Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: MadLucy    01/12/2013    5 recensioni
Sono passati ormai otto anni dalla prematura morte di re Joffrey; ora sul Trono di Spade siede Tommen Baratheon, bello quanto ignaro, manovrato con fine astuzia dall'intraprendente moglie, Margaery Tyrell. Al Nord regna Bran Stark: il suo improvviso ritorno è avvolto in una caligine di mistero, così come il sinistro e devastante potere grazie al quale ha conquistato il comando; al suo fianco c'è la moglie Meera, ma a corte tutti sanno che il re passa le notti nel letto del suo consigliere più fidato. Quando, per vendicare i torti subiti dalla sua famiglia in passato, il principe barbaro Rickon Stark si sporca le mani di sangue Lannister e rapisce la principessa Myrcella, non si può più tornare indietro: è guerra. Che parte interpreteranno Sansa Stark, Yara Greyjoy e Gendry Waters in tutto questo? Tra amori conflittuali, alleanze strategiche e scandali a palazzo, i nuovi concorrenti possono schierare le pedine: e che il gioco del trono abbia inizio.
(Bran/Jojen; Rickon/Myrcella; Gendry/Arya)
Genere: Generale, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Bran Stark, Myrcella Baratheon, Rickon Stark, Shireen Baratheon, Tommen Baratheon
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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IV. Amaranto fu il progetto.



A Bran Stark bastò guardare il volto di Stannis Baratheon per capire che qualsiasi nozione di dialettica, politica e convenzioni sociali, buone per zittire qualche stolto lord, adeguate per cavarsela in presenza dei Lannister, non sarebbero servite a nulla. Perchè l'aspetto di Stannis aveva imparato senza inganni l'intransigenza d'un acciaio che non voleva nascondersi, che non provava vergogna della propria natura, che non cercava d'essere nient'altro che se stesso. Fu in quel volto temprato dai debiti delle vicissitudini e dal furto dei diritti, che Bran si accorse di quanto fosse irta e vasta la ragnatela dei Lannister. Aveva invischiato ogni cuore, impedito ogni anima; si protendeva in ogni meandro della mappa toccandone gli apici al Nord ed al Sud, e non esisteva terra nè mare in grado di assicurare la salvezza. Quello per il trono non era più un gioco -perchè in un gioco c'è chi vince e c'è chi perde. In quella partita, invece, tutti i partecipanti avevano incassato la loro sconfitta.
-Decisamente giovane, per essere diventato re.- La sentenza di Stannis fu lapidaria, ma non v'era accusa in quella voce tagliente d'indefinibile inquisizione. Non si fidava, oh, no: e perchè mai avrebbe dovuto farlo? Bran strinse gli occhi, contraendo le dita attorno al bracciolo; quel Baratheon non era la prima persona ad esprimere un simile commento, a paragonare tale campagna militare a quella del Giovane Lupo, Robb Stark, e -proprio perchè guidata da un re ragazzo- ugualmente destinata al fallimento; ma di certo la sua situazione era diversa. Bran non aveva ancora vent'anni, però aveva superato il trauma della caduta dalla torre e della perdita delle gambe, era sopravvissuto nelle foreste oltre la Barriera, aveva sviluppato poteri straordinari. Era più saggio, più prudente, più letale di Robb, da questo punto di vista.
In quel momento non sedeva sul trono bensì al tavolo dei banchetti, in modo da poter parlare a quattr'occhi con l'ospite -parlargli dall'alto del suo scranno sarebbe potuto essere inteso come segno di alterigia.
-Decisamente vecchio, per non essere ancora diventato re.- replicò con calma devastante. Per un istante pensò d'avere osato con troppa impertinenza, però notò la smorfia di franca amarezza che fletté la bocca dura dell'uomo -quasi ad ammettere: touchè- e comprese che l'approccio più conveniente era quello dell'incontaminata, schiacciante onestà, e che fossero i Tyrell a perseverare con i vagheggiamenti della retorica e la frivolezza della bella parola.
-Desideri mangiare qualcosa? Hai fatto molta strada per arrivare fin qua.- osservò il re del Nord, indicando con un ampio cenno le vivande ordinate sul tavolo. Stannis lo ignorò, come se non avesse udito.
