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Autore: RoSyBlAcK    03/05/2008    9 recensioni
La Guerra è finita da poche ore, e ognuno deve far fronte ai danni che questa fine comporta.
Tutti i danni, incluso un'immensità di tempo a disposizione. Tempo in cui ridere. Tempo in cui piangere. A meno di non essersi dimenticati come si fa.
Harry e Ginny si ritrovano, casualmente, riscoprendo ancora una volta in che misura abbiano bisogno l'uno dell'altra.
Finalmente la Harry/Ginny che vi avevo promesso =)
-One Shot scritta per il contest "One shot- one emotion" del Forum La mitica Beauxbatons. Ho vinto vinto vinto :D *felice*-
Genere: Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Harry/Ginny
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non è uno dei miei pezzi migliori ma, incredibilmente, sono riuscita a pubblicarvi questa Harry/Ginny. Contenti? Preparate i fazzoletti, ci ho dato dentro con il tagliamento di vene :P

Spero vi piaccia comunque anche se a me non fa impazzire ^___^


_ A chi mi fa ridere anche quando non ne ho voglia _



.Aiutami.



Ginevra Weasley era stata una bambina ed un’adolescente forte, determinata, passionale, altruista. Questi pregi l’avevano accompagnata per tutta la sua vita, dandole la spinta necessaria per alzarsi ogni mattina ed affrontare gli ostacoli che la vita le poneva davanti. E di ostacoli, la vita ne aveva posti molti sul cammino di Ginevra Weasley. Tuttavia, quello che le era sempre venuto meglio era il superare i propri limiti, e l’aveva fatto ogni giorno, assiduamente e metodicamente, senza mai perdersi d’animo.

Quando era piccola, tutto ciò che voleva era emulare i suoi 6 fratelli maggiori, poterli seguire ovunque e comunque, nonostante fosse più piccola e una femmina. Non era stato facile correre dietro a loro sulle cime degli alberi, su scope volanti più alte di lei, infondo a caverne piene di misteri e lungo torrenti in piena. Ma, tra ginocchia sbucciate e unghie rotte, Ginevra era riuscita a non essere da meno e a conquistare il loro rispetto.

Quando era cresciuta, avrebbe voluto indossare anche lei una divisa nuova di zecca con il colletto bianco, scarpe femminili, e avrebbe persino voluto dimenticare come riempire il letto di qualcuno di ragnatele nel mezzo della notte pur di sapere come truccarsi gli occhi in maniera decente. Ma, tra mal riusciti tentativi di make up e quasi impossibili trucchi per rendere più femminili le divise smesse di 6 generazioni di Weasley, era riuscita ad essere una delle ragazze più ambite di tutta Hogwarts.

Eppure la stessa Ginevra aveva trovato parecchio divertente pensare a quelle piccolezze come “sfide” quando, più tardi, si era trovata a fronteggiare sfide ben maggiori. Quando i limiti che aveva dovuto superare erano diventati più pericolosi, la sua grinta era aumentata, e spingendosi al di la di essi, benché diventasse di giorno in giorno più faticoso, lei aveva imparato, di volta in volta, a sfruttare ciò che aveva imparato dal limite precedente.

La vita di Ginevra non era stata semplice, ma lei non si era lamentata mai, nemmeno una volta. Aveva imparato che le lacrime non servono a niente e che se avesse perso tempo ad autocommiserarsi non avrebbe potuto affrontare tutto quello che doveva, e che voleva.

E la cosa che più l’aveva sorpresa di se stessa era stata la sua stessa capacità di stringere i denti e difendersi con le unghie, di rischiare il tutto per tutto ogni giorno e ogni momento.

Non si era scoraggiata. Non durante le notti passate sveglia a fissare il lago dormiente di Hogwarts, non quando sui giornali leggeva dei caduti, non quando la nostalgia di Harry, Ron ed Hermione era tale da non riuscire a respirare, non quando si era intrufolata di qua e di la per il castello a rubare vecchi cimeli o quando aveva rimesso insieme l’ES, né mai.

