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Autore: Eos del Tramonto    20/11/2013    0 recensioni
Gli era superiore, ma lo faceva infuriare. E mentiva, dannato, non c’era bisogno della legilimanzia per esserne sicuro.
Eppure non c’era solo questo. La rabbia aveva radici più profonde. Più antiche. Nascoste.
Non ne aveva motivo in fondo. Gellert Grindewald era la prova vivente che lui aveva ragione.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Gellert Grindelwald, Tom Riddle/Voldermort, Voldemort
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Disclaimer: Ovviamente i personaggi della Rowling non mi appartengono, né io guadagno alcunché da questa storia.

Note: Una piccola fatica, per ricordarmi che ancora sono in grado di scrivere, nata totalmente per caso. Dovrebbe essere collegata a un’altra storia che sto scrivendo, su Gellert e Silente a King’s Cross. Spero vi piaccia, come a me è piaciuto ricordare questi personaggi.

P.S. Le frasi in grassetto/corsivo sono prese dal libro e sono come Harry vede Voldemort nel settimo libro, al capitolo 23: Villa Malfoy.

Solo un’estate:

…Scivolava attorno alle alte mura della fortezza nera…

Erano resistenti, alte e affilate, come il filo di una spada protesa verso il cielo notturno.
Tuttavia per lui erano nulla, le difese magiche creta molle; sotto i colpi della bacchetta, colavano come burro fuso verso il mare tempestoso.

…ora di volare….

Sopravviveva l’incanto anti-materializzazione, magia antica di cui erano impregnate le mura di giaietto, la difesa originaria insita nella materia per volere del suo stesso creatore.

Si concesse pochi istanti per guardare in basso l’acqua agitata e inquieta, che riifiutava il blu del cielo e inglobava le rocce a picco e le scogliere scabre, ornandosi di spuma bianca. Odore salmastro. Odore di efferatezza, per lui. Nessun ricordo però lo prese. Nessun effetto Proust. Per ricordare le cose piacevoli, lui aveva bisogno di ripetizione.
Esercizio. Meccanica. Il resto gli sfuggiva.

Roteò la bacchetta descrivendo un semiarco attorno alla sua figura, senza proferir parola. Il cielo era vuoto.

…E si sollevò nella notte e volò fino alla finestra in cima alla torre…
La torre era unica, liscia di metallo e pietra molare, levigata da magia, rancore, vento e spuma.

Sapeva dov’era. Sapeva che era solo.

Un tempo le celle erano piene. Di urla, di corpi, di desideri soffocati.

Non era come Azkaban. Forse era meglio, forse peggio. Nurmengard non aveva avuto bisogno di dissennatori, perché non ospitava malvagi, criminali o folli, ma solo oppositori.

Gente che sapeva amare la libertà e che non aveva mai affrontato seriamente l’idea che qualcuno avrebbe potuto considerarla un male. Persone a cui non era mai saltato in testa che vivere e soffrire e gioire e amare e altro potessero dividersi in categorie giuste e sbagliate e doverne rendere conto a qualcuno. Per cui essere imprigionati ed essere deboli bastava a levare a molti la speranza, senza la protezione di aver commesso un peccato consapevolmente.

Per il Bene Superiore.

…La finestra era una strettissima fessura nella pietra nera, non grande abbastanza da far passare un uomo…Dentro si vedeva una sagoma scheletrica, rannicchiata sotto una coperta…Morta o addormentata?

Perfino i ladri e gli assassini si rifiutarono e fecero valere i loro diritti. Ci sono i ricorsi anche nel mondo dei maghi, come anche le associazioni per i diritti umani. Furono mandati in altri penitenziari e Nurmengard rimase prigione solo per lui.
Nemmeno i cattivi volevano essere rinchiusi dove il più cattivo rinchiudeva i buoni.

Inoltre i buoni avevano la possibilità di esser sottilmente crudeli a lasciarlo lì da solo, nella cella più alta e stretta, mentre le sale ricche, in cui si era goduto le torture altrui, erano mangiate dai vermi.  

…Si insinuava come un serpente nella fessura della finestra e calava, lieve come vapore, nella stanza simile a una cella...
Naturalmente lo conosceva. Le sue imprese lo avevano incuriosito, in un’altra epoca. In lui però non c’era spirito di emulazione. Nemmeno per Silente.