-Perchè allearmi con te dovrebbe essere la scelta giusta?- domandò, senza preamboli, pronto ad esaminare con analitica inclemenza e soppesare con mordace pedanteria ogni parola del ragazzo, senza che il suo sguardo lo abbandonasse mai, privo di schermi, fiero delle sue ferite e troppo consapevole per ritenerle motivo di vanto. Nostra è la furia, già: c'era tanta furia in Stannis Baratheon, furia patita, furia assaporata, furia fomentata, furia di cui s'era ammantato e nella quale aveva scommesso, furia asciutta che portava il fuoco sulla pelle senza più bruciare -calpestare, piuttosto.
-Questa domanda, mio lord, dovrei portela io. Hai perso tutto quello ch'era possibile perdere, quindi non hai che da guadagnarci.- Bran giocherellò una pedina a forma di testa di lupo fra le dita, osservando le buie fessure degli occhi, intagliate nel legno. -Ma, in definitiva, dovresti allearti con me perchè il nostro è un obiettivo comune, un nemico comune, che in questo caso implica motivazioni differenti. Motivazioni differenti, cioè più reati da annoverare sul piatto della bilancia dei nostri avversari.-
-Bilancia di chi, e di cosa?- Stannis scosse la testa, contrariato. -Ormai il re è chi uccide nella menzogna, non chi muore nella giustizia.-
Bran immobilizzò la pedina del lupo contro il palmo e tornò a guardare Stannis dritto negli occhi.
-Allora parliamo di ciò che t'interessa: la bilancia del ferro. Noi possediamo l'esercito di cui hai bisogno, composto da truppe provenienti da tutte le nobili case del Nord e delle Terre dei Fiumi.- Il ragazzo poggiò gli avambracci e intrecciò le dita, chinando appena il mento. -Io voglio la giustizia, re Stannis: tu concedimela con il tuo appoggio, ed io ti offrirò le armi in cambio. Equo, dato che a questo punto la giustizia è tutto ciò che avere da offrire, e sono ben in pochi a richiederla.-
-L'esperienza mi suggerisce di diffidare di offerte così irrinunciabilmente vantaggiose.- obiettò Stannis, con una smorfia piccata. Era risaputo che il fatto che finora non aveva voluto stringere alleanze, poichè riteneva tutti spregevoli usurpatori. -Ma quel che t'interessa non è soltanto la nobile consapevolezza d'essere nel giusto, non è così? Miri anche a qualcosa di meno spirituale, se non sbaglio. Ho sentito che vuoi uomini in più perchè temi che i Martell mandino in fumo i tuoi piani. Di conseguenza, io sarei una specie di tappabuchi?-
-Se ti aggrada pensarla così, fai pure. Io la intendo in un altro modo. Entrambi preferiremmo evitare quest'alleanza, perchè non possiamo essere del tutto certi della reciproca buona fede, però siamo giunti ad un punto in cui proseguire ognuno per la propria strada non è conveniente.- spiegò Bran, seguendo una logica irreprensibile. -Io ti considero un alleato, niente di più, niente di meno. Se credi che arrivare a chiedere il nostro aiuto sarebbe denigrante, oppure ritieni che si tratti di un complotto contro di te, oppure mi consideri l'ennesimo re indegno, l'accordo si dissolve... così come la tua speranza di salire al Trono di Spade, certo. Ma non sei obbligato a fare nulla, in fondo.- Egli esibì un sorriso discreto, intimidito, quasi a chiedere scusa per le ragionevoli conclusioni che si potevano trarre da quella situazione. -Desideri un po' di tempo per pensarci?-
Stannis sospirò un sospiro gravido, gravido di tutte le volte che aveva fatto l'errore di credere che fosse quella, la soluzione.
-Di tempo non si può dire che me ne sia mancato, e anzi ne è già stato sprecato troppo. Piuttosto, come hai intenzione di muoverti?-
Bran e Jojen avevano discusso ampiamente di questo già da prima che venisse sferrato l'attacco contro Runestone; da parte sua, il re del Nord non aveva avuto dubbi a riguardo.
-Quando tutti gli alfieri avranno inviato le loro truppe e l'esercito sarà nuovamente pronto, assalteremo il luogo in cui qualsiasi peggior pronostico si è miseramente realizzato. La patria della nostra vendetta, per così dire.- Bran allungò il dito verso la mappa distesa sul tavolo di fronte a lui; esso scese lentamente lungo la Strada del Re, fino ad interrompersi appena superata l'Incollatura.
