Eccomi con il nuovo
capitolo. Mi scuso per il terribile ritardo ma ho avuto dei problemi
strettamente personali che mi hanno tolto il respiro, il tempo e la voglia di
scrivere... spero di poter essere perdonata anche stavolta.
[…]
Ho composto questo capitolo a pizzichi e bocconi.
Un pò un giorno, un pò in un altro, pertanto il risultato finale è pessimo e
scontato, ma spero comunque che possiate comprendere e infondo, molto infondo,
apprezzare.
Mi è stato chiesto di dedicare a qualcuno questo nuovo capitolo, ma non me la
sento e non voglio.
Io, in questo momento, mi sento davvero vuota.
E' la prima volta, che non so come far finire un capitolo. Davvero.
(...) Anzi, ripensandoci si.
Vorrei dedicare questo capitolo ad una persona.
Vorrei ringraziarla, nonostante tutto, di quello che mi ha donato.
Vorrei augurarle buon viaggio d'ora in poi. D'ora in poi che il mio nome non
comparirà più nella sua vita, e nella mia non ci sarà più il suo.
Questo capitolo lo dedico a te.
Buon viaggio,
mettiamocela tutta.
______________________
« Bill!? Bill dove sei!? »
« ...Tom... ho fatto un incidente...
e... »
Capitolo 17
Le ampie e candide pareti bianche dell’ospedale in cui mi trovavo, mi
avvolgevano e quasi stordivano con la loro fittizia purezza, tanto che –dopo
circa venti minuti di strenua attesa- mi vidi costretto ad abbassare gli occhi
sul pavimento di mattonelle squadrate e regolari di un verde acqua quasi
tranquillizzante, chiudendoli poi al ritmo dei sospiri nervosi di chi, con me,
sedeva nella speranza.
(...) Avevo ricevuto la chiamata di Tom due ore prima, come sempre in perfetto
sincronismo con il mio cuore che implodeva di un sentimento che non avrei
neppure saputo definire –mentre i miei occhi, più che consci dell’accaduto, non
continuavano a guardare il suo corpo inerme disteso per terra- ...
“Calmati” mi aveva subito detto lui, leggendo nella mia voce vuota il
più totale panico e la più grande delle disperazioni “...Ce la fai a
chiamare l’ambulanza, vero? Io arrivo subito... sto correndo da te...” ...e
mentre diceva quelle parole sentivo dei bisbigli di sottofondo, il brillante
tintinnio di un paio di chiavi che non erano le sue, e delle giacche che
–alzandosi e abbassandosi- andavano a coprire le spalle di chi stava già
volando.
Volando sulle ali di una consapevolezza scura.
Volando nel disperato tentativo di non lasciarmi andare. Di non lasciarmi
morire... perché, ero sicuro che Tom lo avesse capito, se quella volta fossi
caduto, non mi sarei rialzato mai più...
« ...Che ore sono? »
La sua voce, così flebile e vellutata, giunse alle mie orecchie come un urlo
nel deserto, e io –colto alla sprovvista- non potei fare a meno di trasalire.
Scosso.
« ...Le tre e un quarto... » Rispose quella voce baritonale –e in quel momento
altrettanto rassegnata- con cui ero cresciuto e che avevo da sempre amato
troppo « ...Sei stanca? »
« No, va tutto bene. Aspettiamo. » Mormorò lei, seduta per terra con la schiena
al muro e le ginocchia compresse al torace. Le braccia intrecciate le une alle
altre, il fiato corto, e i lunghi capelli mielati che le scendevano –come un
funereo sudario- a coprire i lineamenti pallidi.
Che bugiarda. Le si leggeva persino nel tremore delle dita che stava crollando!
Era stanca, eppure insisteva a rimanere lì, immobile, aspettando...
...Aspettando proprio come facevano gli altri. Quelle persone accorse sino a lì
dopo aver ingranato una quinta ben oliata e aver sorpassato l’uscio della
grande porta d’ingresso dell’ospedale correndo per colpa di una disperazione
sin troppo maturata, che dentro il loro animo continuava ad avanzare.
Dilaniare. Spegnere lentamente...
Spegnere le aspettative, le speranze...
...Qualcosa che persino lui, con quella maglietta a maniche corte e quegli
ispidi capelli biondi –fermo, dal momento del suo arrivo, di fronte alla porta
della sala operatoria del pronto soccorso- aveva probabilmente già lasciato
cadere nel baratro del vuoto.
Già, perché –nonostante tutto- chi non era subito accorso da lei?
Chi aveva osato rifiutare il candore di quel fiore di loto che, in così pochi
mesi, era riuscito a far sbocciare anche i germogli più acerbi?
Chi si era opposto al suo sorriso e la sua dolcezza...
...se non la pallida imitazione di colui che un tempo avrei chiamato “me
stesso” ?
{ Che Dio potesse fulminarmi.
Che il fato potesse distruggermi.
