Non è uno dei miei pezzi migliori ma, incredibilmente, sono
riuscita a pubblicarvi questa Harry/Ginny. Contenti? Preparate i fazzoletti, ci
ho dato dentro con il tagliamento di vene :P
Spero vi piaccia comunque anche se a me non fa impazzire
^___^
_ A chi mi fa ridere
anche quando non ne ho voglia _
.Aiutami.
Ginevra
Weasley era stata una bambina ed un’adolescente forte, determinata, passionale,
altruista. Questi pregi l’avevano accompagnata per tutta la sua vita, dandole
la spinta necessaria per alzarsi ogni mattina ed affrontare gli ostacoli che la
vita le poneva davanti. E di ostacoli, la vita ne aveva posti molti sul cammino
di Ginevra Weasley. Tuttavia, quello che le era sempre venuto meglio era il
superare i propri limiti, e l’aveva fatto ogni giorno, assiduamente e
metodicamente, senza mai perdersi d’animo.
Quando
era piccola, tutto ciò che voleva era emulare i suoi 6 fratelli maggiori,
poterli seguire ovunque e comunque, nonostante fosse più piccola e una femmina.
Non era stato facile correre dietro a loro sulle cime degli alberi, su scope
volanti più alte di lei, infondo a caverne piene di misteri e lungo torrenti in
piena. Ma, tra ginocchia sbucciate e unghie rotte, Ginevra era riuscita a non
essere da meno e a conquistare il loro rispetto.
Quando
era cresciuta, avrebbe voluto indossare anche lei una divisa nuova di zecca con
il colletto bianco, scarpe femminili, e avrebbe persino voluto dimenticare come
riempire il letto di qualcuno di ragnatele nel mezzo della notte pur di sapere
come truccarsi gli occhi in maniera decente. Ma, tra mal riusciti tentativi di
make up e quasi impossibili trucchi per rendere più femminili le divise smesse
di 6 generazioni di Weasley, era riuscita ad essere una delle ragazze più
ambite di tutta Hogwarts.
Eppure
la stessa Ginevra aveva trovato parecchio divertente pensare a quelle piccolezze
come “sfide” quando, più tardi, si era trovata a fronteggiare sfide ben
maggiori. Quando i limiti che
aveva dovuto superare erano diventati più pericolosi, la sua grinta era
aumentata, e spingendosi al di la di essi, benché diventasse di giorno in
giorno più faticoso, lei aveva imparato, di volta in volta, a sfruttare ciò che
aveva imparato dal limite precedente.
La
vita di Ginevra non era stata semplice, ma lei non si era lamentata mai,
nemmeno una volta. Aveva imparato che le lacrime non servono a niente e che se
avesse perso tempo ad autocommiserarsi non avrebbe potuto affrontare tutto
quello che doveva, e che voleva.
E
la cosa che più l’aveva sorpresa di se stessa era stata la sua stessa capacità
di stringere i denti e difendersi con le unghie, di rischiare il tutto per
tutto ogni giorno e ogni momento.
Non
si era scoraggiata. Non durante le notti passate sveglia a fissare il lago
dormiente di Hogwarts, non quando sui giornali leggeva dei caduti, non quando
la nostalgia di Harry, Ron ed Hermione era tale da non riuscire a respirare,
non quando si era intrufolata di qua e di la per il castello a rubare vecchi
cimeli o quando aveva rimesso insieme l’ES, né mai.
Tuttavia
adesso Ginevra si ritrovava a fronteggiare l’unico limite che nessuno era mai
stato in grado di superare. Nel mezzo della Sala Grande piena di gente e
inondata di una strana luce grigia, fissava il viso immobile e cereo di suo
fratello Fred. Morto. Morto. Morto. Se lo ripeteva nella mente tentando di ordinare
le idee e le parole e persino le lettere, ma tutto roteava senza un vero senso.
Era qualcosa che nessuno avrebbe mai dovuto vedere, qualcosa che nessuno
avrebbe mai dovuto vivere. C’era un sacco di rumore, voci e singhiozzi e urla,
uno strano misto di euforia e di desolazione, ma lei non riusciva a distinguere
niente. E anche gli altri corpi stesi a terra, sembravano avere i contorni
sfumati, sfumati proprio come erano ora le loro vite. E lei avrebbe voluto
guardarli, rendere loro onore lanciandosi su di loro e piangendo. Avrebbe
voluto toccare i capelli viola di Tonks e la barba sfatta di Remus e persino
aggiustare gli occhiali spessi di Colin Cannon, ma l’unico viso che riusciva a
fissare era quello di suo fratello Fred.
