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Autore: _stopthetape    25/11/2013    2 recensioni
Ha solo me e forse io ho solo lei, eppure non mi sembra abbastanza. Tutto il tempo che mi è permesso di passare con lei non è abbastanza. Ho paura che un pensiero sfiori la mia mente, il pensiero che il tempo che le è rimasto, che ci è rimasto, non è abbastanza. Troppo tardi.
Genere: Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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YOU AND I

«Stanza 26» mi sorride. Il bianco non le dona, sembra pallida, o forse lo sto immaginando. È tutto così bianco, troppo bianco e io non sono capace di ricambiare il suo sorriso. Sento voci che parlano e rimbombano nel cervello. Alla fine chiedo «Come sta?»  
Capisco dal piccolo balzo che ha fatto – non si aspettava che glielo chiedessi? – che la risposta che mi sta per dare non sarà piacevole. Prende fiato, probabilmente sta cercando le parole giuste. Vuole dirmi qualcosa, vuole rassicurarmi, ma non vuole illudermi. Tutte le mie paure passano attraverso le vene fino a fermarsi nel cuore, si mescolano, si aggrovigliano, mi fanno star male e poi si diffondono per tutto il corpo, facendomi tremare. «Instabile.» sospira. Il peso di quella parola in bocca l’ha affaticata, credo. Mi chiedo a quante altre persone ogni giorno è costretta a dire questo, perché è il suo lavoro, e mi chiedo anche se quando torna a casa, la sera, pensa ai pazienti che stanno sul letto in fin di vita. Forse si. Probabilmente no. Troppo impegnato a pensare, non mi sono reso conto che lei si sta muovendo, che mi indica la stanza, ma io rimango immobile, con le mani lungo i fianchi. Ho freddo, vorrei stringermi tra le mie stesse braccia, ma non ci riesco. Qualcosa scatta nella mia testa e faccio un passo lento, poi un altro e uno ancora e sto correndo. «Solitamente non facciamo entrare gli estranei quando i pazienti sono in queste condizioni.» m’informa e subito rispondo «non sono un estraneo.» Lo dico così in fretta, che non ho il tempo di pensare perché sono un’eccezione? Ma io lo so: ci sono solo io. Nessuno le ha fatto visita, nessuno vuole stare con lei, eppure io lo voglio più di qualsiasi altra cosa al mondo. Sono egoista, lo so. Ha solo me e forse io ho solo lei, eppure non mi sembra abbastanza. Tutto il tempo che mi è permesso di passare con lei non è abbastanza. Ho paura che un pensiero sfiori la mia mente, il pensiero che il tempo che le è rimasto, che ci è rimasto, non è abbastanza. Troppo tardi.
La maniglia della porta è fredda, grigia, come il tempo fuori da questo ospedale. Mi accorgo che ho ricominciato a tremare – forse non ho mai smesso. Sento il cuore ammazzare le mie orecchie con quei suoi forti, veloci e ritmici battiti. Mi sento in colpa, tanto, troppo – il senso di colpa mi sta uccidendo – perché ho aspettato, perché dovevo starle accanto anche quando i dottori me lo hanno vietato, durante la rianimazione. Sento ancora le urla nei miei confronti, quelle che dicevano «non puoi stare qua, ragazzo!» e io non sapevo cosa stava succedendo. Poi le urla si sono trasformati in sussurri, di quelli cattivi, quelli che la gente non può fare a meno di sputare: «è caduta dalle scale.» «no, si è buttata.»
E poi il giornale, perché il suicidio – tentato – fa audience. E io sono stato lì per ore, fermo, immobile e poi a  dondolarmi su una sedia, pensando no, non è vero, non sapete niente, non mi avrebbe fatto questo. Il mio egoismo è grande, così grande che, se dovessi spiegarlo con un numero, non riuscirei a pronunciarlo, perché fatto di troppe cifre. Non sono stato disposto a parlare con quell’uomo che teneva in mano un registratore e mi faceva domande, perché la nostra vita è solo nostra.
