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Autore: Akilendra    18/11/2013    2 recensioni
Gli Hunger Games sono giochi senza un vincitore, ventitrè ragazzi perdono la vita, l'ultimo che rimane perde sè stesso in quell'arena, non c'è nulla da vincere, solo da perdere. Nell'arena si è soli, soli col proprio destino, Jenna però non è sola...
Cosa sei disposto a fare per non perdere te stesso? E se fossi costretto a rinunciare alla tua vita prima ancora di entrare nell'arena?
Gli Hunger Games saranno solo l'inizio...
(dal Capitolo 1):
"Un solo rumore e so che lei è qui...l'altra faccia della medaglia, il mio pezzo mancante, la mia immagine riflessa allo specchio, una copia così perfetta che forse potrebbe ingannare anche me, se non fosse che io sono la copia originale dalla quale è stata creata. Dopotutto sono uscita per prima dalla pancia di nostra madre, quindi io sono l'originale e lei la copia."
(dal Capitolo 29):
"'Che fai Jenna?'
Mi libero della menzogna.
'Che fai Jenna?'
Abbraccio la verità.
'Che fai Jenna?'
Mostro l'altra faccia della medaglia."
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Capitolo 26




 
Non un rumore, non un segno, mi accorgo che siamo arrivati perché dal vetro del piccolo finestrino capisco che non siamo più tra le nuvole.
Quando scendo il paesaggio che trovo non è esattamente come me l’ero immaginato, né come si vede nei servizi televisivi che trasmette la capitale. Le macerie di quello che un tempo era il distretto non mandano fumo, semplicemente in superficie la vita è pressochè assente.
Haymitch ci viene incontro appena mettiamo piede a terra – Ben arrivati – ci dice, ma non riesco a capire se non sia contento di vederci, o semplicemente è il suo tono di voce che proprio non ce la fa ad essere più gentile. Un grande ascensore ci accompagna nel sottosuolo, la prima cosa che penso è che non mi piacciono gli ascensori, mi ricordano le cabine di lancio che ti portano nell’arena, ma cerco di non pensarci.
-Tu, al comando – ordina Haymitch puntando un dito nella mia direzione, sembra quasi una minaccia –E tu… tu…oh, al diavolo! Non lo so,segui l’altra gente! – così dicendo liquida Sam e prendendomi sotto braccio mi trascina ovunque sia “il comando”. Non posso crederci che siamo appena arrivati e già siamo stati divisi. Haymitch si ferma davanti ad una porta, come per controllare che sia quella giusta, poi entra, io dietro di lui, sembro la sua ombra.
La sala in cui siamo è una specie di prodigio della tecnologia:computer parlanti occupano le pareti, mappe digitali con lucette che si illuminano ad intermittenza mostrano non so bene cosa e un enorme tavolo rettangolare con sopra quadri di comando, riempie la stanza. – Presidente – chiama Haymitch.
Aspetta, è forse un tono riverente quello che ho appena sentito? Haymitch, mi sorprendi!
Tra un piccolo gruppo si gira una testa, è una donna sulla cinquantina, capelli grigi chiarissimi e di un’uniformità impressionante. – Questa è Anna Wellington – mi presenta Haymitch spostandosi di lato per permettere alla donna di vedermi.
