Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: MadLucy    18/11/2013    4 recensioni
Sono passati ormai otto anni dalla prematura morte di re Joffrey; ora sul Trono di Spade siede Tommen Baratheon, bello quanto ignaro, manovrato con fine astuzia dall'intraprendente moglie, Margaery Tyrell. Al Nord regna Bran Stark: il suo improvviso ritorno è avvolto in una caligine di mistero, così come il sinistro e devastante potere grazie al quale ha conquistato il comando; al suo fianco c'è la moglie Meera, ma a corte tutti sanno che il re passa le notti nel letto del suo consigliere più fidato. Quando, per vendicare i torti subiti dalla sua famiglia in passato, il principe barbaro Rickon Stark si sporca le mani di sangue Lannister e rapisce la principessa Myrcella, non si può più tornare indietro: è guerra. Che parte interpreteranno Sansa Stark, Yara Greyjoy e Gendry Waters in tutto questo? Tra amori conflittuali, alleanze strategiche e scandali a palazzo, i nuovi concorrenti possono schierare le pedine: e che il gioco del trono abbia inizio.
(Bran/Jojen; Rickon/Myrcella; Gendry/Arya)
Genere: Generale, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bran Stark, Myrcella Baratheon, Rickon Stark, Shireen Baratheon, Tommen Baratheon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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III. Indaco fu il presentimento.



Quella vertigine. Bran la ricordava offuscata ed anonima eppure, appena essa gli sfiorò l'anima con la punta delle dita, egli l'afferrò prontamente, con una spasmodica disperazione di derubato, le vene scosse, la lingua ad umettargli le labbra. Avvertiva qualcosa di fresco sulle guance, di pregno e buio, vento, vento d'alta quota e- Si stava arrampicando. Arrampicando. Quella parola. Oh, quella parola lo invase fino in fondo, a vibrare nelle viscere e gonfiargli la mente d'aria intrisa, e fu adrenalina. A Bran veniva da ridere, forte, spietatamente, con gusto pago e completezza assaporata senza fretta, veniva da ridere con esaltante orrore. I suoi piedi sapevano dove procedere, sapevano quali pietre erano stabili e quali sdrucciolevoli, sapevano cosa fare. Le sue mani ricordavano con la precisione di chi non ha mai smesso, agili, sicure, sensibili, i polpastrelli ad esaminare ogni fessura ed insinuarsi in ogni crepa, curiose, circospette, diligenti. Conoscevano ancora le regole, le sue gambe, non erano affatto morte: scattavano, saltavano, vincevano. Quei muri non l'avrebbero mai, mai tradito, ed era un ritorno di fiamma ed accoglienza stringersi alle pietre e toccarle e salutarle una per una. Esultante, ebbro, il sudore a fiottare sul collo, l'euforia a fremere a fior di labbra, sussultava il cuore a pompare gioia vecchia, gioia riscoperta, gioia rinnovata che si scrollava di dosso la veste di ricordo e fluiva liberamente nelle vene, eccedendo indulgente, concedendo come un abbraccio avvolgente, ed era un calore insostenibile, che voleva sfrenare, che voleva liberare, che voleva realizzare, ed i brividi risalivano le braccia ed attanagliavano il cuore, essenziali, spinosi, avviluppanti. Le emozioni, troppe a sovrapporsi, sfociavano fino a renderlo incauto, ma lui lo sapeva che non sarebbe caduto. L'esperienza, rimasta acquattata dentro di lui per tutto il tempo, muoveva il suo corpo con ammirevole destrezza.

E poi tutto diventava più brutto, più minaccioso, come un'ombra sulla pelle. Due voci bisbigliate ed affrettate, furtive, brutte piccole viscide risate. Cos'erano? Qualcosa di infimo, di abietto. Una finestra, e il sorriso di Jaime Lannister, placido, lungo e sarcastico, e il brillare pungente dei suoi occhi verdi. Cosa non si fa per amore, cosa non si fa. Mormorava quelle parole già sentite e si avvicinava per ghermirlo con le mani. Ma Bran non si lasciò afferrare, questa volta: si alzò in piedi, sul davanzale di pietra della finestra, e dall'alto guardava Jaime Lannister e Cersei, nient'altro che gatti spauriti che lo fissavano, gli occhi colmi di sconcerto. E Bran si sentiva forte, grande -più forte, più grande. Erano salde, le sue gambe, e il mondo era quell'ammasso ignobile e miserevole là in basso. Bastò sgranare appena le pupille e il viso di Jaime Lannister si deformò in una maschera di raccapriccio, la bocca dilatata ed il sangue ad arrossargli i denti, lacrime rosse a rompere gli occhi, e si afflosciava nel dolore la sua terribile gemella. Bran non li guardava più; scendeva dal davanzale e calpestava i loro cadaveri, sangue vile, carne empia. Oltre la porta v'era una sala che non c'entrava nulla con Grande Inverno; era quella del Trono di Spade, nella Fortezza Rossa, o almeno così Bran dedusse. Fra le lame sedeva Joffrey, con un sorriso insolente, la corona reclina sul capo, e fra le mani strattonava i capelli di suo padre, un pugnale pronto a squarciargli la gola. Bran ruppe la sua mente con spiazzante facilità, e il trono all'improvviso era così piccolo, così insulso, e Joffrey crollava trafitto da tutte le spade, e il suo sangue colorava il trionfo. Gretto, audace, spudorato, Bran proseguiva più rapido, il mantello colmo di vento a gonfiarsi alle sue spalle, lo sguardo fisso, nero, incrollabile, e quella smania ad ansimare nella sua gola, un crescendo d'irrequietezza come una nube appestata a mordergli le ossa fino al cranio. Il respiro assecondava i suoi passi sulla pietra, rapido, a pungolare le labbra per scivolare, il fiato sfrigolante -una candela all'incuria del vento. La bramosia sconquassava la nitidezza della realtà come nebbia rossa. Poi vi fu il cortile di Grande Inverno, dissestato, attorniato da rovine crepitanti di fiamme, e l'arroganza di Theon, con un'espressione nuova e cattiva su quel volto che Bran non aveva mai imparato ad amare, ed egli stringeva con violenza il braccio di Rickon, il bambino di sei anni perso per la strada d'un fato iniquo. E Bran piegò il sorriso di Greyjoy, perchè egli era grande ed irrefutabile, mentre cos'era, quel figlio che nessuno voleva, quel traditore d'ogni bandiera, quanto poteva valere la sua morte, lenta e precisa e metodica e concentrata come una preghiera. Nella sala attigua v'era un tavolo da cerimonia, lungo e imbandito, con piatti scomposti e boccali rovesciati, a spandere il contenuto in rigagnoli di vino. Al posto d'onore sedeva un vecchio dal viso raggrinzito come una prugna marcia, che ghignava becere risate; poco lontano c'era Roose Bolton, e puntava il coltello al collo di Robb Stark. Quegli occhi di fratello, grandi e cerulei, aggrappati spasmodicamente ai suoi, gli scossero il cuore come una corrente abissale. Il volto di sua madre, trattenuta dalle mani brusche di un soldato, baluginava lontano come una stella dalla sua memoria. Bran rivolse lo sguardo a Walder Frey: il potere che gli fremeva nelle mani schiacciò la debole mente di quell'uomo come una bacca. La sala s'inondò di sangue, lingue che schizzarono alte fino al soffitto, e questa volta era il sangue giusto quello versato. Bran tremava forte, e nemmeno serrare le dita in pugni servì.
Tutti i membri della sua famiglia erano vivi, all'improvviso, ed erano accanto a lui. Vivi e veri e gli sorridevano, e lo ringraziavano e tendevano le mani verso di lui, un viso familiare e un altro e un altro ancora...
Ma Bran non voleva affatto che si avvicinassero. Basta un istante -ormai non è più difficile. Gli occhi di Robb caddero dalle orbite come biglie e non appena Arya aprì la bocca vi scaturì un getto di sangue gorgogliante, la testa di Catelyn s'infranse come se all'interno un demone urlasse. La pelle di Sansa pioveva a brandelli, dilaniata da artigli invisibili; suo padre affogava invischiato, la carne intrisa, le labbra grondanti. Bran rise; un suono spezzato, rauco, affilato come schegge, e quel rumore di lama a sfregare sulla pelle, quel nucleo di potere pulsante che scandiva imperturbato un suono tondo ed ottuso -gli riempì il corpo dai polpastrelli al basso ventre. Il petto, sotto le vesti di broccato, palpitava strenuo e incrollato. Solo una figura emerse dal buio ai suoi piedi: era Rickon, carponi a terra, in ginocchio davanti a lui, e lo sfrontato adolescente che tanto lo faceva arrabbiare continuava a confondersi con l'immagine del bambino dai riccioli arruffati e gli occhi increspati di lacrime, che sussurrava suppliche incomprensibili. Bran smise di ridere lentamente, gli sghignazzi si calmarono in maniera progressiva lasciando il posto ad una tensione logorante; egli guardò il fratello minore in quegli occhi imploranti. Lo guardò. E lo guardò ancora. Finchè da una delle narici non stillò una densa goccia di sangue.
E ridere, ridere, ridere, e il suo trono era una catasta di cadaveri, il Folletto e Tommen e Margaery Tyrell e Meera, e quel figlioletto con gli occhi come i suoi, catasta talmente gremita che ormai Bran aveva perso il conto -no, Bran non c'era più, c'era quella sete sguaiata e quel potere, quel potere che l'aveva assuefatto fino a soffocarlo -sì, stava soffocando, la sua gola si chiudeva, egli scivolava sempre più giù fra i cadaveri e il sangue lo divorava colmandogli i sensi e non riusciva a repirare, non riusciva a respirare...
-Si sta svegliando?!- Una voce veloce ed enfatizzata dalla preoccupazione.
-Maestà?- Un'altra voce. Confortevole, morbida. -Maestà? Riesci a sentirmi?-
Sì, riusciva a sentirlo. Bran spalancò gli occhi precipitosamente e la luce travolse le sue pupille disorientate come un manrovescio; il ragazzo gemette e abbandonò le palpebre, arreso. Voleva dire qualcosa, ma la voce s'impastava nella gola chiusa e riaffondava nel petto. Avvertì la presenza di Jojen come si percepisce il sole sulla pelle e il suo respiro si regolarizzò. Il sudore gli inumidiva la nuca; un vago, tossico sentore di sangue era incollato al suo palato come viscoso bitume. La spossatezza gli pervadeva i muscoli, e le sue gambe non rispondevano al minimo impulso nervoso -come al solito; non c'era stato nemmeno il tempo di illudersi del contrario, del resto. 
-Mi vedo costretto a chiederti di guardarmi, Maestà.- proseguì la voce salda e liscia di Jojen. Riluttante, Bran obbedì, questa volta più cautamente: quel che vide fu la luce aranciata delle candele danzare sulle pareti e due sagome scure incombere su di lui. Riconobbe i ricci indomati di Meera, poi gli occhi accigliati di lei; e Jojen, inginocchiato vicino al letto, che gli stringeva delicatamente il polso fra le mani misurando il battito cardiaco, ad esaminarlo con attenzione. Scrutò i suoi occhi alla ricerca di qualcosa, infine contrasse le labbra ed annuì fra sè.
