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Autore: whitemushroom    27/11/2013    4 recensioni
Alcuni anni prima delle vicende di FF IX, Kuja si trova per conto di Garland in una missione in apparenza semplice. La realtà è molto più complessa, perché l'osservatore stellare ha già iniziato a far girare la ruota che condurrà l'angelo della morte a trionfare su tutta Gaya. L'ignaro Jenoma scoprirà che i mostri peggiori sono quelli contro cui non si può combattere, ma farà anche un incontro che cambierà per sempre il suo destino...
Questa storia può essere letta in modo totalmente autonomo ma può anche essere considerata come il seguito della one-shot "Non un Jenoma"
Genere: Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Kuja
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Non un Jenoma - e altri racconti.'
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Capitolo IV

“Uccidimi. E fai presto.” disse, scandendo le parole nella lingua di Burmesia. “O strapperò il cuore a tutti voi”.
Il burmesiano scostò il cappello dalle falde larghe, e le ombre rivelarono i suoi occhi azzurri, diversi da quelli gialli o neri degli altri ratti. Vi era qualcosa di delicato in quegli occhi, qualcosa di curioso che per un istante diede a Kuja la certezza assoluta che quel sorcio lo avrebbe trapassato con la sua lancia ponendo fine a quella farsa una volta per tutte.
Ma la quella sicurezza venne meno quando il burmesiano si chinò, tirò indietro l’arma e le sue mani ancora intorpidite non strinsero altro che aria. “No. Se stai cercando un boia, non lo troverai qui”.
Uccidimi …
Ti prego …

Tutto il suo corpo stava chiamando quelle prede. Trattenne le mani e conficcò le unghie nella roccia del terreno nello spasmodico bisogno di stringere qualcosa, di fermarsi o di distruggere, di cancellare l’ondata di profumi che lo attraversava risvegliando la bestia dalla criniera rossa. “TI HO DETTO DI PIANTARMI NEL PETTO QUELLA DANNATA LANCIA!” gridò, nascondendo nell’urlo il groppo che gli stringeva la gola e spingeva le lacrime fuori dai suoi occhi. Si accorse di apparire una creatura debole e disperata, ma in fondo forse era proprio quella la verità. Non un Jenoma. Non un angelo.
Solo qualcosa di patetico. Qualcosa in cui era stata inserita un’anima inquieta.
“VOLETE DAVVERO MORIRE TUTTI QUI DENTRO? VOLETE SERIAMENTE CHE IO ESCA DI QUI E DIVORI I VOSTRI CUCCIOLI? NON AVETE DAVVERO NIENTE DA PROTEGGERE?” urlò, e con quelle parole liberò l’odio, la frustrazione ed il dolore che erano iniziati con quelle maledette uova di drago. Si strinse le tempie con violenza, combattendo il pulsare del sangue ed il bisogno di carneficina. La coda premeva per essere libera e la compresse in modo spasmodico contro la coscia, sentendo la gamba indebolirsi e perdersi nel freddo. Sollevò la testa per insultare di nuovo il burmesiano, ma si ritrovò il muso chiaro del nemico ad un palmo dal suo, la pelliccia chiara che ondeggiava attraverso le lacrime che ormai scorrevano senza sosta. Lo guardava come nessuno aveva mai fatto. Con un sentimento che Kuja non conosceva.
“Nessun essere vivente vuole davvero morire. È contro la sua natura, non trovi?” mormorò. Si inginocchiò al suo fianco, appoggiando la lunga lancia rossa per terra, proprio tra loro due. Le guardie che avevano accompagnato lo strano soldato fecero all’unisono un passo indietro, ma non abbandonarono la presa sulle armi. “È chiaro che non stai bene … ma stai tranquillo, non vogliamo farti del male”.
Idiota …
“Seguimi senza opporre resistenza e vedrai che non morirà nessuno, né tu, né noi”.
“Voi non capite …” rispose, scuotendo la testa.
“Forse adesso no. Ma se ci raccontassi cosa ti è successo posso dirti che il nostro Re sa essere magnanimo. Vieni con noi e non ci sarà alcuno spargimento di sangue”.
Stupido ratto illuso …
Senza attendere una sua replica, il burmesiano lo afferrò per un braccio e lo mise in piedi.
Kuja vide se stesso protendersi contro quella mano e staccarla di netto, ed il sangue scivolare lungo la sua gola e poi per tutto il corpo. Non poteva permettere che accadesse di nuovo.
Vi avevo avvisato.
Aprì la mano contro il petto del burmesiano e scagliò un incantesimo di gelo. Dalle sue dita scaturirono cinque lame di ghiaccio che conversero le une con le altre fino a formare un globo. Il suo avversario si chinò, cercando di agguantare la lancia, ma la magia lo colpì alla spalla e lo sbalzò indietro. Kuja barcollò, lottando per tenersi in piedi. Nel corpo, sotto la pelle, sentiva il sangue scorrergli all’impazzata per lo sforzo che aveva vanificato tutta la rigenerazione spontanea delle sue fibre. Spinto dalla disperazione si mosse in avanti cercando di non incespicare nei suoi piedi, l’abito lacero che si sollevava mentre alzava le braccia. La magia del suo fuoco azzurro infranse la penombra, saettando dalle sue dita, e la terra intorno ai suoi aggressori esplose. Dalla roccia uscirono spirali di fumo che si dispersero sopra un gruppo di burmesiani ormai senza vita. Avanti. Fatevi avanti.
