Disclaimer: I personaggi citati appartengono a
Masashi Kishimoto, che quindi è l'unico che ci guadagna; la canzone che
dà il titolo alla storia e che viene citata in alcuni punti è
"Remedios la Bella" dei Modena City Ramblers, a sua volta ispirata dall'omonimo
personaggio di Cent'anni di solitudine di Gabriel Garcìa
Màrquez, che com'è legittimo detiene ogni diritto in merito.
"La gente non
muore quando deve, ma quando vuole..."
["Il mare del tempo perduto" G. Garcìa Màrquez]
Remedios la bella
Tuonava,
fuori.
Il cielo nero si spaccava nell'esplosione di rombi cupi, boati e scoppi
furiosi, che facevano vibrare di sdegno perfino l'aria. Le stelle o la luna,
spaventate da quel fragore, rivolgevano altrove il loro lucore di sirene e la
volta celeste quella notte era solo un'infinita colata d'inchiostro.
I mostri infuriati battevano i pugni con foga sulla lastra compatta di nuvole
scure, per cercare di aprirsi un varco e finalmente riversarsi sulla terra. Non
aspettavano altro.
Un lamento gutturale echeggiò nella grande casa imperiale, ma l'uomo che
osservava la notte finse di non udirlo. Nascosto dalla tela friabile della
carta di riso, irrigidì la mascella in un riflesso involontario, eppure
non accennò a voltarsi verso i meandri della casa, dove si trovavano i
quartieri delle donne.
La cosa in fin dei conti non lo riguardava affatto, non in quella fase.
Il puzzo che saliva dal giardino era rivoltante. I fiori in decomposizione
sprigionavano un olezzo malsano, ributtante, in cui la nota acidula dell'aroma
profumato svaniva nel liquame dei succhi affamati della terra: era un odore
molle, putrescente, languido, che si appiccicava ai vestiti, ai capelli, alla
pelle, ed era tenace, resisteva per quanto le finestre fossero tenute serrate e
i panni seppelliti ogni giorno nell'impasto di acqua e cenere.
E, implacabile, il cielo continuava a detonare sempre più forte, sempre
più devastante; e l'assurda pioggia di piccoli fiori gialli continuava
ininterrotta a cadere, soffocando gli animali, infilandosi nei più
piccoli pertugi della grande casa imperiale, annidandosi nei capelli, in bocca,
nelle orecchie.
Il cielo ribolliva disfatto, ma non pioveva, no: su tutto il villaggio cadeva
incessantemente una pioggia di impalpabili fiori d'un giallo quasi dorato.
L'uomo ne vide il giardino ormai sommerso e li immaginò premere sulle
assi del tetto, ridenti e leggeri.
Un tuono
esplose nell'aria, e subito dopo un'altro, più forte, gli fece eco.
I fiori gialli, ridendo, seppellivano il villaggio.
Tutto
continuava così da diciotto ore - cioè da quando era
iniziato il travaglio di sua moglie.
Nata racchiusa in un raggio di sole
e in un volo di farfalle dorate
La
camera era immersa in una penombra lattiginosa, quasi l'aria fosse densa d'umori
sanguigni; gli dissero d'entrare, ma Hiashi si coprì il viso, nauseato
dall'odore che gli colpì le narici.
Sua moglie giaceva nel letto sfatto, mormorava una tacita e fervida preghiera a
chissà quale divinità e a lui parve il fantasma di un corpo devastato,
distrutto, di quelli che ornavano i cimiteri durante la guerra. Respirava
affannosa, come se l'aria le rompesse i polmoni, e il suo viso ricordava una
giallognola maschera di cera. Quando lo vide, la donna forzò un debole
sorriso e fece per tendergli la mano.
Gliela strinse, Hiashi, senza convinzione. Izanami gli parlò fioca del
piccolo mollusco esangue che aveva messo al mondo lacerandosi il ventre, le
parlò del loro erede, del primo figlio che Hiashi aveva aspettato tanto
a lungo.
"E' un maschio, non è così?"