Finalmente apro e mi ritrovo dentro questa stanza con tre letti. Il primo è vuoto, il secondo anche, ma è disfatto, e poi c’è il terzo, vicino la finestra. La luce pallida che entra fa sembrare la sua pelle chiarissima, ma io so che non lo è, e so anche che forse non è la luce il problema. Mi sorprendo a correre di nuovo. Non so cosa fa il mio corpo, è tutto automatico. Mi siedo sul letto disfatto e la guardo. Qualcuno mi ha conficcato una freccia avvelenata in mezzo al petto. Sento il cuore che si ritira e dopo un formicolio lungo la schiena, le braccia, tutto il corpo. Ha un camice verde addosso e i piedi scoperti. Perché non le coprono i piedi? Sarebbe un gesto inutile? Faccio scivolare gli occhi velocemente verso la parte alta del suo corpo e noto un grosso livido sul collo. Resto quasi incantato dalla sfumatura di colori: viola, blu, verde e giallo. Ho paura di osservarla ancora, ma lo merita. Il viso è stranamente intatto, a parte per uno.. no, sono due punti sulla parte destra della fronte, circondati da un’altra variante cromatica del viola. Riesco a muovere la mano e le accarezzo i capelli. Lo faccio piano, delicatamente, come accade di solito mentre dorme e non voglio svegliarla. A un certo punto, però, al tatto sento che dietro l’orecchio sinistro c’è il segno di una rasatura. Mi alzo, giro intorno al letto e mi affretto a sedermi su una poltrona. Controllo e sto per svenire. Conto i punti che formano quasi un sorriso sulla sua nuca. Sono dieci.
Le accarezzo una guancia, prima solo con il pollice, poi con tutta la mano. Scendo, raggiungo il gonfiore che ha sul collo e proseguo ancora, attraverso il braccio e arrivo al suo polso. Un’altra freccia.
«Oh, Abby..» sussurro. Stringo le sue dita nella mia mano e ho timore di farle male. «Abby, Abby, Abby» continuo a ripetere il suo nome. È lei, non è lei. Ha il suo aspetto, quindi è lei. Ma non parla, non urla, non piange, non ride alle mie battute. Bagno la sua mano con una lacrima e l’asciugo subito.
«Signor Horan?» alzo lo sguardo. È l’infermiera di prima. Non m’importa se sto piangendo, non m’importa che se ne accorga. E non m’importa di risponderle. «Ha bisogno di qualcosa?» la mia testa fa segno di no. «Sa..» sorride e poi continua «forse non è vero, ma dicono che possano sentire..» sorride di nuovo e se ne va. Ho visto Grey’s Anatomy un paio di volte, dicevano la stessa cosa.
«Perché mi hai fatto questo?» domando. «Perché, Abby?» Sono arrabbiato, sono frustrato, sono disperato. Hanno ragione loro? «No. Me lo avevi promesso..» mi rispondo. Qualcosa mi dice che la gente ha torto. Il suo viso, integro, mi sta dicendo che lei ha cercato di proteggersi con le braccia e che non mi avrebbe lasciato così. Sto pensando parole, frasi con verbi troppo lontani, che la fanno sembrare già morta.
No, lei non lo avrebbe fatto.
Ricordo quando ho letto il suo quaderno. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire. Voglio morire.
E la pagina dopo. No, voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere. Voglio vivere.
Non le ho mai confessato di averlo letto, ma lei lo aveva già capito quella volta. «È grazie a te che non ho più paura di vivere» mi aveva detto.  E io avevo sorriso e annuito, e il mio cuore si era riempito di qualcosa di bello, di luminoso e dolce allo stesso tempo, come le palline di finto ghiaccio fatte di zucchero con cui si decorano le torte. E l’avevo baciata.
Torno ad accarezzarle i capelli, ma questa volta più intensamente, come piaceva – no, piace, piace – a lei, mentre penso svegliati, svegliati, svegliati, amore mio, svegliati.
E vedo i suoi capelli castani per metà e l’ultima metà color rosso violino, mentre ascoltava sempre gli altri e non parlava mai e non sapeva chi ero. E penso a quando avevo creduto che fossero tutti di un colore, alla fermata dell’autobus, quando la pioggia li aveva bagnati e lei non se ne curava. Portava dei jeans scuri e delle Vans sfasciate e una maglietta nera. Il libro che leggeva non veniva distrutto dalla pioggia, perché lei stava facendo di tutto per proteggerlo, con le mani, con la testa. Leggeva, leggeva, leggeva e non si era accorta che ero andato a coprirla con l’ombrello e non sapeva chi ero. Quando la osservavo di nascosto, supplicando che arrivasse l’occasione di sentire la sua voce, mi sentivo in colpa, perché notavo come si stringeva su se stessa su quella sedia – come se avesse potuto diventare più piccola di quel che era – come se percepisse il mio sguardo su di lei. Ma il desiderio di sentirle dire qualcosa era troppo. Ma non parlava mai.