E
anche per lui avrebbe voluto piangere. Avrebbe dovuto piangere.
Ma
piangere avrebbe reso così reale il fatto che non avrebbe mai più sentito la
sua voce. Perché se c’era stata una persona nella vita di Ginevra che le aveva
insegnato che piangere non era cosa da fare, quella era stata Fred. Fin dalle
prime ginocchia sbucciate e dalle prime scivolate dalla scopa, lui l’aveva
guardata con il suo ghigno e le aveva detto: “No, Ginny. Quelle lacrime non le
voglio vedere. Cosa pensi? Che piangere ti farà sentire meno male, eh? Non
voglio una femminuccia qualunque come sorella minore.” E mentre si ripeteva
quelle parole nella testa, Ginevra avrebbe voluto urlargli che il male che
sentiva ora era qualcosa di nemmeno lontanamente paragonabile ad una caduta
dalla scopa. Ma contemporaneamente avrebbe voluto urlargli che quello scherzo
era troppo, immensamente troppo, persino per lui, per Fred Weasley, grande Re
degli scherzi. Troppo. E persino lei, sua sorella, la sorella che aveva
sopportato di trovare animali morti tra le coperte e fango al posto dell’acqua
della doccia, e prosciutto piccante nei suoi panini, e che aveva riso per
questi scherzi e che aveva tentato di replicare con risultati sempre meno
scarsi nel corso degli anni… persino lei, in quel momento, pensava che fosse
troppo. Troppo, anche per lui, il Re degli scherzi. Lo fissava, con la stupida
ed infantile convinzione che lui avrebbe aperto gli occhi e si sarebbe messo a
ridere reggendosi la pancia con le mani, avrebbe indicato sua madre sciolta in
lacrime, e il suo gemello tremante di dolore, e tutti i presenti in quella
stanza e avrebbe detto una sciocca frase come: “non ditemi che dopo tanti anni
ci cascate ancora!”. Lo fissava e sperava, in maniera irragionevole e
capricciosa, di essere ancora quella sorella che avrebbe riso, l’unica che
avrebbe riso, dall’alto della sua (vana, ora) convinzione di averlo sempre
saputo. E lui le avrebbe preso le spalle tra le mani e, guardandola negli
occhi, avrebbe detto quella frase che invece non era mai stato abbastanza uomo
da dire nella realtà.
Le
avrebbe detto che era fiero di lei.
Ma
i minuti scorrevano, e nuovi corpi si aggiungevano alla macabra sfilata accanto
al corpo di Fred, che diventava di attimo in attimo più freddo ed irreale, con
quell’espressione gelata e addolorata, come in vita non l’aveva mai avuta.
Arthur
Weasley prese sua moglie sotto braccio e la condusse via, via da quel dolore
insopportabile.
Pearcy
e Charlie portarono via George.
Fleur
portò via Bill.
Ginny
avrebbe voluto seguirli. Smettere di sperare che quel viso sorridesse, si
muovesse, diventasse rosso e scoppiasse nella sua abituale risata.
Pensava
che avrebbe dovuto essere diverso. Quello per cui aveva lottato, la fine della
guerra e la fine di Voldemort e la vittoria di tutti loro, avrebbe dovuto
essere diverso. Non doveva terminare con lei che, sola, tentava di superare
quel limite così spaventoso. Doveva terminare con Harry che le correva
incontro, la baciava e le diceva che l’amava. Così doveva finire.
E
invece era sola.
Harry
non c’era.
Non
c’era stato in tutti quei giorni, non c’era stato per lei nonostante lei fosse
sempre stata lì per lui, a combattere la sua battaglia come se fosse propria.
Ma in quel momento, in quel preciso momento, mentre Ginevra sentiva, per la
prima volta in tutta la sua vita, di non potercela fare, lui non c’era. Ed era
giusto che lui non fosse lì. Normale. Aveva altro a cui pensare. C’erano altre
persone che avevano bisogno di lui. E anche lui aveva bisogno di altre persone,
in quel momento, come in ogni altro momento. Persone. Come Ron ed Hermione.
Si
chinò sul viso di Fred. Con un dito gli toccò la guancia perfettamente
asciutta. Nemmeno lui aveva versato una lacrima. La spinse in su finché le sue
labbra s’incurvarono in una specie di
ghigno. Posò anche l’altro indice e tirò su anche l’altro angolo della
sua bocca, affinché sul suo viso sorgesse il fantasma di quel sorriso che aveva
imparato a conoscere così bene.