‘Non esattamente’ penso nella mia mente, ‘io sono Jenna’
Nella penombra che le pareti scure sembrano donare alla stanza, mi permetto di fare un passo avanti, come avessi paura che non riuscisse a vedermi. Ma sembra essere stato uno sforzo inutile, perché lei è già schizzata via, dopo aver fatto ad Haymitch un breve cenno con la testa; sembra sia molto occupata, come ogni singola altra persona in questa stanza. Mi volto verso Haymitch e alzo un sopracciglio. Insomma, cosa si aspettava? Chissà quanto hanno da fare in questo momento,penso sia meglio rimandare i convenevoli. Infondo non sono certo un’entità di troppa rilevanza per l’andamento della nazione, dentro questa sala invece sembra si stia decidendo delle sorti di Panem. Haymitch fa roteare gli occhi e storce il naso e come un bambino petulante raggiunge di nuovo il presidente cercando in tutti i modi di attirare la sua attenzione. Alla fine si avvicina un po’ di più e le dice qualche parola all’orecchio. La donna dai capelli grigi si volta di scatto verso la mia direzione con ritrovato interesse. Mi domando cosa mai le abbia detto per suscitare in lei un tale interesse nei miei confronti. Sulla faccia di Haymitch si dipinge l’espressione soddisfatta di chi sta pensando ‘Cosa ti avevo detto?’. Con pochi passi, la donna mi raggiune e mi si piazza davanti
-Alma Coin – mi porge la mano, allungo anche la mia, ha una stretta salda – Anna Wellington – mi presento di nuovo cercando di non perdere il contatto visivo. Poi si volta e comincia a camminare verso uno schermo che occupa tutta la parete, Haymitch mi da una spintarella invitandomi a seguirla. Proprio quando siamo arrivati così vicini alla parete che ho paura voglia entrarci dentro, si ferma. – Questa è la situazione nei vari distretti – annuncia fissando la mappa. Sulla parete si illuminano e si spengono diverse lucette. Faccio finta di capire cosa vogliano significare.
– Attualmente sono in corso rivolte nei distretti 3, 4, 6, 7, 8, 11 e 12. Negli altri distretti si sono tentate manovre d’insurrezione ma sono state tutte represse dai pacificatori e dalle autorità – spiega. Ho un tuffo al cuore, anche nel 7 è in corso una rivolta. – Ma noi non demordiamo, secondo le nostre fonti, presto si ritenteranno rivolte nel 5, 9 e 10 – continua – E, nei distretti in cui è già in corso una rivolta, sta procedendo tutto bene? – domando con un po’ di apprensione – Stiamo facendo tutto il possibile per tenerci in contatto con questi distretti, sappiamo per certo che sono a buon punto, ogni giorno inviamo hovercraft che vanno a prendere la gente per portarla qui. Di ora in ora la situazione sembra migliorare, ma siamo ancora in alto mare su molte cose. Nei distretti 1 e 2 la faccenda è più complicata, solo piccoli gruppi sono arrivati qui – dice.
Si, sono sempre stati i distretti preferiti dalla capitale, quelli più vicini ed attacati a Capitol City, quelli che se la passavano meglio, i privilegiati. Ma non posso credere che non abbiano voglia anche loro di ribellarsi, è impossibile, forse ci sono dietro altre faccende politiche e militari di cui non sono a conoscenza.
All’improvviso mi rendo conto che io sono qui a fissare lucette intermittenti su monitor grandi quanto una parete, ma non ho la minima idea di dove siano i miei amici, devo vederli, devo parlarci.
-Come stanno tutti? – chiedo senza preavviso ma Haymitch ovviamente capisce al volo –Katniss per ora è ancora molto debole è sotto le cure mediche dei dottori del distretto, quando si sveglierà potrai vederla. Anche Finnick, le sue condizioni sono migliori, ma è molto provato … - dice
-Gli altri?- domando –Gli altri chi? – chiede lui con un tono fin troppo innocente. Come se non lo sapesse, non sopporto che faccia finta di non aver capito, mi rende nervosa, sa benissimo di chi parlo. Haymitch sospira –Ascolta dolcezza… - inizia, con un’occhiataccia gli faccio presente che non mi piace il suo nomignolo e gli intimo di andare avanti – Diciamo che, c’è stato qualche intoppo – continua – Che stai dicendo, Haymitch? – abbaio –Sto dicendo che Peeta è stato preso da Capitol City e con lui anche Johanna – dice alla fine in un sol respiro.
Perché qualcosa deve sempre andare storto?
‘Oh, è la tua vita, Jenna, dovresti saperlo ormai che niente fila liscio’
 
In un secondo mi ritrovo a scappare verso l’uscita della sala, molte braccia mi si stringono attorno cercando di bloccare la mia corsa, ma io sono più veloce, lo sono sempre stata. Le persone si spostano quando mi vedono correre nei corridoi e quelle che non mi lasciano passare le scanzo io senza troppe cerimonie. Non conosco questo posto, non è casa mia, non sono nei miei boschi, sono sottoterra, non so dove sto andando, sono arrivata da poco e già sto scappando. Penso che corrrerò finchè non mi bruceranno i polmoni, correrò finchè non sarò così stanca da non avere la forza di pensare a quello che ha detto Haymitch.
