Sin dove affaticato
poso l'occhio
Veggo una tenue face porporina,
Ch'io spingo tosto a risalir la crina
Laddove di guerrieri sosta un crocchio.
Sul nettare pregiato
stanno chini,
Alzano i calici al leggier rossore
Dell'astro che tramonta, ed il sopore
del vino offusca gli occhi lor ferini.
Lassi al terreno
cadono, siccome
Poc'anzi eran piovuti al suolo i morti;
un sol groviglio d'arti adesso langue,
Ed al mio cuore
sembra tutto sangue.
Sordidi orrori dalla follia sorti,
Perchè Ragione più non vi dà nome?
Scritta l'ultima parola - un
fregaccio inelegante sopra la
pergamena lisa - l’uomo diede un gran sospiro. La schiena gli
doleva, a furia
di tenerla appoggiata al tronco d'un albero; decise di alzarsi da
terra. Scorse,
poco distante, degli uomini e delle donne affollarsi intorno a
qualcosa;
incuriosito, fregò distrattamente la stoffa delle sue vesti
grigie coi palmi
delle mani e andò loro incontro.
Stette ad ascoltare. Il vagabondo accompagnava il suono
dello strumento al suo bel canto. Narrava bene: raccontò la
storia di Lèbaro,
il principe Zora che venne assassinato con l’inganno da uno
dei ministri del re.
La narrazione si fece veemente, nella descrizione del delitto;
l’uomo si
domandò se la scelta d’un simile mito fosse
intenzionale, e se il cantore ne
conoscesse i rischi.
Quando il cantastorie tacque e s’inchinò, tutti
applaudirono. Alcuni bambini, in un frusciar di vesti colorate, gli
domandarono
un’altra storia; egli disse loro che sarebbe tornato
l’indomani. La folla
iniziò a dissiparsi; l’uomo in grigio, tuttavia,
non mosse un passo, rimanendo
invece ad osservare lo spazio erboso del piazzale vuoto, e il cielo
scuro sopra
i tetti delle case.
Neanche il cantore si mosse; sembrava impegnato ad accordare
il suo strumento. Ora che poteva vederlo meglio, l’uomo in
grigio s’avvide che
era incredibilmente giovane. La sua apparenza ricordava uno specchio
infranto:
un’immagine confusa, che tuttavia richiamava figure
già viste in tempi
migliori.
“Salute, poeta,” disse d’improvviso il
giovane.
L’uomo ebbe un lieve sussulto. “Poeta, io?
Scherzi!” rise.
“poco prima non facevo che conti”.
“Non vi ho visto, poco prima; non credo d’avervi
visto mai. Perciò
è un onore incontrarvi”. Il ragazzo
accennò un inchino. “Il mio nome è
Sheik,
signore,” disse, “non ne posseggo altri”.
“Che vai farneticando, ragazzo?”
“Non siete voi forse Nodin, il poeta?”
L’uomo in grigio sembrò ancora una volta sorpreso.
Diede uno
sguardo attorno, come se temesse d’essere ascoltato.
“Chi sei, menestrello?”
chiese infine. “Chi ti ha mandato?”
“Nessuno; il mio mestiere, tuttavia, mi sospinge in luoghi
sempre diversi, dove molto si parla, se pure in lingue differenti. Sono
Sheik,
signore, e canto per vivere”.
“Chi canta per vivere non sognerebbe mai di raccontare
storie sediziose. Chi sei davvero?”
Gli occhi da sfinge del giovane Sheik sembrarono mutare
d’espressione per un attimo. “Racconto
ciò che dev’essere raccontato,”
asserì,
piano.
“E io scrivo ciò che dev’essere
scritto,” ribatté Nodin.
Trascorsero diversi istanti di silenziò. “Vi
rivedrò
domani,” disse Sheik, allontanandosi più in fretta
che se stesse volando, e
svanendo in una sorta di bagliore.
Nodin rimase in piedi sull’erba, assorto.
“Avrete certo inteso
discorrere d’un meraviglioso genere di
fonti capaci di sanar le ferite dei guerrieri; pare che esse siano
guardate da
creature che, nelle conte dei fanciulli, noi sogliamo chiamar fate.
Ebbene, io
vi dirò d’un giovine Hylian che una di queste
fonti bramava raggiungere da lungo
tempo, e tanto s’impensierì, e tanto
s’ingegnò
che poco mancò che gli si consumasse il cervello.
