N.d.A.
Come si comprenderà dal titolo questo penultimo capitolo
è piuttosto tragico,
ma c’è sempre speranza a questo mondo. Fidatevi.
Buona Lettura. L.
CAPITOLO
XIX
DI
DISPERAZIONE, DOLORE E DIODORA
Ron
aveva urlato.
Percy
aveva urlato
Seymour
aveva urlato.
Ma
nessuno all’interno del dipartimento degli Auror aveva
sentito la loro voce.
La vibrazione creata
dall’onda sonora che Audrey
aveva evocato si era infranta contro l’incantesimo scudo
scagliato da Hermione
con lo stesso fragore di mille tuoni che si concentrassero in un solo
punto.
Tutti i presenti erano caduti al suolo come fulminati, tenendosi
disperatamente
la testa tra le mani, privati della vista dall’inteso
bagliore che aveva
pervaso l’ambiente. In piedi era rimasta solo Audrey il suo
corpo
improvvisamente quasi opaco contro il fascio di luce.
Se
qualcuno avesse potuto guardarla ora si sarebbe reso conto che
repentinamente i
suoi occhi che, sino a qualche istante prima erano stati fissi come se
non
vedessero nulla, in un certo senso inumani, avevano ripreso il loro
consueto
colore ed la capacità di focalizzarsi sugli oggetti. Una
piccola lacrima simile
ad una goccia di pioggia che si era posata sulla guancia ancora
luminosa e
candida come la neve di Audrey disegnò un minuscolo rivolo
su una gota.
Con
un suono simile ad un singhiozzo l’Auror ruotò su se
stessa, il suo sguardo ancora
così terribile da sembrare insostenibile si fissò
su Diodora.
La
strega si mosse disperatamente, cercando di raggiungere con il braccio
la
bacchetta che giaceva al di fuori della sua portata, senza poter far
affidamento sulle gambe fratturate. Per la prima volta da quando
l’aveva rapita,
Audrey percepì l’allarme e la sensazione di
vulnerabilità nella sua
sequestratrice.
Chiudendo
gli occhi, Audrey soffiò piano sul pavimento intorno alla
strega. Come dal
nulla l'aria intorno alla strega si condensò, una gabbia
opalescente si
materializzò intorno a Diodora, la bacchetta irraggiungibile
oltre la sua
prigione. Chiusa nel bozzolo creato da quelle che sembravano enormi
zanne
d’elefante la strega strillò tutta la sua rabbia.
Audrey
non la degnò di uno sguardo. Improvvisamente
l’estrema fatica che le era
costata utilizzare l’immenso potenziale magico durante la
battaglia la colse.
Ogni più piccola funzione corporea come respirare o tenere
aperte le palpebre
si stava facendo fisicamente insostenibile. Con le ultime forze che le
restavano, gli occhi che già minacciavano di girare
all’indietro, l’auror si
diresse verso il punto in cui Percy giaceva, le dita saldamente strette
intorno
al manufatto che Diodora aveva cercato di riprendersi.
**
* **
Harry
aprì gli occhi. Tutto intorno a lui era poco chiaro, le sue
pupille quasi
incapaci di vedere dopo il lampo di luce che li aveva accecati. Aveva
l’impressione di scrutare ciò che lo circondava
attraverso uno schermo
lattiginoso.
Alla
sensazione straniante che percepiva contribuiva certamente il fatto che
non
riusciva a percepire più alcun suono attorno a
sé. Il forte dolore che aveva
percepito quando l’incantesimo lanciato da Audrey aveva
impattato contro lo
scudo scagliato da Hermione e il piccolo rivolo di sangue che
gocciolava lungo
entrambe le guance ai lati delle sue orecchie costituivano la prova
tangibile
che lo spostamento d’aria e l’intensità
del suono gli avevano fatto esplodere
entrambi i timpani. Si trattava di un infortunio minore, uno che
avrebbe
richiesto pochi minuti di cure di un Medimago per essere riparato, ma
in quel
momento il suo effetto era a dir poco terrorizzante. La confusione
accentuata
da quel silenzio di tomba.