Izanami non rispose e sorrise. Continuò a sorridere anche quando suo
marito le lasciò la mano, che ricadde con un tonfo sulle coperte
macchiate di sudore; quando Hiashi posò lo sguardo sul tenero involto di
cristallo che Maia, l'anziana levatrice, gli pose tra le braccia; quando la
neonata guardò per la prima volta il padre con occhi come specchi che
avrebbero visto tutto. Aveva un piccolo viso tondeggiante, la carnagione di un
ranuncolo intirizzito dal freddo, una rada peluria scura sul capo e, sebbene
portasse i segni di un parto difficile, non piangeva. I suoi occhi liquidi
vedevano tutto.
Izanami continuava a sorridere, vaga.
Non sentiva più quell'odore orribile, quell'odore orribile di
maledizioni, di cose senza vita, di presentimenti oscuri. Quell'odore
così sbagliato per quel giorno.
Doveva aver smesso di piovere.
A tre
anni, nel cortile della grande casa imperale, Hinata venne messa di fianco al
cugino della stessa età, Neji. Non le era permesso guardarlo in viso
né tantomeno rivolgergli la parola, quindi tenne lo sguardo fisso su suo
padre. Le fu detto di vedere, e la stessa cosa fu ordinata al cugino.
E dunque entrambi aprirono gli occhi, con la speciale abilità che
era il vanto e l'orgoglio del loro Clan.
Neji vide il volo di un'aquila che si librava oltre le colline, a molti, molti
chilometri di distanza, chilometri che Hiashi non volle neppure contare.
Hinata
vide i fiori gialli che crescevano nel patio piano piano, con una lentezza
esasperante. Sorrideva, la bambina, e i suoi occhi privi di colore brillavano
di gioia, sembravano dorati come le corolle dei fiori. Il vento giocava
distratto coi suoi capelli d'un nero vicino al blu, che le scendevano
già oltre le spalle: la bambina rifiutava di lasciarseli tagliare, come
invece era d'uso fare al primogenito della Casata principale del Clan, ed era
capace di sparire per ore e ore, raggomitolata in qualche anfratto polveroso,
per sfuggire alle cesoie delle serve. Izanami, bonaria, assecondava questo suo
capriccio.
La bambina, a tre anni, ancora non accennava a voler parlare.
La
bambina, a tre anni, non mostrava la minima capacità nell'uso del
Byakugan.
Viveva in un mondo tutto suo, come i fiori gialli spuntati nell'arsura del
patio, tra cui si accoccolava volentieri, spesso per pomeriggi interi in cui
rimaneva a testa in su, cullata dalla risata dei fiori, gli occhi di vetro
traslucido persi in un qualche effimero balocco del cielo.
Al piccolo Neji non era permesso alzare lo sguardo sulla cugina, erede della
Casata Principale del Clan, dunque tenne il visino ostinatamente seppellito
sulle ali scure dell'aquila, ignorando il bruciore che gli tormentava gli
occhi. Eppure il suo viso così neutro e così inespressivo, da
piccola statua di marmo, per Hiashi fu il segno estremo di una beffa di cui
lui, lui solo era l'oggetto.
Hiashi, però, non volle rassegnarsi.
A cinque anni, Izanami morì, Hanabi nacque, i capelli di Hinata vennero
accorciati drasticamente e la bambina fu costretta ad apprendere i rudimenti
del ninjutsu e ad affrontare interminabili, sfiancanti allenamenti.
C'era una sorta di disprezzo negli occhi bovini della vecchia Maia, che aveva
visto la vita andarsene dal corpo di Izanami con la piccola Hanabi, quasi
considerasse Hiashi colpevole della morte della Signora. E ciò che non
ammise mai, neppure a se stesso, era che la vecchia Maia aveva ragione: lui,
lui e l'ossessione di un erede maschio che continuasse il nome degli Hyuuga, un
erede dalle qualità eccellenti che era nato per sommo scorno al fratello
sbagliato...
Non una parola, comunque: il corpo di Izanami arse nel cortile in un giorno di
sole, e le sue ceneri vennero riposte in una nicchia intarsiata nel secolare
Tempio della famiglia Hyuuga, accanto a quelle dei suoi avi, ma la bambina,
Hinata, non volle staccarsi dall'aiuola di fiori gialli, il luogo di tutta la
casa che amava di più: intrecciava quei fiori nei corti capelli, li
disseminava in ogni pagina dei libri che scovava e aveva imparato a disegnarli
imprimendoli sulla carta di riso. Né le buone nè le cattive
maniere riuscirono neanche per un istante a smuoverla da lì, così
vide soltanto il pennacchio di fumo levarsi dal centro del cortile.
