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Autore: SofiaAmundsen    18/11/2013    0 recensioni
Quegli occhi raccontano una storia che nessuno vuole ascoltare. Raccontano una storia triste, di persone che hanno sofferto e non sono state ascoltate.
Te ne accorgi mentre li guardi muoversi felini sul suo volto, nel buio di una notte fredda a Londra. Nessuno ha mai ascoltato quella storia, lo capisci dalla sua espressione: distante, fredda, gelida. Sembra quasi che lui non abbia mai parlato con nessuno, eppure quelle labbra deve averle mosse, almeno una volta.
Non l’hai notato subito, lo ammetti. Ma tu lavori al cafè della stazione, fai turni lunghi per riuscire a pagarti il posto misero in cui vivi, vedi milioni di persone ogni giorno, che partono senza lasciare niente, che vengono da te senza guardarti negli occhi, che non vedono l’ora di lasciare quel posto, perché che stiano andando o che stiano tornando, un viaggio è sempre qualcosa che ti divide da qualcuno.

John lavora alla stazione. È un lavoro estenuante, noioso. Poi un giorno si accorge di un ragazzo solitario, assorto nei suoi fogli di carta, con due profondi occhi azzurri che sembrano raccontare una storia.
Teen!lock AU!Station
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Plin. Plin. Plin.            
 
Il gocciare del rubinetto alle tue spalle comincia a darti davvero sui nervi.
 
Plin. Plin. Plin.
 
Hai già fatto presente che è rotto. Due volte. Ovviamente, nessuno ha chiamato un idraulico e tu non hai nessuna intenzione di andare a parlarne con il direttore, non dopo il vostro recente incidente.
 
Plin. Plin. Pli-plin.
 
All’ennesima goccia irregolare che rimbalza sul metallo del lavandino circolare getti la testa indietro e sbuffi, esasperato. Com’è possibile che tu riesca a sentirle, in un luogo rumoroso per antonomasia? Ma soprattutto, com’è possibile che siano così fastidiose da deconcentrarti e costringerti a leggere per la terza volta la stessa riga del libro di genetica?
Non riuscirai mai a dare l’esame se non aumenti i ritmi di studio e ultimamente sei fin troppo distratto. Chissà perché.
 
Una matita impazzita prende vita da sola e inizia a disegnare sul tuo libro, ignorando le parole scritte in un carattere minuscolo. Inizia con delle linee distratte, confuse, imprecise. Rapidamente prendono forma, una forma allungata, raffinata, elegante, come una mandorla levigata. Due mandorle, circondate da leggere ondine romantiche. Al loro interno disegna due sfere intense ai bordi, più sfumate nel loro interno. Poi il disegno prende colore e le sfumature fanno da padrone. La matita si trasforma in un pastello magico e sotto il suo tocco il blu si fonde con il bianco e dà vita a una nuova tonalità, il celeste con il nero ne crea un’altra ancora.
Due occhi profondamente azzurri si prendono tutta la tua attenzione, lasciando l’anatomia a un ricordo lontano. Le iridi si muovono sulla carta leggermente increspata per la pressione del pastello, sono di nuovo un mare in tempesta, che cambia colore ad ogni onda, ora blu, ora azzurro. Ti incantano e ti parlano quegli occhi, ti raccontano storie antiche e dolorose, ti trascinano nel loro mutare costante, incatenandoti a sentimenti e colori che non conosci, come le sirene di Ulisse.  Sono bellissimi e tu affogheresti ancora e ancora in quel mare.
Con una mano scorri sopra la pagina fitta del tuo libro, come a cancellare la tua fantasia disneiana. Non riesci a smettere di pensare a lui, ormai non lo neghi neanche più.
Dopo il vostro incontro tornare a lavoro ti è sembrata la cosa più difficile che tu abbia mai fatto: non ti era mai capitato di rifilare una pizza alle olive a un uomo che chiedeva delle sigarette e dare le sue sigarette alla donna che aveva chiesto una bottiglietta d’acqua naturale per suo figlio. Per tutto il pomeriggio. Quando sei tornato a casa, quella sera, dietro le tue palpebre non c’erano altro che i suoi occhi azzurri e il suo sorriso beffardo. La tua testa era piena della sua voce che pronunciava il tuo nome, che ti raccontava di questo. Hai impiegato ore ad addormentarti, quasi tutta la notte, ma quando alla fine hai ceduto, cullato da quei pensieri, lo hai sognato mille volte, in mille posti diversi, in mille epoche diverse.
Poi è passato un intero giorno senza che tu l’abbia visto e ti è sembrato l’eternità, come se improvvisamente lui fosse la tua droga, senza la quale il mondo è grigio e tu dolorante. Sherlock. Quel nome è una cantilena nella tua testa, ormai.
 
 
Ora sei a lavoro, in anticipo, di un’ora. Mike ti ha chiesto di nuovo di sostituirlo – non ricordi neanche come si chiama questa volta, Laura, Louise, qualcosa del genere – e tu hai mostrato un entusiasmo che forse ti ha tradito.
 
