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Autore: Hipatya    01/05/2008    13 recensioni
"La gente non muore quando deve, ma quando vuole..."
E lei aveva scelto, semplicemente, con serenità, il giorno in cui sarebbe successo.
"Ti senti bene?" chiese Hanabi, scura in volto.
Con un sorriso disarmante, che quasi spaventò la minore delle due, Hinata rispose laconica:" ...Mai stata meglio".

[Seconda classificata al Concorso Naruto "Made In Italy" indetto da V@le]
Genere: Malinconico, Sovrannaturale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: I personaggi citati appartengono a Masashi Kishimoto, che quindi è l'unico che ci guadagna; la canzone che dà il titolo alla storia e che viene citata in alcuni punti è "Remedios la Bella" dei Modena City Ramblers, a sua volta ispirata dall'o

Disclaimer: I personaggi citati appartengono a Masashi Kishimoto, che quindi è l'unico che ci guadagna; la canzone che dà il titolo alla storia e che viene citata in alcuni punti è "Remedios la Bella" dei Modena City Ramblers, a sua volta ispirata dall'omonimo personaggio di Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcìa Màrquez, che com'è legittimo detiene ogni diritto in merito.

 

 

 

 

 

 

"La gente non muore quando deve, ma quando vuole..."
["Il mare del tempo perduto" G. Garcìa Màrquez]

 

 

 

 

Remedios la bella

 

 

 

 

Tuonava, fuori.
Il cielo nero si spaccava nell'esplosione di rombi cupi, boati e scoppi furiosi, che facevano vibrare di sdegno perfino l'aria. Le stelle o la luna, spaventate da quel fragore, rivolgevano altrove il loro lucore di sirene e la volta celeste quella notte era solo un'infinita colata d'inchiostro.
I mostri infuriati battevano i pugni con foga sulla lastra compatta di nuvole scure, per cercare di aprirsi un varco e finalmente riversarsi sulla terra. Non aspettavano altro.
Un lamento gutturale echeggiò nella grande casa imperiale, ma l'uomo che osservava la notte finse di non udirlo. Nascosto dalla tela friabile della carta di riso, irrigidì la mascella in un riflesso involontario, eppure non accennò a voltarsi verso i meandri della casa, dove si trovavano i quartieri delle donne.
La cosa in fin dei conti non lo riguardava affatto, non in quella fase.
Il puzzo che saliva dal giardino era rivoltante. I fiori in decomposizione sprigionavano un olezzo malsano, ributtante, in cui la nota acidula dell'aroma profumato svaniva nel liquame dei succhi affamati della terra: era un odore molle, putrescente, languido, che si appiccicava ai vestiti, ai capelli, alla pelle, ed era tenace, resisteva per quanto le finestre fossero tenute serrate e i panni seppelliti ogni giorno nell'impasto di acqua e cenere.
E, implacabile, il cielo continuava a detonare sempre più forte, sempre più devastante; e l'assurda pioggia di piccoli fiori gialli continuava ininterrotta a cadere, soffocando gli animali, infilandosi nei più piccoli pertugi della grande casa imperiale, annidandosi nei capelli, in bocca, nelle orecchie.
Il cielo ribolliva disfatto, ma non pioveva, no: su tutto il villaggio cadeva incessantemente una pioggia di impalpabili fiori d'un giallo quasi dorato. L'uomo ne vide il giardino ormai sommerso e li immaginò premere sulle assi del tetto, ridenti e leggeri.

 

Un tuono esplose nell'aria, e subito dopo un'altro, più forte, gli fece eco.
I fiori gialli, ridendo, seppellivano il villaggio.

Tutto continuava così da diciotto ore - cioè da quando era iniziato il travaglio di sua moglie.

 

 

 

Nata racchiusa in un raggio di sole
e in un volo di farfalle dorate

 

 

 