Ma mi sembra impossibile riuscire a non pensarci. Johanna è stata presa da Capitol City insieme a Peeta. Johanna, la mia amica ora è prigioniera del nemico, come mia sorella. Un altro ostaggio per cui il presidente non ha intenzione di chiedere un riscatto, un’altra ingiustizia, un’altra persona che non sono riuscita a salvare. Mi sento così inutile, così in colpa. Mentre io ero su un hovercraft ad immaginarmi come sarebbe potuto essere il distretto 13, Jo veniva fatta prigioniera. Bell’amica che sono, l’ho lasciata lì, ho dato per scontato che fosse andato tutto bene. Niente è andato bene.
‘Non potevi saperlo, smettila di prenderti colpe che non sono tue, Jenna’
Io… io avrei dovuto fare qualcosa! Io…
‘E cosa potevi fare?’
Non lo so, io…
‘Niente’
Niente.
 
Penso di essere finita in una specie di scuola, sulla porta che ho davanti c’è scritto “Centro studi”, smetto di correre, entro dentro, non c’è nessuno. Devo smetterla di pensare, un giorno di questi a forza di pensare diventerò pazza. Devo distrarmi, pensare ad altro, come si fa a pensare a certe cose a caldo? Mi sembra che il cuore voglia uscirmi dal petto se penso a Jo rinchiusa in chissà quale cella a Capitol City, se penso a mia sorella…
‘Non pensare, Jenna’
Mi rigiro tra le dita un paio di matite colorate, in quest’armadio dove sono entrata è pieno di articoli scolastici completamente nuovi. Per molti di noi che vivevamo nel distretto 7, ma penso fosse così anche per la maggior parte degli altri distretti, le matite colorate erano un lusso, non potevamo permettercele, se avevi delle matite colorate, a scuola eri una piccola celebrità. Bastava poco per sentirsi felici: matite colorate, calze non bucate, nastri per i capelli… non avevamo nulla, eppure era tutto maledettamente più semplice.
Penso mi stiano cercando là fuori, in realtà non me ne importa molto, a parte di Sam, se mi sta cercando lui, mi importa, non vorrei si preoccupasse. Ma Sam sa come sono fatta, probabilmente se anche sapesse della mia fuga, non mi cercherebbe, semplicemente rimarrebbe immobile dov’è, aspettando che sia io a raggiungerlo quando ho finito di avercela con il mondo, perciò non mi preoccupo. A dire la verità, penso che non la smetterò mai di avercela con il mondo, è un posto troppo bastardo per non avercela con lui e la vita sa essere altrettanto stronza, certe volte, molte volte, quasi sempre.
La matita che ho in mano è azzurra. Penso che l’azzurro sia il mio colore preferito, non ho mai sprecato molto tempo a chiedermi quale fosse il mio colore preferito, o quale tipo di vestiti mi piacesse indossare, o che piatto mi piacesse di più mangiare… suppongo non avessi il tempo di pensare a queste cose, suppongo che perdere una madre, avere un padre divorato dall’alcool e una sorella delicata come un fiore mi abbia fatto concentrare di più sulle cose pratiche della vita.
Comunque l’azzurro è il mio colore preferito, il fatto di averlo deciso ora, in quest’armadio in cui mi sono rifugiata per scappare dal mondo è alquanto squallido, ma penso lo sarebbe stato di più non avere un colore preferito.
‘Sai cos’altro è squallido, Jenna? Rimanere chiusa dentro un armadio’
Zitta tu!
Sbuffo , alla fine vince sempre lei…con cautela apro l’anta dell’armadio e sguscio fuori. Cerco di essere naturale mentre mi mescolo alle persone che camminano per i corridoi, imito i loro sguardi e i loro passi decisi, anche se non ho la minima idea di dove stia andando. Poi mi sento trascinare dentro una stanza, qualcuno mi ha preso per il colletto della camicia – Si può sapere dove diavolo eri, ragazzina? - mi chiede Haymitch, ha le braccia conserte e un’espressione risentita, incrocio anch’io le braccia al petto, qua l’unica che può fare l’offesa sono io.