-Si è rotto soltanto qualche capillare oculare. Nulla di grave. Come ti senti?-
Bran ci pensò prima di rispondere. -Stanco.- confessò infine. Capitava spesso, d'altronde, che al risveglio da un sogno durante il quale aveva compiuto uno sforzo fisico egli provasse i sintomi d'un reale affaticamento. La moglie, sul viso ritratte le prove d'un brutale risveglio, lividi viola di sonno sotto lo sguardo infuocato -ma con l'indefessa risolutezza di chi è sempre in allerta, pronto a scattare al segnale e mobilitarsi all'improvviso- gli aveva sollevato il cuscino poggiandolo contro la testiera del letto e gli aveva premurosamente frizionato la fronte accaldata con un panno umido. Il contatto della stoffa bagnata aveva il balsamico effetto d'un niveo bacio contro la pelle bollente, e Bran si permise il lusso di godere di quel momentaneo refrigerio. Il sogno a cui aveva assistito era inciso a sangue nelle sue pupille come un marchio a fuoco.
-Hai visto anche tu...?- chiese agitato a Jojen, lasciando la domanda in sospeso. Il suo consigliere lo osservò a lungo ed infine annuì gravemente.
-Che cosa è successo?- intervenne Meera, incrociando le braccia al petto, disapprovando la propria esclusione dalla discussione. Jojen la ignorò e porse al re un calice colmo d'acqua fino all'orlo. Bran pensò che, se qualsiasi altra persona -Rickon incluso- l'avesse fatto, egli l'avrebbe invitata a bere per prima; mentre, anche se il suo consigliere gli avesse offerto un liquido verde dichiarandolo vino, non avrebbe avuto alcun dubbio a proposito. Sorseggiò; nella gola v'era un buco di dolore lancinante, disgustoso, simile ad una ferita riaperta, che il liquido freddo accese in uno stridore acuto. L'inclemenza dell'acqua attenuò il sapore del sangue, sciogliendolo un po' dal palato di Bran.
-Ti sei morso la lingua nel sonno.- osservò Jojen. -Hai persino rischiato di inghiottirla. Se si verificherà di nuovo un'esperienza onirica del genere, potresti perdere la vita.-
Bran aggrottò la fronte; certo, si sentiva piuttosto male, però mai avrebbe potuto immaginare che il pericolo fosse tale. Gli formicolavano fastidiosamente le dita, mentre i palmi erano madidi di sudore.
-Ma insomma, cos'hai visto?- insistette Meera, visibilmente sconcertata dalle parole del fratello, l'apprensione accalcata contro lo specchio delle iridi scure come mani supplichevoli. Il marito si limitò a lanciarle uno sguardo penetrante ed indecifrabile.
-Perchè è stato così... diverso dagli altri? Così sconvolgente?- domandò infine a Jojen, stringendo le dita attorno al calice.
-Non credo esista una risposta esatta a questa domanda, e in tal caso io non te la saprei fornire. Assisto ad eventi che non sono ancora accaduti, partecipo ai tuoi sogni, ma non sempre so spiegarmi quello che vedo. Le mie conoscenze circa i sogni verdi le ho acquisite soltanto tramite l'esperienza, perchè nessuno in effetti mi ha insegnato nulla in proposito. Comunque, immagino che questo sogno sia stato così difficile da affrontare, sia psicologicamente che fisicamente, perchè i tuoi poteri stanno crescendo. Può essere un vantaggio per te, però allo stesso tempo un ostacolo, perchè anche la loro influenza aumenta. Diventano ingombranti, per così dire, in ogni senso. Tanto grande è il loro potenziale, tanto essi pretendono di essere sfruttati.- Jojen gli ravvivò i capelli sulla fronte. -Non ci sono certezze circa il rapporto tra l'intensità emotiva dei tuoi sogni e la reazioni fisiche del tuo corpo, perchè il tuo caso è unico e probabilmente irripetibile. L'unica cosa di cui sono sicuro è che usufruirne ti stanca moltissimo; è paragonabile alla somma di uno sforzo mentale quale una lettura di tre ore e uno sforzo fisiologico quale una corsa ininterrotta di quaranta minuti. Sarà quindi necessario vigilarti più costantemente, e con maggior perizia, affinchè non accada qualche fatale incidente. Una forma precauzionale utile potrebbe essere, per esempio, accertarsi che tu sia digiuno da almeno dieci ore prima di utilizzare i poteri, in modo da impossibilitarti ad andare oltre il tuo obiettivo quando essi si manifestano.- spiegò il ragazzo, moderando sapientemente il tono di voce e le parole.
Bran deglutì; il precipizio di dolore della gola protestò.
-Che cosa significa ciò che ho fatto in questo sogno, Jojen?-
Aveva posto la domanda che davvero gli stava a cuore. Era ancora allucinato da quelle grottesche sequenze che danzavano come lampi, dal suono estraneo di quelle risate sguaiate che non riconosceva proprie, e il sapore del sangue richiamava alla memoria quello che esplodeva dalla testa di sua madre, che scrosciava dalla bocca di Arya, che gocciolava dal naso di Rickon... e la fame, quella fame che soltanto sotto la pelle di Estate solitamente provava. Lo atterriva il fatto che Jojen l'avesse visto in tali orribili condizioni -e c'era anche Meera, in quella catasta di cadaveri, gettata alla rinfusa come una bambola di pezza, con il sangue che colava dagli occhi sfondati.
-Che se non impari a dominare i tuoi poteri, i tuoi poteri impareranno a dominare te.- fu l'asciutta e lapidaria risposta. Bran avvertì una fitta di spavento accendersi ed espandersi nella cassa toracica. D'un tratto, quella che per tutti gli ultimi anni aveva ritenuto la sua unica arma di difesa gli parve una specie di intelligenza aliena ed oscura, ad invaderlo ed impossessarsi di lui.
-Come stai adesso, Maestà?- proseguì Jojen, carezzandogli delicatamente il palmo con il pollice, in un gesto discretamente ponderato ma significativo che fece esplodere nelle vene di Bran la prepotente esigenza di baciarlo, lì, così, adesso, cogliendo un attimo terribilmente giusto; una follia che Bran Stark sapeva osare, ma che il re del Nord non poteva permettersi.
-Sto bene.- confermò rapidamente. -E ho parecchie cose da fare quest'oggi, perciò non posso stare qui a perdere tempo. Meera, mi aiuteresti a vestirmi, per favore?-
Nel frattempo, Osha arrestò la propria caduta avanzando le mani e poggiandosi sui palmi aperti contro le lastre di pietra consunta. Socchiuse le labbra ed ansimò.
-Niente male, piccoletto.- bofonchiò fra i denti. -Davvero niente male.-
-Oh, lo so, mia lady.- Rickon le piantò lo stivale sulla schiena, di modo che ella non potesse rialzarsi; Osha, nonostante la veemenza del colpo, non si lasciò sfuggire un lamento ed anzi alzò gli occhi al cielo, quasi richiamando a sè tutta la pazienza di cui non era prodiga.
-Avanti, dì che ti arrendi e ammetti la tua inferiorità.- la incalzò il ragazzo, premendo compiaciuto il piede contro la spina dorsale di lei. La donna sbuffò e si rigirò a pancia in su, lanciandogli un'occhiata di traverso.
-Va bene, va bene, mi arrendo. Contento adesso?-
Decisamente no. -Dì che sono il guerriero più capace del mondo.- proseguì Rickon, capricciosamente, con un sarcastico sorriso -sapeva bene di stare punzecchiando il punto debole di Osha, ovvero l'orgoglio, altrimenti non si sarebbe divertito in quel modo.
Osha assunse un'espressione solenne. -Sei il guerriero più imbecille del mondo.-
-Risposta errata!- Rickon si gettò con giocosa frenesia ad afferrarle la gola con una mano ed i capelli con l'altra, nello stesso momento in cui la donna lo prendeva per i fianchi ed invertiva le posizioni, inchiodandolo a terra e conficcandogli un ginocchio nello stomaco. Rickon, furibondo e deliziato, affondò i denti nel braccio di Osha ma lei non attenuò la pressione contro il petto del ragazzo, a tal punto ch'egli dovette morderle la gola prima di riuscire a liberarsi, tirarle un pugno, schiantarla al suolo e bloccarle ambo i polsi sopra la testa, in una presa ferrea.
-Adesso dillo!- ordinò petulante, accompagnando ogni sillaba con uno strattone ai suoi capelli. -Me lo sono meritato. Lo sai.-
Osha infine sorrise. -Vaffanculo. E adesso scrostati, piccoletto... Rispetto per chi ti ha imbeccato come un uccellino di nido, quando tutti gli altri volevano squartarti.-
-L'allievo ha superato la maestra da un pezzo.- precisò Rickon, sogghignando, però indietreggiò per permetterle di alzarsi in piedi.
-A proposito... come va con la prigioniera?- domandò Osha, mentre si tastava la guancia per constatare i danni. Rickon alzò le spalle e disegnò dei solchi con la punta dello stivale sulla ghiaia, distrattamente.
-Dici il mio piccolo abominio biondo? Bene. Mi diverte. A volte tace e fa la sdegnosa, a volte si trattiene a stento dal frignare, a volte le vengono degli attacchi di rabbia... Mi sa che sta perdendo qualche rotella là sotto. E questo mi eccita ancora di più. È come insidiare ogni giorno una parte diversa di lei.-
Osha annuì noncurante. L'idea che Rickon stuprasse una ragazza non la indignava affatto -anzi, era qualcosa che riusciva a comprendere, riguardo il quale arrivava persino a trovarsi d'accordo- però lui aveva quella sua maniera particolare di violentarla, sottoponendola perlopiù ad attacchi psicologici, assediando la sua mente di stimoli, rinchiudendo il suo corpo nel buio, scomponendola pezzo per pezzo e divertendosi a scombinare i tasselli e portarne via qualcuno con sè, così che fosse impossibile ricreare l'immagine iniziale. Osha non aveva più visto Myrcella, dopo quello sporadico incontro fuori dalla porta della sala del trono, però dalle chiacchiere concitate delle servette riusciva già a visualizzare il ritratto di quel bel visetto assottigliato dagli stenti, schiaffeggiato dal destino, annerito dalle tenebre, una creatura infera dalla voce lacera e le caviglie incatenate, che ride folli risate e piange folli lacrime, capelli bianchi e carne nera, occhi verdi non più come la giada, ma come una luna malata. La piccola leonessa di Castel Granito spaccata di botte e prosciugata d'integrità.