Eppure i sopravvissuti esitarono. I lancieri si scambiarono sguardi interrogativi, poi serrarono le fila, pronti a sostenere l’attacco. Venne contro di loro subito, concentrandosi solo sul dolore del proprio corpo e sul mostro dentro di lui che gli premeva contro le tempie, scagliando un’ondata di saette disordinate e frenetiche che si mosse come artigli luminosi per poi abbattersi contro la barriera di lance burmesiane. Altri tre sorci caddero carbonizzati, e sorrise tra sé vedendo i loro compagni urlare per la furia mentre la sua magia li spingeva contro una parete, lontano dall’unica via di fuga. I fulmini si scatenarono di nuovo contro i suoi nemici, ed il mostro gioì dentro di lui quando l’aria fu di nuovo satura di urla. Lo soppresse, trasformando le poche energie che ancora gli rimanevano in un secondo incantesimo. “NON SIETE ABBASTANZA DISPERATI?”
Dalla massa volò una lancia: troppo piccola, troppo debole per quello che aveva bisogno, ma l’arma finalmente saettò. Atterrò ad oltre un braccio da lui, e la punta metallica gracchiò contro la roccia del pavimento. Davanti a tutti gli altri, con la pelliccia bruciacchiata ed una vistosa ferita sul braccio sinistro, stava la piccola burmesiana dal vestito rosso che aveva intravisto nella battaglia dei livelli superiori. Aveva rotto le righe, e gli insulti che lanciava nella sua direzione furono coperti dalle grida dei suoi compagni più grandi; con uno sguardo di sfida raccolse l’arma di uno dei suoi compagni caduti e la scagliò di nuovo. Kuja sorrise a quel maldestro tentativo e a quelle braccia troppo sottili per una lancia così grande, che disegnò una parabola sghemba e atterrò davanti ai suoi pedi. Rimase fermo quando la burmesiana iniziò a tempestarlo di massi e rocce sotto lo sguardo sgomento dei suoi compagni, e anche quando un sasso lo colpì in pieno viso rimase immobile.
Non gli rimaneva molto tempo.
Caricò la piccola guerriera, sapendo che non avrebbe avuto un’altra possibilità. Sarebbe bastato poco, un altro fiotto di sangue, un sorcio a terra e la cosa che stava trattenendo con tutte le sue forze sarebbe uscita, spezzando la catena con cui cercava di tenerla a bada mentre quella gli graffiava il petto, soffiava, bramava. Bruciava.
Con un solo salto superò la distanza che lo separava dalla burmesiana battagliera e atterrò su di lei. Dalla gola gli uscì un verso selvaggio, ma era solo il disperato tentativo di nascondere le sue stesse lacrime amare. Il petto non gli aveva mai bruciato così forte.
Per favore …
Qualcuno …

Qualcosa lo colpì alla testa. Perse la presa sulla ragazza e si ritrovò davanti agli occhi l’asta rossa che si erigeva tra lui e la preda. Cercò di rimettersi in piedi, ma il burmesiano dalla pelliccia bianca, quello che l’aveva respinto per primo, lo incalzò e lo spinse lontano dagli altri. Respinse una seconda ondata di fuoco azzurro con la sua lancia, saltò in alto ed atterrò al suo fianco, poi saltò di nuovo e gli ricomparve alle spalle. Kuja sentì la sua presenza e si voltò, ma l’asta lo colpì di punta sullo stomaco. Il mostro in lui si agitò per il colpo, spinta dalla voglia di spezzare in due quell’arma e divorare il comandante dagli occhi azzurri fino all’ultimo osso. Ma rimase calmo. Soffiò verso il burmesiano e lo guardò mentre si preparava ad un affondo. “Quanti dei vostri cuccioli devo uccidere prima che mi fermiate, capitano?”
“Sei un mostro …”
“Indovinato. Meglio tardi che mai, suppongo”.
Il guerriero fece scivolare la mano destra sull’asta della lancia, ed una fiammata rossa ed oro si propagò per tutta la sua lunghezza, trasformando la lama in una piccola torcia sotto le grida di incoraggiamento degli altri soldati. Era un incantesimo di livello così infimo che avrebbe potuto bloccarlo anche il giorno stesso in cui era uscito dalla sua vasca nutrizionale, ma Kuja chiuse gli occhi e non si mosse. Si concentrò sui passi del nemico, uno, due, tre, quattro. L’aria gli portò sulla pelle il turbinare della lancia, poi l’affondo, e si preparò al bruciore nel petto con le palpebre serrate.
Ma non vi fu alcun bruciore.
O dolore.