Il mio sguardo è fisso, fisso su di lei e sulla speranza che possa tornare ad abbracciarmi. Cerco altri lividi. Ne trovo tanti, troppi, sulle braccia, sulle caviglie. Mi vergogno di pensare che quel camice verde, che sembra fatto di carta, è troppo trasparente. Posso vedere i contorni del suo corpo. È una vergogna simile a quella che ho provato la prima volta che ho sentito la sua voce.
«La taciturna è svenuta! È morta!» urlavano al Centro. La taciturna, era soprannominata così da tutti lì, perché non parlava mai. Mi ero precipitato senza motivo nella sua stanza, seguendo la massa di persone curiose. Era in bagno, con solo una maglia addosso, seduta – crollata – sul pavimento. La maglia era bagnata, lunga, ma non la copriva abbastanza. Le gambe. Ricordo ancora ogni cicatrice di quelle gambe, che tremavano tanto. Tutti guardavano, bisbigliavano, ridacchiavano, ma la lasciavano lì. La testa piegata da un lato, lo sguardo perso e vuoto di chi si ritrova davanti un’esplosione e non sa che fare. In quel momento avevo provato rabbia. E gelosia. Gelosia perché tutti stavano guardando qualcosa che avrei voluto guardare solo io. E poi quella vergogna, perché pensavo a me mentre lei stava ancora lì. Mi ero fatto strada tra le persone e l’avevo raccolta con la stessa attenzione che si riserva per i fiori, per le cose belle e fragili. Era bagnata, incosciente, leggera. E, forse per istinto, mi aveva stretto. «Niall..» aveva biasciato, ma io lo ricordo come un urlo per le mie orecchie, echeggiante nel mio petto. Dolce, armonioso, piacevole, come una carezza ricevuta da un guanto di seta. Sapeva chi ero. Perché non parlava mai?
«Di qualcosa.» supplico lei, supplico Dio, supplico qualsiasi cosa in questo mondo possa aiutarmi.
Sono passate due ore da quando sono entrato, venti ore da quando è successo, un giorno dall’ultima volta che ho dormito. Sono seduto ancora sulla poltrona che sembra scomoda, ma non ci faccio caso. Ho sonno, ma dormire sembra una cosa così inutile. Decido di starle ancora più vicino. Mi alzo, raggiungo di nuovo il letto e lo tiro verso quello di Abby. Non è il suo letto. Fa rumore e ho paura che venga l’infermiera a dirmi che non posso farlo, sicuramente non posso. Ma io mi sdraio accanto a lei. Non mi interessa se qualcuno lo ha lasciato da poco, se non è pulito, voglio solo starle più vicino possibile. Sto attento ai tubicini trasparenti, attraverso i quali scorre un liquido che sembra limpido come l’acqua. Mi ravvicino piano e sono tornato a casa. Non posso fare a meno di stringerla con un braccio e far sprofondare la testa sulla sua spalla. Respiro e sembra passato così tanto tempo da quando ho respirato. Forse le sto facendo male, mi dispiace. Faccio scivolare la mano sulla sua pancia fino a raggiungere le sue dita. Non ha fili attaccati da questa parte, quindi ne approfitto per stringere la mano e portarmela alla guancia. Ma è una carezza senza vita.
Una volta avevo ricevuto una chiamata dal Centro. Era sabato ed era Abby. Ormai stava in quel posto solamente nel weekend, perché gli altri giorni era con me. Ricordo che ero spaventato, forse un brutto presentimento, la sua voce al telefono era stata roca e spezzata. Arrivato al Centro avevo litigato con la segretaria di turno per avere il permesso di entrare. In camera sua non c’era nessuno. Non so ancora chi fosse la sua compagna di stanza, a dire il vero. In un primo momento non avevo notato quel fagotto bianco rintanato in un angolo a piangere. «Ehi, che succede?» avevo domandato. Continuava a piangere. Mentre mi avvicinavo i singhiozzi si facevano più grossi, mi stavano uccidendo. «Non te lo permetto.» aveva detto. Ero scioccato, impaurito. Stavo lì come un blocco di ghiaccio. Cosa doveva permettermi? «Cosa, Abby?» mi ero inginocchiato e avevo messo le mani sulle sua ginocchia. Il contatto per lei era troppo, per me troppo poco. «Di stare con me. Tu sei eccezionale e io..» le forbici. Non dovevano esserci forbici in quel posto. Aveva lasciato la presa, dopo