Tuttavia adesso Ginevra si ritrovava a fronteggiare l’unico limite che nessuno era mai stato in grado di superare. Nel mezzo della Sala Grande piena di gente e inondata di una strana luce grigia, fissava il viso immobile e cereo di suo fratello Fred. Morto. Morto. Morto. Se lo ripeteva nella mente tentando di ordinare le idee e le parole e persino le lettere, ma tutto roteava senza un vero senso. Era qualcosa che nessuno avrebbe mai dovuto vedere, qualcosa che nessuno avrebbe mai dovuto vivere. C’era un sacco di rumore, voci e singhiozzi e urla, uno strano misto di euforia e di desolazione, ma lei non riusciva a distinguere niente. E anche gli altri corpi stesi a terra, sembravano avere i contorni sfumati, sfumati proprio come erano ora le loro vite. E lei avrebbe voluto guardarli, rendere loro onore lanciandosi su di loro e piangendo. Avrebbe voluto toccare i capelli viola di Tonks e la barba sfatta di Remus e persino aggiustare gli occhiali spessi di Colin Cannon, ma l’unico viso che riusciva a fissare era quello di suo fratello Fred.

E anche per lui avrebbe voluto piangere. Avrebbe dovuto piangere.

Ma piangere avrebbe reso così reale il fatto che non avrebbe mai più sentito la sua voce. Perché se c’era stata una persona nella vita di Ginevra che le aveva insegnato che piangere non era cosa da fare, quella era stata Fred. Fin dalle prime ginocchia sbucciate e dalle prime scivolate dalla scopa, lui l’aveva guardata con il suo ghigno e le aveva detto: “No, Ginny. Quelle lacrime non le voglio vedere. Cosa pensi? Che piangere ti farà sentire meno male, eh? Non voglio una femminuccia qualunque come sorella minore.” E mentre si ripeteva quelle parole nella testa, Ginevra avrebbe voluto urlargli che il male che sentiva ora era qualcosa di nemmeno lontanamente paragonabile ad una caduta dalla scopa. Ma contemporaneamente avrebbe voluto urlargli che quello scherzo era troppo, immensamente troppo, persino per lui, per Fred Weasley, grande Re degli scherzi. Troppo. E persino lei, sua sorella, la sorella che aveva sopportato di trovare animali morti tra le coperte e fango al posto dell’acqua della doccia, e prosciutto piccante nei suoi panini, e che aveva riso per questi scherzi e che aveva tentato di replicare con risultati sempre meno scarsi nel corso degli anni… persino lei, in quel momento, pensava che fosse troppo. Troppo, anche per lui, il Re degli scherzi. Lo fissava, con la stupida ed infantile convinzione che lui avrebbe aperto gli occhi e si sarebbe messo a ridere reggendosi la pancia con le mani, avrebbe indicato sua madre sciolta in lacrime, e il suo gemello tremante di dolore, e tutti i presenti in quella stanza e avrebbe detto una sciocca frase come: “non ditemi che dopo tanti anni ci cascate ancora!”. Lo fissava e sperava, in maniera irragionevole e capricciosa, di essere ancora quella sorella che avrebbe riso, l’unica che avrebbe riso, dall’alto della sua (vana, ora) convinzione di averlo sempre saputo. E lui le avrebbe preso le spalle tra le mani e, guardandola negli occhi, avrebbe detto quella frase che invece non era mai stato abbastanza uomo da dire nella realtà.

Le avrebbe detto che era fiero di lei.

Ma i minuti scorrevano, e nuovi corpi si aggiungevano alla macabra sfilata accanto al corpo di Fred, che diventava di attimo in attimo più freddo ed irreale, con quell’espressione gelata e addolorata, come in vita non l’aveva mai avuta.

Arthur Weasley prese sua moglie sotto braccio e la condusse via, via da quel dolore insopportabile.

Pearcy e Charlie portarono via George.

Fleur portò via Bill.

Ginny avrebbe voluto seguirli. Smettere di sperare che quel viso sorridesse, si muovesse, diventasse rosso e scoppiasse nella sua abituale risata.

Pensava che avrebbe dovuto essere diverso. Quello per cui aveva lottato, la fine della guerra e la fine di Voldemort e la vittoria di tutti loro, avrebbe dovuto essere diverso. Non doveva terminare con lei che, sola, tentava di superare quel limite così spaventoso. Doveva terminare con Harry che le correva incontro, la baciava e le diceva che l’amava. Così doveva finire.

E invece era sola.

Harry non c’era.

Non c’era stato in tutti quei giorni, non c’era stato per lei nonostante lei fosse sempre stata lì per lui, a combattere la sua battaglia come se fosse propria. Ma in quel momento, in quel preciso momento, mentre Ginevra sentiva, per la prima volta in tutta la sua vita, di non potercela fare, lui non c’era. Ed era giusto che lui non fosse lì. Normale. Aveva altro a cui pensare. C’erano altre persone che avevano bisogno di lui. E anche lui aveva bisogno di altre persone, in quel momento, come in ogni altro momento. Persone. Come Ron ed Hermione.