-Le Torri Gemelle.- decretò Stannis, senza ombra di stupore in volto. -Capisco. Hai già un'idea di come attaccarle?-
Il ragazzo trattenne un sorriso e ribattè con tono allusivo e volutamente enigmatico. -Preferirei parlarne più avanti, quando tutti i dettagli saranno definiti e le truppe saranno qui, cioè quando avremo stillato uno schema di guerra preciso. Per ora, non è necessario che tu sappia altro.-
Stannis rimase per un attimo interdetto davanti a quella risposta, però non era poi così importante e lasciò perdere. Piuttosto sollevò una questione che riteneva fondamentale:
-Oltre che onorare la sacra memoria dei vostri cari, avete intenzione di fare qualche passo avanti?- C'era un sarcasmo pietroso e privo d'umorismo nella sua voce.
Bran aggrottò la fronte, offeso da quelle parole che suonavano derisorie alle sue orecchie. -Quando i Frey saranno messi fuori gioco, il passaggio sarà libero e si provvederà a scendere progressivamente.-
-E questa... chiamiamola progressione, quanto lenta sarà, di preciso?- domandò l'uomo aspramente, esasperato.
L'espressione di Bran si fece quasi severa. Aveva una bella faccia tosta, quel dannato Baratheon, a venire lì e comportarsi in maniera così arrogante, a dettare legge e criticare a tutto spiano, e a fare pure il sostenuto circa le proposte di Bran -come se potesse permettersi di rifiutare, come se accettando facesse un favore al Nord, anzichè il contrario. Era Stannis quello che avrebbe dovuto supplicare e Bran quello che avrebbe avuto motivo di farsi pregare, casomai.
-Con la fretta non si vincono le battaglie, mio lord.-
-E con la procrastinazione non si vince la guerra, direi.- sbottò Stannis, alzandosi in piedi e cominciando a percorrere nervosamente la sala da destra a sinistra, a passo marziale, con le mani rigidamente strette dietro la schiena. Il re del Nord lo seguì con lo sguardo, un po' seccato da quella brama ingorda di tutto e subito.
-Dipende tutto da quanto numeroso sarà l'esercito che Tommen deciderà di scagliarci contro, da quanti saranno i morti e quanti i sopravvissuti da ambo le parti, dalla possibilità che avremo di liberare un passaggio piuttosto che un altro.- Le contò sulle dita, una per una. -È impossibile stabilire tutto in anticipo, ragionando per ipotesi. Anche se lo dubito, potrebbe addirittura accadere che Tommen sia presente, che qualcuno riesca ad ucciderlo, e la guerra sarebbe finita lì. È una previsione un po' utopistica, ma non escludiamo a priori questa eventualità. Onestamente, se potessi evitare che scorra altro sangue...-
-La guerra è sangue, Stark, e chi inizia una guerra chiama sangue.- lo interruppe Stannis, scacciando quelle parole con un cenno sbrigativo, giudicandole troppo sprovvedute per essere prese in considerazione. -Piuttosto, accompagnerai il tuo esercito oppure no?-
Anche questo era stato oggetto di dibattito, diverse settimane addietro. Visto che senza dubbio Rickon sarebbe partito, -Deve sempre rimanere uno Stark a Grande Inverno.- aveva decretato Meera con fermezza. -Sarai più al sicuro qui, piuttosto che in una tenda poco distante dall'accampamento nemico. La tua salvezza dev'essere salvaguardata ad ogni costo. Ti basti pensare che, se muori, tuo fratello sarà il re del Nord.-
Bran però era di diversa opinione. -Non posso chiedere ai miei uomini di rischiare la vita contro un esercito immane e restarmene tranquillamente qui. Sarebbe non soltanto scorretto verso il mio popolo, ma anche indice di debolezza; sarebbe come ammettere con i Lannister che io non sono altro che uno storpio vigliacco. Devo dimostrare ai miei sudditi di essere un re forte, capace, meritevole. Di essere in grado di governare il Nord.-
Stranamente, Jojen non aveva azzardato parola in proposito e aveva taciuto sull'argomento. Poi Bran aveva aggiunto: -Uno Stark rimarrà comunque a Grande Inverno. Ci sarà Kenned.-
-Kenned non ha ancora compiuto un anno!- esclamò Meera, irritata.