La camera era immersa in una penombra lattiginosa, quasi l'aria fosse densa d'umori sanguigni; gli dissero d'entrare, ma Hiashi si coprì il viso, nauseato dall'odore che gli colpì le narici.
Sua moglie giaceva nel letto sfatto, mormorava una tacita e fervida preghiera a chissà quale divinità e a lui parve il fantasma di un corpo devastato, distrutto, di quelli che ornavano i cimiteri durante la guerra. Respirava affannosa, come se l'aria le rompesse i polmoni, e il suo viso ricordava una giallognola maschera di cera. Quando lo vide, la donna forzò un debole sorriso e fece per tendergli la mano.
Gliela strinse, Hiashi, senza convinzione. Izanami gli parlò fioca del piccolo mollusco esangue che aveva messo al mondo lacerandosi il ventre, le parlò del loro erede, del primo figlio che Hiashi aveva aspettato tanto a lungo.
"E' un maschio, non è così?"
Izanami non rispose e sorrise. Continuò a sorridere anche quando suo marito le lasciò la mano, che ricadde con un tonfo sulle coperte macchiate di sudore; quando Hiashi posò lo sguardo sul tenero involto di cristallo che Maia, l'anziana levatrice, gli pose tra le braccia; quando la neonata guardò per la prima volta il padre con occhi come specchi che avrebbero visto tutto. Aveva un piccolo viso tondeggiante, la carnagione di un ranuncolo intirizzito dal freddo, una rada peluria scura sul capo e, sebbene portasse i segni di un parto difficile, non piangeva. I suoi occhi liquidi vedevano tutto.
Izanami continuava a sorridere, vaga.
Non sentiva più quell'odore orribile, quell'odore orribile di maledizioni, di cose senza vita, di presentimenti oscuri. Quell'odore così sbagliato per quel giorno.
Doveva aver smesso di piovere.

 

 

 

 

A tre anni, nel cortile della grande casa imperale, Hinata venne messa di fianco al cugino della stessa età, Neji. Non le era permesso guardarlo in viso né tantomeno rivolgergli la parola, quindi tenne lo sguardo fisso su suo padre. Le fu detto di vedere, e la stessa cosa fu ordinata al cugino.
E dunque entrambi aprirono gli occhi, con la speciale abilità che era il vanto e l'orgoglio del loro Clan.
Neji vide il volo di un'aquila che si librava oltre le colline, a molti, molti chilometri di distanza, chilometri che Hiashi non volle neppure contare.

Hinata vide i fiori gialli che crescevano nel patio piano piano, con una lentezza esasperante. Sorrideva, la bambina, e i suoi occhi privi di colore brillavano di gioia, sembravano dorati come le corolle dei fiori. Il vento giocava distratto coi suoi capelli d'un nero vicino al blu, che le scendevano già oltre le spalle: la bambina rifiutava di lasciarseli tagliare, come invece era d'uso fare al primogenito della Casata principale del Clan, ed era capace di sparire per ore e ore, raggomitolata in qualche anfratto polveroso, per sfuggire alle cesoie delle serve. Izanami, bonaria, assecondava questo suo capriccio.
La bambina, a tre anni, ancora non accennava a voler parlare.

La bambina, a tre anni, non mostrava la minima capacità nell'uso del Byakugan. 
Viveva in un mondo tutto suo, come i fiori gialli spuntati nell'arsura del patio, tra cui si accoccolava volentieri, spesso per pomeriggi interi in cui rimaneva a testa in su, cullata dalla risata dei fiori, gli occhi di vetro traslucido persi in un qualche effimero balocco del cielo.
Al piccolo Neji non era permesso alzare lo sguardo sulla cugina, erede della Casata Principale del Clan, dunque tenne il visino ostinatamente seppellito sulle ali scure dell'aquila, ignorando il bruciore che gli tormentava gli occhi. Eppure il suo viso così neutro e così inespressivo, da piccola statua di marmo, per Hiashi fu il segno estremo di una beffa di cui lui, lui solo era l'oggetto.
Hiashi, però, non volle rassegnarsi.
A cinque anni, Izanami morì, Hanabi nacque, i capelli di Hinata vennero accorciati drasticamente e la bambina fu costretta ad apprendere i rudimenti del ninjutsu e ad affrontare interminabili, sfiancanti allenamenti.
C'era una sorta di disprezzo negli occhi bovini della vecchia Maia, che aveva visto la vita andarsene dal corpo di Izanami con la piccola Hanabi, quasi considerasse Hiashi colpevole della morte della Signora. E ciò che non ammise mai, neppure a se stesso, era che la vecchia Maia aveva ragione: lui, lui e l'ossessione di un erede maschio che continuasse il nome degli Hyuuga, un erede dalle qualità eccellenti che era nato per sommo scorno al fratello sbagliato...
Non una parola, comunque: il corpo di Izanami arse nel cortile in un giorno di sole, e le sue ceneri vennero riposte in una nicchia intarsiata nel secolare Tempio della famiglia Hyuuga, accanto a quelle dei suoi avi, ma la bambina, Hinata, non volle staccarsi dall'aiuola di fiori gialli, il luogo di tutta la casa che amava di più: intrecciava quei fiori nei corti capelli, li disseminava in ogni pagina dei libri che scovava e aveva imparato a disegnarli imprimendoli sulla carta di riso. Né le buone nè le cattive maniere riuscirono neanche per un istante a smuoverla da lì, così vide soltanto il pennacchio di fumo levarsi dal centro del cortile.
Fumo bianco, certo, perchè la sua mamma non conosceva il colore nero.
Poi Hinata prese in braccio la sorellina di appena due giorni e disse, nel silenzio dei corridoi della grande casa imperiale, la prima parola della sua vita.
E così si chiamò Hanabi. 