Gabr era il suo nome, o almeno noi lo dovremo tener per
buono, giacché, ahimé!, sono certo che esso venne
storpiato, corrotto e
impastato dalle tante bocche che lo pronunciarono; Gabr si chiamava, e
se
alcuni dicono che era gagliardo molto, altri tengono per vera la
leggenda che
lo vuole ripugnante a vedersi. Che fosse bruno, lo dicono tutti:
v’è chi
magnifica la fosca maestà dei sui baffi,
chi annovera uno ad uno i cento bei riccioli in cui
s’avvoltolava la
barba, chi giura ch’era glabro come una fanciulla, ma se mai
doveste domandar a
tutti costoro il colore del suo pelo, “bruno” vi
direbbero, “come d’autunno la
foglia e la terra d’estate”.
Or dunque Gabr, studioso molto e di genio senza pari, nel
disegnar una mappa della sua terra s’avvide
dell’esistenza di un luogo del
quale i suoi tomi non dicevano nulla, e che egli certo non aveva veduto
mai. Ebbro
di letizia, segnò un fregaccio sul punto che gli pareva
senza nome e andò di
gran corsa a raccattar le cose sue; intendeva partir subito,
ché non v’era un
istante da perdere.
Se n’andò senza raccomandar nulla a nessuno,
dimenticando
però la mappa che aveva disegnata sopra lo scrittoio,
assieme alle carte. Nemmeno
se ne avvide, agitato com’era per la spedizione, senza contar
che oramai la
mappa l’aveva come disegnata in testa;
ma
un uomo scuro, arcigno e crudele, dal cuore stretto come un ramoscello
d’autunno, dal pelo rosso come lo hanno i malvagi, di
soppiatto s’introdusse
nella stanza e rubò la pergamena.
Quest’uomo io lo chiamerò Gorka, che in una lingua
che poco
o nulla intendo vuol dire “tempesta”, o
“tuono”, forse; Gorka era tenebroso
d’animo, avido come la mala sorte, e mille tesori desiderava,
ed eserciti
sterminati, e palazzi alti come montagne; e tutto questo, forse, non
sarebbe
ancora bastato a saziarlo. Egli partì, lasciando rovina,
distruzione e fuoco
dietro di sé; le fiamme della devastazione si fecero tanto
alte che persino a
Gabr, a diversi giorni di cammino, riuscì di vederle.
Costui, che era di lungo consiglio, subitamente intese
d’esser
stato seguito, e molto si rammaricò d’aver
camminato come un cieco, senza
curarsi d’occultar le tracce, senza guardarsi indietro
né avanti; lo colse il
panico. Giacché era certo d’esser vicino alla
magica fonte, pensò di
raggiungerla il più presto che poteva per murarvisi dentro,
e far morire il suo
segreto con sé.
Camminò sino a consumare i calzari, sbuffò da far
tremare le
montagne, a tal punto sforzò le ginocchia da farsi
scricchiolare le ossa; infine,
una mattina troppo fredda per essere retta da membra mortali, si vide
comparire
innanzi un portale in pietra, tanto magnifico da levare il fiato.
Rimase a contemplarlo un poco, da tanto grande bellezza
travolto e rallegrato al pensiero che presto avrebbe troncata la sua
sofferenza, e protetto la fonte magica dalle brame del malvagio; ma
mentre stava
a confortarsi, un’ombra scivolò alle sue spalle e
lo passò da parte a parte con
un coltello.
Lacero, Gabr s’accasciò al terreno,
null’altro vedendo che
il suo sangue, un riso nelle orecchie, prima d’esalar
l’ultimo alito: il riso
di Gorka...
Voglio
domandare a voi, adesso, quel che Gabr dovette domandarsi allora: siete
voi
certi della via che percorrete? Guardate mai indietro, col timore
d’un’ombra, o
avanti, col terrore d’incontrare un portale più
ampio del vostro sguardo? Dove
mai vi condurrà il vostro passo?”
Nodin, seduto sul declivio erboso poco distante, anche
stavolta attese che gli uomini e le donne là riunitisi
s’allontanassero per
potersi avvicinare al menestrello; questi aveva l’occhio
immobile, e la
consueta, quieta, misteriosa apparenza. Aveva cantato con vigore non
inferiore
a quello del giorno precedente.
“Davvero,” esordì Nodin, scostando dal
viso i lunghi capelli
neri, “Di sconsiderati ne ho visti tanti... ma tu!
Di’ un po’, ti credi davvero
tanto sottile da risultare oscuro?”
“Non capisco di che stiate parlando, signore,”
rispose
umilmente Sheik, intento ad accordar la cetra.
