sa mai».
«Gel
antibatterico? Ma che cosa stai dicendo?», domanda Rain che
sembra appena
essere uscita dall’oltretomba.
«Andiamo
a New York».
«Cosa?»,
esclamiamo tutte e tre contemporaneamente.
«Ho
promesso che vi avrei presentato Jared, e Jared in questo momento
è a New York,
ergo noi andiamo a New York».
«Stai
scherzando», dico spaesata dopo un minuto buono.
«Tick
tock, il tempo passa. Avete solo ventotto minuti».
Quando
atterriamo all’aeroporto di New York, dopo ore e ore di volo
in cui non sono
riuscita a rilassarmi nemmeno un secondo (beh, forse quando Shannon ha
accennato a un massaggio sulle mie spalle stufo delle mie continue
lamentele e
paranoie dicendomi «stai zitta un attimo»
all’altezza e all’aereo sfracellato
al suolo non ci ho poi pensato tanto) mi sento sfinita. Allo stesso
tempo ho
tanta di quella adrenalina in corpo che l’unica cosa che
vorrei fare sarebbe
urlare fino a che ho fiato in corpo e andare a farmi una corsetta, come
a casa
faccio spesso quando sono tesa per qualcosa. Sono euforica e sfinita, e
le due
cose nel mio corpo non vanno mai messe assieme, a meno che non si
vogliano
ottenere risultati disastrosi.
«Ho
bisogno di caffè», dico quando siamo riusciti a
recuperare i nostri bagagli.
«Concordo»,
annuisce Shannon, sorpassando però lo Starbucks.
Inchiodo,
e le altre si schiantano su di me. Ignoro i loro insulti.
«Perché hai superato
questo bellissimo negozio che sprizza caffè da tutti i pori
che non ha?»
Shannon
guarda Frances e Rain con una faccia sconvolta. «Ma parla
sempre così o
l’enorme onore ce l’ho solo io?»
«Sempre
così, e la conosco da dodici anni», scuote la
testa Rain.
«Sono
qui davanti a voi, se ve lo foste per caso dimenticati»,
sbotto. Mi stanno
apertamente insultando, e anche se la cosa sicuramente
apparirà comica, io sono
una persona orgogliosa.
Lui
alza gli occhi al cielo. «Conosco un posto migliore. Ti fidi
di me? Quante
volte ci sei stata in questo posto?» Ricordo improvvisamente
l’altra volta in
cui sono stata in questo posto: io, Frances e Rain alle calcagna di
Jared.
Ridacchio. «Stai ridendo da sola?». Ha un
sopracciglio alzato e Dio solo sa
quanto siano sexy le sue sopracciglia.
«Lasciala
perdere. Caffè. Ora», interviene Rain salvandomi
da imbarazzo certo.
Il
posto in cui ci porta Shannon è un locale molto piccolo,
incastrato fra un
McDonald affollato e una farmacia. Non c’è tanta
gente, solo un’altra coppia di
anziani signori vestiti eleganti che si cibano di qualcosa che a questa
distanza sembra riso nero con delle verdure, ma non ci metterei la mano
sul
fuoco. Ordiniamo tutti un caffè tranne Frances, a cui non
piace e che opta per
una bibita al cioccolato. Lo so che con i nervi tesi che mi ritrovo non
dovrei,
ma lo ordino nel formato più grande che hanno,
perché voglio rimanere sveglia e
vigile per tutta la giornata. Sto per incontrare Jared, non
è una cosa che
capita tutti i giorni nella vita.
«Decisamente
più buono del caffè di Starbucks»,
convengo.
«Lo
so», sorride lui soddisfatto.
«Non
per sembrare invadente», si intromette Frances. «Ma
dove lo troviamo Jared? Non
ci fucilerà all’istante? Infine ha un momento per
sé e tu piombi qui con tre
fan…».
Shannon
alza le spalle. «Che io sappia non ha mai ucciso
nessuno».
«Rassicurante»,
dice Rain in tono ironico. «Che nessuno dica
c’è sempre una prima volta, per
favore. E con nessuno intendo te, Deborah», aggiunge.
Alzo
gli occhi al mio caffè e assumo un’espressione
offesa. «Ah-ah, simpatica».
«Lo
so», dice lei muovendosi i capelli.
Un
telefono comincia a squillare e interrompe il nostro botta e risposta.
È quello
di Shannon, che lo estrae dalla tasca del giubbotto di jeans che
indossa e
legge il nome sul display. «È Jared. Fatemi la
cortesia di stare zitte per due
secondi». Odio quando ci tratta come delle bambine di due
anni, ma infine ha
l’età di mia madre, su per giù, ed
è una rock star. Che cosa ci si può
aspettare da lui? «Hi bro». Comincia a parlare in
un inglese troppo veloce
perché io riesca a capire tutte le sue parole, per cui dopo
qualche secondo ci
rinuncio, cominciando ad esplorare i vari tipi di zucchero che ci sono
nella ciottola
in centro al tavolo. Ho sempre collezionato praticamente qualsiasi
cosa, dalle
cartoline, alle figurine, ai francobolli, e per un periodo anche
bustine di
zucchero. Quando ne trovo una davvero carina, dimenticandomi
dell’avvertimento
di Shannon, esclamo ad alta voce un «guardate questa
quant’è caaaarina»,
alludendo alla mela sorridente ritratta, lui mi lancia
un’occhiataccia. «Nothing, just wait a
second», allontana il cellulare
dall’orecchio. «I’m gonna kill you if you
don’t shut up now».
«Do it or die, I get
it», dico ridacchiando. Non
so
perché ma non mi mette più in soggezione. Non mi
sembra più di avere davanti il
batterista per cui ho sbavato per anni, pur avendone coscienza, ma un
amico,
con cui scherzare liberamente.