-Immagino che ti spetti di diritto. Ma un giorno dovrai decidere se tenertela viva lì per sempre oppure ucciderla. Dubito che, se la lasciassi libera, avrebbe un qualche genere di futuro.-
Rickon calciò la ghiaia, indispettito.-Io non la libererò mai. A che scopo, poi? Lei è una Lannister. Non merita nè di vivere nè di morire.- Alzò lo sguardo al cielo plumbeo che lo sovrastava, mentre un soffio di vento -come una gelida goccia di rugiada- s'insinuava sotto la casacca intrisa di sudore, staccandola dalla pelle, e percorreva la schiena umida con tocco fresco. -Solo di soffrire.-
Scoprì di non avere voglia di raccontare ad Osha quel che era successo il giorno precedente; non era nulla d'importante, però gli procurava qualcosa di simile al disagio. Era accaduto questo: Rickon era andato a trovare la prigioniera come al solito, l'aveva fottuta senza riguardi e l'aveva lasciata lì per terra, il respiro incerto fra le labbra spaccate, i capelli spanti fra la cenere come sangue. Quella bellezza non gli era ancora venuta a noia: verdi erano i maledetti occhi, che lo sfioravano con intimorita cautela, come un fiore che schiuda appena la corolla facendo presentire la sua immane delicatezza; era candido, il petto di Myrcella, sotto i brandelli di stoffa sgualcita ch'ella insisteva a premersi pudicamente al seno. Con indosso tutto il male del mondo, unica erede d'un debito schiacciante, incrostata di quel sangue che non aveva versato, teneva le cosce impolverate oscenamente serrate l'una contro l'altra, quasi che esistesse ancora decoro, ancora dignità, ancora diritto per quella creatura immonda e gentile, con gentile respiro e gentili guance.
-Ci vediamo domani, mio piccolo abominio di una Lannister.- aveva canticchiato, dopo aver chiuso con il lucchetto la porta della sua cella; si era allontanato, pago, tronfio, rallegrato.
Quando era ormai presso la scala a chiocciola che lo avrebbe condotto al piano superiore, quella voce l'aveva raggiunto come un sasso scagliato nel buio.
-Io mi chiamo Myrcella.- Egli aveva posato il piede sul primo scalino senza proseguire, interdetto, sbalordito dal solo suono della sua voce, incuriosito suo malgrado.
Ella, non avvertendo più il rumore dei passi, aveva continuato, ogni parola a tremare fra le labbra. -Io non mi chiamo abominio. Non chiamo nemmeno Lannister. Mi chiamo Myrcella. Myrcella, non è così difficile da pronunciare. Persino tu ce la puoi fare. Myr-cel-la. E, senti? non sto piangendo. Io non piango. Io non sto ancora piangendo, Rickon Stark! Ricordatelo!-
In quelle poche parole c'era l'urgenza d'una gola chiusa da troppi giorni, la durezza della pietra sotto la nuca durante il sonno e l'inerme rancore d'un'anima detronizzata dal corpo. Myrcella Lannister urlava per farsi ascoltare, urlava per ascoltarsi, ed urlava perchè voleva accertarsi d'essere ancora viva. La voce dilaniata inseguiva disperatamente Rickon ed era l'energia esasperata della volontà a farsi largo fra le tenebre, e la stanchezza, la vergogna, la confusione soffocavano il furore, furore come una fiammella attizzata fra le ceneri dell'onore arso. Ella era in quello stato di struggimento in cui, rendendosi conto che la sua forza scemava in un'emorragia irrefrenabile, si aggrappava all'altisonante potenza del suo nome, affidandosi alla forza di qualcun altro nella speranza che potesse sostenerla. Perchè una Lannister rimane principessa anche nelle segrete, con le catene ai polsi.
Rise bonariamente di quelle pallide minacce, di quell'imprudenza inutile, Rickon, rise di quel dolore che chiamava aiuto senza preoccuparsi di chi udisse l'appello. In un primo momento pensò ch'ella aveva bisogno d'una bella lezione, poi decise che non si trattava altro che d'un frastornamento momentaneo, che se fosse stata padrona di sè la ragazza non l'avrebbe fatto, e lasciò correre. Fatto sta che quel ricordo era sistemato scomodamente nella sua testa, come se non ci dovesse essere, oppure come se dovesse essere diverso.
Mentre Rickon rimuginava fra sè, giunse un attendente ad avvertirlo: -Lord Stark chiede di prepararti per accogliere adeguatamente il lord comandante, che sarà qui fra meno di un'ora.-
Il principe annuì svogliato, calciando di nuovo la ghiaia. -Preferirei mille volte stare qui ad allenarmi con te, piuttosto che andare a fare l'amicone con quel bastardo.-
Osha scosse la testa. -Non siamo più a Skagos, Rickon. Bisogna che tu ti assuma le tue responsabilità, così come ha fatto Bran. Odio doverti sciorinare queste manfrine, ma sai anche tu che è così. Sopporta per qualche ora tutti quei discorsi rognosi e poi, quando il tipo se ne tornerà da dove è venuto, vai dalla tua ragazzina bionda e vedi come ti si illumina la giornata.-
Rickon sorrise fra sè e sè. -Questo è parlare. Bene, allora vado ad agghindarmi come una fottutissima damina di corte.-
Agghindarsi come una fottutissima damina di corte, per lui, significava cambiarsi la casacca degli allenamenti, indossare un mantello di velluto ed infilarsi un paio di stivali che non fossero lordi di fango. Quando si presentò al cospetto di Bran, davanti al trono, il fratello maggiore sospirò.
-Non puoi fare niente per quei capelli?!- domandò, esaminando con un sopracciglio inarcato la chioma rossastra e scompigliata ad imbrattargli le spalle.
-Proprio niente.- confermò Rickon bellicosamente.
Jon Snow giunse a Grande Inverno persino in anticipo. L'ultima volta che Bran l'aveva visto era stato due anni prima, quando egli era giunto alla Barriera per tornare a ricostruire Grande Inverno; il fratellastro era rimasto più o meno uguale, soltanto che i ricci corvini erano divenuti più lunghi e più folti e sul suo volto erano ritratti un orgoglio e una fiducia in sè stesso gradatamente più saldi. Finalmente, dopo tanti anni di incertezze e tentennamenti, aveva saputo dirigere il proprio destino sulla strada giusta e trovare il proprio posto nel mondo -un ruolo che non avrebbe potuto essere interpretato da nessun altro, se non da lui.
-Maestà.- Jon appoggiò il ginocchio per terra, in segno di rispetto, ma quando sollevò la testa una scintilla d'intenerito divertimento gli scaldava gli occhi castani.
-Lord comandante.- ribattè Bran, abbozzando un sorriso, mentre con un gesto della mano lo invitava a rialzarsi. -Avresti dovuto giungere a farmi visita molto prima. Sai che qui sarai sempre il benvenuto. Com'è andato il viaggio?-
-Bene, ti ringrazio. È caduta poca neve, quindi non abbiamo incontrato difficoltà.- Jon scostò lo sguardo alla destra del re. -Non ho avuto tempo fa l'onore di presentarmi adeguatamente, mia signora. Sono Jon Snow, lord comandante dei Guardiani della Notte, e umile servitore di tuo marito.-
Meera ricambiò il sorriso. -Mettiamo da parte le formalità, dunque: la famiglia è famiglia, e sua Maestà mi ha parlato così spesso di te. Chiamami pure Meera.-
-Che poi, lei è una lady soltanto di nome.- rivelò Rickon con un sorriso storto, uscendo dalle file dei ministri ed avanzando verso Jon, con Cagnaccio al fianco. -Per fortuna.-
Il lord comandante esaminò il ragazzo, con crescente perplessità; quando il suo sguardo ricadde sul metalupo, le sue iridi si dilatarono rapidamente per lo stupore.
-... Rickon?- domandò, non senza una punta d'esitazione. -Sei davvero tu?!-
-Sono davvero io.- sogghignò Rickon. -È passato molto tempo dall'ultima volta che ci siamo visti, io e te.-
-Dieci anni.- puntualizzò Jon, cercando di riconoscere nel viso spigoloso ed allungato del ragazzo qualche traccia del bimbo che gli si aggrappava ai pantaloni chiedendogli di giocare. Infine esplose un sorriso incredulo, a metà fra l'emozione dell'incontro e la consapevolezza dell'assurdità della situazione. -Ho spesso sentito parlare di te. Tuo fratello stesso a suo tempo mi disse che vivevi a Skagos, e come potrei ignorare che hai decapitato Tywin Lannister con un colpo solo? Eppure, inconsciamente, ho sempre associato a tutte queste notizie il vago ricordo di te bambino. Adesso guardati, sei così incredibilmente... grande.-
Non aveva altre parole sulla punta della lingua per descrivere quel che vedeva, la spalle larghe, il fisico asciutto ma chiaramente delineato sotto il mantello, le gambe lunghe e la spada appesa alla cintura, e... quanto accidenti era alto?! Almeno come lui. Intanto, Spettro stava osservando Cagnaccio con altero sospetto; ad un certo punto parve placare i suoi dubbi, oppure perdere interesse, perchè distolse gli occhi iniettati di sangue e tornò a sfregare le gambe di Jon con la coda.
-E tu parli come i vecchi.- commentò Rickon, sbadigliando. -Quand'è che si mangia?-
-Giusto, sarai provato dal viaggio, lord Snow.- rammentò Bran, lanciando un'occhiataccia al fratello minore. -Prendiamo dunque posto a tavola.-
Jon riconobbe anche l'amico che aveva accompagnato Bran oltre la Barriera, il figlio di Howland Reed.
-Mio fratello se lo fa una sera sì e l'altra pure.- gli bisbigliò Rickon all'orecchio, appena intercettò il suo sguardo. -Se lo sbatte talmente spesso che ormai Meera ha un palco di corna in testa peggio dei Baratheon.-
Quell'uscita aveva lasciato Jon parecchio sconvolto, e non volle crederci. Gli parve una cosa troppo balzana, troppo stravagante e di cattivo gusto per uno Stark, e decisamente Bran non era un depravato. Ad ogni modo, il banchetto incominciò e la conversazione giunse subito al punto.
-La guerra ormai non è più alle porte. È già dentro di noi, sotto la nostra pelle. I Lannister stanno richiamando tutti i loro vassalli, poi probabilmente attaccheranno: e noi li anticiperemo, anche questa volta.- Bran dispiegò la mappa dei Sette Regni sul tavolo, spostando il piatto di carne da cui aveva mangiato a malapena tre bocconi. -Farman, Kenning, Crakehall, Garner, Marbrand, Swyft, Prester, Lefford, Clegane, Spicer, Payne. Questi sono i più temibili. Ah, e poi ci sono gli alfieri dei Tyrell... Ashford, Bulwer, Florent, Oakheart, Fossoway, Hightower, Crane, Merryweather, Redwyne, anche i Tarly. Mi rendo conto che sembrano molti, ma la maggior parte dipendono dai Lannister e dai Tyrell anche economicamente.-
A quel punto fu interrotto dall'arrivo della balia, che stringeva al petto il piccolo principe. -Immagino che reclamasse voi, mia signora.-
Meera annuì e lo prese fra le braccia, accomodandolo al braccio destro. Il bambino aveva dolci riccioli tondi ad ammorbidirgli il capo e decorare le guance paffute, rosate come madreperla, e minuscole mani vellutate e puntellate di fossette; egli cominciò subito a giocherellare con il medaglione appeso ad una catenina al collo di sua madre, che effigiava un coccodrillo, emblema di casa Reed.