“Questa storia dell’uomo scuro e rosso di crine,
avido,
crudele e millantatore, che lascia fuoco e fiamme dietro di
sé non ha radici in
quest’epoca, non è vero?”
domandò beffardo Nodin. “Il tuo intento
è un tantino
scoperto, non ti pare?”
“Siete un uomo d’ingegno, e lo dimostrate; non
è mio
interesse cantar altro che la verità”.
“Dimmi: cosa temi di più al mondo?”
Sheik non rispose; smise d’improvviso d’accordar lo
strumento. Alzò lo sguardo; la sua iride porporina sembrava
stillar sangue.
“Che nessuno m’ascolti,” disse infine.
“La morte, non la temi? Perché
t’ammazzeranno”.
“La mia vita è poca cosa, di fronte
all’imponente flusso del
Tempo...”
“Finirai in carcere, forse. Canterai per i ratti e sarai
amico dei vermi, e il tuo giaciglio sarà un mucchio di
sterco; niente male, in
realtà, tiene al caldo d’inverno.
L’umidità ti roderà le ossa e morirai
di
consunzione... molto più tardi di quando vorrai”.
“Voi, tuttavia, non siete morto”.
Nodin ebbe un fremito. “Io, in galera?” I suoi
occhi scuri
mandavano lampi. “Che vai insinuando?”
“In galera, no, non siete mai stato; nelle segrete
sì, prima
d’essere mandato in esilio nel deserto. Non conosco altri
uomini tanto nobili
da sopportare un castigo simile pur di non tradire le proprie
convinzioni. No,
credo voi siate proprio l’uomo più nobile che
conosca”.
Nodin si fece più vicino, scosso e stupefatto a un tempo.
Più s’incaparbiva a scrutare negli occhi del
giovane, più gli sembrava d’aver
di fronte una di quelle lenti colorate attraverso le quali guardano i
fanciulli, che mutano il paesaggio ad ogni scossa.
“Ragazzo,” disse, “tutto quel che tu dici
lo credevo noto a
una singola persona: me. Sei una spia o un assassino? E’ il
tiranno a mandarti?”
“E canterei quello che canto, se così fosse? Sono
un
semplice cantastorie dall’occhio che vede lontano”.
D’un tratto Nodin si soffermò sul simbolo che
Sheik esibiva
sul petto: un occhio dipinto. “Sai che significhi?”
domandò, additandolo.
“Sì,” rispose Sheik,
“Sì; lo so”.
“Saprai, allora, che è l’insegna
d’una stirpe estinta”
Sheik stavolta non rispose. Alzò lo sguardo; soffiava un
vento rapido e inclemente.
“La gente
ha la
memoria labile,” disse Nodin amaramente, “e tutto
dimentica: le cause del
malessere; i tempi migliori; la memoria dei padri... e gli antichi
protettori.
Chi s’affanna intorno a un pane non può
preoccuparsi di serbare il ricordo
delle cose passate. Simboli come il tuo altro non divengono che disegni
vuoti
di significato”.
“E’ il significato di cui parlate ad
esser vuoto, ai miei occhi”.
Nodin sorrise, senza che l’amarezza lo abbandonasse.
“Ti va
di giocar con le parole? Sei il benvenuto, ragazzo. Ho vinto i
più illustri
agoni di retorica. Il nostro non mi frutterà allori, ma poco
male; le foglie mi
si seccherebbero in capo”.
Sheik evitava di guardarlo in viso. “Sentite spesso la
mancanza della vita a palazzo?” gli domandò.
Il poeta rise. “Se sento la mancanza d’un buon
pasto e d’un
letto comodo? Non ho l’indole dell’asceta, te lo
confesso. Se sento la mancanza
dei reali? Mi hanno permesso di vivere a spese loro finché
non ho turbato la
quiete della corte con le mie “ardite quanto spregevoli
insinuazioni”... con le
“sgradevoli allusioni” insite nelle mie opere...
Fino a che quell’uomo del
deserto non ha preso a guardarmi torvo, e a tollerare a stento le mie
battute, quand’eravamo
a tavola... e dopotutto, chi ero io per affrontarlo?”
Sheik chinò il capo; il vento s’era fatto
impetuoso e
spazzava la piana. Le nubi s’inseguivano affannose.
“Chi ero io? Te lo dirò, ragazzo; te lo
dirò. Un giovine di
grande ascendente, raffinato nell’esprimersi, elegante nel
muoversi: un poeta
di fama illustre, compositore rinomato, che in più
d’un regno aveva gareggiato,
e vinto, per la leggiadria dei suoi versi... e i reali lo tenevano
assai caro!