La sensazione di calore gli passò accanto al viso senza fargli alcun male; percepì il soldato venire contro di lui, ma quando riaprì gli occhi il nemico era a cinque passi da lui, lo aveva superato e per poco non aveva perso l’equilibrio. “A che gioco stai giocando, mago?” gridò il burmesiano. “Non morivi dalla voglia di farti impalare?”
A quelle parole si guardò i piedi, e con orrore vide che non era stato il nemico a sbagliare l’affondo. Era stato lui ad essersi spostato. I suoi piedi erano in posizione ben diversa, e di certo non era così accucciato quando il burmesiano si era gettato contro di lui. Inspirò rapidamente cercando di capire cosa fosse successo, ma il nemico non gliene diede il tempo e con uno squittio da battaglia saltò in alto con le sue robuste zampe posteriori fino a raggiungere il soffitto della grotta, poi piombò su di lui. La sua lancia si accese di nuovo, stavolta di una folgore azzurra, e Kuja non chiuse gli occhi. Fissò la punta dell’arma avvicinarsi, costringendo i suoi piedi a rimanere inchiodati al pavimento ancora per qualche secondo mentre il cuore gli martellava nelle tempie. Strinse i denti, ed in quell’interminabile serie di secondi ignorò un fastidioso ronzio che gli correva lungo la spina dorsale, nella mente soltanto la lancia affilata.
Una barriera si frappose tra lui e la punta imbevuta di saette. Fu un solo attimo, ma un lampo di luce arancione esplose lungo la lama ed illuminò lo sguardo incredulo ed infuriato del suo nemico. Kuja scosse la testa e lanciò un grido quando vide le proprie mani sollevate, la luce difensiva che scivolava tra le dita.
No.
Abbassò le braccia nella disperazione, ma non fu abbastanza rapido. Il suo incantesimo si scontrò con quello del suo nemico, e la conflagrazione che ne seguì fu troppa per il suo corpo indebolito; non fece nulla per opporsi e si lanciò scagliare per la seconda volta in aria, affondando i denti nella mano traditrice. Sbatté contro una roccia e vide accanto a sé il burmesiano dagli occhi azzurri fare la sua stessa fine, cadendo sul pavimento in una nube di polveri, roccia e saette. Si lasciò andare al suolo ed ascoltò il gorgogliare della magia nelle sue vene mentre cercava di rigenerarlo, trattenne il fiato e si strinse le labbra per contenerla, ma il calore degli incantesimi risaliva su per la sua spina dorsale senza mai abbandonarlo. Decise di non alzarsi. Basta.
Vide tra le palpebre socchiuse l’altro guerriero sollevarsi in piedi nonostante le ferite e trascinarsi nella sua direzione. Kuja sentì sulla propria pelle una rapida folata d’aria e qualcosa sopra di lui che coprì la luce, ed in quell’istante si rese conto di dove era precipitato.
Se ne accorse anche il suo nemico, ma troppo tardi.
“Comandante Flatrey!” grido la burmesiana dall’altra parte della grotta, ed il sorcio fece un passo indietro che gli salvò la vita. Dal buio della grotta una gigantesca sagoma argentea scattò nella sua direzione con una velocità incredibile per la sua mole e due fila di denti si chiusero con uno scatto. Il burmesiano fu sbalzato verso i suoi compagni dalla pioggia di schegge rosse che fino all’attimo prima era la sua arma. Il drago sbatté le ali, poi si voltò di nuovo verso Kuja e sputò la punta della lancia ai suoi piedi. “Erano sette anni che volevo prendermi questa soddisfazione!”
Ringhiò verso gli assalitori, facendo tintinnare il suo collare. La sua enorme coda gli scivolò lungo la schiena e cercò di sollevarlo. “Hai messo su proprio un bello spettacolo, eh?”
“Sei … sei stata tu a proteggermi?” mormorò avvolto nel piacevole calore del contatto mentale.
“Con questo bel collare? Guarda che hai fatto tutto da solo!”
Rivide di nuovo la scena, i suoi piedi che si spostavano e le mani che lo difendevano senza che lui ne desse l’ordine. La mano destra sanguinava, ma percepiva i sottili strali dell’incantesimo che ancora si dipanavano tra le unghie.
“Ammettilo, sei un vigliacco. Nemmeno hai il coraggio di farti impalare da qualcun altro”.
“Io non volevo difendermi …” mormorò tra sé, chiedendosi perché stesse piagnucolando delle scuse con un drago.
“Ma il tuo corpo sì. Il capitano Flatrey ha detto qualcosa di sensato, una volta tanto: un essere vivente non può desiderare sul serio di morire. Non so, sarebbe come se l’acqua desiderasse bruciare … Le tue braccia hanno agito prima del cervello, e dovresti ringraziare il tuo padrone se quando ti ha assemblato è andato a risparmio sulla materia grigia!”