-Oh, ma non dovrà fare altro che mangiare e dormire. A proteggere lui e Grande Inverno ci penserai tu.- ribattè il re. La moglie scattò, rivolgendogli uno sguardo inorridito.
-Non credere di poterti liberare così di me. Io ti seguirò ovunque andrai, Brandon Stark.-
-Niente affatto.-
Ella s'indispettì, piantando i pugni contro i fianchi. -In battaglia sarei indubbiamente utile, perciò teoricamente ne ho il diritto molto più di te!-
-Proprio per questo rimarrai qui. Perchè sei abile a combattere e hai un grande coraggio: ce ne sarà bisogno, se dei nemici cercheranno di assediare Grande Inverno.- La voce di Bran si addolcì e, quando la ragazza precipitò in quegli occhi castani, comprese di essere perduta. -Solo di te mi fido completamente, Meera. Non puoi rifiutarmi questo. Io devo avere la certezza che mio figlio e la mia casa sono in buone mani. Te lo chiedo per favore.-
-Ma... ma io voglio difendere anche te.- obiettò Meera, riluttante ed amareggiata. -Voglio starti sempre accanto come faccio adesso, così che nessuno possa farti del male. Credi di essere l'unico a necessitare di certezze?-
-Con me verrà Estate, che mi ha già salvato la vita più di una volta.- insistette il marito. -La tenda dove dormo sarà circondata perennemente di guardie, e Rickon resterà a portata di voce. E poi... io non sono assolutamente indifeso. Te lo sei dimenticata?-
A quel punto Meera s'era vista costretta ad accettare: non esistevano più ragioni da opporre.
Così, memore delle decisioni prese in precedenza, Bran rispose con voce ferma: -Ebbene, lo accompagnerò: l'annuncio è già stato fatto pubblicamente. Così le truppe non si dimenticheranno per chi e per cosa stanno combattendo. I soldati hanno bisogno di continua motivazione, d'assidui incentivi, e senza un re a mantenere l'ordine non so quanto positivo potrebbe essere l'esito della guerra. Affiderò Grande Inverno a mia moglie Meera, affinchè provveda alle esigenze del popolo ed amministri il Nord in mia assenza, detenendo i pieni poteri regi.-
Dal presentimento di sfiducia che si manifestò discretamente nella sua espressione, fu facile comprendere che Stannis non era molto convinto che fosse stata una grande idea.
-Una donna? Governare il Nord?- ripetè, quasi che volesse far sentire al ragazzo quanto sciocco apparisse alle orecchie altrui.
-In mia vece e soltanto temporaneamente.- puntualizzò Bran, infastidito dall'osservazione. -Comunque, sono sicuro che sarà assolutamente all'altezza dell'oneroso compito che le ho assegnato. C'è altro?-
 Finalmente Stannis interruppe il suo passo nervoso e si chinò verso la sedia su cui sedeva poco prima, poggiando le mani sullo schienale.
-Ho soltanto due condizioni da sottoporti. La prima è quella di poter organizzare gli schemi di guerra ed i movimenti dell'esercito, e in cambio mi impegno a tenerti informato di ogni cosa e di sottoporla al tuo benestare prima di ordinarla alle truppe. Dopotutto si tratta dei tuoi alfieri...-
Bran annuì con la testa, sollevato. -Accetto ben che volentieri. Avremo bisogno della tua esperienza, mio lord. Non l'ho mai negato.-
Prima di parlare di nuovo, Stannis attese qualche istante; pareva stranamente a disagio.
-In secondo luogo, chiedo di suggellare quest'alleanza in maniera irreversibile. Una specie di precauzione, giusto per sicurezza.- concluse, rapido e brusco. Bran aggrottò la fronte, poco convinto.
-Cosa hai in mente?-
-Un matrimonio, come si suole in questi casi.- rispose l'uomo, contraendo infastidito la piega della bocca. -Mia figlia Shireen ha ormai l'età per prendere marito. Se voglio conquistare il trono è anche per assicurarle il futuro che merita, com'è suo diritto di nascita. -
-Ti ricordo che io sono già sposato.- osservò Bran. Stannis inarcò le sopracciglia con eloquenza.