Facendosi
forza il Bambino-Che-Era-Sopravvissuto-Per-L’Ennesima-Volta
si alzò in
ginocchio e poi in piedi aggrappandosi a ciò che restava di
quella che era
stata una scrivania. La devastazione intorno ai suoi occhi rivaleggiava
quella
di Hogwarts dopo la dipartita di Tom Riddle: a pochi passi da lui,
Seymour
giaceva svenuto, la bacchetta ancora in pugno. L’esplosione
li aveva colti
mentre entrambi cercavano di raggiungere Diodora.
Da
dietro un mucchio di detriti, Harry vide spuntare il giovane volto
pallido di
Fergus Finnigan. Il sangue gli copriva gran parte del volto, ma da
ciò che
poteva capire non si trattava di nulla di grave.
Era
preoccupatissimo, lo vide emettere un sospiro di sollievo accorgendosi
che
Harry era in piedi, salvo, anche se ferito, poi vide le sue labbra
formare una
domanda. Sicuramente il giovane gli stava chiedendo freneticamente
qualcosa, ma
lui non poteva sentirlo. Scosse la testa indicando con le dita le sue
orecchie.
La bacchetta di Harry era praticamente inservibile,
l’esplosione aveva
distrutto gran parte del legno della punta, scoprendone il cuore.
Scostando
un ciuffo di capelli color sabbia ormai raggrumati di sangue coagulato,
Fergus
annuì, indicandogli di star fermo. Accostò la
bacchetta prima ad un orecchio
del Capitano Potter e poi all’altro, mormorando delle parole
inudibili.
“Meglio?”
Il suono giunse alle orecchie di Harry gracchiante come attraverso un
antico
grammofono sul quale qualcuno avesse posato un disco pieno di graffi.
“Ti
capisco.” Mormorò a mo' di risposta.
Fergus
annuì. “Ci vorrà un po’ per
tornare come prima, purtroppo, Capitano.”
“Controlla
Smith, devo trovare gli altri. E guarisci quella ferita alla tua testa,
Fergus.”
L’Auror
si precipitò verso l’auror biondo a pochi passi da
lui.
**
* **
Hector
Rednails riprese pian piano i sensi. Tutto era di nuovo visibile
intorno a lui.
Quanto tutto era esploso, il vecchio Auror si era accasciato contro una
parete
cercando di proteggere con il suo corpo Thabatha. La giovane era
avvolta nelle sue braccia come in un bozzolo, ma la ferita che Fergus
aveva
tentato di rimarginare si era riaperta e, con suo immenso orrore,
Hector si rese
conto che la sensazione umidiccia ed appiccicosa, che sentiva contro il
braccio
dell’uniforme, era determinata dal sangue della sua collega
che aveva inzuppato
la stoffa.
Facendosi
forza, nonostante l’intenso dolore che percepiva per le
contusioni in tutto il
corpo, Hector decise di tentare il tutto per tutto. Smaterilizzarsi con
un
ferito instabile era estremamente pericoloso, ma se Thabatha non fosse giunta al
San
Mungo al più presto non avrebbe avuto alcuna speranza di
sopravvivere.
**
* **
Ciò
che lo colpì per primo fu il suono.
Attraverso
le sue orecchie che avevano da poco iniziato nuovamente a sentire, quel
rumore
giungeva simile ad un latrato. Gli ricordava qualcosa eppure non
riusciva a
dire esattamente cosa. E poi capì, erano anni che non la
sentiva ed ora gli
pareva di sentire la risata del suo padrino, Sirius Black. Quante volte
Harry
aveva desiderato risentirla. Ma c’era qualcosa in quella voce
di altrettanto
familiare, eppure diverso. Non era la voce di Sirius quella che
sentiva, ma
quella del suo migliore amico, di suo cognato.
Per
un momento Harry fu pervaso da un senso di giubilo. Se Ron rideva,
oltre quella
montagna di detriti e macerie che gli impediva la vista, significava
che tutto
era andato per il meglio: Hermione stava bene, il suo bimbo stava bene,
Percy
ed Audrey stavano bene.
Perché
come avrebbe potuto Ron ridere se qualcosa di terribile fosse successo
ad una
parte della sua famiglia?