Scrivevo epitaffi per i loro morti, elogi per i vivi, poemi che
parlavano dei
loro padri; rallegravo la principessa, lusingavo la regina, compiacevo
il
sovrano. Il mio ingegno indorava le pagine che componevo per loro, le
mie idee
fremevano al loro interno... e io stesso rilucevo; forse soltanto per
boria, ma
che importava? Ero! Eppure ogni astro, per quanto brillante, conosce il
suo
tramonto”.
“Non credo che voi abbiate ancora visto il vostro. Di
più,
credo che sia la vostra alba ad esser prossima”.
Nodin proseguì, ignorandolo: “Ah! E avrei dovuto
tacere, di
fronte a quell’uomo venuto dal deserto, dal viso truce e dai
modi rozzi del
soldato? Ogni suo gesto traspariva la sua inesauribile brama di potere,
ogni
muscolo si contraeva quand’era di fronte al trono, tradendo
la sua aspirazione.
Tanto subdoli i suoi discorsi, quanto chiare le sue intenzioni! Persino
la
principessa, che allora non era che una giovinetta, sembrava esserne
turbata.
Il pericolo gridava nelle mie orecchie a voce tanto alta da recarmi
dolore. Ma
il re, anzi la corte intera, aveva le orecchie dure... parlai
com’era mio
dovere, e mi trattarono alla stregua d’un furfante!”
Nodin tacque. Prese la testa tra le mani: il dolore, il
risentimento, la vergogna alla quale era stato esposto sembrarono
ritornare
impietosi a incidergli il viso; pianse. “Uomini illustri,
erano! Ah, quanto
illustri! Buoni a ingozzarsi, ma duri di cuore; corti
d’ingegno, e di memoria
corta... la rovina li ha travolti, come meritavano. E io vivo, a
mangiarmi il
cuore”.
Sheik gli s’avvicinò; i suoi passi erano tanto
leggeri da
risultar quasi impercettibili. Non si udiva alcun rumore: soltanto
singhiozzi,
e il lamento sommesso del vento. Sheik depose la cetra, per poi porre
entrambe
le mani sulle spalle coperte di grigio del poeta.
“Canterò le vostre poesie,” disse.
“Quanto avete composto in
questi anni abbruttiti dal ferro e dal fuoco, lo metterò in
musica e lo
canterò; nelle foreste, nei villaggi, dovunque la mia voce
possa arrivare”.
“Allora morirai!” esclamò Nodin.
“Pazzo! Tu vuoi dar voce a
un muto. Non puoi restituirmi quel che ho perduto, né
sperare di non perdere la
vita a tua volta”.
“Io vivrò,” asserì Sheik,
“e voi vivrete. Vi vedrò domani;
buonanotte”.
Nodin lo guardò allontanarsi, e per un momento gli parve
d’aver risolto il suo enigma, il fitto mistero della sua
persona; perciò lo
chiamò. La sua voce si infranse contro il sibilo uniforme
del vento, e il
ragazzo disparve.
Per giorni in tutto il villaggio si
vociferò d’uno straniero
che non faceva che andare attorno a far domande sottovoce, in un modo
che a
taluni parve sospetto: un rotolo di pergamena, per favore, un poco
d’inchiostro, se le piace, una penna d’oca,
signora, ho sentito che dovete
ammazzarla domani la vostra bestia.
Teneva le spalle avvolte in uno scialle - inverno flagrava
-, aveva movenze inconsuete e un modo di parlare elegante, vagamente
affettato.
In molti si domandavano chi lui fosse, se qualcuno l’avesse
mai visto, se fosse
sano o pazzo, donde venisse.
Qualcuno lo vide assiso sui gradini di pietra presso il
piazzale, intento a compilare i suoi rotoli, del tutto assorto. Nacque
la
leggenda della sua calligrafia perfetta, talmente bella, dicevano, da
togliere
il fiato a chi fosse così fortunato da rimirarla prima che
egli la coprisse
goffamente col gomito.
Era un freddo pomeriggio, quando lo straniero si sentì
chiamare: “Voi! Poeta!”, e alzò il capo.
“Ah, sei tu, trovatore,” disse, vedendo avanzare
verso di
lui una figura d’un cupo color blu, dai margini sfocati. Gli
occhi gli dolevano
per il troppo star chino sulle carte. “E’ trascorso
più di un giorno,
dall’ultimo nostro incontro... ma tu sei al di sopra del
Tempo, non è così? Non
trascorri mai”.