Che qualcuno mi aiutasse ad aver pietà di me, per favore... }
Inspirai a fondo l’aria che mi attanagliava da ogni lato e che, ad ogni sospiro,
mi rendeva sempre più conscio di quanto io fossi indegno di riuscire in quel
semplice atto.
Di riuscire, agli effetti, a vivere.
Scossi la testa, alzando lentamente le mie mani tremanti a comprimersi al
volto, e solo in quel momento mi resi conto di quanto –effettivamente- per me
fosse divenuto complesso inspirare ed espirare. Ogni tentativo di ossigenare la
mia esistenza era accompagnato da un silenzioso colpo di mannaia sulla mia
gola, la quale diveniva sempre più dolorante, sempre più stretta, e sempre più
impossibilitata a...a...
...a...
« ...Ommerda... » Sussurrai con voce strozzata quando sentii improvvisamente
delle calde lacrime salmastre riempirmi gli occhi e scivolare poi, velocemente,
lungo le guance irrigidite in un’espressione orripilata. « Ommerda » Ripetei
sconvolto. Gli occhi sgranati nel vuoto, le mani che –in un gesto quasi
isterico- cominciarono rabbiosamente a graffiare i miei lineamenti. Il mio
volto. I miei occhi...
...No. No. No... Che diavolo fai, idiota? Piangi?
Piangi? TU piangi?
TU piangi ORA? ...O R A ?
Ora che dovresti ucciderti, piangi?
IDIOTA!
Dovevi piangere prima! Dovevi distruggerti prima! Dovevi morire prima!
Ora a che serve? A cosa servono le tue lacrime?
Ad avere pietà? Ad avere riconoscenza? Un dolce bacio e una parola di
conforto...?
Ti vomiterei nel viso...
« ...Beh, che devo dirti, cosa puoi pretendere da uno come me? »
La mia voce uscì dalle mie labbra prima ancora che io stesso me ne accorgessi,
e quelle mie parole –dette quasi con rabbia. Dette con pura follia- non
poterono che attirare l’attenzione di quelle tre persone in attesa che,
voltandosi lentamente in mia direzione, si lanciarono uno sguardo
interrogativo. Perplesso.
...Ma solo tre persone, chiaramente. Tre, non quattro.
Non quattro.
(...) Oh no...lui non si sarebbe mai girato. Non finché qualcuno non gli avesse
bisbigliato all’orecchio –come un segreto infantile covato tra due bambini
capricciosi- le condizioni della bella danzatrice orientale, rinchiusa nel
bastione dell’incoscienza.
Oh no. Lui non si sarebbe mai abbandonato alla distrazione.
Non lui... Lui che ci teneva davvero...
...e ne sei geloso?
Quindi, nonostante tutto, tu ne sei geloso...?
« No, che diavolo dici... io non sono geloso di nessuno... »
...Eppure la tua voce cova risentimento e invidia.
Lo biasimi perché lui sa amare senza curarsi di sé?
Lo maledici perché lui può cogliere il fiore da cui tu sei tenuto lontano?
Dilaniati il torace, sporco reietto della dignità umana. Rifiuto e rigetto di
un egocentrismo avariato.
Tu non sei degno né di lei, né di te stesso!
« ...Ma cosa pretendi? Spiegami, perché mi assilli? ...Credi che sia semplice?
»
Semplice fare cosa?
Per te tutto è semplice. Tu non hai un metro di affetto e puro altruismo.
Il tuo amore è possessione. Il tuo rispetto, convenienza. La tua gentilezza,
ipocrisia.
Perché lei non ha scelto te?
Che domanda sciocca, bambino mio. Tu, infondo, sei più stupido di lei. Lei che
non è altro che un’ingenua farfalla dalle ali spezzate...
...perché tu –randagio rabbioso- al contrario di lei, sai come funziona la
vita.
Tu sei sporco.
« ...Mi pulirò »
Ah si? E come?
Strappando l’anima dal tuo corpo non risolverai nulla. Essa rimarrà comunque
vomitata di sangue e terra. Tu lo sai, non è così?
... Come una grande tela di seta bianca...
« ...Cavati gli occhi. Perforati le vene... »
...Su cui un pittore cieco dipinge con il suo stesso urlo una spada
d’argento...
« ...Uccidi e termina la tua esistenza... »
...Perché ormai...
« ...Non ti rimane più assolutamente nulla... »
... Perché a questo punto...
« ...Siamo stanchi... »
Noi
Siamo
Distrutti
Io e il mio cuore
Ormai
Siamo asciutti.
« BILL! »
La mano che improvvisamente mi afferrò per un polso e, con un violento
strattone, mi riportò in piedi dal pavimento lucido su cui –precisamente non so
quando- mi ero evidentemente accasciato, era quella di Georg.
La sua forza e possenza mi spezzarono come un ramoscello di ciliegio sbarbato
dal vento del nord, e io –seguendo la direzione che lui aveva tracciato per me-
fui scaraventato dalla parte opposta a quella dove mi trovavo, e dove,
inesorabilmente, ricaddi stanco. Spento.