Mandò un ruggito dal fondo della gola e rivolse lo sguardo nero verso i burmesiani. Un paio si erano avvicinati per soccorrere il loro comandante e tutti tenevano le lance puntate in avanti come
se fossero pronti ad attaccare. La creatura argentea scivolò davanti a lui, e le ali si spalancarono al massimo per farla sembrare ancora più imponente; si tese verso gli assalitori fino quasi al limite concesso dalla catena, ed i potenti muscoli del collo si abbassavano e si alzavano ad ogni suo verso. Sbatté le ali due volte, mettendosi in posizione d’attacco. Una coltre di piume bianche, azzurre ed argentate gli coprì la visuale, e per qualche istante rimasero soltanto lui, la sagoma massiccia ed il velo creato dalle ali. E le sue parole, ovviamente.
Il calore aveva ripreso a soffiare la magia nelle sue ossa e nei muscoli; era di nuovo in piedi, come se lo scontro appena combattuto non fosse stato altro che una zuffa di poco valore. Tutto lo stava tradendo. Le dita, i piedi, i capelli, la pelle, persino le proprie unghie lo deridevano: lo sfidavano a ferirli di nuovo, ad andare avanti, si divertivano a vederlo combattere tanto per trovare una semplice fine prima di rimetterlo di nuovo in piedi, pronto per la battaglia proprio come Garland aveva sempre voluto. Il terrore lo prese quando capì che avrebbe potuto ferirsi, mordersi e punirsi a piacimento, ma che non sarebbe cambiato niente. E che la bestia adesso non era solo affamata. Era furiosa.
“Mi permetti di fare un rapido ma intenso riassunto della tua situazione? O trovi una rupe più alta da cui buttarti –e non ne vedo- oppure ti fai mettere un bel collarino dal nostro amico sorcio ed inizi a farti piacere l’idea di passare i prossimi anni a muffire qua sotto per farti studiare dai loro saggi” sbuffò, ruggendo di nuovo verso due burmesiani che avevano fatto ricomparire le loro strane catene. “Se sei indeciso ti posso consigliare la prima scelta? Perché non sono sicura di voler trascorrere un altro decennio o due in tua compagnia …”
“Ma io …”
“Però oggi è il tuo giorno fortunato, perché dall’alto della mia generosità ti concedo di nuovo di rivalutare la mia proposta …”
Da dietro le sue ali spiegate, Kuja vide i nemici separarsi ed assumere una nuova formazione. I lancieri si allargarono e si portarono ciascuno a due braccia di distanza dall’altro in posizione di semicerchio, stringendosi lentamente intorno alla dominatrice dei cieli. Una seconda fila, composta da non più di dieci soldati, si portò davanti ai compagni e tutti piegarono le gambe, come se fossero pronti a saltare. Davanti a tutti loro stava il comandante dalla pelliccia bianca, che questa volta impugnava una lancia per mano. I salti di quelle creature sotterranee erano riportati persino nei libri di storia di Gaya, e non era sicuro che il drago alla catena potesse opporre troppa resistenza. I pensieri della creatura giungevano alle sue orecchie come tanti campanelli, ma la furia rendeva il suono delle parole più sordo e confuso. “Non resisterai a quell’attacco”.
“La tua intuizione è così spiccata solo nei giorni dispari?”
“Quello che stai facendo non servirà a nulla! In catene o morto non uscirò comunque di qui!”
“Non se accetti la mia proposta!”
Si portò sulle zampe posteriori e la luce che proveniva dalla spaccatura illuminò il suo corpo fino a farlo sembrare una torcia evanescente ricoperta da squame che rilucevano come stelle. La sua testa triangolare si inarcò avidamente nell’aria e spalancò le fauci. Una venatura scarlatta corse lungo la catena e Kuja percepì un’ondata di energia correre dalla gola della creatura fino al punto in cui il metallo bianco si univa alla roccia, trasformando l’incantesimo nascente in nulla più che uno scintillio che si mescolò con i denti affilati. I burmesiani non si mossero, ma gli squittii furono coperti dal grido di battaglia del drago.
“Portami fuori da qui e ti darò quello che desideri. Anche la fine che insegui tanto”.
Kuja deglutì. “Lo faresti?”
“Perché no? Io ho solo da guadagnarci …” disse, e per un attimo vide la sua enorme lingua rossa saettare lungo le fauci “… saresti perfetto su un letto di cipolle selvatiche ed un po’ di salsa Qu”
Inspirò, totalmente rapito dal bellissimo manto di piume.
“Allora, sarai il mio partner per questa romantica fuga a due?”
“Non sono certo di poterci riuscire” mormorò alla vista degli anelli della catena che in quel momento pulsavano, assaporando tutta la magia della loro vittima. Ricordò l’orribile sensazione di quel metallo vicinissimo ai suoi polsi, e l’idea di abbattere i suoi incantesimi su quell’oggetto lo fece rabbrividire fino alla punta dei capelli. Il mostro rosso gli sorrise, quasi come un sussurro che lo invitava ad uscire. Per un attimo ebbe la sensazione delle sue lunghe dita sfiorargli l’incavo del collo e soffiargli nelle orecchie, ma l’ondata di calore emanata dal drago incatenato lo invase. “Hai quattro secondi, socio!”