Fumo bianco, certo, perchè la sua mamma non conosceva il colore
nero.
Poi Hinata prese in braccio la sorellina di appena due giorni e disse, nel
silenzio dei corridoi della grande casa imperiale, la prima parola della sua
vita.
E così si chiamò Hanabi.
Hinata, a nove anni, aveva imparato a memoria tutta la genealogia del suo Clan;
sapeva recitarla a menadito, lo sguardo fisso nel vuoto, la voce piatta e
impersonale. Però continuava a chiudere gli occhi non appena veniva
costretta a lanciare un kunai contro un bersaglio, mancandolo clamorosamente
nonostante il Byakugan. Nondimeno eseguiva alla perfezione tutti gli esercizi
di taijutsu che la sua origine - la sua condanna - le imponeva, poichè
Hiashi si era proposto fin da subito di supplire con l'allenamento alle
evidenti carenze della sua primogenita.
L'unica cosa che imparò a fare fu, se non altro, a difendersi: stremata,
ripiegata su se stessa e rannicchiata dietro alle proprie ginocchia, spesso si
faceva talmente piccola da scomparire nella polvere bianca del cortile. Si
piegava come un delizioso origami di carta per sfuggire allo Juken e,
sorprendentemente, evitava i colpi.
Una, due, tre volte. Infinite volte.
Hinata riusciva. E suo padre aveva cominciato, quasi di malavoglia, a
sorriderle appena con una smorfia che si sarebbe potuta scambiare per qualunque
cosa.
Poi però, un giorno, era successo; e come una lastra di ghiaccio che va
in pezzi, la collera di Hinata era esplosa tutta insieme e si era riversata nel
cortile con l'irruenza fragorosa dell'acqua che scorre; la mano di Hiashi si
era fermata a pochi centimetri dal volto della figlia maggiore, che l'aveva fissato
a lungo, in perfetto silenzio. Il sole del pomeriggio aveva smesso di bruciare,
era diventato quasi freddo, e l'aria sembrava come cristallizzata.
La bambina crollò a terra, tuffò il viso nelle ginocchia e parve
volersi cancellare dal mondo. Piangeva, Hinata, con tutta la rabbia che non
riusciva a esprimere a parole.
Rimase in quella posizione per tutto un pomeriggio, finchè il cielo non
si tinse d'amaranto e il sole non tramontò oltre le colline.
Un pianto ininterrotto, probabilmente il primo della sua vita, lungo ore, ore
intere in cui senz'altro i suoi scintillanti occhi invisibili, gli occhi che
per tutti erano il suo solo e unico pregio, gli occhi secondo cui si stabiliva
il valore di una persona, dovettero sembrarle inutili, quasi brutti. Nessuno le
chiese mai se avesse preferito averli normali, pieni di vita e di
colore, intensi come quelli di una qualunque ragazzina della sua età.
Hiashi dovette quindi dichiararsi tacitamente sconfitto: ebbe allora
l'intuizione di concentrare tutte le sue aspettative sulla piccola Hanabi, che
mostrava di avere il sorprendente talento precocissimo tanto a lungo cercato.
Nessuno chiese a Hinata perchè quel pomeriggio avesse deciso di fare una
cosa così inconsueta per la sua natura, una cosa che di certo non aveva
mai fatto prima, cioè arrabbiarsi, infuriata con se stessa, con la sua
famiglia, col mondo intero. Nessuno si stupì quando centrò tutti
e dieci i bersagli in movimento colpendoli proprio lì, in mezzo agli
occhi. Nessuno si stupì perchè, com'era ovvio, nessuno
pensò di farlo, nessuno considerò la bambina tanto importante da
meritarsi un briciolo del loro stupore.
Ma lei aveva ben chiaro il motivo delle sue azioni, ne era convinta fin
nell'ultima goccia del suo sangue.
Si era innamorata.
Naruto era
biondo, sguaiato ed energico: era un ragazzino che strepitava a gran voce tutta
la sua smania d'attenzioni. Era capace di rubare la scena al sole e di imporsi
nella sua luce, splendente, i grandi occhi azzurri spalancati in una risata che
faceva storcere il naso a chiunque fosse privo di quell'innata allegria
rumorosa.