« BILL » Urlò di nuovo Georg, e nella sua voce, stavolta, avvertii del panico «
BILL, OH! » Ululò il mio nome ancora una volta, e a quella ne seguì un’altra e
poi un’altra ancora.
Ogni tentativo di farmi rinvenire da quella sorta di coma vigile in cui ero
caduto –e nel quale tutto udivo ma nulla facevo- era seguito da uno strattone e
da una minaccia.
“Rimani in piedi, deficiente” mi sentivo dire, e a quelle parole, subito
dopo, seguiva il botto delle mie ginocchia sulle mattonelle.
(...) Okay. Chiariamoci subito. Non ero io che non volevo rimanere in piedi.
Erano i piedi che non volevano sostenermi...
« BILL ALZATI IMMEDIATAMENTE » Strillò ancora Georg, tirandomi nuovamente in
piedi... ma stavolta l’urto, fu tanto violento che io –come un burattino di
legno privato dei propri fili- non potei che finire addosso direttamente al mio
manipolatore.
I nostri petti che si scontravano. Le mie braccia che singultavano. La mia
testa che, dopo aver sbattuto sul collo nerboruto dell’uomo immobile di fronte
a me, non ricadeva dapprima all’indietro, poi sulla mia spalla sinistra, e poi
sul petto... sul mio petto...
...Stavo morendo.
Ecco. Ecco cosa stava succedendo.
Io stavo morendo.
...E’ così che si muore allora?
Prima la tua mente ti lascia cadere nella follia, e poi –lentamente- il tuo
corpo si abbandona all’inerzia?
(...) Che cosa patetica.
Che fine patetica.
Quindi sarei morto così...
... scosso dagli urli di un rimpianto macchiato di vergogna.
Che pena...
« BILL MALEDIZIONE! » Stavolta l’urlo che mi rintronò la testa fu tanto forte
che io, sconcertato e forse addirittura spaventato, aprii velocemente gli
occhi, ritrovandomi quindi a mettere a fuoco –a pochi centimetri di distanza
dal mio naso- il volto disperato del mio bassista.
I profondi occhi verdi incorniciati da quella cascata di spettinati capelli
castani, che avevo sempre trovato disgustosamente divertenti, brillavano alla
luce delle lampade al neon incastrate negli incavi dei due muri ospedalieri che
ci cingevano in un opprimente abbraccio; e il suo volto –così maturo e adulto
se paragonato al mio- era tirato in una smorfia di puro terrore.
Sembrava scioccato. Sconvolto. Ma soprattutto... spaventato.
Terribilmente impaurito.
« Bill... Bill, ehi... » Ripeté per l’ennesima volta, non distogliendo nemmeno
per un istante il suo sguardo da quello vitreo mio. « ...Bill come... »
« Sto male » Risposi automaticamente io, anticipando la sua domanda con
un tono di voce tanto gelido che, per un attimo, ebbi difficoltà a riconoscere
come mio
« ...Tutti stiamo male... » Obiettò il mio interlocutore, corrugando la fronte
nell’espressione addolorata di un padre preoccupato « ...Devi calmarti, infondo
tu... »
« No » Lo dissi così. Di punto in bianco. Una lampo di lucidità in un marasma
di follia. « Io sto male » Ripetei rigidamente, guardando con orrore il ragazzo
che –fermo di fronte a me- arricciò improvvisamente le labbra in un ringhio
esasperato e, avrei persino giurato, offeso.
Offeso. Si.
Georg, per un istante, mi sembrò essere terribilmente ferito. Ferito e, proprio
come un animale colpito a morte, furiosamente imbestialito...
« Ah si, scusami, come ho potuto non capire che TU stai MALE? »
La sua voce risuonò alle mie orecchie intrattenibile come un cavallo al galoppo
in una landa desolata, e prima ancora che avessi il tempo di chiudere gli occhi
–unica cosa che ero ancora capace di fare autonomamente- per ricadere nel mio
torpore, mi sentii sollevare da terra ancora una volta per il mio braccio
destro ormai dolorante. Inesorabilmente.
« STUPIDO CRETINO! » Ululato potente il suo, tanto da lasciarmi irrigidito.
Tanto da congelare ogni mio sentimento lì di fronte a lui –così tetramente
furibondo.
« PERCHE’ TI COMPORTI COSI’?! SPIEGAMELO PER FAVORE, DATO CHE IO SINCERAMENTE
NON LO CAPISCO! » Strillò quelle parole a pochi centimetri dal mio volto, prima
di lasciar andare di botto il mio braccio molle; e io –dopo un piccolo
barcollare di assestamento- rimasi finalmente in piedi da solo. In piedi, si.
Contro ogni mia previsione.