Con un balzo si portò sulle sue spalle ed atterrò sulle squame argentate. I muscoli del collo si contraevano come forsennati sotto il collare; non c’era bisogno di alcun potere speciale per percepire lo spasmo che stava provando la creatura. Sotto di lui il corpo maestoso emanava calore, ma dall’anello bianco non proveniva altro che gelo. Avrebbe preferito morire che trascorrere anche solo un’ora con un simile strumento di tortura. Se ne avesse avuto uno, era certo che Garland lo avrebbe usato su di lui. A quel pensiero si morse la guancia ed iniziò a chiamare tutto il proprio potere. Le guardie burmesiane delle retrovie abbassarono le lance e caricarono come una sola persona.
“Tre”.
Non aveva mai concentrato in quel modo tutto il suo potere. Il sangue di drago si mescolò al suo e sentì la forza appena divorata premergli contro le tempie. Si riversò come un fiume in piena dentro di lui, ed il piccolo argine creato dagli incantesimi di rigenerazione si dissolse, abbandonato nella corrente impetuosa a cui si stava rapidamente lasciando andare. Le anime dei burmesiani uccisi comparvero nella caverna come attirate dal suo potere, e vide quelle sottili ed indistinte luci scintillargli davanti agli occhi prima che questi si riempissero di un caleidoscopio rosso, azzurro ed argentato. Per un attimo le sentì attraversare il suo stesso corpo per dargli forza, sottratte al potere dell’albero di Iifa per permettergli di liberare l’incantesimo che stava nascendo nel palmo della sua mano, privo di forza, bellezza o semplicemente di un nome. Le anime se ne andarono ma lasciarono il suo corpo in fiamme.
“Due”.
La prima linea di burmesiani, guidata dal comandante, saltò. Cercò di seguirli con lo sguardo, ma il vortice che prendeva forma sul palmo della sua mano trasformò il mondo intero in una cascata di scintille. La magia selvaggia saettò tra le dita, corse lungo le sue stesse braccia e l’odore di carne bruciata gli pervase le narici. Il mostro lanciò un grido dalla sua stessa gola, un suono che alle sue orecchie era indistinto tra il dolore ed il piacere; cercò di uscire un’ultima volta, ma Kuja si tuffò nella sua stessa magia e non rallentò. Il potere lampeggiò di nuovo, avvolgendogli le spalle ed il petto, e spirali di fumo azzurro si alzarono dal suo corpo e percorsero la catena bianca. Il drago emise un sibilo acuto, rabbioso, ma rimase sulle zampe posteriori sfidando le due ondate di lancieri.
“Uno”.
I muscoli della bestia per poco non lo sbalzarono via. Il drago lanciò un urlo quando la prima linea di burmesiani a terra si lanciò contro di lei; si curvò e le sue zampe anteriori atterrarono sul pavimento finché la roccia tremò sotto i suoi colpi. Con un movimento troppo rapido per una creatura della sua mole roteò la coda e schiacciò un topo sotto il suo peso, poi un altro, scatenando la sua potenza anche quando una lancia le si conficcò nella spalla. Una delle armi saettò nella sua direzione, ma la punta metallica si sciolse nell’enorme nube di incantesimi che stava divampando; ora nelle sue orecchie c’era solo il grido del cucciolo di drago mai nato che lo aveva trascinato in quel baratro, i suoi artigli informi che strisciavano dentro la sua testa reclamando la vita. Si lasciò vincere dall’odio della piccola creatura e fissò l’aria attraverso il fumo che gli stava lacerando la pelle. Il vento gli portò l’odore del capitano Flatrey in volo, lui ed i suoi lancieri che discendevano su loro due, le punte delle armi a poche braccia dal suo viso e dalla testa del drago; una delle punte scintillò in quel vortice, e Kuja si tuffò in avanti. Strinse il collare con tutte le sue forze, e persino la gigantesca catena si mosse contro di lui. Aprì la bocca per gridare e prendere aria, ma il suono svanì nella confusione mentre la magia si liberò nel metallo gelido, attraversando il suo corpo privo di difese come migliaia di aghi. La bestia rossa gli gridò di rompere il contatto, ma per tutta risposta Kuja si aggrappò al collare del drago e si lasciò avvolgere dalle fiamme mentre il potere degli incantesimi di Burmesia si nutriva di lui.
Un’esplosione di suoni gli invase la mente, poi il mondo divenne bianco e silenzioso. “Lo sapevo che lavorare con te era un affare, socio …”
Le parole giunsero distanti, come trasportate dalla risacca del mare. C’erano altre grida intorno. Non era sicuro di sapere a chi appartenessero. Sapeva solo che stava cadendo nel bianco, e non c’era un sopra o un sotto. O una destra ed una sinistra. Non era in nessun luogo, ma sapeva di aver perso la presa e stava precipitando lontano dalle grotte e dal drago. In quel bianco non c’era nulla, ma sapeva che se avesse chiuso gli occhi delle mani invisibili era lì, pronte ad afferrarlo e a trascinarlo nel buio. C’era qualcosa sotto la sua mano, e senza sapere cosa fosse vi affondò le unghie. Il drago disse qualcosa, ma il bianco prese il sopravvento ed i suoi sensi volarono oltre il cielo.