Shannon
continua a parlare per diversi minuti, e poi riattacca.
«Andiamo».
Salita
in taxi mi limito a guardare fuori dal finestrino, ammirando la
città nella
quale ho sempre sognato di andare e perché no, vivere. Il
caos, le luci, i
concerti, l’albero di Trafalguar Square a Natale, la neve, il
Moma, Central
Park. Tutte cose che sogno da quando ho quindici anni e che forse
avrò
l’occasione di vedere, almeno in parte.
C’è il sole, e i raggi si riflettono
sul vetro dei grattaceli di cui spesso non riesco a vedere la cima.
Tutto in
questa città è affascinante, niente a che vedere
con il posto in cui sono nata,
niente a che vedere con le spiagge e i tramonti di Los Angeles.
Mi
risveglio dal trance in cui ero caduta quando l’auto gialla
si ferma davanti
all’entrata di un hotel e quando sento l’autista
scusarsi con Shannon per il
traffico. Scendiamo e dei fattorini sono subito pronti a raccogliere i
nostri
bagagli. Sto per entrare in un hotel a cinque stelle, me lo sento.
«È
qui che alloggia Jared?», chiedo entrando per la porta che un
uomo alto di
colore sta tenendo aperta per noi, dandoci il benvenuto. Tutto questo
fa molto
Gossip Girl e io non sono per niente eccitata, no.
«Così
pare».
Quando
arriviamo al bancone mi rendo conto che Shannon ha già
prenotato due camere,
una per noi tre e una singola per lui. Non specifica quante notti
alloggeremo,
e io mi faccio prendere dall’ansia per una cosa a cui prima
non avevo pensato:
chi pagherà tutto ciò? L’ansia aumenta
quando, dopo trenta piani di ascensore,
apriamo la porta della nostra camera e ci accorgiamo che è
una suite. «Sto per
dormire in una fottuta suite!», esclama Frances cominciando a
saltellare in
giro per la stanza. Stanza che assomiglia più a un mini
appartamento, preciso.
«Io
vado a cercare Jared, voi aspettatemi qui, okay? Dormire, mangiate,
saltate sui
letti e fate tutte quelle cose da diciannovenni ma non lasciate
quest’hotel per
nessuna ragione al mondo. Non ho voglia di venirvi a raccattare in
prigione o
che so io».
«Quanto
sei pessimista», esclamo.
«Vi
ho incontrato mezze nude in spiaggia, senza un soldo. In più
vi ho visto
ubriache, se vi ricordate», ribatte lui scoccandomi
un’occhiataccia.
Gli
faccio una linguaccia. «Okay papà». Se
ne va alzando gli occhi al cielo.
«Oddio.
Ma avete visto questo posto? Favoloso!», dice Francis
euforica.
«Ragazze»,
comincio io. «Non vorrei davvero uccidere la vostra euforia,
ma lo sapete che
se dobbiamo pagare noi questo posto dobbiamo creare un mutuo o lavare i
piatti
per l’hotel per il resto della nostra vita, giusto?»
«Merda»,
dice Rain.
«Già».
«Avevo
dato per scontato che pagasse Shannon, ma mi hai fatto venire
l’ansia adesso».
«Benvenuta
nel club», borbotto.
«Che
facciamo quindi?», domanda Francis, le labbra
all’ingiù.
Sto
per rispondere quando bussano alla porta. Tre colpi secchi.
«Cazzo. Quanto male
sono presa?»
Gli
occhi di entrambe le mie amiche si dilatano. «Porca
troia».
Tutte
e tre ci precipitiamo in bagno, sgomitando per appartarci un angolino
di
specchio. «Sono bruttissima», si lamenta Frances.
La
guardo: è perfetta come sempre, in realtà.
«Sei bionda e respiri. Hai più
chance tu di io e Rain messe insieme, con Jared, fidati di
me». Le mi tira una
gomitata su un fianco e io scoppio a ridere. Sento di nuovo battere
sulla porta,
impazientemente. «Dobbiamo andare o buttano giù la
porta. O peggio, chiamano
l’FBI per ritrovarci. Andiamo». Le trascino fuori
dal bagno – personalmente non
sono mai stata una che perde le ore davanti allo specchio per
prepararmi, il
mio brutto aspetto rimane lo stesso anche se continuo a fissarlo per
minuti – e
mi fermo solo quando siamo davanti alla porta.
«Chi
apre?», bisbiglio. Non voglio farmi sentire da loro due.
«Non
so che cosa hai detto, ma so che sei li dietro Deborah. Apri questa
dannata
porta».
Come
non detto. Impugno la maniglia con la mano che mi trema e spalanco la
porta,
forse con un po’ troppa forza, dato che, essendo ancorata ad
essa con tutte le
mie forze a causa dell’ansia, quasi vengo scaraventata
addosso al muro dove la
faccio sbattere. Arrossisco anche le orecchie probabilmente.
«Forse
ho capito», dice Jared. Quasi mi sento morire quando il
cervello comincia a
girare di nuovo e lo vedo davanti a me, sento la sua voce. Lui continua
a
scrutarci, una alla volta, con uno sguardo che fa veramente
decedere le mie ovaie. Poi si volta verso Shannon.
«Andiamo».
E
non so che cosa abbia capito, non riesco nemmeno a pensarci in questo
momento,
ma so che vado.
Non
mi convince molto questo capitolo, sapete? Comunque enjoy it. Ah, a
proposito:
qualche frase l’ho lasciata scritta in inglese
perché rendeva meglio. Sono
sicura che tutti capirete, anche quelli che non capiscono
un’acca di lingue
straniere. Deb.