-Ehi,
Freddie. Ce l’hai fatta, sai. Questa volta hai davvero superato te stesso.-
Sussurrò, un po’ malinconica, un po’ acida.
Avrebbe
tanto voluto una risposta, ma improvvisamente seppe che non sarebbe arrivata.
Lo seppe in un modo così definitivo e doloroso che, per la prima volta in tutta
la sua vita, non provò l’impulso di superare un ostacolo. Desiderò con tutta se
stessa accasciarsi a terra e restare lì, essere sepolta insieme a suo fratello
e insieme ai giorni in cui era stata felice perché, per la prima volta nella
sua vita, Ginevra non sentì di poter essere felice di nuovo.
Era
una sensazione così dolorosa e tremendamente forte che si sentì soffocare.
Accarezzò per un ultima volta il viso di Fred, si voltò, ed iniziò a camminare
via, piano. Piano perché ora il tempo non aveva più alcuna importanza, ora che
non aveva nessuna battaglia da combattere, nessuno più per cui battersi. Non la
sua famiglia, non il suo mondo, non i suoi amici. E nemmeno Harry, perché
Harry
era da qualche parte con Ron ed Hermione, e ovunque egli fosse sembrava che lei
fosse il suo ultimo pensieri.
Per
la prima volta nella sua vita Ginevra sentiva di essere lei ad aver bisogno di
qualcuno, di essere lei ad aver disperato bisogno di essere soccorsa, e l’unica
persona al mondo che sia mai accorsa in suo aiuto era lui, Harry. E lei doveva
trovarlo, ovunque fosse. Imporsi a lui, come non si era mai imposta a nessuno.
Obbligarlo a guardarla. Obbligarlo ad esserci.
Harry
fece un lungo, profondo sospiro. La guferia era vuota, desolata, se non per
qualche solitaria civetta che aveva appena terminato l’ultimo viaggio e strati
e strati di feci depositate negli anni. Il sole era ancora basso
sull’orizzonte, il paesaggio sembrava intento a scrollarsi di dosso la lunga
notte sanguinosa. C’era un innaturale silenzio, ovattato.
Improvvisamente
la calma lo invase, e fu una strana sensazione, inebriante. Sentiva un vuoto
totale dentro di se, come se non ci fosse più nulla. Non la paura non la
tristezza non la frenesia non l’orgoglio… Niente. Si sentiva sull’orlo di un
precipizio, e quel brivido, il brivido di quando stai per lanciarti, ormai è
deciso, alzi un piede e sei quasi nel vuoto, quel brivido di eccitazione e
paura e non- sensazione, lo percosse da capo a piedi.
Era
il precipizio più profondo dal quale si fosse mai lanciato.
E
nella sua vita di precipizi ce n’erano stati molti.
Ma
lui non sapeva, non poteva sapere, come affrontare una vita nella quale non
dover più combattere. Non lo sapeva. Poi ebbe la breve, fugace, visione di se
in un supermercato. Si vide spingere un carrello della spesa con dentro una
paffuta bambina dai capelli rossi e metterci dentro la pastasciutta. Fu tanto
strano pensare a se stesso in un mondo normale e reale che avrebbe voluto
ridere. Avrebbe davvero voluto ridere. La tensione accumulata era tanta, si
rese conto che negli ultimi mesi non aveva abbassato un attimo la guardia, era
rimasto sempre concentrato e attento fino alla paranoia. E anche ora, ora che era
tutto finito non riusciva a smettere di stare lì, immobile, rigido come un
palo, sull’attenti, come se dovesse ancora difendere qualcuno, gli altri, se
stesso.
Ma
Harry voleva ridere. Aveva pazzamente voglia di ridere.
Ridere
per il terrore e per la tristezza e per tutta la fatica che aveva speso per
distruggere un uomo (un uomo, infondo, semplicemente un uomo)… e se solo avesse
saputo che alla fine l’avrebbe davvero distrutto.
Voleva
ridere.
Ma
si rese conto che non ne era più in grado.
Quanto
tempo era che non rideva?
Un
breve lampo di panico gli serrò la gola. Si voltò su stesso, sempre rigido come
un soldato, e uscì dalla guferia ormai inondata di luce.