Inspirò.
Nelle sue orecchie c’era un suono meraviglioso. Era immerso nell’acqua del mare, e sotto di lui la sabbia si sfregava lungo gli scogli con una musica lieve, circolare. Andava e veniva, inseguiva i battiti del suo cuore. C’era la risacca.
Espirò.
Non era in acqua. Il bianco intorno a lui parlava di un vento gelido che correva lungo il suo corpo e gli lambiva il viso e le gambe. Il vento narrava, e portava storie. C’erano delle anime che volavano con lui; allungò una mano nel bianco luminoso per acchiappare quei ricordi, ma quelli sfuggirono dalle sue dita e corsero verso il cielo. Si abbandonò al loro vociare soffuso, alla ricerca di parole; ma nessuna anima si fermò al suo fianco e tutte volarono via, alla ricerca del luogo a cui appartenevano. Ignoravano l’angelo della morte.
Le chiamò. Implorò.
Volarono ancora più lontano, come minuscole creature alla vista di un predatore. Non voleva fare loro del male, non lo voleva davvero, ma quando il pensiero si protese di nuovo per chiamarle a sé esse svanirono in un lampo di luce nella luce. Il mondo bianco svanì e si ritrovò in piedi; la sua bocca era spalancata, e l’aria fredda entrò in lui fino ai polmoni, forte come un battito del suo cuore.
“Dormito bene, Jenoma? Che c’è, ti manca la colazione a letto?”
Prima di comprendere da dove venisse la voce guardò in basso e trattenne il fiato. Sotto di lui la grande forma del mare si estendeva a vista d’occhio; si voltò a destra ed a sinistra, ma la superficie blu colmava tutto il suo mondo. Piccole onde scintillavano nella luce del pomeriggio, così sottili che sembravano sbuffi bianchi lasciati da un pittore maldestro. Lui era lassù, probabilmente ad oltre duecento metri dall’acqua, ed i suoi occhi si riempirono di quel colore straordinario che nessun altro essere vivente osava attraversare. Il cielo era perfetto. Non si era mai accorto che fosse così bello. Aveva volato diverse volte su un’aereonave, ma quello …
“Puah, macchine umane!” brontolò il drago in risposta al suo pensiero. “Se gli uomini fossero nati per volare avrebbero avuto le ali! I bipedi dovrebbero starsene a terra a brucare l’erba. Alterare la linea dell’orizzonte è un privilegio delle razze superiori!”
Non la ascoltò. Lasciò che le sue parole gli fluissero nella mente, ma non aveva alcuna voglia di rispondere. Si riempì gli occhi di quel cielo straordinario, quella cupola azzurra che aveva visto tante volte dal basso o attraverso i vetri dell’Invincible. Si mise in piedi sulla schiena del drago, ed allungò un braccio verso l’alto alla ricerca della nuvola più vicina; quella gli sfuggì tra le dita, ma tutto il suo corpo fu avvolto da un vento freddo e sferzante che gli gonfiò il vestito e gli scompigliò i capelli. Respirò quell’aria, un’aria diversa da quella stantia di Tera. Vi era un profumo di anime in quel vento, e si abbandonò al loro piccolo vortice prima di seguirne il volo con lo sguardo.
Quello era il cielo.
E quello era il mare.
Li aveva visti tante volte, ma nessuna di quelle aveva più alcun valore. Forse nemmeno Garland li aveva mai visti davvero. Di sicuro nessun Jenoma.
“Bella vista, eh?” mormorò la creatura senza nascondere una vena d’orgoglio. “Adesso avrei voglia di sgranchirmi le ali, quindi tieniti stretto e evita di cadere, perché non ho alcuna intenzione di fare una virata fuori programma per venirti a riprendere, intesi? Ah, visto che ci sei perché non dai un senso a quelle belle unghiette lunghe che ti ritrovi e non mi dai una bella grattata? Quel collare mi ha regalato sette anni di insopportabile prurito!”
Kuja cercò di chiederle a cosa di preciso dovesse aggrapparsi, ma il drago impennò ed in pochi secondi il mare si fece ancora più piccolo e le nuvole gli vennero addosso; le potenti ali mossero l’aria e la trasformarono in un unico turbine che lo spinse indietro. Il suo corpo reagì al movimento improvviso e si adattò allo spostamento ed ai grandi muscoli della creatura che si innalzavano e si abbassavano sotto i suoi piedi; scivolò alla prima ascesa ed alla seconda, e per quanto sarebbe stato saggio sedersi e stringersi alle squame del collo decise di restare in piedi. Salirono ancora, oltre il velo di nubi, abbracciati dal sole e dalle lune gemelle che comparivano all’orizzonte, e quando il drago ruggì di piacere risposero solo l’eco, il vento ed il silenzio. Poi di colpo scese. Calarono in picchiata verso l’enorme specchio blu, tra due ali di uno stormo di uccelli multicolore che avevano commesso il tragico errore di finire sul sentiero della predatrice. I loro versi accompagnarono la discesa, poi il vento gli riempì di nuovo le orecchie.