« PERCHE’ PENSI SEMPRE DI DOVER ESSERE IL PRIMO IN TUTTO!? PERCHE’ NON ACCETTI
IL FATTO CHE CI PUO’ ESSERE ANCHE QUALCUN ALTRO CHE PROVA CIO’ CHE PROVI TU!?
...PENSI CHE NOI NON STIAMO MALE PER QUESTO? PENSI CHE SIAMO FELICI DI QUESTA
SITUAZIONE!? »
Un braccio muscoloso che, scoperto e teso nello spasmo della rabbia, venne
puntato contro la porta della sala operatoria distante da noi solo qualche
metro.
La stessa porta di fronte a cui, Gustav, ancora sostava immobile: Gli occhi puntati
sull’insegna accesa sopra lo stipite. Le braccia rigide sui fianchi. La testa
leggermente appesantita, adagiata sulle sue stesse spalle...
« PERCHE’ VUOI DETENERE IL PRIMATO PERSINO SULLA SOFFERENZA!? DIMMELO! PER
QUALE INSPIEGABILE MOTIVO CREDI DI SOFFRIRE SOLO TE!?
TU SEI...Sei decisamente... assolutamente... »
Ma quella frase, incredibilmente, non venne mai finita.
Avevo già chiuso gli occhi e lasciato ricadere il mio mento ad adagiarsi sul
petto quando avevo udito l’acerbità di quel verdetto non ancora pronunciato,
che sapevo –stavolta- mi avrebbe totalmente piegato; quando perciò sentii la
voce di Georg spengersi lentamente dalla rabbia al silenzio più grave, mi
ritrovai persino a stupirmi. Sconvolto.
Che succede –mi domandai allarmato, dall’interno del mio guscio comatoso- ?
Perché ti sei fermato...?
Non riuscivo a capire sinceramente, era così follemente irato. Così
rassegnatamente teso. Così colmo di un’ansia che non sapeva come esternare...
aveva finalmente trovato un modo (poco importava se quello prendeva il mio nome
e il mio cognome), e allora... perché ti sei fermato?
...Perché non termini la tua opera di distruzione?
« ... “Perché mi risparmi?” »
La sua voce giunse alle mie orecchie come da una grandissima lontananza.
Piccola. Flebile. Svuotata di tutto quell’entusiasmo e quell’allegria infantile
che da sempre l’aveva caratterizzata e che, da sempre, mi aveva fatto perdere
le staffe.
Che da sempre mi aveva aiutato ad odiarla un po’ di più...
« Immagino che in questo momento ti stia domandando questo, no? »
Non avvicinarti –pensai immediatamente, impossibilitato a muovermi benché io,
in un ultimo slancio di rabbioso orrore, avessi cominciato a provare il
desiderio folle di farlo: Di allontanarmi. Di scansarla da me.
« ...Non ti nego una cosa, Bill, sono sinceramente compiaciuta » Disse allora,
dopo qualche attimo di silenzio, avvicinandosi molto lentamente a me.
I suoi passi rimbombavano nel corridoio e nella mia testa come un colpo di
fucile sparato durante un’esecuzione a morte, e io –ancora con gli occhi
ermeticamente sbarrati e la testa esanime sul mio corpo- non potei fare a meno
che digrignare i denti. Irritato.
Come un animale rabbioso.
Non ti avvicinare, maledetta!
« Ora lo capisci cosa si prova. Sono felice. »
I suoi occhi color dell’ambra, strafottenti e visibilmente soddisfatti, mi
guardarono dopo aver fatto capolino da dietro le mie spalle irrigidite;
lasciandomi perciò il tempo di notare come quel suo trucco impeccabile che da
sempre le avevo invidiato, era ormai colato lungo le sue pallide guance da
bambina, creando sulla sua carnagione liscia delle stanche chiazze di nero
sfumato e piastricciato. Proprio come un dipinto infantile rovinato da una
manina dispettosa.
La sua bocca scarlatta, minuta ma proporzionata a quel visetto da bambola
velenosa che da sempre si era ritrovata ad avere, si increspò leggermente in un
sorrisetto divertito non appena socchiusi gli occhi nell’osservarla, e io,
automaticamente, –benché ancor imprigionato nella mia fissa immobilità- non
potei far altro che maledirla per questo.
Maledirla.
Maledirla!
Una. Due. Tre. Cento. Mille volte!
Tu sei solamente una grandissima bastarda. La rovina della mia felicità.
L’apoteosi di...
« ...Sei vuoto.
Il tuo mondo a colori ha perso le sue tonalità, e gli aggettivi che colmavano
di bellezza e serenità la tua esistenza hanno perso di significato.
Il tuo cuore è in frantumi.
La tua mente vacilla, e tu –solo e reietto in una follia che non è tua- non sai
far altro che piangere e maledire il momento in cui ti sei innamorato...
Lo ripeto: Ora lo capisci cosa si prova. Sono davvero felice... »
...Silenzio.