 

 

 

 
Hinata, a nove anni, aveva imparato a memoria tutta la genealogia del suo Clan; sapeva recitarla a menadito, lo sguardo fisso nel vuoto, la voce piatta e impersonale. Però continuava a chiudere gli occhi non appena veniva costretta a lanciare un kunai contro un bersaglio, mancandolo clamorosamente nonostante il Byakugan. Nondimeno eseguiva alla perfezione tutti gli esercizi di taijutsu che la sua origine - la sua condanna - le imponeva, poichè Hiashi si era proposto fin da subito di supplire con l'allenamento alle evidenti carenze della sua primogenita.
L'unica cosa che imparò a fare fu, se non altro, a difendersi: stremata, ripiegata su se stessa e rannicchiata dietro alle proprie ginocchia, spesso si faceva talmente piccola da scomparire nella polvere bianca del cortile. Si piegava come un delizioso origami di carta per sfuggire allo Juken e, sorprendentemente, evitava i colpi.
Una, due, tre volte. Infinite volte.
Hinata riusciva. E suo padre aveva cominciato, quasi di malavoglia, a sorriderle appena con una smorfia che si sarebbe potuta scambiare per qualunque cosa.
Poi però, un giorno, era successo; e come una lastra di ghiaccio che va in pezzi, la collera di Hinata era esplosa tutta insieme e si era riversata nel cortile con l'irruenza fragorosa dell'acqua che scorre; la mano di Hiashi si era fermata a pochi centimetri dal volto della figlia maggiore, che l'aveva fissato a lungo, in perfetto silenzio. Il sole del pomeriggio aveva smesso di bruciare, era diventato quasi freddo, e l'aria sembrava come cristallizzata.
La bambina crollò a terra, tuffò il viso nelle ginocchia e parve volersi cancellare dal mondo. Piangeva, Hinata, con tutta la rabbia che non riusciva a esprimere a parole.
Rimase in quella posizione per tutto un pomeriggio, finchè il cielo non si tinse d'amaranto e il sole non tramontò oltre le colline.
Un pianto ininterrotto, probabilmente il primo della sua vita, lungo ore, ore intere in cui senz'altro i suoi scintillanti occhi invisibili, gli occhi che per tutti erano il suo solo e unico pregio, gli occhi secondo cui si stabiliva il valore di una persona, dovettero sembrarle inutili, quasi brutti. Nessuno le chiese mai se avesse preferito averli normali, pieni di vita e di colore, intensi come quelli di una qualunque ragazzina della sua età.
Hiashi dovette quindi dichiararsi tacitamente sconfitto: ebbe allora l'intuizione di concentrare tutte le sue aspettative sulla piccola Hanabi, che mostrava di avere il sorprendente talento precocissimo tanto a lungo cercato.
Nessuno chiese a Hinata perchè quel pomeriggio avesse deciso di fare una cosa così inconsueta per la sua natura, una cosa che di certo non aveva mai fatto prima, cioè arrabbiarsi, infuriata con se stessa, con la sua famiglia, col mondo intero. Nessuno si stupì quando centrò tutti e dieci i bersagli in movimento colpendoli proprio lì, in mezzo agli occhi. Nessuno si stupì perchè, com'era ovvio, nessuno pensò di farlo, nessuno considerò la bambina tanto importante da meritarsi un briciolo del loro stupore.
Ma lei aveva ben chiaro il motivo delle sue azioni, ne era convinta fin nell'ultima goccia del suo sangue.
Si era innamorata.    