-Vostro figlio...- mormorò Jon, con tono di voce indefinibile, osservando con sorridente nostalgia quella piccola creatura. -È davvero strano, Br... Maestà. Come si chiama?-
Bran sorrise. -Kenned.-
-Kenned?- Il ragazzo trasalì. -Se posso domandare, hai scelto questo nome perchè...-
-Sì, perchè può essere abbreviato in Ned.- confermò il re, abbassando lo sguardo sul calice di vino ancora colmo, quasi per una sorta di riverente pudore a quell'accenno.
Alla tavola calò un silenzio commosso e tutti si resero conto di quanto fosse impareggiabile l'omonimo con cui il bambino avrebbe dovuto confrontarsi -come un'ombra che l'avrebbe seguito per il resto della vita. In quegli occhi castani ed inconsapevoli era scritta la storia d'una stirpe, che per giungere in ogni dove tanto prediligeva il sangue all'inchiostro.
Bran si schiarì la voce. -Dicevamo, gli eserciti. Beh, anche noi non siamo mal accompagnati.-
-Significa che tutte le famiglie del Nord hanno acconsentito a tornare vassalle di casa Stark?- si stupì Jon.
-Direi di sì. Hornwood, Ryswell, Flint, Cassel, Umber, Glover, Cerwyn, Dustin, Locke, loro hanno accettato immediatamente. Stessa cosa per i Mormont ed i Tallhart.- Mano a mano che nominava le varie casate, indicava con il dito la loro posizione geografica sulla carta; nel citare i Tallhart, il suo indice si soffermò su Piazza di Torrhen. Poi lo spostò su Forte Terrore. -I Bolton sono una questione a parte. Visto che il bastardo di Roose è scomparso nel nulla e non c'è stato modo di rintracciarlo, ho posto al comando un lontano cugino di terzo grado affinchè il popolo non scatenasse qualche rivolta. In teoria non è una minaccia per noi, sembra essersi arreso, anche perchè non avrebbe più nessuno al Nord disposto a schierarsi dalla sua parte, nè un ipotetico attacco a Grande Inverno riuscirebbe con successo. Se gli chiederò un esercito, me lo fornirà. E poi ci sono i Manderly.- Il dito scivolò più in basso, fino a Porto Bianco. -Loro sono piuttosto ricchi, forniranno un aiuto prezioso. Per quanto riguarda i Karstark... Il figlio di lord Rickard, Harrion, ha compreso gli errori di suo padre e ha acconsentito di buon grado a dimenticare ogni antico rancore. Mi ha assicurato tramite lettera che le truppe sono pronte ed attendono soltanto un mio ordine per partire per Grande Inverno.-
-Notevole.- affermò Jon, esaminando la cartina e roteando distrattamente il vino rosso contenuto nel suo bicchiere. -Ma non sufficiente, temo.-
-Dimentichi che anche noi abbiamo i nostri alleati al Sud.- lo contraddisse Bran, attirando l'attenzione del fratellastro più in basso sulla carta. -Mio zio Edmure è stato il primo a schierarsi dalla mia parte. Non vedeva l'ora di potersi vendicare contro i Lannister, in realtà.- Edmure Tully era fortunatamente riuscito a scampare alla prigionia presso alle Torri Gemelle grazie al tempestivo intervento di suo zio Brynden e, attualmente, regnava su Delta delle Acque con al fianco il suo giovane erede, un simpatico ragazzino dai capelli rossi di nome Miles. -Tully significa Blackwood, Bracken, Mallister, Mooton, Went, Smallwood, Vance... Jojen, ricordami dove ha residenza la casata Vance, per favore.-
Il consigliere si allungò dal suo posto a tavola, affianco a Bran, verso la cartina.
-Ci sono due residenze, entrambe nelle terre dei fiumi. Una è ad Atranta, l'altra a Wayfarer’s Rest.- Nell'indicare le due zone, il suo dito sfiorò accidentalmente quello del re, mentre invece lo stava ritraendo. Bran non riuscì a reprimere il baleno d'un sorriso, che lasciò, come unica testimonianza di sè, un fioco rossore all'altezza degli zigomi, e che egli si affrettò a sformare sulle labbra.
-... grazie. L'unico problema è che, se casa Martell scende in campo, questa situazione di parità tornerà a sbilanciarsi. Non possiamo permetterci un simile pericolo, quindi la guerra deve essere breve e decisiva: impedire ai Lannister anche solo di pensare ad una riscossa. Ovvero uccidere Tommen, e, nelle mie speranze più rosee, il Folletto; il che non è fondamentale, ma almeno esclude qualsiasi possibilità di vendetta. Meno Lannister rimangono in circolazione, meglio è.-
Jon esaminò la mappa per qualche istante, rimuginando; quando sollevò lo sguardo, scuro e lustro, esso era rilucente di determinazione quanto una spada neonata.
-Credo di avere la soluzione.-
-Vale a dire?- Bran non si aspettava una risposta del genere.
Jon protese il viso verso di lui e colpì la superficie del tavolo con la mano aperta. -Stannis Baratheon.-
A quel punto, il giovane fratellastro era assolutamente in confusione. -Cosa intendi?-
-Stannis Baratheon giunse alla Barriera diversi anni fa. Gli mancava un esercito numeroso, nessuno nei Sette Regni era disposto a prestargli fiducia, e quindi cosa fece? ebbe l'idea di armare ed allenare i bruti. Sì, i bruti. Può suonare strano, ma loro stanno fuggendo per via della discesa degli Estranei e chiedono asilo al Castello Nero. Pur di sopravvivere, le donne hanno accettato di svolgere qualche mansione per aiutare gli attendenti, mentre gli uomini sono stati addestrati da Stannis per calibrare la mera forza fisica in tecnica, rapidità, destrezza. L'allenamento ha ottenuto risultati sconcertanti: io li ho visti con i miei occhi. Persone che prima tenevano a malapena un'ascia in mano sono diventate spadaccini niente male. Guarda: questa l'ho portata in dono per te. L'ha costruita proprio un bruto, ma non lo diresti mai, esaminandone la fattura.-
A quel punto un attendente accorse, porgendo al re una lunga lancia scintillante, di buon legno pregiato, con la punta eccellentemente affilata, l'asta maneggevole e dinamica e il padiglione ben intagliato. Appena i suoi occhi intercettarono il bagliore scoccato al bacio che la luce delle fiaccole alle pareti diede alla punta aguzza, Meera s'animò. Fu una bellezza ammirare il ravvivarsi di quello spirito sopito: Jon si stupì stranamente di non aver notato fino a quel momento quanto fosse graziosa, ma probabilmente fu proprio l'improvvisa vitalità che scoppiettò nel suo sguardo a restituire al suo aspetto i doverosi meriti. Questo dimostrò il fatto che Meera Reed non era morta; annoiata dalla quotidianità, sfiancata dall'inerzia, schiacciata dalla corona, ma non morta. Prigioniera.
-È stupenda... Che legno hanno usato? Quanto può misurare l'affondo? Posso vederla??- Persino il bambino parve notare l'improvvisa esaltazione della madre e tese una mano ad aggrapparsi ad un suo morbido boccolo. Bran si astenne dal sospirare, con un'espressione da "sempre la stessa storia", però gli piacque quell'improvvisa vivacità. Si vide costretto a richiamarla all'ordine, davanti agli ospiti.
-Meera.-
La moglie gli lanciò un'occhiata svelta e furba, quasi divertita ed addirittura compiaciuta, come se l'idea di essersi comportata in maniera irriguardosa avesse un fascino segreto.
-Chiedo perdono.-
-Prego, lord Snow. Continua.- lo invitò Bran allora, aggrottando la fronte.
Jon riprese il suo racconto da dove s'era interrotto. -Ho vissuto al suo fianco per tutto questo tempo, e te lo posso assicurare. Stannis è un grande comandante, sa il fatto suo. Rigoroso, severo, sì, ma giusto. Vedi, lui ha bisogno di alleati, perchè il numero dei guerrieri è sì cospicuo, ma non può competere con le truppe dei Lannister e dei Tyrell, e inoltre che rispetto potrebbe suscitare se si presentasse a reclamare il trono insieme a dei selvaggi irsuti? Metto la mano sul fuoco anche circa la sua fedeltà alla parola data: se diventerete alleati, è certo che non ti tradirà. È uno dei pochi uomini d'onore rimasti. Pensaci, Maestà: lui è il legittimo sovrano dei Sette Regni, in quanto fratello di re Robert, e se siederà sul Trono di Spade prenderà provvedimenti circa il Nord attendendosi ai tuoi interessi. Avrai ancora una volta la ragione dalla tua parte. Se sarete in due ad affermare le vere origini di Tommen, sarete più credibili e magari il popolo vi darrà retta.-
Fu Rickon, dopo diversi minuti di silenzio che aveva trascorso concentrato sul cibo, ad intervenire nella conversazione, con voce aspra e ruvida.
-Il Trono di Spade non è di chi lo eredita, ma di chi se lo va a prendere. E se non te ne sei ancora reso conto, vuol dire che le temperature della Barriera non ti hanno giovato. Noi non abbiamo bisogno di nessuno, nè di Arryn nè di Stannis, e non facciamo la carità a nessuno. Ce l'abbiamo fatta da soli fino adesso, e così continueremo. Fidarsi di se stessi è già tanto, con i tempi che corrono.-
-Non tollero ulteriormente questa scurrile mancanza di cortesia. O moderi il linguaggio, con una persona che è nata qualche giorno prima di te e dalla quale non hai altro che da imparare, o esci di qui immediatamente.- lo avvertì Bran, reprimendo a fatica il fastidio.
Rickon ghignò sprezzante. -Non serve scaldarsi così, fratellino. Era solo una battuta. Non ti sei mica offeso, vero, Jon?- I suoi occhi respingevano al solo sguardo.
Bran lo ignorò. -Ho sentito dire cose che non mi piacciono circa Stannis Baratheon, in particolare a proposito di una certa donna rossa. Un'eretica.-
Il viso di Jon Snow si storse in una smorfia di disappunto. -Parli di Melisandre. Sì, fino all'anno scorso è rimasta al fianco di Stannis a riferirgli le sue visioni fra le fiamme, ma un giorno ha annunciato che il suo Signore della Luce le ha indicato un terribile nemico di Stannis, perchè lei lo crede la reincarnazione di qualche eroe della sua religione, e quindi deve trovare questo gran nemico e sopprimerlo prima che sia troppo tardi, e che deve farlo lei sola. Così è partita per il continente orientale. Ogni tanto ci giungono sue notizie, che il viaggio prosegue ma non ha ancora raggiunto il suo scopo. Stannis non è un idiota: sa che introdurre strani dèi di Asshai non è il modo più adatto per ingraziarsi il popolo e farsi accettare come re. Non parlerà d'introdurre nuovi culti, su questo non c'è dubbio.-
Bran tacque.