«Certo!» hai risposto prima ancora che finisse la frase.
 
Lui ti ha guardato indagatore, con i suoi piccoli occhi maliziosi.
 
«Hey, Johnny, non è che c’è una bella ragazza che viene a prendere il caffè alla quale hai dato un po’ troppo zucchero, eh? Mi sembri troppo contento di lavorare.»
 
Hai alzato gli occhi al cielo in una finta espressione annoiata, ma dentro di te ti sei maledetto per la tua spontaneità.
 
«No, Mike, le lascio tutte a te, tranquillo» hai tagliato corto e lui ti ha ringraziato con una pacca sulla spalla.
Quel ragazzo riesce ad apparirti viscido anche quando scherza amichevolmente.
 
 
 
Una donna si sta avvicinando al bancone, la vedi con la coda dell’occhio mentre ondeggia sicura ma instabile sui suoi tacchi. Alzi lo sguardo rispettosamente e noti che non è una donna, ma una ragazza, giovane, carina, avrà più o meno la tua età. Un’occasione persa per Mike, uno stronzo di meno per lei.
Le sorridi e lei ti sorride di rimando, poggiando le mani con le lunghe unghie laccate vicino ai pacchetti di chewing gum esposti. È troppo truccata, ma sotto il fondotinta spesso e il fard acceso ha un viso dolce, da bambina. I suoi occhi castani emanano calore e sembrano fusi al loro interno, come quei dolci nordeuropei.
Ha delle belle labbra, carnose, rosse, ma delicate e non volgari: quando le muove, ne accompagni i movimenti con lo sguardo.
 
«Ciao. Prendo queste» ti dice, mentre posa un pacchetto di gomme alla fragola davanti a te.
 
Fragola. È un sapore che adori, soprattutto sulla bocca di qualcun altro. La tua ultima ragazza aveva un lucidalabbra alla fragola che ti faceva venir voglia di baciarla ogni volta: quando ti sei reso conto di che oca fosse, ti sei chiesto se non fosse stato quel lucidalabbra a farti innamorare di lei.
 
«Certo. Altro?» sei cortese nel rispondere, ma dai tuoi modi educati sfugge un sorriso forse troppo caldo.
 
Lei scuote leggermente la testa e a te sembra ancora più una bambina mentre fa quel gesto. Ora che guardi bene, sotto il fondotinta si intravedono delle  simpatiche  lentiggini ribelli al trucco.
Ti porge una banconota da cinque sterline e mentre cerchi il resto noti che si mordicchia l’angolo destro del labbro inferiore, come se fosse in difficolta. Quando le dai le monete e lo scontrino lei esita un attimo nei tuoi occhi azzurri.
 
«Grazie… ehm, volevo chiederti… un’informazione. Posso?»
 
Ti stupisci di come una ragazza apparentemente così sicura di sé nasconda, dietro ad accessori ostentati e trucco esagerato, una timidezza quasi tenera.
 
«Sicuro!» rispondi, e la tua espressione è dolce e comprensiva.
 
Lei sembra appena più rilassata ora, mentre sposta una morbida ciocca di capelli dietro l’orecchio.
 
«C’è un telefono a gettoni in questa stazione? È la prima volta che vengo qui e non so orientarmi… in realtà, è la mia prima volta a Londra.»
 
Solleva di nuovo lo sguardo su di tè, quando finisce di parlare, e la mano delicata torna a tormentare i capelli voluminosi.
 
Tu la guardi divertito e sorpreso.
 
«Un telefono a gettoni?» c’è un velo di ironia nella tua voce, ma è un umorismo leggero e coinvolgente
 
«Credo che il barbone che dorme sulle panche quando nessuno controlla abbia anche lui uno smartphone, sai?»
 
Lei sorride, imbarazzata ma divertita, e il suo sguardo torna a vagare sul bancone, mentre un leggero rossore sembra sfuggire al fondotinta ingannatore. Quella mano esile torna sui capelli, come se lei fosse la versione femminile e timida di Sansone. Ti stupisci di scoprire in te la voglia di allungare un braccio, prenderle il mento tra pollice e indice, sollevarlo, per costringerla a guardarti, e sorriderle sussurrando per rassicurarla.
 
«È che il mio si è… non so, scaricato, spero!» ora ti guarda di nuovo, una leggera nota di preoccupazione sembra aver soppiantato l’imbarazzo «o altrimenti è morto, dal momento che si è spento di punto in bianco.»
 
«Tieni» dici mentre allunghi il braccio per infilare la mano nella tua tasca destra «usa il mio.»
 
Lei guarda il cellulare tra le tue dita come se fosse un oggetto di tecnologia aliena, tanto che nei suoi attimi di esitazione induce anche te ad osservarlo per coglierne la stranezza. Il rossore torna a far visita alle sue guance.
 
«Ehm… grazie!»  risponde squillante.
 