Voldermort era simile solo a se stesso.

Forse Silente avrebbe voluto risparmiargli questo. “E’ lontano il tempo…”

…La figura emaciata si mosse sotto la coperta sottile e rotolò verso di lui…Gli occhi si aprirono in un volto scheletrico…L’uomo gracile si alzò a sedere, i grandi occhi infossati fissi su di lui, Voldemort, e poi sorrise. Aveva perso quasi tutti i denti…

Faceva un freddo davvero porco. Eppure a lui non dava fastidio, era abituato.

La coperta non serviva di certo come schermo, era solo un po’ di stoffa che aderiva alla carne, mentre i vestiti erano ridotti a brandelli e fili consunti e sudici.

La prigionia lo aveva disabituato al contatto umano al punto da non aver più coscienza della propria figura, non potendo confrontarsi e misurarsi nello sguardo di qualcun altro. Era rimasta solo la coperta che, modellandosi sul suo corpo, gli dava percezione delle rientranze e dei contorni, sempre più sottili.

Eppure, nonostante ciò, lo sentì. Sapeva.

O meglio, intuiva.

Non più come gli umani, per mezzo della ragione; non come gli animali con l’istinto. Era come un parassita, con quella pulsione così primitiva alla vita da essere cosciente di altra vita a cui attaccarsi.  

Si liberò della coperta solo per spingere il proprio sguardo oltre la fessura.
Vide uno specchio rosso. Non Voldemort, non gli serviva.
Vide i propri capelli, pochi. Le rughe. La pelle grigia e incartapecorita. Gli occhi acquosi. Le membra nude e scheletriche.

Ah, Gellert caro! Che bello vederti! E come sei cresciuto! Assomigli ai tuoi cari genitori, che bei capelli biondi e che bel viso! Però gli occhi sono della famiglia della zia!
Credo che nelle pubbliche relazioni te la caveresti meglio tu, Gellert. Hai più appeal di me.

Istintivamente sentì gli angoli della bocca arcuarsi, carne molle e pelle flaccida che ricadeva su mascelle scoperte.

“E così sei venuto. Sapevo che saresti arrivato…Un giorno. Ma il tuo viaggio è stato inutile. Io non l’ho mai avuta.”
“Tu menti!”

Era furioso.
Era superiore a lui, ma lo faceva infuriare. E mentiva, dannato, non c’era bisogno della legilimanzia per esserne sicuro.

Eppure non c’era solo questo. La rabbia aveva radici più profonde. Più antiche. Nascoste.

Non ne aveva motivo in fondo. Gellert Grindewald era la prova vivente che lui aveva ragione.

Che Voldemort aveva ragione rispetto a Silente. Erano loro due vivi, non lui! Certo, Gellert era ridotto male, ma era stato potente. Ed era vivo.

E poi c’era lui, nel pieno delle forze, nonostante tutto. Vivo. Vivi. Silente era morto.

Voldermort era riuscito laddove Gellert aveva fallito. Eppure si stavano infuriando entrambi a quella bugia. Sia lui che Tom Riddle.

Mi sono sempre chiesto perché un mago come lei non abbia mai desiderato lasciare la scuola. “Be’, per un mago come me non ci può essere nulla di più importante che tramandare arti antiche, aiutare le giovani menti ad affinarsi.”

Come lui.

Tom rise dentro di sé e la rabbia non passò. Gellert sorrideva, soddisfatto: sapeva di essere bravo a mentire.

 “allora uccidimi, Voldemort, io accetto volentieri la morte! Ma la mia morte non ti darà quello che cerchi…Ci sono tante cose che non capisci…”

Fu piacevole articolare suoni, dopo tanto tempo, per questo si concesse di essere sincero. In fondo era davvero divertito, come non gli capitava da molto.

Silente avrebbe potuto far decisamente di meglio. La sua creatura era un infante, neanche troppo prodigio, fissato per i dettagli insignificanti, con manie incomprensibili, complessi e isterismi trattati con accondiscendenza. Però è difficile prendersela con le proprie opere. Per questo si costruisce qualcosa d’altro, per cancellare il lavoro riuscito male.