Improvvisamente, prima ancora che io avessi il tempo di fermare tutto ciò a cui
sapevo di star andando incontro, la mia mente –come un orologio rotto dalle
lancette che avanzano all’indietro anziché in avanti- mi riportò a quel giorno
d’estate di un anno e mezzo prima.
(...) Italia. Firenze.
Quell’aeroporto così piccolo rispetto a quelli cui ero abituato.
Le panchine vuote. Gli operatori nervosi. Le hostess imbarazzate.
Le parole bisbigliate di un David sconvolto e di un Saki rassegnato.
Gustav e Georg con la musica nelle orecchie. I loro sguardi mortificati e
persino stanchi.
...E poi io. Iracondo. Rabbioso. Ferito a morte. Invidioso. Geloso.
Le mattonelle squadrate di quel corridoio lungo. Le vetrate sporche che davano
sulle piste di decollo e atterraggio. Il nostro aereo pronto solo per noi...
...e poi lui.
Lei.
Mano nella mano. Lo sguardo spento. Falsamente sereno.
Erano disperati. Stanchi. Nervosi. Rassegnati...
...Ma lei...
Lei, oh non lo dimenticherò mai. Le sue parole sussurrate a mezza voce sulle
frasi sconnesse di mio fratello che mi stringeva a sé...
“Scusami, davvero, ma...
Ti prego...
Non me lo portare via...”
... Il suo sguardo così vitreo. Le sue mani tremanti. La mia viscida
consapevolezza di quanto stesse lottando per mantenersi in piedi da sola. La
sua voglia di urlare, di strapparlo dalle mie braccia e stringerlo di nuovo a
sé, sperando in un’eternità che non ci sarebbe mai stata...
Chissà a cosa si aggrapperà per continuare a vivere...?
Una mia sporca curiosità. Un tentativo.
Per me, dopotutto, è sempre stato tutto un gioco.
“Me lo riprendo”
...
.…...
……… Dieci. Cento. Mille.
Mille. Cento. Dieci.
Zero.
Zero era il numero di volte nel quale io sarei dovuto essere perdonato...
« ... Si si, bravo. Ecco, ora è perfetto, puoi piangere » Mi disse quelle
parole quando, di punto in bianco, io non potei far a meno di alzare lo sguardo
verso di lei e –benché il mio orgoglio ormai deceduto e il mio odio verso
quella bambina bassa ed egocentrica continuassero a impedirmi di farlo-
mettermi a piangere.
Piangere. Mortificato.
Si. Si. Si! Mortificato, terribilmente sconvolto!
Sconvolto da me! Dal mio egoismo.
Dalla mia... cattiveria?
« Grazie »
Improvvisamente la sua voce mi apparve gentile, e il suo sguardo –così duro
sino ad un attimo prima- si addolcì in un istante in un sorriso affettuoso
dinnanzi al quale non potei che singhiozzare. Spiazzato.
Perché sorridi ora?
...Sei forse stupida?
« ...Grazie, davvero... » Ripeté lei, nonostante tutto, avvicinandosi a me di
un altro passo. Cautamente. Lentamente.
« ...Perché? » Gemetti io, smarrito.
« ...Perché finalmente hai capito quanto io sono stata male. »
...Silenzio.
Già. Quanto hai sofferto...?
Terribilmente.
« Scusami » Secco. Quasi doveroso il mio dire.
« Figurati, è passato ormai... » Rispose lei, e nel momento stesso in cui disse
quelle parole, vidi le sue braccine alzarsi verso l’alto in un gesto che, fino
all’ultimo, non compresi –forse per incredulità, o forse per semplice
imbarazzo.
La vidi issarsi sulle punte di quei suoi grandi e consumati anfibi neri e, dopo
essersi slanciata, aggrapparsi al mio collo. Sentii il suo corpo caldo
adagiarsi al mio e il suo piccolo volto incastrarsi dolcemente nell’incavo tra
il mio collo e il mio mento.
(...) Quanto era piccola, anche lei...
Così minuta rispetto a me, o a mio fratello.
Era sicuramente poco più alta di...
« Lasciami » Ordinai rabbioso, improvvisamente.
I miei occhi che, con la loro coda magistralmente truccata, scorgevano la
figura di mio fratello immobile a pochi passi di distanza da noi. Le sue mani
strette alla grande maglietta doppia X. Gli occhi fissi su di me.
Silenziosamente...
« Scordatelo, scopino » Rispose lei, stringendomi a se con maggior forza
« Ho detto lasciami »
« No » Sussurro smorzato. Respiro che, lentamente, cominciava a rompersi «
...Altrimenti cadrai in pezzi »
Cadere in pezzi? Che follia!
Io ero già sgretolato!
« L a s c i a m i . . . »
« ...Sto male »
La sua vocina giunse alle mie orecchie dopo aver serpeggiato lungo tutto il mio
collo ed essere silenziosamente sgattaiolata sui miei nervi già duramente
provati; e io –di fronte a quell’incredibile manifestazione d’emozione che MAI
mi sarei aspettato potesse giungere da LEI- non riuscii a parlare.