 

 

 

Naruto era biondo, sguaiato ed energico: era un ragazzino che strepitava a gran voce tutta la sua smania d'attenzioni. Era capace di rubare la scena al sole e di imporsi nella sua luce, splendente, i grandi occhi azzurri spalancati in una risata che faceva storcere il naso a chiunque fosse privo di quell'innata allegria rumorosa. 
Neji-niisan lo guardava con sufficienza, quasi con disprezzo; Haruno-san lo evitava, così come tutte le altre ragazzine abbagliate dagli occhi neri di Uchiha-kun; gli altri bambini non lo coinvolgevano nei loro giochi, amenochè non fosse lui a farsi avanti, e malsopportavano i suoi scherzi, le sue risate chiassose, le sue trovate bislacche; Iruka-sensei era l'unico forse a mostrargli un po' d'affetto, ma Naruto non cercava un adulto che sapesse blandirlo, cercava semplicemente qualcuno come lui, che sapesse ridere gioire e giocare al suo stesso modo. 
Naruto era sempre e comunque qualcosa da guardare storto, pensava Hinata, qualcosa che tutto sommato era preferibile fingere che non esistesse.  Lì, dov'era Naruto, c'era il limite: additarlo e compiacersene faceva stare bene, faceva sentire tutti più sicuri, più tranquilli, convinti della propria indiscutibile umanità.
Lì, il limite; qui, noi. Che sollievo.
Logico, pensava Hinata.
Hinata arrossiva in un istante non appena lo vedeva e spesso si dimenticava perfino di respirare. Si dimenticava di avere quei brutti occhi color pioggia, quella brutta famiglia, quella grande casa imperiale che l'opprimeva con le sue stanze polverose, quei compagni di Squadra che la scrutavano come se fosse un insolito animaletto da studiare.
Allora sì, Hinata dimenticava anche di respirare, poi correva a nascondersi finchè quella cosa impazzita che le martellava nel petto non si calmava.
Le capitava di trovare Naruto ad allenarsi tutto solo, troppo preso da se stesso per potersi concedere un po' di tristezza; lo seguiva con gli occhi mentre pranzava qualche volta con Iruka-sensei, battibeccava con Uchiha-kun, si dondolava piano su una stupida, fragile altalena. E ogni volta c'era un motivo diverso - ma sempre ugualmente valido - per non fare quel passo, il passo che l'avrebbe portata più vicina a lui e un po' più lontana da se stessa.
Naruto invece si chiedeva sempre chi diavolo gli riempisse i libri e i quaderni di quegli assurdi fiorellini gialli allegri e agghiaccianti quanto una risata, e che, per quanto perlustrasse in lungo e in largo tutto il villaggio, non riusciva a trovare da nessuna parte, proprio nessuna.

 

 

 

Neppure Naruto capì che, per distogliere Hinata dall'universo onirico di cui lei sola era l'abitante, sarebbe bastato l'amore, invece dell'indifferenza, delle percosse e degli allenamenti di ninjutsu.
Nessuno capì che più di tutte quella sarebbe stata l'arma vincente: un sentimento così primitivo, così distruttivo e così elementare che avrebbe abbattuto in un colpo solo tutte le sue difese, poichè era scritto nello stesso linguaggio di semplicità infantile che Hinata conosceva bene.
Ma si ostinarono a piegarla coi loro metodi, con il disappunto, con i rimproveri, con il silenzio, tutte cose che per natura non era abituata a comprendere.
Hiashi, come detto, si adoperò per dimenticarsi dell'esistenza della sua figlia maggiore, e neppure si pose il problema di capirla.
Hanabi, cresciuta come un aspide nel veleno del padre, imparò presto l'alterigia, lo scherno e l'arroganza, ma soprattutto imparò a disprezzare la vampa di arrendevolezza che vedeva crepitare in Hinata.
Neji la giudicò stupida, debole, inetta: malignamente si rallegrò del beffardo gioco del destino, che aveva regalato un'erede stolida alla Casata Principale, dimostrandosi per una volta, se non giusto, quantomeno non sbagliato; poi si dimenticò di lei, come faceva di tutte le cose che non giudicava degne del suo interesse.
Kiba e Shino, che furono suoi compagni di Squadra, le offrirono l'affetto vago e distante dettato dalle circostanze.
Naruto non scoprì mai dove crescessero i fiori gialli che si disfacevano dimenticati fra le pagine dei suoi libri; del resto i suoi occhi vivaci furono ben presto attirati da un'altra specie di fiori, questa volta di ciliegio: ma questa, signori, è un'altra storia.
A nessuno, proprio a nessuno, venne in mente di fare la cosa più semplice e più scontata: amarla.