averle strette così tanto da avere i palmi arrossati e le nocche bianche. «Dove le hai prese?» la domanda era spontanea, non davano forbici a tutti. «Hanno detto che posso usarle, che si fidano di me, e invece..» si era coperta il volto con le mani. «E invece hai pensato bene di usarle contro di te? Che ti prende, Abby?! Stavi migliorando, stavi-» «Che mi prende? Chi ti credi di essere? Non pensare di poter cambiare la mia vita, sono così e tu con me non hai niente da guadagnare. Credimi.» ancora non ero riuscito a vedere i suoi occhi, ma in quel momento non ci facevo caso. In quel momento, ero arrabbiato. «Santo Dio Abby sono mesi che dico di amarti e secondo te non ho niente da guadagnare? Ogni giorno che passo con te, ogni ora, ogni secondo con te vale la pena. Perché questa assurda considerazione di te stessa?» cosa aveva fatto il mondo per essere odiato da lei? «Tu.. tu sei arrivato qua e mi hai controllato e ti sei convinto di volermi salvare, ecco cosa! ma tu non sai niente di me!» urlava, piangeva. Finalmente ero riuscito a vedere i suoi occhi, quel castano luminoso pieno lacrime da poterci annegare dentro. «Niente?! So che hai passato la vita intera credendo di essere inferiore. So che impieghi tre giorni per leggere un libro di 389 pagine. So che la notte ti tormenti finché non trovi le mie braccia. So che hai deciso di venire da me perché sai che non sono un eroe, perché non voglio salvarti, perché sprofonderei all’inferno con te. So che continui a stare in questo posto per poter cambiare, ma che contemporaneamente non vuoi farlo. So che sai parlare, so che quello che dicono gli altri non conta, perché io ti conosco e sono fortunato e loro non lo sono. E so che mi ami, ma che non me lo dici mai. Sì, so che mi ami, perché me lo dimostri giorno dopo giorno. E non venirmi a dire che queste cose non sono vere, potrei elencartene altre centomila.» nessuna risposta – fa così quando pensa di aver torto. Allora mi ero avvicinato ancora e lei mi aveva fatto spazio in quell’angolino. Da lì il letto sembrava più grande, quasi più comodo. Avevo preso le sue mani per controllare che non si fosse fatta male e avevo capito davvero perché piangeva. Non l’aveva fatto. Le cicatrici c’erano, ma erano vecchie. E io le amavo. Le amavo perché ogni cicatrice l’aveva portata a me e mi vergognavo a pensarlo. Ogni dito veniva tempestato dai miei baci e lei non diceva niente. Ogni segno del male che si era fatta adesso sapeva di me e le mie labbra sapevano della sua pelle. Avevamo sentito le signore bussare alla porta accanto e rimproverare per le urla e poi dire «Non incolpate gli altri! Sapete bene che la ragazza non parla!» e avevamo riso. Quando infine l’avevo abbracciata, si era aggrappata a me quasi arrampicandosi, con tale brama da farmi pensare che non aspettasse altro da tutta la vita, che volesse il contatto con me come io lo volevo con lei. E il suo odore non era come gli altri. Se all’inizio mi era sembrata delicata, il suo profumo aveva smentito tutto. I suoi vestiti odoravano di sapone da bucato scarso, ma la sua pelle sapeva di lei, sapeva di qualcosa di agrodolce e nello stesso momento sapeva di sofferenza. Era come se il suo odore sintetizzasse il suo carattere. Adoravo respirare il suo carattere.
Sto piangendo e sto bagnando il camice. Mi asciugo le lacrime e penso che dovrei rimettermi sulla poltrona e dormire. Mi asciugo le lacrime e spero di chiudere gli occhi e svegliarmi da quest’incubo. Penso che non credeva di essere abbastanza per me, di non meritare una persona come me. Ma io, infine, chi sono senza Abby? Che senso avrebbe vivere senza salvarla ogni volta che ne ha bisogno ed essere salvato ogni volta che mi stringe?
Non riesco a staccarmi da lei e crollo di nuovo sulla sua spalla. Ispiro e mi rendo conto che quello non è il suo profumo, adesso puzza di chimico e di qualcosa che non è il suo carattere. Forse un giorno dimenticherò il suo profumo, forse non lo sentirò più. Non vorrei, ma mi addormento.