-Vostro fratello no.-
Il ragazzo sussultò. Rickon? Rickon? Davvero quell'uomo voleva che Shireen Baratheon sposasse Rickon Stark? Sicuramente non l'aveva mai visto, allora, e non aveva udito quelle certe voci su di lui: altrimenti non si spiegava perchè stesse proponendo di concedergli la propria figlia vergine. Poi Bran cercò di ragionarci razionalmente, e si accorse con rammarico ch'era infattibile. Rickon non accetterà mai, fu il primo pensiero; ma sono io a dover accettare, adesso, fu il secondo, inquietante ma disperatamente vero.
Era più giusto comportarsi da fratello o da re, in quella circostanza? Una guerra è una questione universale, riguarda più di un popolo ed il futuro di un regno, perciò bisogna pensare in grande e mettere da parte l'egoismo; dall'altra, avrebbe dovuto essere Rickon a prendere una decisione così importante per sè. Però non avrebbe mai, mai detto di sì, questo era altrettanto chiaro. Era troppo puerile, orgoglioso e testardo per agire in nome di un bene collettivo e superiore. Non avrebbe mai fatto nemmeno il più piccolo dei sacrifici per qualcuno che non fosse lui stesso.
Bran non sapeva cosa fosse più giusto, se rispettare il volere del fratello o concludere un'alleanza vantaggiosa, però di certo non poteva riservargli un trattamento di favore soltanto perchè era suo parente... proprio per il fatto ch'era il principe aveva dei doveri nei confronti del popolo. Poi ci fu un altro pensiero, meno assennato e quasi meschino: si merita una bella lezione, quel marmocchio, così impara che un principe di Grande Inverno non può fare tutto quello che gli pare. Così come io appartengo al Nord, così anche lui. Forse che io amavo Meera, quando l'ho sposata? Certo, lui Meera l'aveva scelta, la conosceva già, le voleva bene, però... però la situazione era completamente diversa, e bisognava dare una risposta. Subito.
Allora Bran alzò la testa e, la mente in subbuglio, non ben consapevole di quel che stava facendo, disse: -Acconsento.-
Stannis annuì grave, con una sorta d'austera rassegnazione nello sguardo inquietato, quasi che avesse sperato fino all'ultimo in un rifiuto. Era evidente quanto fosse affezionato a Shireen.
-Naturalmente, un giorno mia figlia salirà al trono e suo marito con lei.- aggiunse atono. -A patto che il cognome dei loro figli possa rimanere Baratheon, e che quindi alla nostra dinastia rimanga il diritto al trono.-
Il ragazzo avvertì un moto di panico scompigliargli le viscere, quasi spinto nel suo corpo da uno stantuffo; cercò di visualizzare l'immagine di Rickon seduto sul Trono di Spade, con le gambe gettate con malagrazia l'una sull'altra e le mani grondanti di sangue, e del popolo inchinato davanti a lui, ma era qualcosa di così delirante che la sua mente la rifiutò con repulsione. Rickon, re dei Sette Regni? Una buona idea soltanto nel caso in cui si presentasse un problema di sovrappopolamento.
-È una richiesta assolutamente lecita. Non abbiamo alcun interesse al Trono di Spade. Vogliamo soltanto che al Nord venga riconosciuta l'indipendenza e tutti i diritti che essa comporta.- rispose Bran, cercando di dissimulare le proprie irruente emozioni.
-Sarà fatto.- acconsentì Stannis distrattamente. -Fra un giorno o due, giungerà qui un convoglio insieme a mia moglie Selyse e a Davos Seaworth, il mio Primo Cavaliere, per celebrare il matrimonio. Capirai che dovrà avvenire il più presto possibile, prima della partenza per il Sud.-
Il più presto possibile. Quando l'esercito sarebbe partito da Grande Inverno, Rickon sarebbe stato un uomo sposato. L'idea era assurda e raccapricciante quanto tutti i crimini che aveva perpetrato e che Bran non ci teneva a conoscere. Rickon aveva ormai sedici anni, però nel profondo era ancora il bambino pieno di rabbia bandito da casa sua: non aveva la maturità, la stabilità emotiva e la padronanza di sè imprescindibili per creare una vera famiglia. Se poi si veniva ad aggiungere che si trattava di un matrimonio combinato, da Bran per giunta, senza chiedere l'opinione del diretto interessato, con una ragazza mai vista prima, che magari non gli piaceva nemmeno, c'erano tutti gli elementi per rendere l'unione fra Stark e Baratheon la meno felice e la più breve dopo quella di Robb Stark e Talisa Maegyr. Bran si consolava al solo pensiero che non tutto è come appare: il promettente matrimonio tra Sansa e Joffrey, molti anni prima, era partito con buoni presupposti e concrete speranze, alimentate dall'apparente reciproco interesse, e poi inaspettatamente era andata a finire in maniera peggio che tragica. Magari questa volta, essendo le condizioni di partenza così avvilenti, non avrebbe potuto far altro che funzionare meglio del previsto. Se una numerosa serie di fortuite coincidenze si fosse intersecata come una catena, non era da escludere che tutto potesse risolversi nelle risate anzichè nel pianto.