-Non sono fatti tuoi – taglio corto, lui sbuffa e mi afferra per un braccio –Andiamo – dice e ancora una volta mi ritrovo a vagare per i corridoi affollati del distretto 13. Haymitch sembra una guida turistica mentre mi mostra i luoghi più importanti del distretto: le cucine, l’infermeria, la mensa, il comando che già conoscevo, le unità abitative e alla fine ci fermiamo nella sala dell’addestramento. Alcuni si stanno allenando, chi spara su un bersaglio, chi tira con l’arco, due persone stanno improvvisando un corpo a corpo su un materassino. Mi fermo a guardarle mentre smangiucchio un panino che sono riuscita ad estorcere alle cucine, nonostante le rigide regole. Sono già tre combattimenti che guardo e sono stati tutti vinti dalla stessa ragazza. Alla fine del terzo, si appoggia un attimo al muro per riprendere fiato, mentre il ragazzo che è appena stato battuto cerca di sotterrarsi per la vergogna. La guardo un attimo, i capelli ramati appiccicati al viso, la fronte imperlata di sudore, ha il corpo minuto, ma si vede che è un fascio di muscoli, ha l’aria di essere piuttosto giovane. Deve essere imbarazzante essere battuto da una femmina per un ragazzo, me ne rendo conto, commettono sempre lo stesso errore, mai sottovalutare l’avversario, soprattutto se è una femmina, soprattutto se è così carina, la bellezza in generale distrae e i suoi abiti attillati ancora di più.
- Chi è il prossimo? – domanda staccandosi dal muro, per un attimo regna il silenzio.
Io da piccola ero un’attaccabrighe, capitava spesso che venissi coinvolta in piccole risse, eravamo solo ragazzini, ma le davo di santa ragione, me lo ricordo bene, una volta ho avuto un’azzuffata anche con Sam, dev’essere stato intorno agli undici anni, non mi ricordo neanche il perché, ma rido al ricordo – Io – dico alzando una mano, la risata ancora in bocca.
Haymitch mi guarda sbigottito, gli mollo in mano il panino che stavo mangiando. Devo essere matta, che mi salta in mente? Non riesco a smettere di ridere. Mi levo la camicia e anche questa la lancio ad Haymitch, con le mani alliscio la canottiera che avevo sotto. Poi raggiungo la ragazza al centro del materassino. Ci scrutiamo, ognuna guarda negli occhi dell’altra, ma appena incrocio i suoi sento una fitta al petto, proprio all’altezza del cuore. I suoi occhi. Stringo tra le dita la pietra che ho appesa al collo. Ares. I suoi occhi, sono uguali a quelli di lui, non riesco a smettere di fissarli.
-Allora? – domanda un po’ brusca, devo averla guardata troppo a lungo. Annuisco cercando di non guardarla negli occhi, anche lei annuisce, si mette in posizione, io rimango ferma dove sto, i piedi ben piantati a terra. Quando capisce che non ho intenzione di assumere nessuna posizione di partenza comincia. È lei la prima a muoversi, mi si avvicina quanto basta, tira qualche pugno, ma è l’aria che sta picchiando, io sono già sparita, si gira di scatto e mi fissa per un momento, sono dall’altra parte del materassino… si, sono abbastanza veloce, cara.