Una piuma si staccò da una delle ali. Senza sapere il perché di quel gesto Kuja si sporse e la afferrò prima che svanisse nell’azzurro. Era delicata e morbida al tatto. Il bianco della radice sfumava nell’argento più puro, e l’estremità si tingeva del colore del mare. La sfiorò dimenticandosi di tutto, lasciando che il viso di Garland e le uova di drago svanissero trascinate dalla corrente delle sue stesse dita che accarezzavano la piuma delicata. La strinse tra pollice ed indice e le impedì di volare via. Rimase a fissarla per tutta la durata del volo e la protesse dagli schizzi d’acqua quando il drago scese in picchiata ed afferrò un piccolo cetaceo.
“Ti sei incantato?”
“Può essere …” rispose. Era tra cielo e mare, ed una piuma di drago tutta sua.
Sbuffò quando vide la costa avvicinarsi all’orizzonte. Avrebbe voluto dire al drago di voltare le spalle e tornare sull’acqua, ma quello scese in picchiata verso la sabbia scintillante ed atterrò tra gli schizzi delle onde. Sarebbe rimasto ancora sul suo dorso caldo, ma il brusco movimento di spalle della cavalcatura lo invitò a scendere. Si ritrovò in piedi sulla sabbia umida, e quando si specchiò nell’acqua vide un viso stanco e dimesso, con gli occhi scavati per la stanchezza e la paura. I suoi capelli erano ridotti ad un groviglio informe, e l’unica cosa bella di quell’immagine lacera era la piuma argentata che si ostinava a stringere tra le dita. Diede un calcio all’acqua, stizzito, e l’increspatura portò via quella figura derelitta e la fece annegare. Al suo posto comparve una sagoma lunga ed affusolata, con gli occhi neri come la notte e le ali aperte per far asciugare le piume. “Allora, com’è Gaya vista da lassù?”
Kuja guardò in alto. Il cielo era azzurro, sempre bellissimo, ma … non era il cielo. Era lontano. Una cupola celeste che adesso lo fissava come un estraneo. O forse non lo fissava affatto, minuscolo com’era su una terra dove camminavano milioni di umani. Persino il mare era diverso, e gli lambiva gli stivali con le sue onde fredde come se fosse un intruso nella sua immensità; aveva guardato tante volte la linea dell’orizzonte seduto su una spiaggia tra una missione e l’altra, chiedendosi cosa facesse tanto agitare la sua anima. Ma in quel momento l’orizzonte era solo una linea come tante altre, priva dello splendore che gli aveva riempito il cuore durante il volo. “Non avrei mai pensato che fosse così bella” sussurrò. “Da quaggiù non si vede nulla”.
“Ecco perché non sopporto i bipedi. Si credono i padroni di Gaya, ma la verità è che non capiscono assolutamente niente. Se il cielo è sopra la terra vuol dire che le creature del cielo sono fatte per dominare su quelle che strisciano al suolo. Ma agli umani sfuggono certe gerarchie elementari” sbuffò. “Se sei davvero l’angelo della morte dovresti smetterla di strisciare come un bipede qualsiasi; non capisco perché il tuo creatore non ti abbia dato un paio di ali, con questo tuo faccino morbido e quelle gambette candide sei il predatore meno credibile di tutta Gaya!”
“Eppure sono stato io a farti uscire di lì”.
“Punto numero uno: sono stata io a portarti fuori da quel carnaio mentre eri svenuto come un poppante. Punto numero due: se non fosse stato per me ti saresti lasciato catturare ed avresti trascorso il resto dei tuoi giorni a lagnarti e piagnucolare. Punto numero tre …” abbassò il collo, e la sua lunga testa scese proprio all’altezza del suo viso. Kuja si vide riflesso in quell’occhio nero, privo di sclera, grande quanto la sua stessa testa. La creatura soffiò dolcemente, ed il calore uscito dalle sue narici lo avvolse. “ … grazie”.
Cosa?
“Guarda che non sono stupida. Ho visto quello che sai fare. E noi draghi rispettiamo solo e soltanto il potere, tienilo a mente. Non devi nascondere quello che tieni dentro di te” disse, e la sua coda gli corse lungo il petto. “Usa tutto il potere che hai a disposizione e smettila di frignare. Se c’è qualcosa che ti indispettisce smettila di scappare o buttarti da un burrone, ma tira fuori i denti e distruggila. Che gusto c’è ad essere un angelo se poi non puoi ridurre in poltiglia e cambiare tutto quello che non ti piace?”
“Ci sono cose che non si possono cambiare …”. Non aveva portato a termine la missione. Aveva divorato soltanto un uovo, e la trasformazione che Garland desiderava era rimasta a metà, dentro di lui. Non appena avesse messo piede a Pandemonium, l’osservatore stellare lo avrebbe … Strinse convulsamente la piuma e soppresse il sorriso beffardo della bestia che lo scrutava da dentro il suo cuore, in attesa di vederlo contorcersi per la punizione. “Noi due avevamo un patto” disse, riconoscendo di nuovo la sua odiosa voce tremolante. “Non eri ansiosa di divorarmi?”