-Non ce ne facciamo niente di questa stupida alleanza. Lasciamo perdere.- tagliò corto Rickon, allungando un pezzo di bistecca a Cagnaccio, sdraiato comodamente sotto il tavolo.
-Se lasciamo perdere o no lo decido io.- gli rammentò il fratello maggiore, a denti stretti. -E a me non sembra una cattiva idea.-
Il ragazzo si voltò verso di lui, con furibonda sorpresa. -Stai scherzando, mi auguro!-
-Se i Martell scendono in campo, siete in guai grossi.- rincarò Jon. -Le loro truppe dispongono almeno di... a occhio e croce... ventimila spade.-
-Se ventimila guerrieri si schiereranno di fronte a me,- canterellò Rickon con voce dolce, -significa che ventimila guerrieri mo-ri-ran-no.-
-Taci una volta per tutte, Rickon!- esplose Bran, indispettito da tanta impudenza. -Non ne posso più di te e i tuoi commenti presuntuosi. Io... sarei anche d'accordo. Jojen, tu cosa suggerisci?-
Il suo consigliere soppesava lo stelo di un calice fra le dita. La sua espressione era imperscrutabile. Quando parlò, la voce si dispiegò scura.
-Stannis Baratheon ha una conoscenza dei Sette Regni, della morfologia di Westeros e dell'arte bellica che ti tornerà utile, Maestà. È un uomo politico, prima di tutto. Io dico che ne vale la pena, se vuoi accettare.-
Rickon scostò malamente la sedia. -Ha parlato il burattinaio. Bene, adesso accogliamo tanti sconosciuti qui dentro e facciamoci ammazzare tutti come pecore! Le Nozze Rosse non ti hanno insegnato niente, Brandon Stark? Non lo sai che non puoi fidarti nemmeno dei tuoi cari mangiaranocchie? Non lo sai che non puoi fidarti nemmeno di me?!-
-Vattene fuori di qui e vedi di non ripresentarti al mio cospetto finchè non ti darò il permesso di farlo!- La voce di Bran fece calare il gelo. -Tu non c'eri, al tempo delle Nozze Rosse. Tu non hai visto. Tu non sai niente, Rickon, niente di niente! Taci e sparisci.-
Rickon lanciò un'ultima occhiata stizzita a Bran, poi a Jon, poi a Jojen. Suo fratello gli richiamava alla memoria la sensazione di quel muro d'assenza, quel vuoto abissale che talvolta ci si para davanti, suscitando quell'umile timore che pare dovuto a ciò ch'è insormontabile ed alienante -e proprio questo lo spingeva a bramare un'infantile rivincita.
-Andiamocene, Cagnaccio. Questi qua vogliono morire tutti.-
Quando uscì, si premurò di sbattere per bene la porta. Lo sdegno ardeva nel suo corpo come acido ribollente; girovagò come un'anima tormentata: prima di potersi congedare doveva offrire uno sbocco alla sua frustrazione. Attese dunque che poco dopo le porte si spalancassero, segno che il pranzo era terminato, e gli ospiti uscissero in uno sciame disordinato.
Quando vide Jojen svoltare l'angolo, ammantato di verde dalle spalle ai piedi, gli si parò davanti. -Quanta fretta. Sembra quasi che ti stiano correndo dietro... Quali grandi impegni avrai mai, poi, non lo so.-
Jojen strinse gli occhi color muschio, distaccato. -Che cosa vuoi, Rickon?-
-Stai pur sempre parlando con il principe di Grande Inverno. Cos'è, adesso bisogna portare rispetto solo a Bran? Beh, certo che lui ti obbedisce come un cagnolino.-
-Io esprimo soltanto la mia umile opinione, che Sua Maestà può decidere di considerare valida oppure no. Dare consigli è il mio compito. Questo significa consigliere.-
Rickon colse la nota d'ironia nella sua voce e s'infastidì.
-Non farmi passare per un idiota. Tu credi di poter fare quello che vuoi qui dentro soltanto perchè ti scopi il re, non è vero? Su, avanti, non facciamo i moralisti. Sappiamo entrambi la verità. Sappiamo entrambi che lui ti vuole a vivere qui soltanto per chiavarti. Ti dici tanto consigliere, ma si sa quali generi di servizi pretende mio fratello... Qualcosa in cui la bocca è implicata, ma non esattamente per parlare.- Il volto di Rickon si distese in un ghigno atroce. -Perchè non ne offri un po' anche a me, mangiaranocchie? Con Bran non ti tiri mai indietro. Non vorrai mica offendermi, vero?-
Con una mano, il principe di Grande Inverno bloccò il ragazzo contro la parete, esercitando pressione sul petto; l'altra scostò i lembi del lungo mantello e si infilò fra le pieghe, a scendere fino al cavallo dei calzoni, e a stringere. Jojen mantenne un'espressione di stoica intransigenza, gli occhi fissi in una severità adulta, sostenuta, austera, persino un po' disgustata da quel comportamento, che denotava insieme bassezza morale e sciocchezza puerile.
-Questi non sono affari che ti riguardano. Te lo dico chiaramente, Rickon, senza sotterfugi: non mi piace il tuo modo di fare. Fintanto che rimani pressochè innocuo, lascerò correre; ma in futuro non posso permettere che tu sia d'ostacolo a Sua Maestà. Se cercherai ancora di interferire con i suoi piani, sarò costretto a prendere provvedimenti.-
Rickon esplose in una risata acuminata, come intrisa d'aghi. -E che cosa vorresti fare?! Uccidermi? Ti posso spezzare la spina dorsale con un dito, Reed. Non bluffare.-
Jojen parlò, limpido, chiaro ed impassibile. -Ho visto cose, riguardo te e la ragazza Lannister, che non mi sono affatto piaciute. O inizi a capire che il vero nemico contro il quale combattere è là fuori, e non è Bran, o la tua permanenza a Grande Inverno potrebbe essere più breve di quanto credi.-
-La Lannister?- esclamò Rickon, stupefatto, scuotendolo per la maglia. -Che cosa hai visto? E cosa c'entra la Lannister?! Parla, maledetto figlio di puttana!-
Ma dopo aver sussurrato quelle parole, Jojen non rispose e scivolò dalla sua presa con un movimento fluido e si allontanò a passo svelto, seguito dall'ombra svolazzante del mantello, rapido com'era apparso. Rickon era talmente sconcertato e furibondo che l'unico rimedio fu scendere a trovare Myrcella; da un po' di tempo, era il modo più efficace per scaricare la tensione. Così s'abbandonò alle tenebre umide delle segrete come un bambino s'abbandona fra le braccia della balia.
***
Un clangore metallico gemette sul terreno, baluginando fra l'erba rigogliosa dei lussureggianti cortili della Fortezza Rossa. L'inverno non s'era avventato su Approdo del Re: il sole era un gioiello di cui la città non avrebbe fatto a meno, a sfoggiarlo con arrogante, annoiata alterigia, l'ennesimo inganno d'oro corrotto a cullare i suoi abitanti d'un senso di protezione spesso come la carta, e l'afa appesantiva la brezza compiacendosi della vittoria. I fiori sgargianti si spintonavano nelle aiuole, come se desiderassero affrettare una vita tranquilla per evitare la morte brutale che la lama del freddo soleva procurare loro. C'era qualcosa in agguato, ma era mimetizzato così bene fra la vegetazione di rubini e i miasmi stordenti che l'estate poteva ancora illudersi di cantare in eterno.
-Non così, Maestà.- Loras Tyrell scrollò il capo, coronato d'un corredo di boccoli flessuosi ed inanellati, mentre la luce svolazzava indugiando per un istante sul pelo delle iridi dei suoi occhi, animati di turchino chiarore, per poi appendersi alle sue ciglia. -La guardia è troppo bassa.-
-Oh.- farfugliò Tommen, mortificato dalla propria inettitudine, abbassando intimidito lo sguardo. Raccolse la spada e ritentò di mettersi in posizione da combattimento, stavolta più titubante.
Loras avanzava con le movenze agili e sicure di chi ha un'innata padronanza del proprio corpo; mentre si avvicinava al re, i suoi riccioli rigogliosi, avvinti fra loro in una fantasiosa trama e scomposti ad arte dall'allenamento, dondolavano e vorticavano su se stessi in paffute spirali. -Solleva il braccio come sto facendo io. Non serve che lo irrigidisci... rimani rilassato. Morbido. Ecco, in questo modo.-
Loras spostò dolcemente il braccio del giovane re nell'angolatura corretta, aggiustando la presa delle sue dita sull'elsa; infine gli sorrise per confortarlo. Tommen rispose debolmente, abbacchiato. Gli sarebbe tanto piaciuto essere abile come ser Loras, ma per le armi era proprio negato -se fosse stato capace di maneggiare una spada come si deve, forse sua madre non sarebbe morta e Myrcella non sarebbe stata, in quel momento, tanto, troppo lontana da lì... Era un pensiero amaro che rimaneva coagulato come sangue nella sua gola, ed egli non riusciva ad inghiottirlo. A quel punto i due incrociarono le spade e ricominciarono a duellare; intanto che si allenavano, qualcuno li stava osservando. Seduta sul latteo davanzale d'un fontana di marmo, Margaery Tyrell carezzava la superficie dell'acqua con le dita disegnandovi cerchi distratti e disgregandoli con un imperioso gesto del palmo; un abito di taffettà glicine le scopriva completamente le braccia affusolate e la schiena pallida, stringendo i seni gonfi ed adattandosi alla circonferenza del grembo. Così, con il ventre turgido come una corolla rinchiusa nel bocciolo, la chioma fiorente a riversarsi sulle spalle esili, il volto radioso dagli occhi stellati, rosato sulle guance, il sorriso leggiadro che si accomodava sulle labbra carnose, sembrava l'incarnazione della Madre, in un gioioso, bucolico ritratto della fecondità. Il suo sguardo intenerito soffiava dal volto paonazzo ed aggrottato dalla concentrazione dello sposo, alla sinuosa figura ammantata di bianco del fratello. Quel combattimento sembrava poco più che un gioco nell'aria aurea, profumata, velenosa di quell'estate mentitrice, mentre le risate zampillanti della fontana ammorbavano la mente d'una lieve inerzia, vuota come una splendida caverna d'oro, in sospeso come l'ultimo istante prima del lampo.