 

 

I capelli di Hinata, a vent'anni, scendevano vellutati fin'oltre la vita, come il manto del cielo notturno, come una cascata di piume nere che scivolava libera sulle ali del vento, dato che lei si ostinava sempre a non volerli mai accorciare né sistemare in artificiose acconciature da principessa medioevale.
Quel pomeriggio indossava un raffinato kimono di broccato candido, i cui ricami d'argento disegnavano sul tessuto la delicata illusione della trasparenza dell'acqua, e avanzava verso il cortile come se si fosse scordata le rigide nozioni di portamento apprese in gioventù. Sembrava quasi apparire impalpabile dalla pesante penombra dei corridoi, libera dal fardello di un corpo.
La commemorazione della morte di Izanami Hyuuga sarebbe iniziata a momenti: tutta la famiglia si sarebbe riunita nel piccolo tempio dietro la collina per pregare e ringraziare la sua anima, evocando il suo sorriso discreto e la curva dolce dei suoi zigomi. Hiashi non sarebbe venuto, da tempo non lasciava più la sua camera, sepolta nell'oscurità della grande casa imperiale, dunque tutta la responsabilità ricadeva sulle esili spalle della secondogenita Hanabi.
Hanabi, il cipiglio serio, i capelli intrecciati e le mani nascoste nelle maniche della veste, vide qualcosa di terribile e sconosciuto nel viso di Hinata: una lucentezza quasi dorata e piena di salute, un alito di vita che sembrava fremere nelle vene azzurrognole.
Il sole delle quattro squarciava le nubi nere: il cielo bruciava come una caldissima e sterminata fornace d'oro.
"Ti senti bene?" chiese Hanabi, scura in volto.
Con un sorriso disarmante, che quasi spaventò la minore delle due, Hinata rispose laconica:" ...Mai stata meglio". 
La sua voce rideva come quella di un saltimbanco, come quella di un bambino, rideva piena di vita, scoppiettava vivida come solo le cose felici e spensierate riescono a fare.
Una voce così nella gola di sua sorella Hanabi non l'aveva mai sentita.
E d'improvviso il vento, che da una settimana e più non soffiava sul villaggio, irruppe furioso nel cortile assolato e ululando strinse le sue gigantesche dita invisibili attorno al corpo di Hinata. La ragazza si sollevò nell'aria con la delicatezza di una farfalla, più luminosa di un fantasma, eterea nei raggi di luce che giocavano coi suoi capelli di corvo. Il kimono bianco si gonfiò come una vela nel vento, mentre Hinata salutava appena con una mano e spariva sempre più in alto, sempre più in alto insieme alla polvere, ai ricordi, alle foglie verdi e alle gocce di pioggia: il sole delle quattro del pomeriggio si era fermato per lei, per Hinata, che si innalzava sorridendo nella sua aura di luce, sempre più in alto, finchè non scomparve oltre le nuvole di cenere, oltre i cieli più lontani dove neanche il pensiero ha mai osato spingersi.
Hinata, attraverso il sole.
Nello stesso momento, i piccoli fiori gialli accoccolati nel patio morivano sfiorendo uno dopo l'altro.


 

Il cielo ha rapito Remedios la bella
Il cielo l'ha presa e l'ha portata via

 


 

Fin
   

 

 



Nota dell'Autrice
Diciamo che più la rileggo e più mi perplimo, ma c'est la vie. Ci sono molto affezionata, questo sì: adoro sia la canzone sia il personaggio che c'è dietro.
Perchè sì, questo è un infimo omaggio a Gabriel Garçia Marquez, alla sua Remedios la bella e al suo ancor più splendido capolavoro "Cent'anni di solitudine" che figurerà per sempre tra i miei libri preferiti. Quindi in questa storia c'è qualcosa di Hinata e qualcosa di Remedios, qualcosa di Konoha e qualcosa di Macondo. E qualcosa, tanto per complicare le cose, dei Modena City Ramblers.
Il nome dell'ipotetica madre di Hinata, Izanami, è quello della Dea Madre della mitologia giapponese.
E infine letteralmente Hanabi significa fiori di fuoco. 

 

  
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