Rimasi immobile, come congelato.
Lo sguardo perso lontanamente in quello di Georg che ancora mi sostava di
fronte, a pochi passi di distanza. Silenzioso spettatore di quel film di
seconda mano dalla pellicola consumata.
« Sto davvero fottutamente male » Ripeté ancora una volta, stringendomi con
maggior forza mentre la sua schiena, lentamente, cominciò ad esser scossa da
singhiozzi e sospiri. « ...E se dovesse...? »
« Non lo dire nemmeno per scherzo » Intervenni repentinamente, impedendole di
finire quella frase che il mio cervello non voleva nemmeno prendere in
considerazione. No. Nemmeno lontanamente.
« Sto male... » Disse allora lei ancora una volta, dopo dei lunghi attimi di
silenzio che mi sembrarono eterni. Interminabili.
...E a quel punto cosa avrei dovuto dire?
Cosa avrei dovuto fare?
Urlarle di smettere? Dirle che io, per primo, ci stavo veramente male?
Che era colpa mia? Che l’avevo buttata IO sotto quella macchina? Che ero un
animale? Un uomo privo di contegno?
Cosa... cosa avrei dovuto dirle, per farla smettere di piangere, cazzo?
« Bill, io... »
« Sto male anch’io » Silenzio « ...Credimi... » Silenzio.
« ...Ti credo... » Uno.
« ...Cosa devo fare...? » Due.
« ...Non lo so... » Tre.
« ...Ho paura... » Quattro.
« ...No. Non averne... perché tu, credimi, non sei solo. Ci siamo noi con te.
Non ti molliamo, puoi contarci... » Cinque.
Cinque battute. Solo cinque semplici battute.
Cinque come noi.
...Da quando avevo smesso di pensare alla mia “famiglia” con il numero quattro?
Da quando, i membri dei Tokio Hotel, erano diventati cinque?
Era da quando lei si era trasferita in Germania, o da quando aveva cominciato a
sedere con noi come un amico di sempre...?
« Ti voglio bene » Lo disse così, di punto in bianco, e quelle sue
parole mi bucarono la mente silenziosamente. Inattese. Sconvolgenti.
« Io no » Risposi automaticamente, irrigidito in quello che avrei forse potuto
definire persino imbarazzo.
« ...Ah si? » Sussurrò lei, sghignazzando tra le lacrime dall’incavo del mio
collo « ...Bastardo di un Billosky... »
« Bastarda di una Federica... » Gemetti di rimando io, mentre lei mi stringeva
a sé con ancor più forza, quasi togliendomi il respiro.
« Grazie » Rispose, e la sentii sorridere « Mi piace quando mi chiami per nome
»
Oh no...per favore...tutto ma non questo...
(...) Per Dio...
Che essere patetico che ero...
« Aspetteremo insieme, non ti preoccupare » Mi disse dolcemente, mentre le mie
braccia tremanti non si alzavano a ricambiare il suo abbraccio con impacciata
delicatezza, stringendo con forza la sua schiena a me. Silenziosamente.
Irrepetibilmente.
« ...Grazie... »
« E’ un piacere »
·¨¤ººº¤¨·
Eppure ogni uomo uccide ciò che ama.
Alcuni uccidono adulando. Il vile uccide mentre porge un bacio, e l’uomo
coraggioso con la strage.
Molti uccidono l’amore da giovani, altri invece da vecchi.
Chi lo strangola con le avide mani del peccato, e chi invece con le avide mani
dell’oro.
L’uomo gentile adopera il coltello perché il freddo mortale sia più rapido.
Alcuni amano brevemente e altri troppo a lungo.
C’è chi vende e c’è chi compra. Chi uccide il proprio amore senza un singhiozzo
e chi con molte lacrime.
Ma nessuno tra quelli che hanno ucciso ciò che amavano,
paga con la morte.
(Oscar Wilde)
·¨¤ººº¤¨·
Le ore passarono, e dalle tre di notte arrivammo alle cinque e mezza del
mattino, orario che ipotizzai solo guardando i primi deboli raggi del sole
filtrare lentamente dalle vetrate immacolate che quell’ospedale vantava.
Seduto per terra, con la schiena poggiata al muro e la testa adagiata su quella
della bambina che –pazientemente- mi era rimasta seduta accanto, non potei che
sospirare con fare tremante.
...Ore.
Erano ore che era dentro quella sala operatoria... e ancora? Ancora nulla.
Alzai leggermente il mio sguardo sui volti pallidi e tirati in una smorfia di
stanchezza di Georg e Tom, mio fratello, e mi stupii di non notare nessuna
differenza nelle loro espressioni.
Entrambi, erano identici.
Sui loro lineamenti, ormai, non vedevo che rassegnazione...