Quando Tommen parò una stoccata particolarmente poderosa, Loras lo ricompensò con un cenno d'approvazione. -Bravo, mio signore. Vedo che inizi a prenderci la mano.-
Tommen sorrise speranzoso, arrossendo d'entusiasmo -era quasi sempre rosso in volto, lui, perchè talmente tante erano le sue emozioni, e talmente vulnerabile era la sua soffice anima ad esse, che bastava terribilmente poco per commuoverlo ed imbarazzarlo; ciò era risultato della scarsa stima che aveva sempre nutrito per se stesso -crescere con un fratello maggiore come Joffrey l'aveva segnato molto da questo punto di vista. Se fosse diventato abbastanza bravo, poi, magari sarebbe riuscito a sconfiggere addirittura Rickon Stark, ed a salvare Myrcella...
Del resto, Loras non aveva nemmeno mentito di sana pianta: rispetto a qualche mese prima, quando faticava persino a tenere la spada dritta davanti a sè, egli era già decisamente migliorato. Il giovane re udì un applauso levarsi alle sue spalle e si voltò.
-Mio signore, non posso crederci! Stai diventando bravissimo.- esclamò Margaery, con quel suo sorriso fremente e partecipe che pareva davvero vivere quell'idea con tutto se stesso e faceva sentire Tommen come circondato in un abbraccio. -Attento, Loras, che fra poco sarà mio marito a doverti dare qualche consiglio...- scherzò inoltre lei.
-Hai perfettamente ragione, sorella.- rispose Loras divertito. -Fa progressi a vista d'occhio. Diventerà un avversario da non sottovalutare!-
Tommen rise insieme a loro: non la considerava come una presa in giro. Sapeva benissimo che i due stavano esagerando, ma lo facevano con le migliori intenzioni. E poi gli piaceva molto questa maniera speciale che la moglie aveva, di farlo apparire straordinario, invincibile, come il personaggio d'una ballata. Di farlo apparire unico al mondo. Per Cersei Lannister era sempre stato il principe di riserva, per Robert Baratheon un bambinetto smidollato, per Joffrey un fratello indegno di lui. Soltanto lo zio Tyrion, Margaery e Myrcella sembravano davvero convinti che anche Tommen avesse qualcosa da dire all'universo. Oh, Myrcella: quanto gli mancava... Cercò di distrarsi da quel pensiero al più presto possibile. Era una ferita troppo fresca per non dolere al minimo sfioramento.
-Margaery, tu...- Il ragazzo si perse nei suoi occhi, mentre le parole incespicavano adorabilmente sulla punta della lingua, -... sei bellissima.-
-Ti ringrazio, ma questo è soltanto lo stretto indispensabile per non farti sfigurare.- ribattè Margaery, la voce sciolta d'affetto. Tommen era un giovane goffo nell'esprimersi, impacciato nell'andatura, e nel suo atteggiamento nulla ricordava l'autorità, la solennità, la maestà: era evidentemente privo d'una certa voce intransigente, d'una certa presenza regale, d'una certa superba eleganza che magari avevano caratterizzato Joffrey, e di certo era mille volte più arrendevole. Però il suo animo era squisito, il suo cuore bianco come soltanto quello d'un fanciullo senza pensieri nè preoccupazioni può essere, il suo sorriso etereo quanto il primo bacio fra l'alba ed il mare, ed i popolo lo amava come un figlio, sconsideratamente. Se in passato era stato semplice manovrare Joffrey per la sua smania di prepotenze e di conquiste, in quel momento era l'accondiscendenza docile e mansueta di Tommen a permettere ad ogni ministro d'influenzarlo. Questo era dovuto sempre ad una continua richiesta d'approvazione e consenso del giovane Lannister, generata dalla scarsa sicurezza in se stesso; Tommen finiva inevitabilmente per apparire incompetente, se era il primo a pensare di esserlo. Margaery ringraziava ogni sera i Sette Dei d'essere diventata la moglie del fratello più piccolo di Joffrey: ripensando al volubile carattere di quello smorfioso prepotente, se lui fosse diventato re, probabilmente lei sarebbe stata soltanto la prima d'una sfilza di mogli condannate ad un triste destino.
Un servitore accorse, percorrendo i graziosi viali bianchi, costeggiati da siepi d'ogni forma. -Maestà! Lord Lefford chiede umilmente d'essere ricevuto. Attende nella sala del trono. Puoi dedicargli qualche minuto, o gli riferisco di ripassare?-
Tommen esitò un momento, poi dissentì. -Va bene adesso. Io e ser Loras stavamo giusto concludendo la sessione di allenamento. Mia cara Margaery, se vuoi scusarmi...-
Il ragazzo trotterellò via, scortato dal servitore, mentre il sole pomeridiano giocava fra i suoi capelli simili a filigrana, fino a che fu impossibile decretare con certezza dove finisse la luce e dove iniziassero i riccioli. I fratelli Tyrell lo seguirono affabilmente con lo sguardo finchè non sparì, inghiottito dalla gola scarlatta della Fortezza Rossa.
-Rimane sempre fedele a se stesso, vero?- commentò Loras, offrendo galantemente il braccio alla ragazza. Margaery sorrise maliziosa.
-Fortunatamente. E nemmeno tu ti smentisci mai, Cavaliere di Fiori... stai attento a come guardi il mio piccolo maritino innocente! Che gli occhi non indugino dove non dovrebbero... Me lo consumi se continui così!- Si esibì in una risatina estasiata, mentre Loras ostentava indignazione.
-Ma su, lo conosco fin da quand'era bambino. Non potrei mai pensare a lui in un quel certo senso che intendi tu, pervertita che non sei altro! Comunque si è fatto carino, su questo non ci piove.-
I fratelli passeggiavano per il labirinto di siepi e statue, a passo sostenuto e cadenzato, concedendosi del tempo per ispirare la fragranza pungente e vigorosa dei gelsomini rampicanti, per abbeverarsi dei raggi solari che si posavano come impalpabili farfalle sulle loro palpebre. Margaery cingeva la pancia rotonda fra le braccia, in un gesto affettuoso ed allo stesso tempo nervosamente istintivo, quasi che la percepisse, quella minaccia acquattata fra i miraggi di calma apparente. Erano tempi rischiosi per mettere al mondo un figlio di re.
-Oggi è una giornata talmente bella che sarebbe stato un peccato rimanere confinata in camera.- raccontò la sorella. -Ero nauseata dal sonno. Questa notte il bambino ha scalciato a tutte le ore, non appena ero sul punto di assopirmi... Si muove parecchio, in effetti.-
-La levatrice ha detto che dovrebbe mancare poco, no?- domandò Loras, carezzando amorevolmente con lo sguardo il ventre dilatato di lei.
-Venticinque giorni.- confermò Margaery, -però non si può mai dire. Secondo me non riuscirà a pazientare per così tanto tempo ancora. Non che mi dispiaccia: non vedo l'ora di stringerlo fra le braccia...- Taque per qualche istante, poi riprese vivacemente. -So che bisognerebbe auspicare che il primogenito sia maschio eccetera, però mi piacerebbe moltissimo che fosse una bambina. L'ho sognata, stanotte...- S'interruppe e corrugò la fronte, come se la sua mente avesse incontrato un ostacolo nel libero flusso dei pensieri.
-Sul serio?- si stupì Loras. -In che senso?-
Per l'esattezza, Margaery aveva sognato di entrare nella camera da letto, di accostarsi sorridente alla culla, di scostare le tendine di seta -e di scoprire che sua figlia non era lì. Figlia, sì, una femmina: quando si girava di scatto, sconcertata, vedeva un fagotto di panni rosa fra le braccia di Rickon Stark. Egli non aveva mai un volto, era soltanto un'ombra acuminata come un pugnale, la personificazione stessa dell'incubo: sorrideva, Rickon Stark, come sorridono i lupi, e diceva: -Com'è carina tua figlia, Margaery Tyrell.-
-Ho sognato che gli Stark me la portavano via. Che Rickon Stark...- D'un tratto, Margaery aveva la gola arida.
Loras strinse i denti. -Gli Stark non riusciranno neanche a vedere la Fortezza Rossa da lontano, e se quel maledetto Rickon si mette in testa di volersi avvicinare gli farò passare la voglia di giocare al guerriero. La mia unica ragione di vita è proteggere te e il piccolo. Sarete al sicuro, e questa è una promessa.- Il viso si contrasse dolorosamente. -Una promessa che manterrò.-
Margaery gli sfiorò una spalla con la punta delle dita, nel timore di vederlo infrangersi sotto il proprio tocco. -Lo sai che punirai Stannis per quello che ha fatto, vero? Lo sai che vendicherai la morte di Renly?-
-È l'unica certezza che mi rimane.- bisbigliò il fratello, gli occhi a vagare molto più lontano. L'aria si rarefece fra loro, ed all'improvviso fece un po' più freddo. Margaery tentò di cambiare discorso, aggrappandosi al primo pensiero che scovò.
-Cosa stavo dicendo? Oh, sì, questo pomeriggio avevo una gran voglia di sgranchirmi le gambe, sebbene, se fosse per Tommen, rimarrei sempre distesa a letto... è molto ansioso, in questo periodo, e non può nemmeno godersi questa gioia come avrebbe il diritto di fare.-
Loras fu grato alla sorella per il tempistico salvataggio, che lo trasse al momento giusto dal ciglio del baratro dei ricordi.
-Tommen, come tutti, combatte sfogando le frustrazioni soffocate nella sua anima. Il rapimento della principessa Myrcella è stato un duro colpo per lui. La cita in continuazione, quasi che il solo nominarla potesse incentivare le probabilità di vederla comparire all'improvviso all'orizzonte.- Loras sospirò furtivamente, abbassando lo sguardo all'orlo delle gonne di lei, che volteggiavano aggraziate come onde di seta liquida. -Questi lutti lo hanno già sfiancato, non ha più energie, le armi lo spaventano. Mi domando come potrà mai affrontare una guerra...-
-E perchè mai dovrebbe, quando ci siamo noi a farlo per lui?- replicò Margaery, enigmatica, con un sorriso complice. -Ad ogni modo, passiamo ai fatti. Gli Stark si stanno muovendo?-
-No, non ancora. Stanno richiamando i vassalli, come noi del resto. Forse aspettano altri rinforzi, oppure vogliono che sia Tommen a sferrare il primo attacco. Impossibile dirlo.- scrollò le spalle lui. -Ad occuparsi delle strategie militari, comunque, è il Folletto.-
-Il Folletto.- ripetè Margaery meditabonda. -Beh, indubbiamente non è uno sprovveduto. Sa quello che fa.-
-È parecchio furbo.- annuì Loras. -Bisogna sperare che, arrivati a questo punto del gioco... sia sufficiente.-
Proseguirono a camminare, lenti e lieti, stretti l'uno al fianco dell'altra, uniti contro l'intera scacchiera com'erano sempre stati, mentre il più piccolo erede di sangue Lannister dormiva sereno, ancora inconsapevole della partita di cui stava per diventare una fondamentale pedina.
Nello stesso momento, soltanto pochi piani più in alto, Jaime Lannister aprì gli occhi. Appena individuò il fratello presso la sponda del letto, li richiuse.