Il ragazzo si sedette al suo fianco. “Cosa dite? Non
v’intendo. Si sente molto parlare di voi, in paese. Che
andate combinando?”
“Davvero!” disse d’un fiato Nodin, quasi
stesse parlando di
qualcosa a lui estraneo. “Che gente querula. Sì,
ultimamente do un po’ di
fastidio”.
“Avete smesso di star celato?”
“Ragazzo, mio caro ragazzo!” Nodin tese le labbra
in un
sorriso che era quasi un ghigno. “Tu non rispondi forse
quando le dee ti
chiamano?”
“E chi dovrebbe chiamarmi mai... le dee del canto?”
Risero entrambi. “Tu vieni dal deserto... l’ho
pensato
subito, quando t’ho visto. Osi pronunciare eresie quali ne
potei udire soltanto
là... ma no, ma no...” si volse a Sheik ed
agitò seccamente una mano, “tu non
vieni... che sciocchezze sto
dicendo?”
“Vi trovo allegro”.
“Non ti sbagli... i germi di questo poema,”
accennò alla
pergamena che stringeva tra le mani sottili, “li ho in testa
dai giorni della
mia prigionia. Sinora, tuttavia, non ho osato comporre... mi vagavano
soltanto in
mente, come fantasmi”.
“E adesso?”
“Adesso ho esaurito il mio canzoniere, ed è bene
che
m’impegni in altro. O meglio, questo è quel che mi
va di dirti,” sorrise
nuovamente, prima di sospendere lo sguardo velato nel vuoto.
Sheik pose lo sguardo sulla pagina; ammirò immediatamente
l’eleganza della calligrafia. “Salmastri
spirti gravaro sui tumuli...” lesse, con voce ben
modulata. “Cos’è, un
necrologio?”
“Letta da te sembra una fiaba... una fiaba meravigliosa,
contata
da un fanciullo ancora imberbe”.
“Salmastri spirti gravaro sui tumuli,”
ripeté Sheik,
stavolta fissandolo dritto negli occhi scuri.
“Meglio... ma ancora troppo dolce. Lo è la tua
voce”. Spiegò
il foglio con la mano destra. “T’è
capitato di sentir narrare - da un villano
stordito, che so, da un paesano alticcio - d’una
‘guerra del camposanto’?”
“Conosco una storia antica, inghiottita dalle nebbie della
memoria e dai fumi del Tempo. In un’epoca lontana, per un
problema di
successione la dinastia reggente si divise in due rami avversari;
entrambi
reclamavano la corona, uno di essi anche i diritti sul territorio dove
si
ergevano le tombe patrie di un’antica genia
dell’ombra devota al trono...”
“Esatto. Certo non ne troveresti il resoconto sui nostri
annali”.
“Una bella favola”.
“Favola? Può darsi. Una contesa per un cimitero...
un’anomalia tale da entrare nella leggenda e iscriversi nella
pietra per
l’eternità. Vista la grande considerazione
tributata da questo popolo
dell’ombra ai propri oscuri avi, vivi soltanto nella memoria - si narra infatti che
nessuna delle lapidi
avesse il nome del defunto apposto sopra -, possedere queste tombe equivaleva ad avere
il loro appoggio...
almeno, così dovettero pensare quegli altolocati signori.
Perciò in molti la
chiamarono “la guerra del camposanto”, quasi a
deridere l’empietà dell’atto. In
guerra si commettono pazzie delle più gravi; lo sapevi,
ragazzo?”
“Dice anche questo, l’antico racconto?”
“No! Lo dicono gli annali...e l’esperienza. E le
favole,”
concluse Nodin, per poi riprendere a scrivere e chiudersi in un fitto
silenzio.
Sheik si drizzò in piedi. L’aria gelida era
limpida e
luminosa, come una gemma.
“Chi sono i vostri eroi... come avete nomati i rampolli
dell’illustre dinastia?”
“Delle illustri dinastie, vorrai dire”.
“Come?”
“Quella d’ombra ha il suo campione”.
“Quale il suo nome?”
Nodin alzò il capo, con estrema lentezza. Accennò
appena un
sorriso.
“Ignoto,” rispose, tracciando con pazienza
un’iniziale
riccamente decorata sulla pergamena.
Il
giovane avanzava sul crinale un passo alla volta. La
lunga ombra che proiettava sul terreno sembrava sempre più
assumere proporzioni
mostruose.