...Persino Gustav si era seduto su di una sedia –anche se non avrei saputo dire
precisamente quando- e il suo sguardo, dopo tante ore di speranza e vile
aspettativa, era concentrato sulle mattonelle squadrate e leggermente scalfite
del pavimento, che con le loro tonalità pacate avrebbero forse potuto placare
la consapevolezza che ormai si era fatta largo tra tutti i presenti.
Una consapevolezza che, tuttavia, io non osai nemmeno pensare.
Mi resi conto che non potevo. Non io.
Non potevo arrendermi, non... insomma, sarebbe stato abbastanza assurdo, no?
Perché non poteva essere.
Perché io ne ero sicuro. La sentivo.
Io sentivo il suo cuore che batteva.
Era una cosa difficile da spiegare, e sperai che quella mia convinzione
accecante e invicibile non fosse dettata dalla follia che sedeva ridente dentro
di me, ma... ma io ero sicuro, io la sentivo! Sarei stato pronto a giurare!
Sentivo il suo cuore pulsare di vita. Il suo respiro ingranare la strada del
futuro.
Io la sentivo.
Lei c’era.
Lei esisteva.
Lei era...era viva!!
Io lo sapevo.
Doveva essere così.
Così essere doveva.
Ambarabà ciccì coccò,
tre civette sul comò.
Do re mi fa
Sol la si
A b c d e f
G h i l m n o
P q r S...
« ...Shinoko... »
...oh maledizione, che fai non mi rispondi?
Non senti le mie mani che ti toccano il viso, e le mie labbra che ti sfiorano
la fronte?
Apri gli occhi.
Apri gli occhiiii...lalalaaaaaaaaaaaaaaaa……
« Bill... »
Mi voltai di scatto nell’istante stesso in cui i morbidi polpastrelli delle sue
manine bianche si adagiarono sulla mia guancia sinistra, e lei –per un attimo-
mi sembrò persino spaventarsi.
…Perché ti ritiri indietro?
Perché esiti di fronte a me, impaurita?
Perché mi guardi con quello sguardo angosciato e lucido…?
E’ forse per i miei occhi tanto sgranati da sembrare maniacali, o per le mie
mani strette attorno alle spalle?
Oh no, forse è perché mi dondolo sui talloni mormorando da solo, cercando di
non cadere in pezzi, cercando di dare un senso a questo assordante silenzio?
Perché?
…Perché adagi sul mio viso le tue mani? Perché stringi le mie guance tra le tue
dita?
Cosa vuoi? Cosa vogliono i tuoi occhi color dell’ambra e la tua ansia
malcelata?
Cosa volete tutti da me?
« …Bill ti voglio bene »
Si, ma perché me lo dici ora?
« Dimmelo. Dimmi che te lo ricordi »
Si, si! Lo vedi, lo vedi che sono bravo?
Annuisco.
Sono bravo. Si, si, lo so che mi vuoi bene, lo leggo nella tua voce tremante.
Anche io te ne voglio sai…
…però adesso puoi stare un po’ zitta?
Altrimenti non sento la mia unica stella suonare i suoi battiti di vita!
Ti scoccia?
Ti sto offendendo?
« Bill ascoltami, giuramelo, giurami che non te lo scordi va bene? »
…Oh no!
Stai piangendo…!
Ecco, ecco lo sapevo che ti avevo offeso!
Scusami. Scusami. Scusami principessa.
…Vedi? Annuisco di nuovo, solo per te!
Prometto che non lo dimenticherò mai, giuro!
« E’ una pro… » Inghiottì, respirando tra i singhiozzi « …è una promessa ok? »
…Siiii………uuuuuffaaaaaaa……che noooooiaaaaaaa……!!!
Uffaaaaaa! Si ho caaapiiitooooo!
Bleah! Ti faccio un linguaccia, perché adesso mi stai proprio antipatica!
Ho capito, va bene, ti ho detto che va bene!
…Ma perché si stanno tutti alzando ora, me lo spieghi?
Georg? Dove vai, perché ti alzi?
…Tom? Tom!! Che fai? Dove vai?
Tom…cosa stai guardando…?
Tom…perché ti sento improvvisamente così…così vuoto…?
« Bill!! »
Le sue braccia si serrarono attorno al mio torace nel momento stesso in cui mi
piegai leggermente in avanti e –superando con lo sguardo le sedie del corridoio
d’attesa che fino a quel momento mi avevano celato la visuale della porta della
sala operatoria- vidi un alto uomo in camice bianco sostare immobile sull’uscio
di quella porta la cui insegna accesa si era ormai spenta.
Era un uomo alto e ben piazzato, la cui stazza imponente sembrava beffarsi
ironicamente di quelle fattezze gentili e aggraziate che si ritrovava ad avere
e che erano messe più che in risalto da quei boccoli biondi e da quegli occhi
celesti che –scivolando lentamente su noi presenti- non si fermarono dapprima
su Gustav e infine su Tom. L’ultima persona, infondo al corridoio.