Qualcosa che lui non aveva potuto fare. Era tutto…Diverso. Per qualche verso era stato fortunato. Era stato anche piacevole. Ma non era bastato.
Come non era bastato spiegare. Sperimentare. Inventare un ideale. Qualcosa di luminoso, come un caleidoscopio. Una geometria magnifica e inaudita, del tutto assurda, per le sue forme e il suo ricomporsi di continuo. Uno spettacolo di prestigio. Un incrocio vivo di due esseri completamente diversi, da rinchiudere in una gabbia, come un fenomeno da baraccone.

Poi le sbarre si piegano. Il legno cede. L’incanto si rompe. E torni alla realtà.

Poteva bastare per un ragazzino rapito dalla vita ingiusta. Non per l’uomo.
Su quello non aveva mentito. Non poteva farci niente.

Di alcuni tipi di magia. Di altri sei ancora…deplorevolmente ignorante.

Il ricordo è una faccenda strana. E Voldemort aveva ricordato Silente guardando Gellert. Si assomigliavano, seppur in modi diversi.

Sentì crescere l’irritazione dentro di sé. La solita, vecchia disputa.

Gellert era la prova che Voldemort aveva ragione. Nessuno avrebbe mai potuto fargli qualcosa del genere, qualcosa che non aveva mai desiderato. Non gli serviva. E non gli serviva da Silente, meno che mai.

Si dice che Silente sia l’unico di cui il Signore Oscuro si preoccupi.

Silente non l’aveva seguito. O capito. Però era stato interessante provarci, razionalmente, scientificamente, con metodo. Il guizzo intellettuale di uno studente, che cerca un nuovo principio e vorrebbe condurre a sé il maestro.

La rabbia nasceva pensando che qualcuno vi era riuscito. Nel modo che dimostrava quanto avesse ragione, ma non bastava. All’allievo non poteva bastare.

 “Uccidimi allora! Tu non vincerai, non puoi vincere! Quella bacchetta non sarà mai, mai tua.”

Parlare era davvero divertente. Soprattutto perché era piacevole parlare senza sentire la necessità di una qualche importanza nei suoni. Sentiva che non gli importava. E stava bene.

In fin dei conti, non gli apparteneva più niente. Come nemmeno a Voldemort, beninteso.

A lui non era più bastato un armadio infuocato, al pari di Silente, che non poteva più accontentarsi del caleidoscopio in cui l’aveva immerso Gellert.

Il fine era diverso, forse pure il risultato. Ma non c’era alcuna differenza nei metodi.

Era finita come sapevano: Voldermort aveva ucciso il proprio padre, Silente aveva sconfitto e imprigionato  Gellert.

Forse non c’era modo di far di meglio. E per sapere a chi era andata meglio…Be’, era sufficiente guardarsi negli occhi.

Gellert smise di parlare e si distese; dopo tanta lontananza, la coperta si era impregnata del freddo del pavimento. Era abituato. Eppure ricordò solo il calore. Il Sole.

Un’estate.

Voldemort mosse la bacchetta e riempì la stanza di luce. Poi rispose al richiamo e andò a prendere la bacchetta.

L’altro era ricaduto come un ciocco sul pavimento della cella. E sorrideva.


A KING’S CROSS…
A King’s Cross un uomo sedeva su una panca, avvolto in una veste blu. E attendeva, senza muoversi: solo un sospiro gli sfuggì, quando nel candore della stazione, un fischio riempì l’aria. Nessun fumo a macchiare la stazione, solo un treno che pigramente scivolava sui binari.  
 “E’ andato oltre.” Una voce di bambina.
Un altro sospiro smosse quella barba d’argento.
Lui aveva deciso di attendere; già quel giorno aveva capito non vi sarebbero state altri incontri. Avevano preso due strade diverse.
Non avevano mai preso un treno assieme. Non avevano mai camminato assieme verso la stazione, sotto le foglie d’autunno. Non avevano mai visto la neve assieme, quella fitta. Nemmeno il disgelo inglese, quando a Diagon Alley sui balconi fioriscono i gerani.

Fu solo un’estate.
   
 
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