Si chinò sul viso di Fred. Con un dito gli toccò la guancia perfettamente asciutta. Nemmeno lui aveva versato una lacrima. La spinse in su finché le sue labbra s’incurvarono in una specie di ghigno. Posò anche l’altro indice e tirò su anche l’altro angolo della sua bocca, affinché sul suo viso sorgesse il fantasma di quel sorriso che aveva imparato a conoscere così bene.

-Ehi, Freddie. Ce l’hai fatta, sai. Questa volta hai davvero superato te stesso.- Sussurrò, un po’ malinconica, un po’ acida.

Avrebbe tanto voluto una risposta, ma improvvisamente seppe che non sarebbe arrivata. Lo seppe in un modo così definitivo e doloroso che, per la prima volta in tutta la sua vita, non provò l’impulso di superare un ostacolo. Desiderò con tutta se stessa accasciarsi a terra e restare lì, essere sepolta insieme a suo fratello e insieme ai giorni in cui era stata felice perché, per la prima volta nella sua vita, Ginevra non sentì di poter essere felice di nuovo.

Era una sensazione così dolorosa e tremendamente forte che si sentì soffocare. Accarezzò per un ultima volta il viso di Fred, si voltò, ed iniziò a camminare via, piano. Piano perché ora il tempo non aveva più alcuna importanza, ora che non aveva nessuna battaglia da combattere, nessuno più per cui battersi. Non la sua famiglia, non il suo mondo, non i suoi amici. E nemmeno Harry, perché

Harry era da qualche parte con Ron ed Hermione, e ovunque egli fosse sembrava che lei fosse il suo ultimo pensieri.

Per la prima volta nella sua vita Ginevra sentiva di essere lei ad aver bisogno di qualcuno, di essere lei ad aver disperato bisogno di essere soccorsa, e l’unica persona al mondo che sia mai accorsa in suo aiuto era lui, Harry. E lei doveva trovarlo, ovunque fosse. Imporsi a lui, come non si era mai imposta a nessuno. Obbligarlo a guardarla. Obbligarlo ad esserci.


Harry fece un lungo, profondo sospiro. La guferia era vuota, desolata, se non per qualche solitaria civetta che aveva appena terminato l’ultimo viaggio e strati e strati di feci depositate negli anni. Il sole era ancora basso sull’orizzonte, il paesaggio sembrava intento a scrollarsi di dosso la lunga notte sanguinosa. C’era un innaturale silenzio, ovattato.

Improvvisamente la calma lo invase, e fu una strana sensazione, inebriante. Sentiva un vuoto totale dentro di se, come se non ci fosse più nulla. Non la paura non la tristezza non la frenesia non l’orgoglio… Niente. Si sentiva sull’orlo di un precipizio, e quel brivido, il brivido di quando stai per lanciarti, ormai è deciso, alzi un piede e sei quasi nel vuoto, quel brivido di eccitazione e paura e non- sensazione, lo percosse da capo a piedi.

Era il precipizio più profondo dal quale si fosse mai lanciato.

E nella sua vita di precipizi ce n’erano stati molti.

Ma lui non sapeva, non poteva sapere, come affrontare una vita nella quale non dover più combattere. Non lo sapeva. Poi ebbe la breve, fugace, visione di se in un supermercato. Si vide spingere un carrello della spesa con dentro una paffuta bambina dai capelli rossi e metterci dentro la pastasciutta. Fu tanto strano pensare a se stesso in un mondo normale e reale che avrebbe voluto ridere. Avrebbe davvero voluto ridere. La tensione accumulata era tanta, si rese conto che negli ultimi mesi non aveva abbassato un attimo la guardia, era rimasto sempre concentrato e attento fino alla paranoia. E anche ora, ora che era tutto finito non riusciva a smettere di stare lì, immobile, rigido come un palo, sull’attenti, come se dovesse ancora difendere qualcuno, gli altri, se stesso.

Ma Harry voleva ridere. Aveva pazzamente voglia di ridere.

Ridere per il terrore e per la tristezza e per tutta la fatica che aveva speso per distruggere un uomo (un uomo, infondo, semplicemente un uomo)… e se solo avesse saputo che alla fine l’avrebbe davvero distrutto.

Voleva ridere.

Ma si rese conto che non ne era più in grado.

Quanto tempo era che non rideva?