Un secondo dopo mi è di nuovo addosso, ricomincia il suo attacco, riesco a schivare quasi tutti i colpi, ma non riesco a coprirmi il fianco in tempo e mi becco un calcio fra le costole. Boccheggio per un attimo, poi riprendo fiato e cerco un modo per attaccare. Ma la ragazzina si dimostra più in gamba di quando sembrava già e riesce a schivare o a parare la maggior parte dei miei colpi. Alla fine più esasperata che altro, provo a farle perdere l’equilibrio, infilo una gamba tra le sue e in un attimo è a terra. Sono più pesante perciò riesco ad immobilizzarla sotto il mio corpo, ma lei si muove come una furia e dopo un paio di tentativi ribalta le posizioni. Mi assesta un pugno sulla mascella, incasso il colpo. Con una ginocchiata riesco a levarmela da sopra, sguscio lontano, per riprendere fiato un secondo, mi tasto la mascella nel punto in cui ho ricevuto il colpo, mi fa male, probabilmente si gonfierà. Che diavolo sto facendo? Non riesco a smettere di ridere, devo essere impazzita totalmente ormai. Credo lo pensi anche lei mentre mi guarda di traverso, non è tanto normale una che si sbellica dalle risate mentre sta facendo un combattimento corpo a corpo, ma del resto, non ho mai detto né preteso di essere normale.
Continuiamo a darcene di santa ragione finchè alla fine non crolliamo esauste sul materassino con il fiato corto, la guardo, ha il viso arrossato e coperto di sudore e un taglio sul labbro, io non devo essere messa tanto meglio, mi sento tutta indolenzita, domani sarò coperta di lividi. Al solo pensiero mi do della stupida e non riesco a trattermi un’altra volta dallo scoppiare a ridere, lei mi guarda un attimo intontita, poi scoppia anche lei in una risata liberatoria. Mi metto in piedi e la aiuto a rialzarsi, è strano, era tanto tempo che non mi sentivo così, mi sento bene, nonostante mi faccia male dappertutto.
Siamo in piedi, una di fronte all’altra, la mia espressione torna seria. I suoi occhi. Non può essere lei… - Diana – annuncia tendendomi una mano. È lei. Rimango paralizzata, lo sguardo incastrato nelle sue iridi di ghiacchio che tanto mi ricordano quelle di Ares – Anna – dico alla fine svegliandomi dal mio torpore – Lo so – dice secca annuendo. Che diavolo vuol dire ‘lo so’?
-Non si scorda il volto di chi è sopravvissuta al posto di tuo fratello – continua, l’espressione rigida, i lineamenti del viso induriti, eppure non c’è traccia di rabbia nella sua voce, c’è solo quel gelo che congela anche me. Mi ha riconosciuta, ma è rimasta impassibile, com’è possibile che non provi risentimento nei miei confronti? Dovrebbe odiarmi, io al posto suo mi odierei. In realtà, anche se non sono al suo posto, mi odio comunque.
Senza preavviso si volta ed esce dalla stanza, rimango un attimo intontita a fissare la parete, poi la seguo, quando la raggiungo nel corridoio la prendo per un braccio e la porto nella prima stanza vuota che trovo. Devo parlarle, devo dirle quelle parole che non ho mai detto, non importa se non vuole sentirle, se non ne ha bisogno, ne ho bisogno io.
Ma non mi ero resa conto di quanto fosse difficile tradurre i pensieri in parole, ora che ce l’ho davanti ogni cosa che penso e che sto per dire mi appare stupida e senza senso, inadeguata, sbagliata, ma non esiste qualcosa di sbagliato da dire, esiste solo quello che sento. Così rinuncio a formulare pensieri che mi soddisfino e lascio che le parole mi escano come un fiume in piena su cui non ho alcun controllo – Lo so che non è giusto. Non è giusto che io sia viva e lui sia morto, lui avrebbe dovuto vivere, io sarei dovuta morire in quell’arena. Non meritavo di vincere e se non fosse stato per lui, non sarei qui… - la voce mi si spezza, le lacrime minacciano di farsi strada sul mio viso –Io…gli volevo davvero bene e mi dispiace così tanto…– dico alla fine, vorrei continuare, ma quelle stesse lacrime che cercavo di trattenere,cominciano ad uscirmi prepotenti dagli occhi e bloccano la voce. Diana mi fissa, il suo sguardo è severo, non ha mai smesso di esserlo –Mio fratello ha preferito far vivere te che salvarsi. La vita è… era la sua, ha fatto una scelta ed io la accetto, non la capisco, ma la accetto – dice, la voce ferma, non incrinata dall’emozione, non tremolante per le lacrime che cerca di trattenere, i suoi occhi sono asciutti. Mi chiedo come fa. Forse ha elaborato il dolore, ha sofferto così tanto che ormai ha accettato di conviverci, o forse non vuole mostrarsi debole davanti a me? Io non ho avuto problemi a piangere davanti a lei, non mi sono neanche posta il problema, che senso ha far finta di avere il cuore di pietra? Forse non fa finta… era suo fratello, come fa ad accettare la scelta che ha fatto? Io non ce la farei mai.