Lo prende titubante e lo tiene un attimo in mano, prima di iniziare a digitare il numero sullo schermo, accompagnata da dei bip ripetitivi. Si porta il telefono all’orecchio, scostando i capelli con un movimento del collo, e con l’indice della mano libera ti fa cenno indicando un punto indefinito alla sua destra, prima di allontanarsi in quella direzione. La sua voce squillante si esibisce in un saluto allegro, prima che i suoni e i capelli di lei si confondano tra la gente lì vicino.
 
Torni a guardare le pagine del tuo libro e un nuovo disegno increspa la carta stampata. Questa volta, si muove. La matita ha lasciato linee sottili, chiare, ripetute molte volte su loro stesse, senza un’apparente precisione, ricalcate poi da un tratto sicuro e marcato che da forma ai lineamenti. Lo sguardo basso su qualcosa che va oltre la pagina, gli occhi ridotti a una fessura concentrata: riconosci le linee interessanti e rocambolesche del suo volto. Il labbro inferiore è stato catturato dai denti, che lo tengono in una presa diabolica, responsabile del rossore più intenso del quale si colora, mentre l’arco di cupido si posa nella sua naturale armonia su quel lembo di pelle sottostante. Sta scrivendo musica, non riesci a vederlo, ma è come se lo sapessi. Una folata di vento muove i suoi riccioli morbidi nel disegno:  come danzanti, questi la assecondano, ondeggiando sul suo viso candido e scoprendone ritagli nascosti.
Allunghi le dita verso il disegno, istintivamente, senza accorgertene, come per toccarlo, ma ti fermi prima, esiti. Il volto si muove e solleva lo sguardo su di te. Ora i suoi iridescenti occhi chiari ti guardano, curiosi, limpidi, innocenti e consapevoli allo stesso tempo, come quelli dei bambini. Ancora una volta, vedi il profondo di un abisso dimenticato in quelle iridi. Ora la matita si è ricordata di disegnare il fondale, ma ha dimenticato, forse tra una linea d’espressione e l’altra, la patina di freddezza che di solito lo cela. Riesci a vedere della sofferenza, in quegli occhi, una storia difficile, fatta di troppe mani e troppe poche parole. Riesci a vedere il riflesso di loro in un tempo passato, umidi, colmi di lacrime che a volte non hanno avuto il coraggio di piangere, che a volte non hanno avuto la forza di trattenere. Riesci a vederli spaventati, muoversi su volti sconvolti e implorare pietà, senza farlo davvero.
Ora le tue dita toccano davvero la carta e le tue labbra accarezzano il suo nome, come per chiamarlo e salvarlo da quegli incubi, come se lo sentissi improvvisamente tuo.
 
Sherlock.
 
 
«Che fai, parli da solo?»
 
Sollevi lo sguardo e la ragazza ti sta sorridendo, con un velo di ironia mista a dolcezza, ora meno inibita: stringe ancora il tuo cellulare tra le mani.
Posi il palmo sopra alla carta, come a proteggerlo e nasconderlo, ma il disegno non c’è già più.
 
«No, no» rispondi allegro, ma la tua attenzione è ancora rivolta all’immagine dei suoi occhi nella tua testa, che pian piano scema «stavo solo ripetendo qualche parola per memorizzarla.»
 
«Ah, stai studiando?» chiede.
 
La ragazza si sporge sul bancone mentre pone la domanda e allunga lo sguardo per riuscire ad intravedere il libro. Gli occhi ti cadono istintivamente verso il suo seno premuto contro la stoffa.
 
«Che facoltà frequenti?» domanda interessata.
 
«Sono al primo anno di medicina.»
 
Nel tuo sguardo c’è sempre una scintilla di orgoglio quando lo dici: quella scelta ti sta costando tutta la tua vita e ci sei aggrappato con le unghie e con i denti. Niente potrebbe allontanarti dal tuo obiettivo.
 
«Davvero? Complimenti! Hai intenzione di diventare un chirurgo?»
 
Ti hanno fatto questa domanda centinaia di volte, ma tu non sei il tipo che alza gli occhi al cielo, tu rispondi educatamente anche all’ennesima questione scontata.
 
«No, o perlomeno non qui. Ho intenzione di arruolarmi come medico militare dopo la laurea.» rispondi fiero.
 
O forse ami semplicemente dire ad alta voce il tuo sogno. Suona esattamente come la scelta giusta.
Lei ti guarda a metà tra lo stupore e l’adorazione. Più la seconda, e la cosa non ti dispiace affatto.
 
«È davvero una scelta coraggios-»
 
Si interrompe quando il tuo cellulare vibra e si illumina tra le sue mani. Abbassa lo sguardo su questo, probabilmente in un moto istintivo, poi lo rialza su di te, di nuovo imbarazzata.
 
«Scusa, non volevo farmi gli affari tuoi… ti è arrivato un messaggio» mormora.
 
Ti porge il telefono, guardando altrove e arrossendo: hai di nuovo la tentazione di sollevarle il mento e sorriderle, rassicurante.
 
«Va tutto bene, tranquilla» la rassicuri.
 