Prese
a camminare per i corridoi semi deserti, e ovunque c’era quell’aria, quella
specie di pace innaturale, quel silenzio ovattato, quell’eccitazione assopita
dal cordoglio. Un’aria che Harry non avrebbe mai più respirato, se non nella
memoria. In quel momento gli sembrò l’aria di qualcosa che finisce, ma più
tardi si rese conto che era l’aria di quando qualcosa sta iniziando.
Tutti
coloro che incrociava gli sorridevano, lo abbracciavano, gli davano pacche
sulle spalle, gli chiedevano “come stai?”. Mai in vita sua Harry aveva odiato
tanto la domanda “come stai?” perché mai come in quel momento era stato tanto bene e tanto male. C’erano un’infinità di
motivi per cui doveva stare bene. C’erano un’infinità di motivi per cui doveva
stare male.
Rispondeva
a tutti: “Tutto bene”. Era quello di cui avevano bisogno. Di sentirsi dire che
Harry Potter stava bene.
Ma
nessuno di quelli che incontrava (nessun abbraccio nessuna pacca sulla spalla
nessuna conferma del fatto che il loro Eroe stesse bene) era un viso
conosciuto, almeno così gli sembrava. A volte scorgeva qualcuno di lontanamente
noto. Ma nessuno più di un conoscente.
Si
stava chiedendo dove fossero finiti tutti coloro che avrebbe avuto voglia di
vedere, quando la voglia di ridere gli venne prosciugata in corpo dalla visione
di Ginevra. Vide i suoi capelli rossi come prima cosa, li vide sparire al di la
di un angolo e la seguì, accelerando il passo. Aveva le mani penzoloni lungo i
fianchi, la divisa di Hogwarts lisa, le calze rotte, i capelli sporchi e in
disordine.
-Ginny.-
La chiamò. Lei si voltò verso di lui con una lentezza esasperante e sul suo
viso, sporco e tagliato, si aprì un sorriso tanto privo dell’abituale
entusiasmo e dell’abituale forza, che per un attimo Harry si chiese se non
aveva sbagliato persona.
-Harry.-
Lo chiamò lei. Non le era mai sembrato tanto eroico come in quel momento, non
le era mai sembrato tanto perfetto e tanto cavalleresco, con i capelli
spettinati e il labbro rotto e la maglietta ancora un po’ stracciata.
–Harry.- Ripetè, con una lentezza ed un sollievo che lo fecero sorridere.
–Ti ho cercato talmente tanto che dubitavo fossi ancora reale.
Harry
l’aveva voluta proteggere da tante cose, nel corso della loro amicizia, prima,
e della loro storia, poi. L’aveva voluta proteggere da un diario, da un
Basilisco, dalla gente, da Voldemort, da Dean Thomas, da tutti i suoi
ammiratori e corteggiatori, dai Mangiamorte, da se stesso. Eppure in nessun
momento gli era parsa tanto fragile, tanto vulnerabile. Tanto bisognosa di
quella protezione.
-A quanto pare, invece, lo sono.
Cicatrice, occhi verdi e tutto il resto.
Ginny
aveva sorriso. –Menomale.
-Mi
dispiace.- Sussurrò lui.
Ginny
annuì. –Sì… Tu come ti senti?
-Non
lo so. Tu?
-Nemmeno.
Si
erano guardati per un lungo momento. Silenzio.
Harry
aveva sorriso. Ginny aveva sorriso.
-Sei
qui.- Aveva detto Ginny, alla fine.
-Sì.
Sono qui. E tu?
-Sì.
Qui.
Harry
sentì di essere caduto nel precipizio, e involontariamente l’idea lo fece
scoppiare a ridere. Guardando gli occhi nocciola di Ginny e i suoi capelli
rossi e l’evidente dolore sul suo viso, Harry non riuscì a trattenere una
risata fragorosa e liberatrice come non ne faceva da una vita.
Ginny
lo guardò per un attimo, lo guardò, ridere con le lacrime agli occhi, ridere
istericamente e sguaiatamente, e per un attimo non capì cosa stava succedendo.
Poi lui le appoggiò sulla spalla una mano, e allora capì. Non poteva superare quel limite, ma poteva
comunque andare avanti.
Andare
avanti.
Quella
sensazione di vuoto e di cadere in un precipizio che aveva investito Harry con
un attacco di risa, colse anche Ginny. Si sentì come se le tagliassero via
tutti i suoi punti fissi e la spingessero in un tunnel completamente
sconosciuto, di cose nuove, un tunnel che lei non sapeva dove avrebbe portato,
che lei non sapeva affrontare. Ed ebbe paura.