-Vai a casa, Tyrion.- Chissà dove aveva ritrovato la voce: forse nello stesso precipizio dove aveva perduto tutto il resto.
Cinque giorni fa aveva per la prima volta ripreso conoscenza dopo il torneo, e da allora gli capitava di ferirsi con schegge di realtà in quella fanghiglia mordace, insidiosa ed obliante ch'era diventata esistenza. Non aveva bisogno che qualcuno glie lo dicesse, per capire che Tyrion non si era mai allontanato dalla sua stanza. Lo leggeva in quegli occhi impotenti di fratello, che, fin dal momento in cui giocavano nella remota isola dell'infanzia, aveva visto invecchiare insieme ai propri per tutte le nefandezze ch'erano costretti a riflettere.
-Smettila di dirmi che cosa devo fare. Non so il perchè, ma fin da quand'eravamo piccoli ti sei messo in testa che comandi tu. Il che è fuori discussione.-
-Shae si starà chiedendo se sei ancora vivo. Hai una figlia che ti aspetta a casa. Vai via.-
Tyrion sospirò impaziente. -Senza offesa, ma ti sei guardato allo specchio? Sei un cadavere che parla. Non posso lasciarti solo, con il pericolo che mi resti stecchito da un momento all'altro. Il tuo estremo desiderio non è forse quello di ammirare il mio angelico viso per l'ultima volta, e portare con te in cielo questa ammaliante visione?-
-Dov'è Cersei?-
Non v'era silenzio in grado di colmare l'affossamento di quella pausa. Tyrion era molto intelligente, aveva letto tanti libri, ma esistono domande per le quali la risposta rimarrà uno spettro di sangue versato, un artiglio affondato nella carne, un verso di nauseabonda agonia -rimarrà la resa.
Deglutì a disagio e scosse la testa, quasi fra sè. -Ti prego, Jaime. Non...-
-Vattene via, Tyrion.- ripetè Jaime. La sua voce era abrasa in un modo in cui il petto, seppur memore delle ferite dell'intera vita di un cavaliere, non era mai stato.
Questa volta il Folletto non protestò e si alzò, per dirigersi alla porta. Sul suo volto c'era una distesa di deserto -c'era la pietà, cruda e spiazzante ed elementare, e se Jaime avesse scorto la propria immagine nello specchio dei suoi occhi avrebbe visto un buco nero. Ma non lo fece. Aveva smesso di avere importanza, appena prima che cominciassero quelle miriadi di leghe di dolore.
La consapevolezza, infallibile, lo ridusse capricciosamente al silenzio, per asservire ogni fibra del suo corpo e costringerlo a prestarle il più dedito ascolto. E Jaime rimase a sentire, finchè non riuscì più a distinguere i confini disciolti della sua anima in quella coltre di sangue raggrumato e acqua gelida che impregnava le lenzuola.
***
-Porca puttana.- annaspò Yara.
Fu esattamente la prima cosa che pensò, e l'imprecazione le sbragò le labbra con la violenza d'un coltello. -Porca puttana.-
Scagliò a terra le lenzuola ruvide, annodate alle sue gambe, si liberò dagli ultimi granelli di sonno sulle palpebre strofinandosi ferocemente gli occhi e vi strappò i veli del torpore esponendoli alla luce senza pietà. Si precipitò fuori dalla stanza a gambe levate, l'aria a sfrigolare nelle sue orecchie come uno stridulo canto luttuoso. La luce esuberante delle torce delineava correttamente tutti i tratti delle sue membra, sotto la garza trasparente della pallida sottana, lunga fino alle ginocchia, sbottonata per metà.
Un servo le stava porgendo una vestaglia. -Mia signora...-
-Non c'è tempo! Dov'è?!- urlò Yara, trattenendosi dal gettargli le mani al collo.
-All'ultimo piano... un balcone dell'ala est...- balbettò quello, imbarazzato.
-Merda, merda, merda!- ruggì la ragazza.
Yara si slanciò fino in fondo al corridoio, in direzione delle scale, colta da uno stritolante istinto di scoraggiamento iniziale; per qualche istante, l'impotenza la travolse come le onde del mare non avrebbero mai fatto. Dalle finestre che si aprivano sulle mura l'impeto del vento la investì, spazzandole i capelli dietro le spalle, rendendole le braccia ruvide di pelle d'oca, ma Yara non arretrò; con i piedi scalzi, prese ad esaurire i gradini saltandoli a tre a tre e permise alla pioggia, deviata dal vento, di infradiciarle la sottana ed appiccicargliela alla pelle, gravosa, scomoda, vincolante. Fredda e viscida. Yara ignorò impazientemente le intemperie, sibilando sottovoce, e dopo aver terminato una rampa di scale ve n'era un'altra ed un'altra; la corrente impetuosa e sferzante le tagliuzzava le guance, avvampandole di sangue, e distraeva la sua mente ancora ebbra dei vapori del sonno, e bagnava la pietra rischiando di farla scivolare. La gonna scendeva piatta e pesante, come una zavorra contro le sue gambe. La burrasca scrosciava aggressiva, pervicace, incattivita contro di lei, quasi che gli artigli del vento volessero striare la sua pelle di rosso.
Finalmente lo vide. Quella figura era così gracile e diafana, in piedi sul davanzale del balcone, in sospeso sopra la vorace bocca del mare ruggente, stagliato contro l'eterno e prepotente cielo nero di guerra, da scomparirvi come fra le fauci di una fiera. La vista era così miserevole e patetica da comprimere il respiro nel petto. Yara non gridò, temendo di spingerlo a qualche movimento inconsulto; la notte inghiottiva quella fraterna preoccupazione di cui, alla luce del giorno, si sarebbe vergognata così tanto, celava quella nefasta onta ch'erano i sentimenti e che una donna di ferro non si poteva concedere. All'improvviso la sua mano, spaventosamente bianca e bagnata, artigliò la caviglia ossuta di Theon Greyjoy con tutta la forza impiegata per arrivare fin lì, tutta insieme.
-Theon.- sbottò, con incollerita esasperazione, con iroso rimprovero. Lo trasse in salvo dalla parte del balcone; la missione fu compiuta soltanto quando ella udì il rumore del corpo magro contro la pietra. Infine, sfiatata, grondante, stordita di sonno e fatica, china contro la mole della pioggia, trascinò il fratello all'interno del castello, all'asciutto. Yara provò un sollievo così possente da inebriarla di gratitudine verso se stessa e la propria prontezza, e verso qualsiasi maledetto dio l'avesse sostenuta in quel salvataggio improvvisato, impedendole di mancare un gradino, di perdere l'equilibrio o lasciarsi rallentare dalla furia dell'acqua. Dopo essersi presa qualche istante per riassestarsi, per tornare in sè, per sfregarsi le mani paralizzate del freddo, Yara verificò il respiro del fratello, supino sul pavimento. Gli occhi erano chiusi e l'espressione spiegazzata, smunta, patita, un cencio intriso strizzato troppo forte.
-Theon.- sussurrò. -Theon, svegliati. Svegliati, che cazzo.-
Il ragazzo riprese conoscenza, poco a poco, sbatacchiando le ciglia scompigliate: il suo sguardo vagò stanco senza comprendere, a riflettere lo smarrimento della sua coscienza. Infine si soffermò confuso su un elemento inaspettato che identificò, gli occhi della sorella, e con voce fioca farfugliò:
-Cosa accidenti... dove siamo?-
-Ala est.- L'espressione di lei era insondabile.
Theon arricciò la fronte, notando stupito la tempesta ad esplodere nel cielo notturno. -E perchè mai?-
-Non riesci proprio ad indovinare?- sbuffò Yara, sgocciolando i capelli con gesti stizziti. -È successo di nuovo. Stavi per... buttarti giù da quel terrazzo. Non ti dico cosa sarebbe rimasto di te, se avessi realizzato il tuo intento.- Yara sollevò lo sguardo duro al fratello e gli prese il mento fra le dita, con un'espressione ferma, risoluta ed inderogabile. -Adesso guardami e giuramelo, Theon: giurami che eri sonnambulo. Ti prego, giuramelo. Ho bisogno di saperlo.-
-Lo giuro. È vero. Come le altre volte.- ribattè Theon, debolmente. -Se volessi davvero suicidarmi, troverei una maniera più veloce, più indolore e meno plateale.-
Se volessi davvero suicidarmi, ci sarei già riuscito, pensò tristemente. Ma questo non lo disse. La sorella era confortata dalla risposta, e lo si intuiva dalla maniera in cui le spalle rigide ed il collo si rilassarono, però non lo diede troppo a vedere; il suo tono di biasimo rimase tagliente.
-In ogni caso, bisogna smetterla con questa storia. È l'ultima volta che mi sveglio nel mezzo della notte per salvarti la pellaccia, capito? Non posso sempre starti appresso come una balia.-
I problemi erano cominciati da quando Yara aveva assediato Forte Terrore, da quando Theon era tornato a casa. I suoi episodi di sonnambulismo avevano messo in allarme l'intera fortezza: spesso egli rischiava incidenti di quel genere, più di una volta era stato sul punto di suicidarsi (e probabilmente l'avrebbe fatto, se non ci fosse stato nessuno a fermarlo) e questo induceva Yara a credere che la sua incolpevolezza fosse soltanto una scusa gettata là, per non assumersi l'onere di spiegare il motivo per cui aveva azzardato quel gesto. Ella comprese che sarebbe stato inutile parlare con il fratello in piena notte, mentre lui era in tali condizioni, perciò avvolse in una coperta quel corpo intirizzito e lo accompagnò nella sua stanza, continuando a borbottare: -Se non mi è venuta la polmonite adesso, non mi verrà mai...-
Mentre Theon giaceva inerme sul materasso, senza nemmeno tentare di chiudere gli occhi, Yara se ne tornò in camera tossendo; tolse la sottana fradicia e la calciò a terra con fastidio, per indossare invece una casacca e un paio di calzoni. Quando scivolò nel letto, si rese conto che, per suo grande disappunto, Tris era sveglio.
-... ma che ora è?... che cosa è successo?-
-Theon.- bofonchiò in risposta lei, seccata all'idea di dover spiegare tutto l'avvenuto a quella testa bacata di suo marito, tagliando il più corto possibile. -Ha fatto il pazzo come al solito. Ma adesso stai zitto e dormi.-
Tristifer Botley sospirò. Era sempre stato un ragazzo dal cuore gentile -fin troppo gentile per essere un abitante delle isole di ferro, fino a sfociare nello stucchevole, per quanto riguardava Yara. Da quando Theon era venuto ad abitare a Pyke, come un tempo, egli non era riuscito a nascondere quanta pena gli suscitasse quel povero ragazzetto dissestato, dagli occhi pieni di paura.
-Non pensi che dovresti farlo visitare? Magari qualche Maestro può consigliarti un decotto, o qualcosa di simile... Altrimenti finirà per farsi davvero male.-
-Già, peccato che non siano affari tuoi.- mugugnò Yara, tirandosi la coperta fin sopra la testa, quasi per schermare le sue chiacchiere. -Stai zitto e dormi: obbedire a due ordini allo stesso tempo è uno sforzo troppo faticoso, per caso?-
-La tua dolcezza fa cariare i denti, come al solito.- bisbigliò sottovoce Tristifer, con un sarcasmo più intenerito che contrariato.