Ed
allora perché Harry sentiva il sangue gelare nelle vene ad
ogni ulteriore
passo?
Sbucando
oltre le macerie, Harry vide la gabbia eburnea in cui Diodora Mackenzie
schiumava di rabbia e rancore, le sue urla si univano e ricorrevano con
l’unico
altro suono che colpiva le sue orecchie ronzanti.
Poi
mentre i suoi occhi prendevano cognizione della scena devastante
innanzi a sé,
Harry capì.
Non
era una risata.
Non
era un urlo.
Era
il suono più disumano che il Capitano Potter avesse mai
incontrato sulla sua
strada.
**
* **
Neville
Paciock non era un Auror. Non aveva mai avuto il desiderio di esserlo,
non
aveva mai avuto l’inclinazione di combattere in vita sua, ma
era un uomo
coraggioso, suo malgrado. Lo era stato da ragazzo, si era ricordato di
esserlo
quando Hermione Granger-Weasley era comparsa una mattina nel camino
della sua
camera da letto per chiedergli aiuto.
Aiuto.
Non sembrava altro che una parola quando qualcuno si soffermava a
pensarci.
Eppure Neville aveva fatto tutto ciò che era in suo potere
per aiutare il Trio
Magico.
La
sua vita era cambiata il giorno in cui Neville aveva conosciuto una
bimba
saccente dai capelli incredibilmente cespugliosi che si era offerta di
aiutarlo
a cercare Oscar, il suo rospo. Cresciuto fondamentalmente solo, il
bambino
pacioccone, impacciato e spaurito, cercando un anfibio, aveva trovato
degli
amici, uno dei tesori più preziosi della vita.
Molte
volte Neville aveva combattuto nella sua vita a fianco del Trio Magico,
prima
nell’Esercito di Silente e poi nella Battaglia Finale,
diverse volte si era
trovato ad affrontare situazioni spiacevoli e disperate: quando aveva
tagliato
la testa di Nagini con la spada di Godric Grifondoro, il ragazzo non
sapeva
perché uccidere quel tremendo serpente fosse tanto
importante, ma la fede in Harry l’aveva guidato.
Come
quella volta, anche questa Neville aveva accettato di essere parte
della
battaglia, fidandosi completamente della parola dei suoi amici, anche
questa
volta si era reso conto che, per quanto non avesse in fondo mai smesso
di
dubitare di sé, il suo aiuto poteva essere prezioso.
Eppure
in quel momento Neville non sapeva assolutamente che fare. Si sentiva
come
paralizzato nel punto in cui si trovava. I suoi occhi incontrarono
quelli di
Harry e, per un attimo, nonostante le differenze somatiche,
l’insegnante si
sentì come di fronte ad uno specchio: l’orrore e
la disperazione presente negli
occhi dell’amico, simile a quello che sentiva crescere nel
suo petto.
Vide
Harry cominciare a tremare in tutto il corpo, come se un vento gelido
l’avesse
investito, facendogli battere i denti. Fu in quel momento che Neville
comprese
che doveva riprendere il controllo di sé. Era necessario.
Concentrandosi
intensamente sul movimento delle sue gambe, l’uomo si mosse
pian piano, verso il
punto in cui il corpo di Ron Weasley gli appariva per la prima volta da
quando
lo conosceva piccolo. Sapeva che non poteva essere possibile. Il rosso
aveva
sempre sovrastato in statura tutti gli altri, il suo corpo per anni
incapace di
tenere il passo con la costante crescita delle sue ossa.
Eppure
ora, seduto sul pavimento coperto di ciottoli e polvere, la schiena
scossa dai
singhiozzi con il corpo di Hermione tra le braccia, Ron, uno degli
uomini più
forti e coraggiosi che Neville avesse mai incontrato, pareva
più sperduto e
piccolo di un neonato.
A
pochi passi dalla coppia, Audrey se ne stava riversa sul corpo di
Percy. Neville
poteva vedere il corpo dell’Auror respirare flebilmente,
mentre il sangue che
gocciolava dal fianco del procuratore Weasley imbrattava la veste
bianca come
la neve che ancora indossava.