Neji-niisan lo guardava con sufficienza, quasi con disprezzo; Haruno-san lo
evitava, così come tutte le altre ragazzine abbagliate dagli occhi neri
di Uchiha-kun; gli altri bambini non lo coinvolgevano nei loro giochi,
amenochè non fosse lui a farsi avanti, e malsopportavano i suoi scherzi,
le sue risate chiassose, le sue trovate bislacche; Iruka-sensei era l'unico
forse a mostrargli un po' d'affetto, ma Naruto non cercava un adulto che sapesse
blandirlo, cercava semplicemente qualcuno come lui, che sapesse ridere gioire e
giocare al suo stesso modo.
Naruto era sempre e comunque qualcosa da guardare storto, pensava Hinata,
qualcosa che tutto sommato era preferibile fingere che non esistesse. Lì, dov'era Naruto, c'era il
limite: additarlo e compiacersene faceva stare bene, faceva sentire tutti
più sicuri, più tranquilli, convinti della propria indiscutibile
umanità.
Lì, il limite; qui, noi. Che sollievo.
Logico, pensava Hinata.
Hinata arrossiva in un istante non appena lo vedeva e spesso si dimenticava
perfino di respirare. Si dimenticava di avere quei brutti occhi color pioggia,
quella brutta famiglia, quella grande casa imperiale che l'opprimeva con le sue
stanze polverose, quei compagni di Squadra che la scrutavano come se fosse un
insolito animaletto da studiare.
Allora sì, Hinata dimenticava anche di respirare, poi correva a
nascondersi finchè quella cosa impazzita che le martellava nel petto non
si calmava.
Le capitava di trovare Naruto ad allenarsi tutto solo, troppo preso da se
stesso per potersi concedere un po' di tristezza; lo seguiva con gli occhi
mentre pranzava qualche volta con Iruka-sensei, battibeccava con Uchiha-kun, si
dondolava piano su una stupida, fragile altalena. E ogni volta c'era un motivo
diverso - ma sempre ugualmente valido - per non fare quel passo, il
passo che l'avrebbe portata più vicina a lui e un po' più lontana
da se stessa.
Naruto invece si chiedeva sempre chi diavolo gli riempisse i libri e i quaderni
di quegli assurdi fiorellini gialli allegri e agghiaccianti quanto una risata,
e che, per quanto perlustrasse in lungo e in largo tutto il villaggio, non
riusciva a trovare da nessuna parte, proprio nessuna.
Neppure
Naruto capì che, per distogliere Hinata dall'universo onirico di cui lei
sola era l'abitante, sarebbe bastato l'amore, invece dell'indifferenza, delle
percosse e degli allenamenti di ninjutsu.
Nessuno capì che più di tutte quella sarebbe stata l'arma
vincente: un sentimento così primitivo, così distruttivo e
così elementare che avrebbe abbattuto in un colpo solo tutte le sue
difese, poichè era scritto nello stesso linguaggio di semplicità
infantile che Hinata conosceva bene.
Ma si ostinarono a piegarla coi loro metodi, con il disappunto, con i
rimproveri, con il silenzio, tutte cose che per natura non era abituata a
comprendere.
Hiashi, come detto, si adoperò per dimenticarsi dell'esistenza della sua
figlia maggiore, e neppure si pose il problema di capirla.
Hanabi, cresciuta come un aspide nel veleno del padre, imparò presto
l'alterigia, lo scherno e l'arroganza, ma soprattutto imparò a
disprezzare la vampa di arrendevolezza che vedeva crepitare in Hinata.
Neji la giudicò stupida, debole, inetta: malignamente si rallegrò
del beffardo gioco del destino, che aveva regalato un'erede stolida alla Casata
Principale, dimostrandosi per una volta, se non giusto, quantomeno non
sbagliato; poi si dimenticò di lei, come faceva di tutte le cose che non
giudicava degne del suo interesse.
Kiba e Shino, che furono suoi compagni di Squadra, le offrirono l'affetto vago
e distante dettato dalle circostanze.
Naruto non scoprì mai dove crescessero i fiori gialli che si disfacevano
dimenticati fra le pagine dei suoi libri; del resto i suoi occhi vivaci furono ben
presto attirati da un'altra specie di fiori, questa volta di ciliegio: ma
questa, signori, è un'altra storia.