Prendi il cellulare dalla sua mano e, volutamente, la sfiori con le dita. Lei ti guarda di nuovo, ancora più rossa in viso, ma sembra distendersi nella tua espressione intenzionalmente serena.
Rivolgi la tua attenzione allo schermo del tuo telefono e ti accigli quando leggi le lettere e i numeri sullo
sfondo.
 
 
+44 70466598951
messaggio
 
Strano, pensi. Tieni molto alla tua privacy ed è raro che tu dia il tuo numero a qualcuno. Pensandoci bene, è raro anche che qualcuno ti cerchi, soprattutto con un contatto che non conosci. Apri il messaggio e la tua sorpresa aumenta, invece di scemare.
 
Cheerleader. È a Londra per fare un provino in una scuola di arti sceniche: non passerà  probabilmente, ma la sua influente e facoltosa madre provvederà a farla entrare lo stesso.
 
Rileggi il messaggio una, due, tre volte, prima che inizi ad acquisire senso e quando lo fa diventa un nome: Sherlock. Non sai perché pensi a lui, ma quelle poche parole ti hanno ricordato in modo puramente istintivo lui che insulta il tuo capo. Fai in tempo a darti del pazzo, dell’ossessionato e a mettere in dubbio la componente di curiosità nel tuo interesse per quel ragazzo, rapportata a qualcos’alto che non riesci a definire, prima che una voce squillante e cristallina ti distragga, di nuovo, dai tuoi pensieri unilaterali.
 
«La tua fidanzata?» ti domanda sorridente.
 
«Come, scusa?» ti sforzi di chiederle. Sembri così confuso mentre cerchi di concentrarti sulle sue parole e non su quelle del messaggio.
 
«Il messaggio, è della tua ragazza?»
 
«Oh, no, no. Non ho nessuna ragazza. L’ultima ha deciso che uno studente di medicina non poteva essere al pari di un medico già in carriera, con un divorzio alle spalle» ironizzi. Puoi farlo: in fondo non ti è importato neanche più di tanto quando l’hai vista in giro con uno vent’anni più vecchio di te. E di lei.
 
«Ah sì, capisco la situazione! Una mia compagna del gruppo di cheerleading ha fatto la stessa cosa. E sai com’è finita? Incinta! Dopo neanche due mesi! Quando l’abbiamo saputo… »
 
La ragazza continua a parlare, presa animatamente dal discorso, ma tu dopo cheerleding non senti più nulla.
 
Cheerleder.
 
Ecco a cosa si riferiva il messaggio. Lei, la passeggera senza cellulare che ti sorride timida e sfila sui suoi tacchi. Istintivamente ti guardi intorno, anche se non sai in cerca di cosa. Ti senti spiato, ma contemporaneamente una sensazione quasi positiva accompagna quella di sottile ansia: è come se ne fossi lusingato. Il tuo cuore accelera di nuovo e riconosci i moti involontari del suo battito, quelli che risultano dal rilascio eccessivo di adrenalina.
 
«Mi stai ascoltando?»
 
Ora sembra di nuovo una bambina, nascosta dietro la sua maschera da grande, mentre richiede la tua attenzione.
 
«Certo!» menti «e com’è finita?»
 
«Beh, lui è tornato con l’ex moglie e lei ha una pancia enorme, credo che il bambino nascerà tra poco»
 
«Terribile» sentenzi. Ti mantieni su commenti neutri, perché ancora una volta i tuoi pensieri sono altrove mentre lei parla.
 
«Infatti! Ora devo andare.» il suo sguardo torna basso, la sua mano va di nuovo ai capelli « È stato… un piacere, parlare con te!»
Torna a fissarti quando finisce la frase, in attesa della tua reazione, con un’evidente speranza negli occhi. Non riesci davvero a capire quanti anni abbia, nel suo ondeggiare tra la bambina e la donna.
 
«Anche per me. Se rimani a Londra magari potremmo rivederci…» domandi titubante.
Lasci la domanda in sospeso nell’aria e un po’ te ne stupisci. È più da Mike abbordare ragazze ingenue sul lavoro, con una scusa banale come una telefonata: tu cerchi – speri – di essere più di classe. Ma qualcosa in te ti spinge a desiderare di rivederla. Probabilmente è la parte di te che vuole sapere quanto di quel messaggio sia vero.
Lei sorride, ed è di nuovo a metà tra una bambina con un gelato e una donna consapevole della sua carica sensuale.
 
«Volentieri… tutto dipende dal provino di oggi: se entro nella scuola, rimarrò a Londra almeno per i prossimi tre anni, poi chissà!» squittisce entusiasta.
 
È a Londra per fare un provino in una scuola di arti sceniche.
 
Come pezzi di un puzzle, le parole del messaggio iniziano a incastrarsi con le realtà, in un disegno di cui non riesci ancora a intravedere la forma.
 
«Che tipo di scuola?» chiedi, e la tua curiosità è tutto meno che innocente.
 
«È una scuola di canto, ballo e recitazione. Ci sono dei corsi interessanti che potrebbero aprirmi molte porte nel mondo dello spettacolo. È la stessa che ha frequentato mia madre: è grazie al suo talento e a questa accademia che ha costruito tutto quello che ha. Certo, io non sono brava quanto lei, ma ci proverò lo stesso.»
 