Un breve lampo di panico gli serrò la gola. Si voltò su stesso, sempre rigido come un soldato, e uscì dalla guferia ormai inondata di luce.

Prese a camminare per i corridoi semi deserti, e ovunque c’era quell’aria, quella specie di pace innaturale, quel silenzio ovattato, quell’eccitazione assopita dal cordoglio. Un’aria che Harry non avrebbe mai più respirato, se non nella memoria. In quel momento gli sembrò l’aria di qualcosa che finisce, ma più tardi si rese conto che era l’aria di quando qualcosa sta iniziando.

Tutti coloro che incrociava gli sorridevano, lo abbracciavano, gli davano pacche sulle spalle, gli chiedevano “come stai?”. Mai in vita sua Harry aveva odiato tanto la domanda “come stai?” perché mai come in quel momento era stato tanto bene e tanto male. C’erano un’infinità di motivi per cui doveva stare bene. C’erano un’infinità di motivi per cui doveva stare male.

Rispondeva a tutti: “Tutto bene”. Era quello di cui avevano bisogno. Di sentirsi dire che Harry Potter stava bene.

Ma nessuno di quelli che incontrava (nessun abbraccio nessuna pacca sulla spalla nessuna conferma del fatto che il loro Eroe stesse bene) era un viso conosciuto, almeno così gli sembrava. A volte scorgeva qualcuno di lontanamente noto. Ma nessuno più di un conoscente.

Si stava chiedendo dove fossero finiti tutti coloro che avrebbe avuto voglia di vedere, quando la voglia di ridere gli venne prosciugata in corpo dalla visione di Ginevra. Vide i suoi capelli rossi come prima cosa, li vide sparire al di la di un angolo e la seguì, accelerando il passo. Aveva le mani penzoloni lungo i fianchi, la divisa di Hogwarts lisa, le calze rotte, i capelli sporchi e in disordine.

-Ginny.- La chiamò. Lei si voltò verso di lui con una lentezza esasperante e sul suo viso, sporco e tagliato, si aprì un sorriso tanto privo dell’abituale entusiasmo e dell’abituale forza, che per un attimo Harry si chiese se non aveva sbagliato persona.

-Harry.- Lo chiamò lei. Non le era mai sembrato tanto eroico come in quel momento, non le era mai sembrato tanto perfetto e tanto cavalleresco, con i capelli spettinati e il labbro rotto e la maglietta ancora un po’ stracciata. –Harry.- Ripetè, con una lentezza ed un sollievo che lo fecero sorridere. –Ti ho cercato talmente tanto che dubitavo fossi ancora reale.

Harry l’aveva voluta proteggere da tante cose, nel corso della loro amicizia, prima, e della loro storia, poi. L’aveva voluta proteggere da un diario, da un Basilisco, dalla gente, da Voldemort, da Dean Thomas, da tutti i suoi ammiratori e corteggiatori, dai Mangiamorte, da se stesso. Eppure in nessun momento gli era parsa tanto fragile, tanto vulnerabile. Tanto bisognosa di quella protezione.

-A quanto pare, invece, lo sono. Cicatrice, occhi verdi e tutto il resto.

Ginny aveva sorriso. –Menomale.

-Mi dispiace.- Sussurrò lui.

Ginny annuì. –Sì… Tu come ti senti?

-Non lo so. Tu?

-Nemmeno.

Si erano guardati per un lungo momento. Silenzio.

Harry aveva sorriso. Ginny aveva sorriso.

-Sei qui.- Aveva detto Ginny, alla fine.

-Sì. Sono qui. E tu?

-Sì. Qui.

Harry sentì di essere caduto nel precipizio, e involontariamente l’idea lo fece scoppiare a ridere. Guardando gli occhi nocciola di Ginny e i suoi capelli rossi e l’evidente dolore sul suo viso, Harry non riuscì a trattenere una risata fragorosa e liberatrice come non ne faceva da una vita.

Ginny lo guardò per un attimo, lo guardò, ridere con le lacrime agli occhi, ridere istericamente e sguaiatamente, e per un attimo non capì cosa stava succedendo. Poi lui le appoggiò sulla spalla una mano, e allora capì. Non poteva superare quel limite, ma poteva comunque andare avanti.

Andare avanti.