Il sole del crepuscolo tingeva di vermiglio le valli
circostanti; non spirava un solo alito di vento.
“Annunciati,” gridò un uomo a cavallo,
la cui tenuta e il
cui stendardo ne denunciavano e lo schieramento e la posizione,
“e dicci per
conto di chi vieni a parlarci”.
“Sono nessuno, e vengo per conto di nessuno”.
Non appena il ragazzo dischiuse le labbra, ogni cosa parve
tacere. I grilli cessarono il canto; ogni singolo filo d’erba
smise di
flettersi; persino il fiume parve scorrere a rilento.
Tale la soavità del suo tono di voce che persino il principe
cadetto esitò a lungo, prima di rompere il silenzio. Come
quando si sfiora un
filo di perle che va gradualmente a sfiorarne altri, l’eco
delle sue parole
continuava a permanere nell’aria, come se le avesse appena
pronunciate.
“Riconosco quell’insegna,” disse infine
il cadetto,
osservando il ragazzo con grande attenzione: aveva capelli canuti e uno
sguardo
sanguigno che pareva capace di perforare. “Tu sei degli
Sheikah, popolo
dell’Ombra, baluardo della Luce. Che nuove ci
porti?”
“Dal momento che nessuno può parlare, la mia voce
è muta; e
con voce muta vengo a riferirti parole mai pronunciate”.
“Ho sentito dire dei vostri enigmi e delle vostre
sciarade,”
ribatté il cadetto, “ma non
m’interessano. Ragazzo - perché se scegli di non
qualificarti, ti designerò in questo modo -
perché la tua gente ha scelto
d’inviare te, così giovane?”
“La mia gente non sceglie; la mia gente non gode di questo
facoltà. Nemmeno i principi e i re, benché non ne
siano consapevoli. Noi non
comandiamo ma ubbidiamo. Non esigiamo ma serviamo. Non scriviamo ma
interpretiamo. Ciascun uomo serve gli alti disegni, in
verità, certuni con
maggiore riluttanza che altri. Noi chiniamo il capo”.
“Affascinante”. Le armature dei soldati erano
d’un tenue
rosso ferrigno, a quella luce; all’occasione tintinnavano
appena. Sembravano
accompagnare come uno strumento la voce melodiosa del giovane. Il
cadetto
accarezzò la barba con una mano. “Io dico che sei
venuto per le tombe dei tuoi
padri. Noi combattiamo per liberarle, come saprai. Saranno vostre. Non
ci è
chiaro soltanto come il vostro popolo voglia schierarsi”.
“Voi combattete per le stesse ragioni per cui combattono gli
altri, e le vostre ragioni non ci paiono né migliori
né peggiori delle loro”.
“Sei certo di ciò che dici? Potreste trovarvi
costretti a
rivedere la vostra posizione”.
“Non posso esserne certo, perché io non dico. Non
ho mai
detto. Quello che voi sentite è soltanto il rumore del
vento. Ma il rumore del
vento lo sentite voi come le prime creature che vennero al mondo, e
rimarrà
dopo di voi”.
“Non amo gli scherzi. Non intendi dichiararci
fedeltà, ho
capito. Non so nemmeno se considerarti un messo. Se vedessi una delle
vostre
famose tecniche di battaglia, magari...”
“Non ho bisogno di provare nulla per conto di nessuno,
perché nessuno me l’ha chiesto. Non vi
è nulla che voglia da voi come non vi è
nulla che voi possiate darmi. Soltanto...”
“Cosa?”
“Non dovete toccarle”.
“Toccarle?” il cadetto scrollò il capo.
Lo stendardo
giaceva, immoto ed illeggibile, accasciato sull’asta.
“Non toccate le lapidi, e non osate profanare i
tumuli”.
“Ah!” il cadetto emise una lunga, fragorosa risata;
poi si
guardò attorno, a ricercare l’approvazione dei
generali. Questi diedero qualche
risolino perplesso. “Allora una richiesta
c’è. Intendi negoziare?”
“Chi è
nulla non può
negoziare niente per conto di nessuno, giacché nessuno
possiede niente”.
“Sono stanco di te e delle tue parole, ragazzo;
sarò franco.
Battetevi al nostro fianco, e proteggeremo il vostro onore e la vostra
memoria.
In caso contrario...”
“Il Caso non può essere contrario; esso segue un
flusso
univoco e già stabilito. Ve ne renderete conto”.
“Se non hai nulla da servirmi, oltre che sentenze vuote, devo
chiederti di andartene”.