Non passerà  probabilmente, ma la sua influente e facoltosa madre provvederà a farla entrare lo stesso.
 
«Incredibile…» mormori .
 
«Come?»
 
Solo alla sua domanda realizzi di aver appena sussurrato i tuoi pensieri, i tuoi commenti a quello che sta succedendo. Ora sei quasi completamente sicuro che quel messaggio sia di Sherlock.
 
«Niente, dicevo che è incredibile che tu e tua madre abbiate la stessa passione.» menti di nuovo.
Un punto per te, constati mentalmente: riesci a riprenderti bene anche quando vieni colto in fallo.
 
«Sì, credo che me l’abbia trasmessa: quando ero piccola mi faceva sempre ballare con lei e ascoltare musica, non potevo non amare i musical alla fine!»
 
«È davvero una bella storia. Buona fortuna, allora»
 
«Grazie» risponde, e il suo sorriso timido fa di nuovo capolino, mentre cerca qualcosa nella grande borsa rosa.
 
Prende la piccola penna e il blocchetto di fogli colorati che ha trovato. Ci scrive sopra qualcosa, poi ne strappa uno e te lo porge.
 
«Questo è il mio numero, chiamami nei prossimi giorni, così ti dirò com’è andato il provino» conclude mentre rimette le cose in borsa, guardando ancora te, di nuovo sicura di sé. «Ciao!»
Muove la mano amichevolmente mentre si allontana sui suoi tacchi vertiginosi e ti fa un occhiolino provocante: è di nuovo la femme fatale della tua prima impressione.
 
 
 
Ti rigiri tra le dita il foglietto di carta, piccolo, di un arancione chiaro. I numeri sono scritti in una grafia graziosa e precisa, ma ci fai appena caso, mentre la tua mente elabora macchinosamente quanto è appena successo. La senti quasi ronzare, nel suo tentativo faticoso di scoprire il filo conduttore dietro agli ultimi minuti.
 
«Non la chiamerai.»
 
Quella voce ti arriva addosso come un calore inaspettato, avvolgente, intenso. Non una voce, quella voce. Aspetti qualche secondo prima di voltarti, per assicurarti di non averlo immaginato, per dar tempo al tuo cervello di ricredersi. Quando lo fai, due profondi occhi azzurri ti stanno guardando.
Ingoi saliva e un tumulto di emozioni ricomincia ad aggrovigliarsi dentro di te. Il circo impazzito è di nuovo sfuggito ai funamboli e ai domatori. Lo sforzo di sembrare tranquillo e sicuro è più grande di quello che avresti creduto.
 
«Come fai a saperlo?» chiedi, ostentando una fermezza che non hai.
 
I saluti non sono proprio una cosa da voi, ormai l’hai capito.
 
«Come so che sei uno studente di medicina e che il tuo capo annega i dispiaceri di un matrimonio infelice nel porno e nel gioco online.» risponde sfacciato.
 
I suoi modi sono spavaldi. I tuoi cercano di simulare indifferenza: coprono in realtà la tua totale ammirazione.
 
«Come?» ripeti, e il tuo cuore scandisce battiti più veloci, più energici, che ti arrivano alle tempie come nella scena clou di un film di James Bond.
 
«Osservo.»
 
La sua risposta è placida e quasi sussurrata, come se ti stesse rivelando un segreto senza però dirti nulla. Ti prendi qualche secondo per rifletterci e, forse un po’, riinizi a respirare. Lo sguardo che gli getti è un compromesso tra la l’ironico e l’interrogativo.
 
«E cosa osservi, Sherlock Holmes?»
 
Il suo nome sulle tue labbra sembra quasi una parola proibita. Ti accorgi solo ora di non averlo più pronunciato ad alta voce, dopo la prima volta, ma sussurrato tante volte nei tuoi sogni e nei tuoi pensieri.
 
«In questo caso, niente che non sia noiosamente palese. Basta guardare l’importanza che stai dando all’unica possibilità di contatto che hai con lei.»
 
Le tue sinapsi inciampano per un frazione di secondo, poi lo sguardo punta rapido al foglietto che hai tra le mani. La carta è completamente stropicciata, gli angoli non ci sono più, strappati via, e quello che ne rimane è un rotolino accartocciato a mo’ di sigaretta, di cui alcuni punti tendono alla lacerazione, provati dalla lavorazione impropria della carta, mentre altri hanno già ceduto. Preso dall’agitazione, devi aver sfogato la tensione contro un numero di telefono di cui, ammetti, ma solo a te stesso, non ti importa più particolarmente. O forse non ti è mai importato.
Lo apri e alcune cifre sono ancora leggibili, mentre altre sono state ingoiate da delle fessure.
Esiti nel parlare e lo distendi con le dita, come a cercare di rimediare. Recuperare il numero non è tra le tue priorità, ma cominci a provare un certo fastidio nel constatare che Sherlock ha sempre ragione.
 