Alzando
lo sguardo verso Harry, urlò “Chiama Fergus,
presto.”
Per
un attimo Harry batté le palpebre come se non avesse
compreso le parole di
Neville, poi annuì e corse indietro per la strada da cui era
venuto.
Cercando
di ingoiare l’enorme groppo che gli ostruiva la gola, Neville
si avvicinò a
Ron, toccandogli la spalla.
“Ron…”
chiamò piano, ma l’Auror continuò il
movimento meccanico simile a un ninnare la
donna che aveva tra le braccia, senza dar segno che aveva compreso.
“Ron,
ti prego…”
Alla
terza volta che Neville pronunciò il suo nome, Ronald
Weasley alzò il volto dal
corpo esanime di sua moglie e per un attimo il suo amico di infanzia
ebbe
difficoltà a riconoscerlo.
Per
tutti gli anni in cui l’aveva conosciuto in Ron
c’era stata come una scintilla,
un'inesauribile forza vitale. La vita l’aveva presa a calci,
maltrattata,
magari oscurata per un poco, ma era sempre stata lì. Ora
quel bagliore di vita
sembrava essere scomparso.
Fissando
gli occhi azzurri del Capitano Weasley per la prima volta Neville non
vi scorse
nulla se non muta, abissale disperazione. Con la coda degli occhi,
prese nota
di Fergus che arrivava trafelato a soccorrere Percy ed Audrey.
“Ho
bisogno di aiuto, Capitano… Non posso… Il San
Mungo… Qualcuno chiami il San
Mungo…”
Le
parole spezzate e disperate del giovane Auror gli arrivarono sommesse,
mentre
le sue mani cercavano di sciogliere le nocche di Ron
dall’abbraccio mortalmente
stretto in cui stringeva l’esile corpo di Hermione.
Sentì
Harry chiamare i soccorsi servendosi del particolare medaglione che
ogni Auror
portava al collo. Era un miracolo che non si fossero tutti infranti con
l’onda
sonora provocata da Audrey. Quello che Ron portava al collo, giaceva
contro il
suo petto, inservibile e spezzato tanto quanto l’uomo che lo
portava.
Vide
i Medimaghi intervenire come al rallentatore. Le barelle apparire
nell’aria
come dal nulla e per tutto il tempo, la voce sommessa di Neville
pregò Ronald
Weasley di mollare la presa, di lasciare andare il corpo senza vita di
Hermione. Nemmeno una montagna avrebbe smosso la volontà di
ferro di un uomo a
pezzi.
Vagamente
udì Harry avvicinarsi, unire la sua voce disperata alla sua.
Vide
Fergus aiutare i medimaghi a trasferire il procuratore Weasley su una
barella.
La
battaglia era stata vinta ancora una volta, ma qual’era il
prezzo ?
Un
sonoro crack segnalò che il ferito era stato portato
all’ospedale.
**
* **
Audrey
riaprì gli occhi sentendo un forte pizzicore in tutto il
corpo.
Le
veniva da vomitare, ma più di tutto sentiva la
mancanza di Percy.
Non sapeva come ma aveva l’acuta certezza che non fosse
più lì con lei.
I
suoi occhi incontrarono alla cieca quelli di Fergus. Il giovane auror
stava
piangendo, ma quando la vide rinvenire tentò di sorridere,
mormorando “Non
preoccuparti Audrey, torneranno presto a prenderti. Il Procuratore
Weasley è al
San Mungo. Andrà tutto bene, vedrai.”
Eppure
la voce di Fergus diceva che nulla andava bene e, poi, Audrey
ricordò, come
qualcuno che nel bel mezzo del giorno a furia di pensare riesce a
ricostruire
il significato di un sogno caparbiamente dimenticato.
Hermione.
Il suo scudo che salvava l’uomo che Audrey amava
più della sua stessa vita,
l’uomo che era stata ad un passo dal disintegrare con le sue
stesse mani.