All’improvviso mi accorgo che sto stringendo tra le mani la pietra che ho al collo, i suoi occhi si spostano su questa, non è giusto che la tenga io, me la levo e gliela porgo. Lei la prende delicatamente tra le mani, come fosse la cosa più preziosa che c’è, la stringe tra le dita e chiude gli occhi come per voler imprimere dentro di sé un ricordo. Forse il suo cuore non è di pietra. Mi aspetto di trovare l’ombra delle lacrime quando riapre gli occhi, invece quando lo fa non ci sono lacrime e nemmeno le ombre, c’è solo un’emozione lontana che si perde nelle sue iridi prima che possa riuscire a capire quale fosse.
Lentamente allunga un braccio e mi restituisce il ciondolo – No, lo ha dato a te. È tuo – dice semplicemente – Ma tu sei sua sorella – la mia voce esce sottile, sorpresa dal suo gesto, sul suo viso si fa strada un sorriso velato di tristezza – E tu sei la ragazza di cui si era innamorato – mi risponde e le sue parole sono come un pugno nello stomaco, si volta ed esce dalla stanza, lasciandomi da sola a fare i conti con i ricordi e i sensi di colpa.
 
Quando decido che mi sono fatta abbastanza del male esco anch’io dalla stanza. Vago per un po’ lungo i corridoi fin quando non trovo l’unità abitativa che è stata assegnata a Sam e quindi anche a me. Scivolo dentro in silenzio, tutto dentro l’abitazione ha quello strano odore che sa di ospedale, di asettico e pulito, francamente lo odio questo odore. Guardo interdetta i due letti singoli che occupano la camera da letto, non ho intenzione di dormire divisa da Sam, non qui in questo posto che odora di ospedale, non qui che non è casa mia. In realtà, non ho intenzione di dormire divisa da Sam in nessun posto, punto, così unisco i due letti piccoli a formarne un grande e mi rufugio tra le sue braccia forti.
 
Qui al distretto 13 tutto odora di ospedale: le stanze, gli oggetti, il cibo, persino le persone; non sono sicura che mi piaccia questa cosa, è un odore innaturale. Inoltre le persone del distretto seguono regole molto rigide, sono assolutamente vietati gli sprechi, di qualsiasi cosa, anche di tempo. Infatti ognuno la mattina deve ficcare il braccio destro in un aggeggio sulla parete che ti tatua con un inchiostro viola il tuo programma giornaliero, la sera quando fai il bagno l’acqua toglie l’inchiostro e il tuo braccio ritrorna pulito, pronto per essere imbrattato il giorno dopo da un nuovo programma. Io da quando sono qui non l’ho mai fatta questa stupidaggine.