Quella sensazione di vuoto e di cadere in un precipizio che aveva investito Harry con un attacco di risa, colse anche Ginny. Si sentì come se le tagliassero via tutti i suoi punti fissi e la spingessero in un tunnel completamente sconosciuto, di cose nuove, un tunnel che lei non sapeva dove avrebbe portato, che lei non sapeva affrontare. Ed ebbe paura.
Harry non capì subito cosa stava succedendo. Pur non riuscendo a smettere di ridere prese a guardarla, studiandola come un esemplare raro. E un esemplare raro era effettivamente affiorato sul viso di Ginny: una lacrima. Era piccola, era bagnata, scivolava. Piano.

-Piangi?- Aveva chiesto.

Ed è buffo come, a volte, non ci si rende conto di tirare un calcio ad un sassolino che andrà a creare una valanga. Fissandolo negli occhi per una frazione di secondo, Ginny iniziò a singhiozzare. Non sapeva nemmeno più se piangeva di dispiacere o di sollievo. Se era un’immensa tristezza o un’immensa felicità.

E prima di rendersene conto, le braccia di Harry la stavano stringendo, così forte che per un secondo si sentì soffocare. Era un gesto così semplice, le loro braccia avvolte le une intorno al corpo dell’altro, la testa di lei sul petto di lui, un contatto così innocente nella sua intimità. Un abbraccio. Si rese conto che per tutto quel tempo non aveva desiderato che questo, sentirlo così vicino da perdere la dimensione di se stessa, la cognizione del tempo, il senso di realtà. Sentiva il suo cuore battere contro il proprio orecchio, e il suo respiro, leggermente affannato per la risata interrotta, per la sorpresa di trovarsi così, nel mezzo di un corridoio qualunque, con una ragazza tra le braccia. Con lei tra le braccia.

-Non ho il diritto di piangere.- Sussurrò Ginevra. –Non so nemmeno perché sto piangendo.

Sentì la mano di Harry sfiorarle piano la schiena. Aveva paura di guardarlo in faccia, paura di scoprire la sua espressione. –Penserai che sono una sciocca.

-Penso molte cose di te. E “sciocca” non è tra quelle.

Le venne da ridere, alzò gli occhi su di lui e i loro nasi si sfiorarono. Erano talmente vicini che Ginny non riusciva a vedere se aveva pianto, ma sentiva il sapore del suo fiato sulla faccia. Rideva, ancora. E anche lei si mise a ridere. Perché era così buffo, dopo tutto quello che aveva vissuto, dopo tutto quello che aveva attraversato, essere lì, finalmente lì, finalmente con lui, come aveva sempre voluto… e piangere.

Harry le prese una mano ed iniziò a massaggiargliela. Piano. La mano di Ginevra era piccola e calda, soffice. Le sue piccole dita si ancoravano alle sue. All’inizio restò confusa, poi cedette al suo tocco, iniziò a rispondere alle carezze, lentamente, man mano che la voglia di ridere e di piangere passava, tutto il loro mondo sembrò concentrato sulla mano dell’altro. Morbida, ruvida. Piccola, grande. Fragile, forte. Il tempo aveva smesso di scorrere, e se scorreva non scorreva certo per quelle mani, giovani mani che, improvvisamente, inaspettatamente, avevano davanti un’intera vita per scoprirsi. Scoprirsi. Sfiorarsi. Toccarsi. Accarezzarsi. Con passione. Con dolcezza. Con malizia. Con desiderio.

Senza esitazione.

Ed in futuro nessuno dei due sarebbe stato in grado di definire l’esatto momento in cui quel gioco di dita, quel tentativo di trasmettersi conforto e regalarsi piacere era diventato sentimento. Nessuno dei due sarebbe riuscito a ricordare la dinamica secondo cui l’unione delle loro mani era diventata mani che frugano la schiena dell’altro, e mani trai capelli, e risolii senza senso, quando quel contatto fugace trai loro nasi aveva iniziato a scaldar loro la pelle.

E quando, quando, le loro labbra si erano unite, piano, forse, o velocemente; avidamente, forse, o teneramente; e la carezza era diventata bacio.

E come, senza una parola, in quel bacio si erano detti tutte le cose che avevano collezionato nella mente nei lunghi giorni, mesi, anni precedenti di forzato e indesiderato silenzio.

Forse era la stanchezza, forse la troppa emozione, forse la tensione, forse le troppe sensazioni. Forse il fatto che di quel giorno non riparlarono mai più.

Ma nei giorni, mesi, anni successivi, le loro mani, le loro labbra, i loro corpi, si incontrarono ancora molte e molte volte.

Ed entrambi, lo ricordano alla perfezione.

  
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