A nessuno, proprio a nessuno, venne in mente di fare la cosa più
semplice e più scontata: amarla.
I
capelli di Hinata, a vent'anni, scendevano vellutati fin'oltre la vita, come il
manto del cielo notturno, come una cascata di piume nere che scivolava libera
sulle ali del vento, dato che lei si ostinava sempre a non volerli mai
accorciare né sistemare in artificiose acconciature da principessa
medioevale.
Quel pomeriggio indossava un raffinato kimono di broccato candido, i cui ricami
d'argento disegnavano sul tessuto la delicata illusione della trasparenza
dell'acqua, e avanzava verso il cortile come se si fosse scordata le rigide
nozioni di portamento apprese in gioventù. Sembrava quasi apparire
impalpabile dalla pesante penombra dei corridoi, libera dal fardello di un
corpo.
La commemorazione della morte di Izanami Hyuuga sarebbe iniziata a momenti:
tutta la famiglia si sarebbe riunita nel piccolo tempio dietro la collina per
pregare e ringraziare la sua anima, evocando il suo sorriso discreto e la curva
dolce dei suoi zigomi. Hiashi non sarebbe venuto, da tempo non lasciava
più la sua camera, sepolta nell'oscurità della grande casa
imperiale, dunque tutta la responsabilità ricadeva sulle esili spalle
della secondogenita Hanabi.
Hanabi, il cipiglio serio, i capelli intrecciati e le mani nascoste nelle
maniche della veste, vide qualcosa di terribile e sconosciuto nel viso di
Hinata: una lucentezza quasi dorata e piena di salute, un alito di vita che
sembrava fremere nelle vene azzurrognole.
Il sole delle quattro squarciava le nubi nere: il cielo bruciava come una
caldissima e sterminata fornace d'oro.
"Ti senti bene?" chiese Hanabi, scura in volto.
Con un sorriso disarmante, che quasi spaventò la minore delle due,
Hinata rispose laconica:" ...Mai stata meglio".
La sua voce rideva come quella di un saltimbanco, come quella di un bambino,
rideva piena di vita, scoppiettava vivida come solo le cose felici e
spensierate riescono a fare.
Una voce così nella gola di sua sorella Hanabi non l'aveva mai sentita.
E d'improvviso il vento, che da una settimana e più non soffiava sul
villaggio, irruppe furioso nel cortile assolato e ululando strinse le sue
gigantesche dita invisibili attorno al corpo di Hinata. La ragazza si
sollevò nell'aria con la delicatezza di una farfalla, più
luminosa di un fantasma, eterea nei raggi di luce che giocavano coi suoi
capelli di corvo. Il kimono bianco si gonfiò come una vela nel vento,
mentre Hinata salutava appena con una mano e spariva sempre più in alto,
sempre più in alto insieme alla polvere, ai ricordi, alle foglie verdi e
alle gocce di pioggia: il sole delle quattro del pomeriggio si era fermato per
lei, per Hinata, che si innalzava sorridendo nella sua aura di luce, sempre
più in alto, finchè non scomparve oltre le nuvole di cenere,
oltre i cieli più lontani dove neanche il pensiero ha mai osato
spingersi.
Hinata, attraverso il sole.
Nello stesso momento, i piccoli fiori gialli accoccolati nel patio morivano
sfiorendo uno dopo l'altro.
Il cielo ha rapito Remedios la bella
Il cielo l'ha presa e l'ha portata via
Fin
Nota
dell'Autrice
Diciamo che più la rileggo e più mi perplimo, ma c'est la vie. Ci
sono molto affezionata, questo sì: adoro sia la canzone sia il
personaggio che c'è dietro.
Perchè sì, questo è un infimo omaggio a Gabriel
Garçia Marquez, alla sua Remedios la bella e al suo ancor più
splendido capolavoro "Cent'anni di solitudine" che figurerà
per sempre tra i miei libri preferiti. Quindi in questa storia c'è
qualcosa di Hinata e qualcosa di Remedios, qualcosa di Konoha e qualcosa di
Macondo. E qualcosa, tanto per complicare le cose, dei Modena City Ramblers.
Il nome dell'ipotetica madre di Hinata, Izanami, è quello della Dea
Madre della mitologia giapponese.
E infine letteralmente Hanabi significa fiori di fuoco.