A parte il primo giorno, sono stata lasciata in pace per circa una settimana, ma ora è da un paio di giorni che Haymitch non mi molla un attimo. Mi trascina di qua e di là, mi coinvolge nelle riunioni, non capisco perché lo fa, così come non capisco il fatto che continui a tollerare il mio non fare assolutamente nulla, perché è questo che faccio quando non mi costringe a fare qualcosa lui, nulla. Ogni tanto mi punzecchia, proprio come sta facendo ora – Hai intenzione di continuare a rubare l’aria che respiri in questo posto? Oppure vuoi cominciare finalmente a renderti utile? – mi provoca usando un’espressione che qui ho già sentito più di una volta, qui non tollerano lo spreco, una persona che non fa niente, è uno spreco. Scrollo lo spalle, mi becco le sue battutine tutti i giorni ma mi lascia ugualmente fare quello che voglio –Suppongo che quando la nostra ghiandaia imitatrice Katniss Everdeen si sarà svegliata non ci sarà più bisogno del mio aiuto, penserà a tutto lei e tu la smetterai di rompermi – lo prendo in giro, lui fa finta di allisciarsi una piega sulla giacca –Katniss Everdeen si è svegliata – mi informa. Spalanco gli occhi, quando aveva intenzione di dirmelo? – Quando? – domando subito – Stamattina – risponde mentre incrocia il mio sguardo – Finnick? – chiedo speranzosa –Lui si è già sveglio da un paio di giorni – ammette – Perché non me lo hai detto?- sento la rabbia farsi strada dentro di me, dovevo essere là appena si fosse svgliato, dovevo aiutare il mio amico. Haymitch sembra leggermi nel pensiero quando mi risponde – Non c’era niente che tu avresti potuto fare per lui, credimi, ora puoi andarlo a trovare, sicura che almeno ti ricoscerà – lo guardo sbigottita, stava così tanto male da non riuscire a riconoscermi? Fisso Haymitch in attesa di qualche altra notizia sul mio amico, ma lui non me ne da altre –Katniss Everdeen si è svegliata – ripete invece –Ma noi continuiamo ad avere bisogno del tuo aiuto, dolcezza– finisce la frase con un sorriso sghembo, non faccio neanche in tempo a scoccargli un’occhiataccia per il nomignolo che lui è già sparito. Per un attimo mi chiedo cosa abbia voluto dire con quella frase, ma decido di non dargli troppo penso, infondo è Haymitch, mi godo per un secondo il fatto di non averlo continuamente tra i piedi come è stato per gli ultimi due giorni e poi mi precipito da Finnick.
L’odore di pulito e l’aria asettica si fanno più insistenti mano a mano che raggiungo la parte del distretto in cui si trova l’ospedale, quando finalmente mi ci trovo dentro ho l’istinto di tapparmi il naso, ma reprimo l’impulso, non certo per educazione, semplicemente dovrò farci l’abitudine dato che qui tutto ha quest’odore. Un’infermiera dal tono gentile dopo aver notato i lividi che mi ha lasciato come ricordo Diana e avermi dato una pomata verdognola, mi accompagna alla stanza del “Signor Odair”, come lo chiama lei, a sentirglielo dire un sorriso si allarga sul mio viso.
Quando entro Finnick sta annodando il suo pezzo di corda, fa un nodo, poi lo scioglie e poi lo rifà per poi riscioglierlo ancora. Lo osservo in silenzio per un paio di minuti, le abili dita lavorano sicure ed esperte compiendo gesti che ormai conosce a memoria, alla fine alza lo sguardo e incrocia il mio. Un sorriso lumioso si fa strada sul suo viso e contagia anche gli occhi, gli sorrido di rimando, batte il palmo della mano vicino alla sua gamba, così mi avvicino e mi siedo sul letto accanto a lui.
-Allora? Hai intenzione di startene lì impalata? Puoi abbracciarmi, non mi rompo mica! – è sempre il solito Finn, rido piano mentre lo avvolgo tra le mie braccia con delicatezza –Voglio un abbraccio vero! – dice stringendomi ed anch’io lo stringo di più tra le braccia mentre soffoco una risata sulla sua spalla –Oh Annie – sussurra col viso tra i miei capelli, mi irriggidisco. Non so come comportarmi. Dovrei fare finta di niente, oppure dovrei dirgli che non sono la sua Annie? Forse Haymitch non esagerava quando diceva che un paio di giorni fa non mi avrebbe certamente ricosciuto, non mi riconosce neanche adesso… Oh Finn, cosa ti è successo?
Mi stacco lentamente da lui - Finnick, ascolta… io non sono Annie – bisbiglio a mezza voce, come se avessi paura che le mie parole dette a voce alta potessero fargli più male. Lui mi guarda per un momento con aria interrogativa, la testa inclinata di lato –Sei stata tu a dirmi che potevo chiamarti così… sulla terrazza, prima dell’edizionde della memoria… ricordi? – mi sento un’idiota, qui l’unica che non si ricordava qualcosa ero io. In un attimo la sua epressione cambia e scoppia a ridere –Ehi, non sono così andato!Qui dentro funziona ancora tutto bene! – dice picchiettandosi la testa. Rido di gusto anch’io, con le lacrime agli occhi, perché nonstante tutto nelle sue iridi verdemare riconosco Finnick, quello di prima dei giochi, quello che è stato come un fratello mentre eravamo a Capitol City, il mio Finn.