Intanto, Meera e Jojen attendevano che il colloquio si concludesse; sedevano nella sala dei ricevimenti adiacente, uno di fronte all'altro ad un tavolo rotondo sistemato in disparte. C'era un silenzio precario ma saporito, quasi che fossero i pensieri concitati dei due meditabondi commensali ad impregnarlo di significato. Il piccolo Kenned s'era assopito al seno della madre, un ditino fra le labbra, le palpebre distese in un sonno vivido d'immagini meravigliose; Jojen lo vegliava in silenzio, gli occhi ridotti a due fessure, lo sguardo rivolto altrove. Era da tanto tempo che lui e la sorella non discutevano come si deve, anche a causa del tradimento che si frapponeva tra loro come un muro d'incomprensione. Era un peccato: avevano avuto davvero un bel rapporto d'intima intesa e segreta complicità, durante tutti quegli anni. D'un tratto Meera, che sembrava determinata a prolungare quel silenzio carico fino alla fine, lo interruppe invece senza alcun preavviso, sollevando di scatto il mento.
-Mi manca casa. Torre delle Acque Grigie, intendo. Mi manca il clima e i volti e mamma e papà. A volte mi sveglio, tengo gli occhi chiusi ed immagino di essere nel mio letto laggiù, immagino che basti allungare la mano per toccare la lancia sul comodino e che sopra la mia testa ci sia quella finestra da cui si vedevano tutte le terre dell'Incollatura.- La sua voce rimase in sospeso, immobilizzata dal gelo opprimente dell'effettività incombente. Tutte quelle illusioni facevano male agli occhi, perchè Meera Reed non avrebbe mai più occupato quel letto di vergine a casa di suo padre, nè Kenned avrebbe conosciuto la loro palude dove si potevano inventare tanti giochi divertenti -era sufficiente un po' di fantasia- ma ella sarebbe rimasta nel talamo nuziale, così ampio e così vuoto, e suo figlio avrebbe imparato soltanto quanto sa essere freddo l'inverno. Poi Meera riprese, più lentamente, rinfrancata nell'avvertire le pupille del fratello in intenso contatto con le proprie, e parlò in nome di quel legame che un tempo c'era stato e poteva esserci ancora. -Ti ricordi quando tu mi raccontavi le storie che leggevi nei libri e finivamo per stare svegli tutta la notte, perchè io volevo sentirle e risentirle?-
Meera aveva sempre preferito ascoltare che narrare, e Jojen era così bravo, con quella bella voce che era in grado di arrestarsi, rallentare, aggravarsi e carezzare nei momenti giusti, per far intendere agli uditori che tipo di scena stava per giungere. Il fratello chinò lentamente le palpebre, e quando le sollevò v'era un più caldo lucore nei suoi occhi.
-Sì, Meera, mi ricordo.- rispose semplicemente.