Sto sognando, sogno il suo sorriso e sogno i suoi occhi che sorridono con le sue labbra. Sono screpolate, come sempre. Ha la vestaglia bianca, quella di sempre, quella che avevo scambiato per una maglietta. Guarda solo me – ma forse ci sono solo io – e mi fa l’occhiolino. Mi osservo e ho la chitarra in mano. Non so se è comparsa solamente adesso, perché la desideravo. C’è una panchina dietro di me e mi siedo. Mi chiede di suonare come fa sempre e io le dico di sedersi accanto a me. Inizio a suonare una canzone che neanche conosco, ma le piace. Mi dice sempre che il pizzico delle mie dita sulla chitarra produce il suono più bello che abbia mai sentito. Continuo a suonare e a guardarla sorridere e muovere la testa a tempo di musica. Tante volte l’ho vista sorridere solo con le labbra, ma adesso ogni parte del suo viso sta sorridendo. I suoi occhi sono vivi. Le labbra tirate dal sorriso sembrano un mosaico fatto di rose sul quale si è appena appoggiata una ciocca ribelle che vorrei rimettere a posto. Sono passate ore e non l’ho ancora sfiorata. Poso la chitarra, la guardo e sta piangendo. Le domando con lo sguardo cosa succede e lei scrolla le spalle. Mi bacia. Forse è il sapore del sangue che le esce sempre dalle labbra quando fa freddo a rendere questo bacio dolce. Ma alla fine è dolce come tutti gli altri. Non tutti gli altri baci, tutti i suoi baci, quelli che decide lei di darmi.. Forse il mondo sta crollando, ma non importa, perché io sto mangiando il dolce. Stringo il suo viso tra le mani e continuo a baciarla e non siamo più sulla panchina. Sotto di noi c’è un letto e lei ride sulle mie labbra, perché sa che lo desideravo io. Crolliamo sul letto senza staccarci e so che sto sognando, perché è passato troppo tempo e non abbiamo ancora respirato. Ho chiuso gli occhi, è buio e non la vedo. Voglio solo non svegliarmi mai più. Voglio solo che tutti i gesti che fa sempre li facesse per sempre. Mi aveva promesso che niente ci avrebbe separato. Le accarezzo i capelli, le spalle e poi le guance e sono bagnate. Mi accorgo che qualcosa è cambiato per il mio naso, per il mio corpo, e mi stacco. È tornato l’odore chimico nauseante e ho paura di aprire gli occhi, ma lo faccio. La camicia è diventata verde e il sorriso è sparito. Mi chiede scusa e si volta.
Mi sveglio e una mano si è addormentata sotto la sua vita. Una è ancora stretta alla sua. Sto piangendo e mi ricordo il sogno. Le sue lacrime erano le mie lacrime.
Una quarta mano le sta asciugando.
Sgrano gli occhi e tremo. Guardo quella manina piena di tagli rimarginati che sta sfiorando la mia guancia. Cerco il suo viso, cerco i suoi occhi e sono aperti. Mi guardano, sconcertati, perplessi, amorevoli. Sorride ma io non ci riesco. Sto ancora sognando. Copro la sua mano con la mia e sento il calore. È la carezza più viva che io abbia mai ricevuto. È così viva che potrebbe mettersi a cantare. Mi chiede senza parlare cosa è successo e io faccio di no con la testa. Il tempo per parlarne arriverà, adesso voglio solo stare così. «Abby..» mi si spezza la voce, ma devo sapere che è reale. «Niall» è un sussurro biasciato a fatica, come il suo primo sussurro. È reale. È viva. «Riposa.» dico. Acconsente con un cenno della testa e si avvicina. Si avvicina, si avvicina, si stringe a me e se ne frega se sta rompendo quei tubicini. Siamo così stretti che il letto disfatto è vuoto e forse romperemo il suo. Ma chi se ne frega, non è il suo letto, non è casa sua. Sono io il suo letto, sono io casa sua, come lei è la mia. Sono io il suo tubicino, adesso solo io la tengo in vita.
 


she says:
ehi c:
okay, boh, non so cosa dire ahahah
allora, nuova one shot (captain obvious)
ammetto che è diversa da tutte le altre che ho scritto e penso sia anche migliore.
si, insomma, era da tanto che non scrivevo e ovviamente vengo influenzata molto da ciò che leggo, ma comunque ne sono felice c:
confesso che avevo scritto un altro finale, molto più triste di questo, perché era la mia idea dall'inizio, però qualcuno mi ha fatto cambiare idea, quindi ecco che Abby è viva!
vorrei tanto tanto tanto tanto sapere cosa ne pensate, ultimamente ho tante di quelle idee e così poco tempo ee la storia mi è venuta in mente mentre ascoltavo You and I dei One Direction, ovviamente, canzone che io amo follemente asdfghj
ringrazio davvero tanto, ma tanto, al limite dei ringraziamenti (?) @xtomlegendson 
alias la mia parabatai, alias la persona che crede nelle mie capacità (?)
okay, basta, fatemi sapere cosa ne pensate, ve ne prego!
xx
vanessa

 
   
 
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