Harry non capì subito cosa stava succedendo. Pur non riuscendo a smettere di
ridere prese a guardarla, studiandola come un esemplare raro. E un esemplare
raro era effettivamente affiorato sul viso di Ginny: una lacrima. Era piccola,
era bagnata, scivolava. Piano.
-Piangi?-
Aveva chiesto.
Ed
è buffo come, a volte, non ci si rende conto di tirare un calcio ad un
sassolino che andrà a creare una valanga. Fissandolo negli occhi per una
frazione di secondo, Ginny iniziò a singhiozzare. Non sapeva nemmeno più se
piangeva di dispiacere o di sollievo. Se era un’immensa tristezza o un’immensa
felicità.
E
prima di rendersene conto, le braccia di Harry la stavano stringendo, così
forte che per un secondo si sentì soffocare. Era un gesto così semplice, le
loro braccia avvolte le une intorno al corpo dell’altro, la testa di lei sul
petto di lui, un contatto così innocente nella sua intimità. Un abbraccio. Si
rese conto che per tutto quel tempo non aveva desiderato che questo, sentirlo
così vicino da perdere la dimensione di se stessa, la cognizione del tempo, il
senso di realtà. Sentiva il suo cuore battere contro il proprio orecchio, e il
suo respiro, leggermente affannato per la risata interrotta, per la sorpresa di
trovarsi così, nel mezzo di un corridoio qualunque, con una ragazza tra le
braccia. Con lei tra le braccia.
-Non
ho il diritto di piangere.- Sussurrò Ginevra. –Non so nemmeno perché sto
piangendo.
Sentì
la mano di Harry sfiorarle piano la schiena. Aveva paura di guardarlo in
faccia, paura di scoprire la sua espressione. –Penserai che sono una
sciocca.
-Penso
molte cose di te. E “sciocca” non è tra quelle.
Le
venne da ridere, alzò gli occhi su di lui e i loro nasi si sfiorarono. Erano
talmente vicini che Ginny non riusciva a vedere se aveva pianto, ma sentiva il
sapore del suo fiato sulla faccia. Rideva, ancora. E anche lei si mise a
ridere. Perché era così buffo, dopo tutto quello che aveva vissuto, dopo tutto
quello che aveva attraversato, essere lì, finalmente lì, finalmente con lui,
come aveva sempre voluto… e piangere.
Harry
le prese una mano ed iniziò a massaggiargliela. Piano. La mano di Ginevra era
piccola e calda, soffice. Le sue piccole dita si ancoravano alle sue.
All’inizio restò confusa, poi cedette al suo tocco, iniziò a rispondere alle
carezze, lentamente, man mano che la voglia di ridere e di piangere passava,
tutto il loro mondo sembrò concentrato sulla mano dell’altro. Morbida, ruvida.
Piccola, grande. Fragile, forte. Il tempo aveva smesso di scorrere, e se scorreva
non scorreva certo per quelle mani, giovani mani che, improvvisamente,
inaspettatamente, avevano davanti un’intera vita per scoprirsi. Scoprirsi.
Sfiorarsi. Toccarsi. Accarezzarsi. Con passione. Con dolcezza. Con malizia. Con
desiderio.
Senza
esitazione.
Ed
in futuro nessuno dei due sarebbe stato in grado di definire l’esatto momento
in cui quel gioco di dita, quel tentativo di trasmettersi conforto e regalarsi
piacere era diventato sentimento. Nessuno dei due sarebbe riuscito a ricordare
la dinamica secondo cui l’unione delle loro mani era diventata mani che frugano
la schiena dell’altro, e mani trai capelli, e risolii senza senso, quando quel
contatto fugace trai loro nasi aveva iniziato a scaldar loro la pelle.
E
quando, quando, le loro labbra si erano unite, piano, forse, o velocemente;
avidamente, forse, o teneramente; e la carezza era diventata bacio.
E
come, senza una parola, in quel bacio si erano detti tutte le cose che avevano
collezionato nella mente nei lunghi giorni, mesi, anni precedenti di forzato e
indesiderato silenzio.
Forse
era la stanchezza, forse la troppa emozione, forse la tensione, forse le troppe
sensazioni. Forse il fatto che di quel giorno non riparlarono mai più.
Ma nei giorni, mesi, anni successivi, le loro
mani, le loro labbra, i loro corpi, si incontrarono ancora molte e molte volte.
Ed entrambi, lo ricordano alla perfezione.