-E ti ricordi,- proseguì Meera, incalzata dal familiare sentimento che si faceva strada nel suo cuore dopo anni d'assenza, -quando andavamo a cacciare le rane e tu finivi sempre con la faccia giù nell'acqua? E quella volta che tu mi hai predetto che i nostri genitori non mi avrebbero mai regalato un cane, e io ti ho chiuso a chiave in biblioteca per vendicarmi?- La ragazza rise. -Non hai fatto una piega. Al mattino, quando tutti erano terrorizzati perchè non ti trovavano e io, pentita, sono andata a recuperarti, eri lì al tavolo a leggere tranquillissimo, e anzi sembrava quasi che ti seccasse che ti avessi liberato... Poi mamma e papà mi hanno tenuta in castigo per due settimane!- La risata si affievolì gradatamente, fino a che ne rimase soltanto un sorriso amaro. -Ti ricordi quando li abbiamo salutati? Nostro padre era triste, ma capiva che non poteva essere altrimenti... Per nostra madre è stato tutto più difficile. Aveva già rischiato di perderti una volta, quando ti eri ammalato... lei credeva che fossimo troppo giovani e troppo indifesi per un viaggio del genere, e aveva ragione... quale genitore accetterebbe di mandare i figli oltre la Barriera, da soli?! E adesso c'è la guerra...-
Jojen non rispose. -Dove vuoi arrivare?-
Lei sospirò. -Li rivedremo mai?-
-Perchè me lo chiedi? Hai troppa paura di quel che potrei risponderti per volerlo davvero sapere.-
Meera annuì sconfortata. -Forse hai ragione... ma non era esattamente dove volevo arrivare. Ecco, io e te eravamo felici, insieme, vero? Ne abbiamo passate così tante... Quando eravamo piccoli ti trascinavo con me in qualsiasi spericolata follia, anche se non volevi, e poi... tutte le peripezie per trovare Bran.-
Nel momento in cui tale nome prese forma nello spazio fra loro, acquisì anche consistenza ed il silenzio seppellì nuovamente gli animi in un solenne, tragico, definitivo ammutolimento. A quel punto la crepa s'era profilata, a quel punto s'era spalancata in uno squarcio. Tutte le risposte erano condensate in quelle poche lettere.
Dopo molti istanti d'esitazione e tentennamento, -Lui è tuo.- rispose Meera in un soffio. -Questa è una guerra che non posso vincere.-
Jojen, di nuovo dopo tanto tempo, la guardò negli occhi. -Non c'è mai stata una guerra, Meera. Non ho mai preteso da Brandon più di quanto non fosse indispensabile. Io e lui siamo legati da qualcosa di più forte della mera, volubile volontà di due esseri umani: il desiderio sfugge, si deforma, si snatura, annoia. Il desiderio è quanto di più mortale ci sia in noi. Ciò che ci avvince è il destino. Il destino non cede nè concede, non scende a patti, non temporeggia, non sbiadisce, non muore. Il destino ordina.- Jojen fece una pausa, mentre nei suoi occhi l'insanabile verità si propagava come sangue su candide bende; quando riprese, la voce era in esatto equilibrio fra l'apatia ed il rammarico. -Io appartengo a tuo marito, su questo non c'è nulla da ridire. Ma lo sanno gli Dèi, quanto è vero che Brandon non mi apparterrà mai.-
Il suo volto non si concesse lo sgarro di un'inflessione, o forse Jojen Reed era sul serio arrivato a quel traguardo di consapevolezza nei pressi del quale il cuore, disgustato, non acconsente più a partecipare ai sentimenti. Meera non ebbe l'ardire di rispondere: perchè, anche se il proprio sovrasta sempre quello altrui, il dolore si annida ovunque, e non serve far altro che aguzzare lo sguardo- non soltanto per riconoscerlo, ma anche per realizzare a che stadio di corrosione è giunto. Per la prima volta in vita sua, la regina del Nord non ebbe coraggio di spingersi nell'oltre in cui Jojen viveva da sempre e si limitò a condividere quel silenzio esplicativo, alla luce delle candele, senza che il freddo intervenisse a disturbarli.
Più tardi, Bran chiese a Osha di discutere lei con Rickon circa il matrimonio combinato, visto che era a lui più vicina, e di cercare di convincerlo ch'era la cosa migliore da fare; e (soltanto Osha, ragionava Bran con un sorriso, sapeva ancora permettersi di parlargli così) quel che si sentì rispondere fu:
-Ma Rickon ha banchettato di recente con il tuo cervello, oppure è stato il tuo amico veggente a ridurti così?! Credevo che con tuo fratello volessi fare pace, non farlo incazzare sempre di più!- La donna, indignata, lo guardava con orrore. -Non tradirlo in questo modo così... orrendo e subdolo, Bran. Non te lo perdonerà mai. Mai. E avrà perfettamente ragione!-
-Rickon deve capire che non esistono soltanto lui ed i suoi capricci a questo mondo.- rispose Bran, freddamente. Certo, Osha era di parte perchè voleva molto bene a Rickon ed inoltre condivideva lo stesso carattere indomito e focoso, quindi lei non poteva evitare di mettersi nei suoi panni. -Se glie ne parlassi io, ovvio, non mi darebbe mai ascolto. Però forse tu potresti...-
-Oh, no, no, no. Adesso te la cavi da solo. Tu hai combinato questo casino, tu ti esponi alla sua furia. Io me ne tiro fuori.- aveva sghignazzato la donna, scuotendo la testa con decisione. Poi aveva fissato Bran negli occhi con una scura, limpida franchezza di cui tutto il resto del mondo era incapace, perchè c'era da avere paura di quello sguardo che squartava le menti. -Mi dispiace, Bran, ma non ti aiuterò. Devi guardare tuo fratello in faccia, come sto facendo io adesso con te, e dirgli che fra venti giorni si sposerà per interesse con una ragazza che non conosce. E nessun altro lo può fare al posto tuo.-
Con crescente disagio, il re del Nord si rese conto quanto tristemente vere fossero quelle parole.