«Puoi anche buttarlo, ora»  ti dice, prepotente, arrogante, sexy.
 
«E se io volessi tenerlo?» rispondi sfrontato.
 
Il vostro gioco di sguardi ironici e saccenti inizia ad alzare la temperatura tutto intorno. Fossi ancora nella tua fantasia disneyana, un ippopotamo con un tutù verrebbe a farti aria con un ventaglio.
Sherlock ti guarda a lungo, con i suoi occhi penetranti, profondamente blu, e tu quasi ti sciogli in particelle che non saprai ricomporre sotto quello sguardo. Ti sembra più vicino, il suo viso, ma forse la mancanza di ossigeno al cervello ti ha fatto perdere il senso delle proporzioni.
 
No, è più vicino, decisamente, te ne accorgi quando il suo respiro sembra sfiorarti e noti che il suo corpo è sporto sopra il bancone. Non ricordi con esattezza come si faccia a parlare, o a respirare, mentre tutto il tuo mondo è assorbito dal blu di quelle iridi.
Labbra vicine, troppo vicine. Rosse, sensuali, formose, ti ricordano un tuo sogno. Ti baciavano e ti mordevano il collo, poi scendevano e depositavano tocchi lussuriosi fino a… no, non vuoi pensarci, non ora, con Sherlock troppo vicino a te e il calore del tuo corpo che si impenna pericolosamente.
 
Parla, ed è un sussurro troppo simile a un sospiro sulla tua pelle. Il suo soffio ti tocca, sei in trappola in una prigione di sensazioni.
 
«Davvero?» chiede, sussurrando.
 
Il tempo si ferma e ogni cosa prende quell’innaturale lentezza di un vecchia pellicola mandata a rallentatore. I tuoi battiti scandiscono attimi che non scorrono e tutto il resto, ad eccezione dei suoi occhi brillanti, sembra aver assunto una tonalità grigiastra. Sherlock ha questa malsana abitudine di far sembrare la tua vita un film d’animazione.
 
Poi si tira indietro, di scatto, tornando alla sua postura naturale. Mima un’espressione disinteressata, piegando teatralmente le labbra verso il basso e alzando minimamente le spalle.
 
«Se ci tieni tanto a sprecare il tuo tempo.» dice in un moto di disinteresse.
 
La stazione ricomincia a muoversi e a riprendere i suoi soliti colori.
 
«Che ne sai che spreco il mio tempo? Magari diventa una star del cinema, ci sposiamo e io non dovrò mai lavorare» rispondi divertito.
 
«Il mantenuto? Che bella prospettiva di vita, John. »
 
«Perché? Potrei occuparmi della casa. Non mi ci vedi con un grembiule?» scherzi portando le mani alla tua maglietta, come a disegnare quell’indumento
 
«A dire la verità, sì.»
 
Il tuo sguardo è enfaticamente offeso per un attimo, il suo divertito, poi entrambi scoppiate a ridere, simultaneamente, e le vostre risate si intrecciano tra loro in un suono melodioso.
 
«E poi, sai una cosa?» ricominci sorridendo «magari lei si presenta agli appuntamenti.»
 
Gli scocchi un’occhiata chiaramente di rimprovero. Interrogativa anche, con una macchia di delusione forse, ma non stizzita. Perché non riesci ad arrabbiarti con lui?
 
 Ti guarda indecifrabile. Ti aspetti delle scuse, eccome. Fantastichi giusto un attimo su come si getterà ai tuoi piedi chiedendoti una seconda possibilità.
 
«Ho avuto di meglio da fare» risponde, noncurante e annoiato.
 
Non puoi fare a meno di rimanere a bocca aperta e spalancare gli occhi. Decisamente, non è la risposta che ti aspettavi.
 
Passa qualche secondo in cui tu lo guardi, con la speranza che ti dica di stare scherzando, e lui rimane impassibile nella sua aria di superiorità e indifferenza. Poi decidi di servirti dell’ironia.
 
«Non importa Sherlock, ti perdono per non esserti presentato all’appuntamento. Oh, grazie John, come sei buono e gentile! Figurati Sherlock. Ma è solo per questa volta! » reciti, alternando un tono grave, associato alle tue battute, a un tono acuto, associato alle sue.
 
Ridi, voglio solo vedere il tuo sorriso, pensi, e la tua voce interna ti prende un po’ in giro. Ma lui ne ha anche un’altra di fastidiosa abitudine: non rispettare mai le tue aspettative.
 
«Quindi era un appuntamento?» chiede semplicemente, come se fosse qualcosa di ovvio e per nulla imbarazzante.
 
Ti senti avvampare. Non hai notato di aver usato quella parola – hai definito così quell’incontro mancato nella tua testa tante di quelle volte che ti è venuto istintivo – e ora vorresti solo prenderti a schiaffi per averlo fatto. Meglio di no, la tua faccia diventerebbe ancora più rossa.
 