“Non ho fatto richieste né dato ordini. Ho detto
semplicemente il dovuto: non dovete toccarle. Non una di quelle pietre
va
spostata, sfregiata, rimossa, così come la terra che ricopre
le spoglie degli antichi
avi”.
“Per quale ragione, se è lecito?”
“Morreste”.
“E per mano di chi?”
“Per mano di chi li ha dissolti e di chi, giorno per giorno,
ci dissolve. Per mano di chi ci ha disegnati in modo che risultassimo
invisibili al nostro stesso sguardo. Per mano di chi ci sottrae quella
parvenza
di evidenza, quella menzognera consolazione che alle altre creature
è concessa.
Per mano di chi vive dei nostri nomi, privandocene per
l’eternità”.
“E chi sarebbe quest’essere spaventoso?”
“L’oblio,” disse secco il giovane, in
modo tale da suonare
grande e tremendo. La valle intera sembrò ritrarsi per lo
stupore. Il cielo si
fece cupo.
“Tutti temono l’ignoto, gran Signore,”
aggiunse, gli occhi
di colore sempre più opaco e denso. “Ma nessuno
sfugge”. Poi fece un gesto –
non durò più di un istante – e
disparve, con una breve luce che abbagliò
l’esercito intero.
Appena un momento dopo, il vento prese a ululare
ferocemente.
Mentre Sheik leggeva, col cuore che
sobbalzava a ogni rigo,
dalla stanza adiacente giungevano dei mormorii.
Cantava ogni parola, così da imprimersela nella mente per
l’eternità; all’eternità
avrebbe poi dovuto consegnarla. Lo raggiunse un rumore
di passi; s’interruppe.
“L’uomo è qui?” chiese
rapidamente a una donna di mezza età,
robusta e vigorosa. “Posso entrare?”
“Puoi entrare, ragazzo. E’ tuo padre? Un uomo tanto
stanco,
poveretto... camminava a malapena, quando l’ho raccolto;
farneticava... sembra
proprio che i suoi occhi non vedano più”.
Sheik non rispose; percorse un corridoio dalle pareti
grigie, per varcare infine una soglia modesta. Di fronte a lui stava un
ben
misero giaciglio di legna umida e pelli.
“Sei arrivato, menestrello”. Nodin era in penombra,
lungo
disteso sulla sua branda fortunosa; sembrò agitare una mano
nell’oscurità. “Non
ti vedo”.
“Signore,” disse Sheik, e si sorprese nel sentire
la sua
stessa voce suonare come incrinata. Fece qualche passo; il pavimento
era
freddo. S’inginocchiò al capezzale
dell’uomo. I suoi capelli corvini giacevano
scomposti sulle pelli dove era stato deposto.
“Come ti pare la mia opera, di’ un
po’?”
“Non ne ho...” Sheik esitò.
“Non ne ho mai lette di
migliori. Ma il vostro sguardo è opaco”.
“Sì... non credo d’aver mai scritto
tanto... talora tentavo
di rubar luce a qualche focolare, affacciandomi a qualche vetro. Che
sciocco...
la mia vista non è mai stata buona”.
“Voi mentite. Qualcuno vi ha accecato”.
“E come avrebbero potuto?” Nodin rise.
“Come avrebbero
potuto? La verità, ragazzo mio, è che io non vedo
più, e temo che non potrò più
guadagnarmi il pane componendo epitaffi”.
“Non scherzate. Avete ancora la voce...”
“La voce! La mia è la voce di un muto, lo sai.
Quando la
udranno tenteranno d’ammazzarmi, e sarà facile:
vedi come sono ridotto. Già
rimpiango la vista della carta... hai idea di quanto sia bella,
sì?”
“Non è terminato”. A Sheik
sembrò di dire cose futili, ma
non si trattenne. “Il vostro poema non è
terminato”.
“Non ha bisogno d’esserlo,” disse
pacatamente Nodin, “non ne
ha bisogno”.
“Mi racconti la fine. La comporrò io –
di qualcosa son
capace, e una chiusa mediocre è meglio di nessuna chiusa.
Chi vince la guerra?
A chi va il camposanto?”
Nodin rise ancora, con velata amarezza. “Proprio tu, non lo
sai?”
Sheik guardò con attenzione gli occhi del poeta, che avevano
ormai perso ogni luce. Erano fissi, velati e in un certo qual modo
mostruosi,
da cadavere. Nello scrutarli, tuttavia, avvertì qualcosa di
inusitato... e
indescrivibile...