“Altroché, socio. Ma il patto era che avrei esaudito un tuo desiderio. Se è davvero la fine quella che cerchi, non hai che da dirmelo qui. Di nuovo. E sarà indolore, te lo prometto”.
Guardò il mare e l’orizzonte scintillante, chiedendosi quanto dolorosa sarebbe stata la punizione che gli avrebbe inferto il suo creatore. Aveva rovinato il suo piano, e forse dopo avergli impartito l’ennesima lezione lo avrebbe di nuovo rimandato nelle grotte di Gizamaluke a finire il lavoro.
Avrebbe fatto qualunque cosa, ma non quello. E l’osservatore stellare non era il tipo di creatura che avrebbe accettato un rifiuto, specie da un essere che in fondo non era altro che un suo strumento.
Poteva chiudere quella storia con una sola parola, e tutto sarebbe finito su quella spiaggia; fissò il cielo, chiedendosi se si suoi ricordi sarebbero potuti volare più in alto del drago, verso il luogo dove tutte le cose dovevano tornare. Se disciogliendosi tra le nuvole la sua anima avrebbe visto di nuovo il blu vero del mare e la sua estensione, e gli stormi degli uccelli marini al di sotto. Se per un ultimo istante avrebbe potuto riempire un’altra volta lo sguardo di quell’immensità e sentire il sole scaldare i suoi ricordi mentre un nuovo angelo sarebbe rinato su Tera.
Guardò di nuovo la piuma argentata, tutto ciò che rimaneva di quel volo.
Sorrise al pensiero che nessun Jenoma aveva mai visto una cosa simile. Che nessuno, nemmeno Garland, poteva capire cosa volesse dire il vento selvaggio che sferzava il viso quando il drago si alzava in volo. Lo spettacolo che il suo creatore stava allestendo si svolgeva su un palcoscenico molto più maestoso di quello che lui stesso avesse mai immaginato; se proprio doveva essere il primo burattino di quella farsa gli sarebbe piaciuto recitare la sua parte lassù, tra il cielo ed il mare.
Soltanto che non riusciva a vedere la fine di quella farsa. O meglio, non una che gli piacesse sul serio.
Che gusto c’è ad essere un angelo se poi non puoi ridurre in poltiglia e cambiare tutto quello che non ti piace?
Gli sarebbe piaciuto cambiare le cose. Ma non sapeva come fare. O aveva paura. O entrambe le cose. Gli sarebbe piaciuto non morire per forza alla fine di quello spettacolo e lasciarsi il mostro che poteva diventare alle spalle, dentro di sé, così nascosto che nessuno avrebbe mai più potuto vederlo. Gli sarebbe piaciuto vedere un’altra creatura nel riflesso delle onde. Una che non piangesse, al contrario di quella che gli ricambiava lo sguardo nell’acqua bassa. Quel giorno era stato fortunato ed aveva incontrato una creatura che gli aveva mostrato una terza via d’uscita, ma non ci sarebbe stata in eterno.
“Perché no?”
La voce argentata aveva una nota divertita mentre scorreva nella sua mente.
“Aspetta, in eterno no, adesso non ci allarghiamo … però se ogni tanto avessi bisogno di qualcuno che ti prenda per bene a calci nel sedere puoi contare sul mio aiuto. Certo, se invece preferisci farmi da cena tutti questi problemi non si pongono …” sussurrò, e lo spinse tra le sue zampe anteriori con la coda possente. “Allora, questo desiderio? In caso non te ne fossi accorto si sta facendo ora di pranzo, e se sto troppo a stomaco vuoto divento davvero insopportabile!”
Un’altra strada.
Era quello ciò che desiderava davvero. Una via di fuga da quel palcoscenico che non gli apparteneva, o anche solo un sentiero che lo conducesse lontano dall’ingranaggio che Garland aveva messo in moto. Certo, per percorrerla doveva rimanere in vita.
Attendere. Ancora.
Non era certo di averne le forze. Quello che aveva in quel momento erano solo un corpo difficile da controllare ed un’anima confusa e vigliacca.
E una piuma.
La portò all’altezza del viso, rendendosi conto che non aveva trovato il coraggio nemmeno di lasciarla al vento. L’aria cercava di strappargliela di mano e consegnarla al cielo, ma per tutta risposta la strinse con più forza. Guardò di nuovo l’immagine riflessa, e senza saperne il motivo preciso se la legò tra i capelli e fissò tra le increspature l’effetto strano, un po’ asimmetrico, che quella piccola luce argentata gettava tra i suoi capelli.
In fondo nessun Jenoma aveva una piuma di drago, o aveva mai sfiorato il blu del cielo. Ed in quel momento si accorse di aver trovato ciò che desiderava dal profondo del cuore.
“Possiamo volare di nuovo?”
  
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