«Ehm… no, io volevo dire… » dici inciampando sulle tue parole. Abbassi lo sguardo e lui te lo lascia fare. Sembra quasi si stia divertendo. «Intendevo nel senso di -»
 
«Vuoi vedere che cosa avevo di meglio da fare?» chiede e tu devi guardarlo bene per credere che l’abbia detto davvero.
 
Lo guardi e vedi i suoi occhi brillare di una luce che non hai mai visto prima. Hai incise a fuoco nella memoria le tonalità che assumono le sue iridi a seconda le emozioni che – immagini – lui provi, ma non li hai mai visti illuminarsi in quel modo. L’azzurro sembra quasi più chiaro e meno glaciale, come dipinto di un entusiasmo che ne coglie le sfumature serene e nasconde quelle scure e malinconiche. Solo per un attimo ti sfugge il pensiero che vorresti fosse per te, un giorno, quello sguardo carico di emozione.
 
«Certo» sussurri, come se fosse un segreto. Sei ancora perso nei suoi occhi.
 
Il vostro sguardo dura un po’ e la sensazione è quella di rimanere sospeso, come in una bolla a mezz’aria, lontana dal mondo. Sembra quasi che ti stia lasciando entrare, nei suoi pensieri, nei suoi colori intriganti, e tu ti chiedi ancora una volta chi sei?
I suoi occhi non rispondono, ma ti avvolgono, come una carezza glauca, fredda e calda allo stesso tempo. Poi lui rompe l’incanto.
 
«Non dovresti lavorare?» ti interroga, di nuovo gelido.
 
Strizzi gli occhi e fai un’espressione infastidita, quasi sofferente.
 
«Già» mormori, ripensando alla vena sul collo del tuo capo. 
 
Qualche secondo di silenzio si frappone tra voi. Da qualche parte, una bambina scoppia a piangere e il suono ti arriva distrattamente.
 
«Ho un’idea!» esclami entusiasta, forse un po’ troppo a voce alta. «Dammi solo un paio di minuti.»
 
Infili la mano in tasca e prendi il cellulare. Cerchi il numero di Mike e premi sul tasto verde, prima di portare il telefono all’orecchio.
 
Squilla.
 
Rispondi, ti prego.
 
Squilla.
 
Rispondi, oh giuro che questa volta…
 
«John! Che mi dici, amico?»
 
La voce di Mike ti arriva metallica attraverso il telefono.
 
«Mike! Ho bisogno di un favore e non puoi assolutamente dirmi di no. Mi serve che tu venga qui, ora, e mi sostituisca»
 
«John, volentieri, ma un’altra volta… più tardi c’è una festa e-»
 
«Mike, quale parte di non puoi dirmi di no non ti è chiara? Non farmiti ricordare tutte le volte che l’ho fatto io per te.»
 
«Lo so, ma- »
 
«Ti ricordi Katy? Sai che la vedo spesso? Non era la figlia del bodybilder? Credo che alla fine non abbia più saputo che tu la tradivi con Sophie…»
 
«Sei un fottuto b-»
 
«Grazie Mike, sapevo che non ti saresti tirato indietro. Ti aspetto allora! E mi raccomando, sbrigati!»
 
«John, aspet-»
 
Prima che Mike possa replicare ancora, premi più volte sul tasto a forma di cornetta rossa disegnato sullo schermo.
 
Torni a guardare Sherlock e lui ti guarda di rimando, divertito. Un lato della bocca punta più in alto dell’altro, in un sorriso obliquo e pericolosamente sexy. Il sangue ti affluisce sulle guance e più in basso al pensiero – che non riesci a fermare in tempo- delle situazioni in cui quel sorriso sarebbe perfetto.
Decidi di parlare prima che la situazione si faccia troppo bollente. Prima che tu ti faccia troppo bollente.
 
«Tutto risolto, dobbiamo solo aspettare una decina di minuti, un quarto d’ora al massimo» lo informi, sorridente. 
 
«Ottimo.» ti risponde lui e quel sorriso è ancora lì, a lasciarti senza fiato.
 
Quei lunghi silenzi pieni di sguardi tornano a mettere pausa alla vostra conversazione. Tu lo scruti, lui fa lo stesso. Cielo e Oceano.
 
«Allora, come hai avuto il mio numero?» chiedi, interrompendo il momento.
 
«Ho le mie fonti.» risponde, ed è di nuovo sospettoso e diffidente, con il suo cappotto lungo e i suoi zigomi affilati.
 
Risposta enigmatica numero 124, annoti mentalmente, ironizzando.
 
«Non lo metto in dubbio. E sono state le tue fonti a informarti su quella ragazza?»
 
«Non ne ho bisogno per questo genere di banalità.» risponde in un modo di snobismo che ti fa quasi venire voglia di scompigliargli i capelli o disfare il nodo sulla sua sciarpa, giusto per vedere la sua faccia sconvolta.
 
«E allora come sapevi quelle cose?» chiedi e la tua voce non è che un sussurro. Come lui possa sentirlo, nel caos della stazione, rimane un mistero.
 