Ella si rigirò innervosita nel letto. Estenuata dall'intero universo, in quel momento voleva soltanto cedere all'insistenza del sonno e piombare nell'incoscienza, mentre la detestabile voce di Tristifer proseguiva imperterrita a molestare le sue orecchie.
-Te li spacco, i denti, se non chiudi quella fottuta bocca.- minacciò.
-Sono tuo marito.- implorò lui, mestamente. -Potresti almeno farmi la gentilezza di ascoltare ciò che dico, no? Tutte le mogli lo fanno.-
-Stai cercando di elemosinare obbedienza, per caso?- Yara roteò gli occhi esasperata. -Dormi, Tris.-
Suo padre prima di morire le aveva confessato senza giri di parole che l'unica possibilità che lei aveva, se voleva governare, era sposarsi, possibilmente con l'erede di qualche famiglia prestigiosa di Pyke -possibilmente con l'erede di casa Botley e dunque di Lordsport, ovvero Tris, suo amico di vecchia data. Ovviamente Yara avrebbe avuto qualcosa da ridire al riguardo, ma aveva deciso che era un prezzo equo da pagare, pur di poter regnare sulle Isole di Ferro. Inoltre Tris, essendo pazzamente innamorato di lei, le lasciava fare più o meno tutto quello che voleva e non la intralciava nel governo, senza imporre la propria autorità in quanto marito, il che era davvero più di quanto Yara avesse osato sperare per il proprio avvenire. L'aveva sposato tre anni prima, subito dopo aver riportato Theon a casa -subito dopo che fu a tutti manifesto il fatto che l'unico erede maschio dei Greyjoy non era in condizione di regnare, perchè -come si raccontavano i bambini ridacchiando- era pazzo. In verità non aveva perso del tutto le facoltà d'intendere e di volere, però capitava spesso che nel bel mezzo delle discussioni il suo occhio si facesse vacuo, o che scoppiasse ad urlare, o che -assalito da un invisibile aguzzino- supplicasse d'essere liberato gettandosi in ginocchio. Yara non era molto sorpresa: a giudicare da quel poco che aveva visto, durante l'assedio di Forte Terrore, Ramsay Snow era un sadico; era già incredibile che il fratello fosse sopravvissuto, dopo essere stato suo prigioniero per anni.
Ella ricordava il giorno del salvataggio di Theon come si ricorda il primo schiaffo, il primo addio. Rammentava con orribile verosimiglianza quell'assalto d'emozioni prorompenti: la bocca aspra e sussultante che pareva volesse vomitare fuori il cuore da un momento all'altro, l'odore acre e doloroso del sudore di panico, le urla selvagge della ferita alla gamba. Sì, perchè quando durante una battaglia si viene colpiti l'impatto non è nulla, a malapena lo si percepisce, attutito dall'adrenalina. Il peggio viene dopo, quando il corpo metabolizza il colpo, si accorge del trauma, impara quell'irregolarità, e subito inizia a pulsare orribilmente, come un organo a parte, inizia a lamentarsi e gemere forte, a singhiozzare come un bambino. Yara stava premendo a forza il ginocchio contro il pavimento e si ripeteva incessantemente che non doveva guardare, non doveva, non doveva. Non guardare il sangue. Non guardare. Guarda dopo, quando la situazione è sotto controllo. Dopo. Così, quando Theon aveva cominciato a piangere fra sè, sommessamente, la sua lingua s'era sciolta involontariamente in un dopo, dopo mormorato a stento. Rammentava di aver pensato parecchio a quei pomeriggi perduti di tante storie prima, quando i loro fratelli maggiori li cercavano giocando a nascondino -quando i loro fratelli maggiori erano ancora vivi- e la piccola Yara cacciava una mano sulla bocca di Theon per farlo stare in silenzio, dicendo non preoccuparti, che non ci trovano. Se fai quello che dico io, vinci sempre. Quanto avrebbe voluto poter assicurare una cosa simile a Theon, in quel momento, inginocchiati ad un angolo del labirintico intreccio di corridoi di Forte Terrore. Ma se quello là ci sgama, non ci sarà più nessuna partita da poter giocare, nessuna rivincita da riscattare. Ci farà a pezzi. Moriremo. Lei non doveva pensarci, no, doveva rimanere lucida, razionale, attiva, cosciente del mondo circostante, non poteva rinchiudersi fra i pensieri, doveva combattere il freddo. Il trucco stava solo in questo: combattere il freddo.
Aveva una possibilità di riuscire. Una sola. Una soltanto. Se la sua mano avesse ceduto, se le sue forze fossero mancate, se l'esitazione si fosse prolungata per più di quell'infinitesimale attimo salvifico, per il tempo dello stordimento della coscienza, se tutte queste casualità e fatalità avessero preso la strada sbagliata, la sua vita si sarebbe esaurita senza scampo fra le mani di Ramsay Bolton. Affidarsi a tale imprevedibilità era uno scempio; affidarsi a tale imprevedibilità era tutto quel che le rimaneva. La gamba faceva così male, male, male, malissimo, perchè faceva così orrendamente ed esplicitamente male?! ma non aveva il tempo per prestarci attenzione. La vista s'offuscava di dolore, però niente, bisognava perseverare, trattenere il respiro, sfigurare le labbra fra i denti, e urlare dopo tutte le urla invisibili sospese nella sua gola come debiti arretrati.
Se vinci, puoi urlare. Se vinci, puoi soffrire. Ben poca consolazione le sarebbe parsa, questa, in altre circostanze, ma in quel momento era tutto quel che voleva sentirsi promettere, e bastava per appagare i desideri d'ogni anima al mondo. Con la mano a cercare sicurezza nella dolce impugnatura del suo pugnale, il corpo scosso dal ritmo del battito cardiaco, Yara Greyjoy attendeva che la sorte le scrivesse un futuro, capitolo successivo o epilogo che fosse. Bastava soltanto che amputasse quegli attimi di tragica transizione, di rovinosa incertezza.
Poi l'aveva sentito arrivare. Lo scherno nella sua voce le aprì la carne.
-Su, non fare la timida... che c'è? Avanti, stiamo solo giocando. Non ti farò mica paura?-
Yara inghiottì a fatica la frustrazione. No, la paura non doveva nemmeno azzardarsi ad avvicinarsi. Non doveva essere lei a temere la paura, quanto la paura a temere lei. Doveva combattere il freddo. Ramsay Bolton, giocherellando un lungo coltello fra le dita con destrezza, lanciò un'occhiata ad una cella vuota che si affacciava sul corridoio. Nel vedere il mucchio di casse che poco prima Yara aveva frettolosamente gettato le une vicine alle altre, i suoi occhi azzurri si dilatarono, palpitanti di trionfo. -Devi costringermi a venire a stanarti?-
Yara non si permise di sorridere. Non ancora. Non era fatta, no, no, non ancora... mancava poco, pochissimo, e quell'imbecille sarebbe caduto nella trappola ed avrebbe pensato che loro fossero lì, dietro quelle casse... il rumore di tali sventati passi dentro la cella furono la musica più soave ch'ella avesse mai udito. Con una velocità che le sue gambe non conoscevano, con una forza che le sue mani impararono istantaneamente, sbattè la porta della cella e la fermò con il chiavistello. Le tremavano le ginocchia, le ardevano gli occhi, ma la sua bocca si spalancò in una risata di scherno.
-Magari un'altra volta.- disse infine. -Oggi non ho tempo di stare qui a giocare.-
Giusto il tempo di comprendere l'avvenuto e il volto di Ramsay si contrasse nello sdegno. -Non vorrai mica rubarmelo.-
-Io non rubo niente a nessuno.- chiarì Yara schiettamente. -Questo sacco d'ossa è mio fratello. E me lo riprendo. Sei tu che l'hai rubato, casomai, bastardo.-
-Bastardo è solo quel disgraziato che ti ha concepita, troia.- ringhiò il ragazzo, accostando il volto alle sbarre, -e il tuo è un madornale errore. Nessuna dannata puttana spocchiosa può derubare un Bolton di Forte Terrore. Oh, tu non sai, tu non sai in che guaio ti stai cacciando! La caccia finisce soltanto quando la preda muore, Yara Greyjoy.-
Così le aveva detto, il bastardo di Bolton. Dopo aver pensato vagamente che quella era la maniera di fissare più sgradevole che avesse mai visto, Yara si era gettata con malgrazia Theon su una spalla, aveva strappato un brandello del mantello per stringerselo alla coscia ferita ed infine gli aveva indirizzato un ultimo sorriso, ironico e sghembo -e Ramsay Bolton aveva pensato che quella era la maniera di sorridere più sgradevole che avesse mai visto.
-Ci puoi scommettere.-
Riflettendo per l'ennesima volta su tutto questo, Yara sorrise distrattamente nel buio. Se voleva tentare di riprendersi Theon, Snow poteva benissimo farlo; però doveva tenere presente che la morte della vittima non è l'unico modo per concludere una caccia. Un cacciatore astuto sa quanto affilate sono le zanne della sua preda, caro il mio bastardo, rimuginò fra sè, e tu non ne hai idea.





























Note dell'Autrice: Ehilà, popolo di Efp! Sì, lo so, non guardate lo schermo così. Sono in imperdonabile ritardo. Mi flagellerò per penitenza... Più di due settimane, vero? Caspiterina, poveri lettori! In compenso questo è un capitolo luuuuuuungo. Spero che nessuno si sia scoraggiato nell'aprire la pagina! ^-^" Il punto è che mi aspettavo di scrivere la parte su Grande Inverno più breve e la parte sui Lannister più lunga. Poi, sì, la mia predilezione per gli Stark ha avuto la meglio! XD Mi riprometto di scrivervi una parte bella lunga su Jaime e un'altra su Tyrion, nel prossimo capitolo. Promesso promesso promessissimo! Sì, nel prossimo capitolo prevedo grandi sconvolgimenti... ma proprio GRANDI. GIGANTENORMI.
Intanto, Jojen ha rischiato di essere stuprato da Rickon (che ormai stupra chiunque XD), Tyrion ha una figlia e Yara ha fatto la sua mirabolante comparsa. Vi sembra poco? XD
Per inciso: Melisandre non è affatto scomparsa nel nulla. Il viaggio non era solo un espediente qualunque per liquidarla. La rivedremo, fra un po'... (hurrààààà. Che gioia, eh? -.-)
Me ne vado, prima di essere malmenata per tutte le boiate che sto dicendo. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che mi informiate circa le vostre opinioni a proposito! Per me sono molto importanti i suggerimenti dei lettori! A presto, spero -farò del mio meglio!
Lucy
  
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