"Danzava Sholeh, alla luce delle lampade, danzava per Alexandròs, il suo re".Breve storia ambientata nella Persia conquistata da Alessandro il Macedone; nessuna pretesa di attendibilità storica
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
Danzava Sholeh, alla
luce delle lampade, danzava per Alexandròs, il suo re.
Danzava Sholeh, alla luce delle lampade, e il ventre d’oro liquido scivolava
sinuoso, come un serpente, sotto le sete rosse; le monete sui fianchi vibravano
irrequiete, l’oro che copriva il petto sussultava e si sollevava a ogni passo,
a ogni respiro, paurosamente, e ai gemiti degli strumenti tutto il corpo si
scuoteva, si accasciava, e di nuovo si rialzava e continuava nei suoi
movimenti, folli, spaventosi, voluttuosi e indecenti.
La danzatrice, la più bella fra le cortigiane, danzava tutte le notti per il re,
che ogni notte chiedeva che si suonasse perché Sholeh potesse danzare; lei,
umilmente, alzava gli occhi di miele colato e li portava sul suo re che,
sconvolto, ammutoliva. E liberandosi dei veli ingombranti, vestita solo delle
sete più leggere e più preziose, e dei suoi più bei gioielli, chiedeva che le altre
fanciulle l’accompagnassero, e tenendosi per mano, in sette o otto iniziavano a
danzare.
Ma alla fine rimaneva solo lei, al centro della sala, coperta delle perle
lucide del suo sudore, e solo lei danzava, solo lei era al centro dell’attenzione,
il rubino più fulgido, il fiore più profumato, la tigre più temibile; e il re
la guardava, guardava il viso d’ebano, liscio e perfetto, dalla forma ovale
senza difetti, guardava gli occhi da felino, immensi, bordati di kajal, incoronati
dalle lunghe ciglia nere, e guardava la bocca, dischiusa, sottile e nobile, e
di nuovo il ventre da serpente, le gambe lunghe e lucide, le stoffe e le
monete, e l’oro e le gemme. E bruciava il re, bruciava silenzioso, consumandosi
placidamente nella pelle scottata dal sole.
Tra tutte le cortigiane che Daariosh, nella sua fuga, aveva abbandonato,
trecentosessantacinque fanciulle belle come dee si diceva, Sholeh dominava,
come una regina, non per bellezza, ma per forza. Ella non si era piegata, né a
Daariosh, né a questo nuovo giovane tiranno che aveva il viso e le sembianze di
un dio dorato e bello, di quelli che si usava adorare a quel tempo fra gli
Elleni.
Un giorno il re l’aveva
chiamata, voleva parlarle. E lei lo ascoltò, ma non proferì parola, per paura
di offendere il nuovo signore; allora lui le raccontò le storie dei suoi dèi,
che vivevano nei cieli e si nutrivano di sola ambrosia, servita da un
bellissimo fanciullo di nome Ganimede. Le aveva detto di Zeus, delle sue
amanti, e dei suoi figli e figlie. Poi le chiese se desiderava qualcosa, e lei,
inchinandosi, chiese il permesso di andare.
Perché non poteva cedere, Sholeh, alla luce di quel dio, perché sapeva, che se
avesse ceduto, tutto sarebbe finito per lei.
Ma Sholeh la danzatrice cedette, e miseramente si abbandonò al dio fanciullo
che era venuto dall’occidente, che aveva strappato il trono e la vita a quel re
cui lei doveva assoluta fedeltà; cedette rosa dai rimorsi, piangente e
tremante, cedette perché era destino che tutto si distruggesse per mano del
conquistatore.
E ora, tutte le notti danzava Sholeh, e rideva, rideva fuori di senno, folle,
ebbra, e danzava senza strumenti, danzava senza monete né gioielli, senza lanterne
a illuminare la sua pelle mora, danzava con i lunghi capelli sciolti, in un
mare di fili di pece, e scivolava fra le fibre stesse dell’oscurità, scivolava
per giungere dal suo dio, che l’aspettava, bruciando lentamente, nel suo freddo
tempio rosso.
Ma Ananke non si fa attendere, e mentre la danzatrice volteggia, tutto
meccanicamente crolla intorno a lei: sono i giorni lieti, i giorni del
matrimonio del re del mondo, Alexandròs, e della principessa Roxanne, la
bellissima barbara.
E Sholeh non può più danzare, perché il suo dio non guarda più lei, e che senso
ha danzare se non per il dio? Così Sholeh non danzò mai più, e come Arianna,
ancora una volta abbandonata, s’impiccò a un albero, dove nessuno l’avrebbe
vista penzolare, dove nessuno avrebbe disturbato il suo dolore.