« C’è un parente? »
Disse solamente questo mentre le grandi mani dai torsi rugosi non scivolavano
lentamente fuori dalle tasche per adagiarsi allo stipite della porta.
Il volto era una maschera di stanchezza.
La sua voce il sepolcro della vita.
« Sssh…Bill… »
La sua vocina flebile che mi induceva alla calma, lentamente scoppiò nelle mie
orecchie e –come se improvvisamente fossi ritornato ai miei 20 anni dopo aver
esplorato per una seconda volta tutti gli stadi di crescita della mia infanzia-
non potei che inginocchiarmi per terra, mentre le mie braccia -così
terribilmente pesanti- non sbattevano sul mio corpo con un rumore sordo e
metallico che mi sembrò di udire distintamente.
Proprio come due bastoni che ricadono su una lattina di metallo.
I miei occhi sgranati scivolarono meccanicamente su tutti i presenti che,
guardandosi a vicenda –chi non respirando o chi persino tremando-, cercavano di
capire dal panico altrui cosa fare in quel momento.
Cosa dire.
Cosa…pensare!
PAZZI!
VOI SIETE TUTTI PAZZI, IO LO SAPEVO!
« C’è un parente? » Ripeté seccamente il medico con una stanchezza disarmante
nella voce, lasciando roteare i suoi occhi sul pavimento di fronte a lui, e
l’attimo di stasi che ne seguì fu talmente devastante che –ormai- ero sicuro di
non sentire più nulla se non il battito incessante del cuore di lei.
Perché cazzo, ne ero sicuro.
Lei stava battendo…
…Lei stava battendo.
« C’è un parente? »
Si guardarono tutt’e tre, ignorando completamente sia me che lei, come se
insieme costituissimo una sorta di buco nero a cui sapevano di non doversi
avvicinare nemmeno per finta.
Come se non esistessimo.
Come se non fossimo lì.
« C’è un parente? »
Abbassò la testa, mio fratello.
Le mani che non riuscivano nemmeno più a trovare la forza di stringersi alla
maglietta.
Lo sguardo che non aveva neppure più il coraggio di voltarsi verso di me o la
sua lei per infondere quella sicurezza da cui entrambi avevamo dipeso per tutta
la durata dell’attesa.
Compì un passo, e poi due. Silenzioso marciatore di un valzer in nero.
…E i miei occhi lo seguivano.
I suoi singhiozzi lo accompagnavano.
La pazienza di quel medico cadaverico lo attendevano.
Fermati.
Lei batte ancora.
Fermati ti ho detto…
« C’è un parente? »
1 2 3... ?
« Si. C’è un parente. »
Mi passò accanto con una velocità tale che ricaddi a mani in avanti, tanta fu
la forza da cui venni travolto.
Il ticchettio irregolare dei suoi mocassini in pelle lucida nera mi perforarono
la mente, lasciandomi quantomeno basito quando –alzando lo sguardo- mi trovai a
scorgere le spalle squadrate del signor Sebastian Swarz; il quale, sorpassando
Tom con presuntuosa violenza, non azzerò la distanza che lo separava dal medico
in camice bianco in meno di un istante. La sua giacca gessata era sgualcita, e
le mani livide indicavano solo una parte dell’ansia che probabilmente lo stava
avidamente divorando.
Un’ansia che forse SOLO IO potevo comprendere…
Dietro di lui, fedele sostenitrice di una vita di impegni e quotidianità,
apparve Ivonne.
Il viso pallido. Nessuna traccia di trucco sul volto adulto. Il fiato corto. Il
corpo scosso da tremiti…
…e quegli occhi anonimi che scivolavano attorno a lei.
Che si soffermavano su di me.
Sulla bambina che mi stringeva a sé.
Le iridi che si dilatavano. Gli occhi che immediatamente si sgranavano.
Lo sguardo che repentinamente veniva portato sulle spalle di quel padre
angosciato. Sul volto di quel medico rassegnato.
Un passo in avanti.
Due.
Tre.
« …Lei è…? »
Un sospiro.
« Il padre. Swarz. Swarz. Il padre. Sono il padre. »
Uno sguardo.
Quattro passi.
Un silenzio.
Un vuoto.
« Dovrei parlarle… »
“Ricordatelo, hai promesso…”
Sussurri privi di ragione. Privi di essere.
Qualcuno che avanzava.
Qualcuno che retrocedeva.
« Sta bene? »
Sta bene?
« Ci sono state delle complicazioni… »
No.
« …Dovrei parlarle…può entrare…? »
Può entrare?
Può entrare?
Può entrare?
Può entrare? Può fare qualcosa?
Qualcuno può fare qualcosa?
QUALCUNO PUO' FARE QUALCOSA?
...Perché io, credetemi, non so come finire questo capitolo.
Io, non so finire questa canzone.
Io, non so finire.
Lei sta battendo.
Batte ancora…