“Sai, Sheik,” disse piano Nodin, pronunciando il
nome che
provocò un sobbalzo al suo interlocutore, “credo
d’essere riuscito finalmente a
comprendere il tuo mistero. Tutto quello che conosco di te è
un enigma, una
sciarada, una parola... un guizzo di fumo... ho sempre cercato di
andare oltre
questi cenni, di vedere al di là, di ricostruire i tratti di
un’effigie ben
celata... senza mai avvedermi del mio errore: tu sei
questo...”
Sheik fu colto come da un’urgenza disperata. Era
cieco eppur vedeva... “Ditemi il
nome del paladino dell’Ombra. Ditemelo, voi lo
conoscete...”
“Il suo nome... il tuo
nome... ora sì, lo vedo chiaramente. Tu sei il significante
che racchiude in sé
tutti i significati... la sagoma indefinita che perciò si
adatta ad ogni
forma... tu sei la storia che narra ogni storia, l’animo del
racconto... sì!
Tu... sei il Mito...”
“Signore,” si lamentò Sheik, mentre
grosse lacrime già gli
scorrevano lungo le guance. Prese una delle mani ossute del poeta.
“Vi
prego...”
Ma Nodin sembrava aver perso i sensi; i suoi occhi erano
chiusi, le sue membra inerti, il viso contratto.
Una donna s’affacciò sulla soglia.
“S’è addormentato,
poveretto...?”
@Astrifiammante: Il mio tentativo era appunto quello di rendere Sheik, mediante i suoi racconti, un cantastorie 'credibile', che riecheggiasse i canti di questi ormai scomparsi, ma inestimabili, veicoli della tradizione orale. Il rapporto tra cultura e potere è questione che mi è sempre stata particolarmente a cuore (e sempre ho ammirato chi, come Goya, è stato capace di non sacrificare l'arte all'adulazione - diverso il problema per autori come Virgilio) come pure il ruolo del poeta-vate, dell'intellettuale come orecchio sensibile ai cambiamenti e ai pericoli della propria epoca. Si potrebbe a questo proposito parlare del ruolo dell'informazione nell'epoca odierna, ma non è argomento che tocchi un'epoca come quella di questa fan fiction.
La prosopopea che ti ha lasciato perplessa, invece, è altra storia. Un amico ha avuto dubbi analoghi ai tuoi, spero pertanto di riuscire a essere chiara per entrambi. Anzitutto le rivelazioni finali di Nodin sono intenzionalmente vaghe e di difficile interpretazione. Lo stesso Sheik (che è, sì, personaggio del canone) resta dubbioso, forse addirittura esterrefatto, di fronte alle ultime parole del morente. Ma non potrei fare alcun chiarimento senza rifarmi al 'nodo' della questione, vale a dire il ruolo ricoperto da Sheik nel canone. Sheik, personaggio quanto mai misterioso, è una sorta di 'maschera' assunta dalla principessa Zelda negli anni della tirannide di Ganondorf, come una differente personalità (almeno per chi, come me, non crede che Sheik e Zelda siano la stessa persona; per altri si tratta di un semplice travestimento) entro la quale viene racchiusa quella della principessa. Egli appartiene alla stirpe degli Sheikah (come pure la nutrice di Zelda), un popolo dell'ombra da sempre dedito a servire la famiglia reale ma ormai praticamente scomparso (nel titolo conta due membri soltanto, Sheik e la nutrice suddetta) e compare pressoché esclusivamente per insegnare, con la cetra, una serie di melodie dotate di potere magico all'Eroe del Tempo, Link.
Questo tutto quel che si conosce a suo riguardo. Cantore solitario, che scompare in un bagliore al termine d'ogni esibizione, oscuro e saggio compagno d'avventure dell'eroe, identità artificiale della quale nulla è dato sapere, Sheik diviene qui l'emblema del cantore errante, un veggente capace di decifrare i disegni del destino ma assolutamente inabile a ricostruire il suo (inesistente) passato, la sua provenienza, la sua discendenza, 'strumento' consapevole di servire a uno scopo ma fervidamente convinto della bontà dei propri ideali e della propria missione, al tempo stesso ignaro della propria stessa natura. Questa 'figura di carta' che trascende il tempo e vive nel canto arriva pertanto a rappresentare l'oralità (e l'auralità) e il Mito che sopravvive attraverso di essa, piuttosto che a 'incarnarlo' come le parole di Nodin lascerebbero intendere.
Spero d'aver chiarito. :) grazie mille della bella (come sempre, del resto) recensione.