Non te ne accorgi, forse, ma ti sporgi in avanti mentre mormori quella domanda, che ne nasconde molte altre. Spingi il corpo contro il bancone e verso di lui, come ad accorciare una distanza che non ha motivo d’essere. I vostri occhi che si avvicinano sembrano due campi di forza puntati l’uno contro l’altro e nessuno sa se lo sguardo intenso che ne deriva finirà per esplodere in un capodanno di scintille. O se si fonderà fino a unirvi per sempre.
 
«Io so tante cose, John.»
 
Ingoi a vuoto. Ami e odi la sensazione che provi quando lui pronuncia il tuo nome. È come un brivido, meraviglioso e piacevole, ma così intenso da fare male, da attraversarti l’anima e lasciarla lì, come frantumata da un’emozione.
 
John.
Non John Hamish Watson, come l’ultima volta, soltanto John.
 
Cerchi di non pensare alle varie sfumature che potrebbe avere la sua voce, in un futuro di giorni e notti insieme, ma lui è così vicino che ti sembra quasi di sentire il suo profumo – forte, interessante, dagli ingredienti misteriosi – e questo sicuramente non ti aiuta nel tuo intento.
 
«Per esempio?» domandi, senza soffermarti più di tanto sul perché la tua voce suoni come un segreto.
 
Lui ti guarda intrigante.
 
«Vuoi davvero fare questo gioco?»  chiede a sua volta e anche la sua voce sembra un segreto, ma decisamente molto più misterioso e importante del tuo.
 
Sollevi un sopracciglio come a dire sono qui, no? ma lui non cambia espressione, non muove di un minimo i muscoli del viso. È impassibile, forse ad aspettare che tu cambi idea, con quel tocco di ironia che colora sempre un po’ i suoi occhi e il suo sorriso.
Dura un po’ il vostro sguardo, ma tu non cedi. Vuoi saperlo,  hai bisogno di saperlo: cosa c’è di così speciale in lui?
Poi sembra cedere. Piega la testa da un lato come ad acconsentire, come ad arrendersi, diresti, se lui non avesse la faccia di uno che non si arrende mai. Si passa la lingua sulle labbra e tu perdi qualche anno di vita. Ti guarda e ne perdi ancora, ma sta per parlare, quindi respiri –anzi, non respiri - e aspetti. Apre la bocca, ma quello che senti non è la sua voce, anzi una musichetta abbastanza fastidiosa. Stringi le palpebre e imprechi dentro di te, mentre prendi fuori il cellulare dalla tasca.
 
«Scusami» mormori, prima di rispondere a Mike.
 
«Non me ne frega niente di quello che hai da fare, porta qui il culo.» proferisci appena inizia la chiamata. I ciao e i pronto li lasci a un’altra volta. 
 
«No, no. Tranquillo, sto arrivando. Volevo solo dirti che ho perso l’autobus e quindi dovrò andare alla metro o aspettare il prossimo. Tu vai intanto, lasciami le chiavi al solito posto.»
 
Ci rifletti un attimo. Non è prudente lasciare il cafè scoperto, lo dici sempre a Mike. Potresti perdere il posto oltretutto, a maggior ragione che ultimamente non sei particolarmente simpatico al direttore. Alzi lo sguardo. Sherlock non ti sta guardando, sembra di nuovo perso tra la folla, come quando lo guardavi scrivere seduto su quelle sedie sporche e non sapevi chi fosse. I suoi occhi sembrano acquei: vuoti di ogni cosa e pieni di tutto, come se non osservasse gli altri, ma li assorbisse.
 
«Va bene. Ma sbrigati.» fremi.
 
Riattacchi e guardi di nuovo Sherlock. Ha smesso di fissare la gente: chissà che pensava.
 
Ti sforzi di non chiedertelo troppo e sfoderi uno dei tuoi sorrisi più entusiasti.
 
«Possiamo andare» dici quasi squittendo dall’esaltazione.
 
«Bene» ti risponde lui, con la sua voce profonda, ed è tutto quello che ti serve per uscire dal bancone e trovarti davanti a lui.
 
Ora ricordi perché alla fine di ogni incontro con lui rimani sempre con quel senso di incompletezza e con la voglia di darti dello stupido. Perché hai sempre la sensazione di essere rimasto in trance e aver perso il potere di controllo su di te. Sherlock ti guarda da troppo vicino – chi è di voi due che non ha ancora capito il concetto di distanza prossemica? – e il tuo cuore è di nuovo libero di impazzire, tornare sui suoi passi, dare di nuovo di matto, perdere il ritmo e perdere anche sé stesso. Fa quasi male la sensazione di calore che provi nel petto ad essere così vicino a lui. Quasi.
 
Inizia a camminare e tu lo segui. Non sai dove sta andando, ma ti importa davvero poco in questo momento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
 
Il titolo del capitolo, Text Me (in italiano sarebbe tipo “mandami un messaggio”, in questo caso riferito al sms che riceve John) non è casuale, ma è un omaggio e un riferimento alla storia, secondo me, più bella del fandom, Text Me appunto, scritta dalla mia autrice preferita e mia grande amica.  
 
   
 
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