-Ed ora ti prego, portami fuori di qui – dice con la risata ancora in bocca. Non sono sicura che si possa fare, anzi so già che non si può fare, ma lui si è già staccato i fili e gli aghi che aveva al braccio; il fatto che non suoni nessun allarme subito dopo che l’ha fatto mi convince che forse a parte il pallore e le occhiaie, sta bene e mi dico che non c’è niente di male a farlo uscire per un po’ da questo posto che puzza di malattia, lui al posto mio lo farebbe per me.
Non ci sono molti controlli, infatti riusciamo a svignarcela in fretta. Male, ora Finnick è con me, ma se fosse stato solo? Se ne sarebbe potuto andare con molta facilità, troppa. Non mi piace, sta bene, ma è ancora troppo debole, non può andarsene in giro da solo quando gli pare e piace, dirò ad Haymitch di dare una strigliata alle infermiere.
Camminiamo per pochi passi per il corridoio, poi mi rendo conto che forse non è la cosa più saggia da fare per non attirare l’attenzione, non con Finnick Odair con solo il camice addosso, me ne accorgo dalle occhiate che gli lancia la gente quando gli passa dietro – Finnick, ma non hai nulla sotto? – domando ridendo – No, sono un malato, ricordi? Mangiamo pappette come i neonati, ce ne stiamo in luoghi che puzzano e andiamo in giro con il culo all’aria – sentenzia alzando le sopracciglia –Perché, trovi che questo – dice mentre assume una ridicola posa provocante –Possa distrarti? – non riesco a trattenere una risata che gli scoppia in faccia e contagia anche lui.
Non so dove andare per farlo distrarre un po’ senza farci scoprire, perciò lo porto all’armadio dove mi sono rifugiata il primo giorno, con me ha funzionato, penso.
Ci sediamo uno di fronte all’altra, gli passo la scatola di colori mentre io prendo la matita azzurra, lui guarda il colore nelle mie mani e capisco che l’azzurro è anche il suo colore preferito, sorrido mentre lo do a lui e ne prendo un altro dalla scatola. Insieme cominciamo a disegnare sulla parete interna dell’armadio, non sono molto brava a disegnare e nemmeno Finnick, ma infondo non importa – Mi dispiace di non averti portato in un posto migliore, ma non mi è venuto in mente niente, non conosco molti posti… - comincio, ma lui mi interrompe – Qui, con te, è perfetto – dice con un sorriso sincero, sorrido anch’io guardando i nostri disegni storti.
Qui, con lui, è perfetto.









Angoletto dell'autrice: Rieccomi, stavolta con un capitolo più lungo, non mi pronuncio sul contenuto, anche se devo dire che mi è piaciuto scriverlo, è stato...liberatorio :D   Detto ciò, lascio giudicare a voi!
Per chi non l'avesse riconosciuto, l'armadio con dentro il materiale scolastico in cui si rifuggia Jenna, è lo stesso che è descritto nelle prime pagine di 'Il canto della rivolta', in cui si rifugia Katniss, non lo so, mi piaceva l'idea che avessero questa cosa in comune.
Come avete letto ho fatto dire a Finnick la stessa battuta che dice davanti a Katniss e Boggs, suppongo che neanche qui ci sia un vero motivo, mi è venuta in mente la scena di lui che gira con il camice da paziente per i corridoi del distretto 13 e la gente che si gira per guardarlo... l'ho dovuta scrivere! ahahahahahahah
E niente, per qualsiasi domanda, dubbio, parere, considerazione e quant'altro, io sono sempre qui, nel vero senso della parola, ultimamente ho preso residenza su EFP! 
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, mi farebbe molto piacere se mi lasciaste un vostro parere. Spero a prestissimo, un bacio, Akilendra


 
  
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