Hermione
di cui Ron parlava come se camminasse a dieci centimetri da terra, come
se le
sue parole fossero di zucchero filato ed il suo corpo il tempio
più prezioso
che un uomo avesse mai avuto la fortuna di adorare. Nel primo bagliore
di piena
coscienza che aveva avuto dopo giorni di prigionia, aveva sentito
l’urlo di
Hermione, aveva percepito il suo incantesimo infrangersi contro
l’onda di magia
pura che aveva creato. Dov’era ora Hermione?
La
domanda silenziosa nei suoi occhi trovò risposta seguendo lo
sguardo di Fergus.
Tre
uomini con le teste chinate di tre colori differenti stavano
inginocchiati sul
pavimento, quella che sembrava una minuscola bambola di pezza tra loro.
Non
era possibile.
Non
era giusto.
Non
Hermione. Non lei. Non la vita che racchiudeva dentro di lei.
Non
poteva permetterlo nemmeno se quell’ultimo sforzo
l’avesse uccisa. Afferrando
con tutta la forza che le restava il pugno di Fergus,
mormorò quasi
impercettibilmente “Su”.
Vide
l’auror Finnigan scuotere la testa, ma al contempo,
benché si vedesse che non
lo considerava saggio, Fergus l’aiutò a sollevarsi, tenendola
praticamente in
piedi per le spalle, non prima che la destra di Audrey si fosse chiusa
contro
quella sfera liscia come una pietra di fiume che tanto dolore e sangue
aveva
portato.
Sorretta,
praticamente sollevata da Fergus, Audrey si avvicinò al
quartetto con il
manufatto stretto saldamente tra le mani.
Il
volto di Hermione era candido come la neve.
Vide
i tre uomini che la circondavano guardarla in volto, prima che Harry
pronunciasse sommesso “Non è colpa tua.”
Ma
al momento non era una questione di colpe. Era una questione di vita e
di morte
e degli ultimi riverberi di magia pura che Audrey sentiva vibrare nel
suo
corpo. Il manufatto tra le sue mani si era fatto improvvisamente
calmo.
Respirando affannosamente, come dopo una tremenda corsa,
l’Auror lasciò che
tutto il suo corpo fosse investito per l’ultima volta da
quella potenza.
Il
suo corpo cominciò a tremare convulsamente tra le braccia di
Fergus, così forte
che l’auror dovette utilizzare tutta la sua
capacità per non farla cadere.
Come
se fosse allo specchio, anche Hermione cominciò a muoversi
tra le braccia di
Ron, strappando all’uomo un gemito di sorpresa.
Il
corpo dell’Auror divenne per un momento ancora luminescente
mentre allungava la
punta del dito indice verso la guancia di Hermione.
Quando
la pelle di una donna toccò quella dell’altra
successe l’inverosimile. Il
manufatto che Audrey stringeva nell’altra mano volò in aria.
Il corpo di Hermione assunse
per un momento la stessa fosforescenza di quello di Audrey prima che,
come
risvegliata da una scossa elettrica, i suoi occhi si aprissero di
scatto proprio
nel momento in cui Audrey s’accasciava tra le braccia di
Fergus.
Tutto
si fece buio, tranne per le due donne, una che diveniva sempre
più luminosa e
l’altra che perdeva luce. Il manufatto crollò sul
pavimento tra di loro, con un
clang metallico.
Un’enorme
fiamma si sprigionò dal suo interno, vorticò
oltre le teste degli auror e di
Neville infrangendosi contro la prigione di Diodora qualche metro
più in là.
Fu
un attimo.
Il
tempo di sentire il grido della maga.
Quando
staccandosi dal gruppo Harry corse verso di lei, nulla più
restava di Diodora
Mackenzie se non un mucchietto di cenere distrutta da quella stessa
fiamma
gelata che aveva rincorso per mesi.
Poco
più in là uno spaurito gruppo di persone guardava
senza capire i corpi di due
donne, una viva, l’altra esanime e Ronald Weasley stringeva
sua moglie, fissando
incapace di comprendere la donna di suo fratello, la testa gettata
all’indietro
tra le braccia del suo assistente personale.
Come
avrebbe spiegato a Percy che il motivo per cui Hermione era tornata da
lui era perché
aveva permesso ad Audrey di prenderne il posto?