***
Ignaro di quanto irrimediabilmente al piano superiore si stesse manipolando il suo destino, Rickon scendeva i gradini delle segrete con la solita fervida aspettativa, la solita brulicante trepidazione, lieto di poter sgravare la mente rannuvolata ed il furore sottopelle in pioggia, lampi, tuoni e pace. Anzichè il semplice divertimento occasionale che il ragazzo era inizialmente convinto a trovare in Myrcella, la prigioniera era divenuta una valvola di sfogo, un risarcimento per tutte le privazioni del passato e le preoccupazioni del presente che Rickon era obbligato ad affrontare, un debito pagato profumatamente. Soltanto con lei il mondo era un vortice turbinoso di libertà sbrigliata, una miniera inesauribile di godimento, un poderoso assalto all'anima, un vertiginoso subbuglio delle viscere, inebriante e catartico come affondare la spada nella carne ed udirla sfrigolare nel fremente ribollimento del sangue, un'assoluzione indulgente che lo proscioglieva dagli oneri della vita sociale, dalle norme dei rapporti umani, dall'etichetta di corte. Con Myrcella l'istinto non andava limitato, arginato, represso, ma scatenato nella maniera più appagante e deliziosa. Quella ragazza sfiancata dalla prigionia, scavata dalla denutrizione e tremante di freddo era per lui l'incarnazione stessa della vita nel suo aspetto essenziale. Davanti alla preda, il cacciatore non deve fingere: solo attaccare, e Rickon era diventato terribilmente bravo in questo. Il ragazzo era tediato dalle noiose raccomandazioni di Bran, dai suoi imperterriti avvertimenti, e doveva sempre mettere il becco sugli affari suoi: il giorno precedente, gli aveva addirittura chiesto che cosa avrebbe fatto se Myrcella fosse rimasta incinta. Rickon ci aveva riso su parecchio. Non era certo quello ad interessargli, nè ci pensava mentre stava con lei, semplicemente egli adempiva ai propri capricci con generosa benevolenza. Era una questione così stupida e sgradevole che non gli era neanche passata per la testa: era una non-questione, insomma. Se davvero fosse accaduto, Rickon non aveva la benchè minima esitazione circa ciò che avrebbe fatto; un puro germoglio Stark non sarebbe mai potuto crescere in un ventre empio e lurido come quello di una maledetta, aberrante Lannister, così come un fiore non sarebbe stato in grado di sbocciare nel fango più putrido. Rickon le avrebbe fatto vomitare il bambino a calci, in modo tale che il piccolo non dovesse soffrire la sciagura e l'infamia d'avere un abominio per madre e un sangue corrotto, vituperevole, peccaminoso nelle vene. Cosa sarebbe mai potuto nascere dal grembo di una Lannister? Rovina, scelleratezza, disonore: un ignobile ibrido, com'era già accaduto.
E Myrcella? Ormai Myrcella era in quello stato fisico e psichico in cui si è dimenticato cosa significa provare benessere, dove immaginare qualcosa di diverso da quel che si sta provando in quel momento è inconcepibile, e i nervi sono solo un groviglio di fili di ferro che vibrano senza rompersi, e la carne accoglie dolore, freddo, privazioni come un nuovo mantello di miseria, e se ne può accumulare all'infinto perdendone la concezione, inebetiti, assuefatti, inghiottiti da un male nero e fuligginoso, si partecipa al male, si vive nel male e per il male, lo si morde e stringe fra i denti e vi si aggrappa per non morire, si soffre per vivere, perchè è quando si smette di soffrire che bisogna allarmarsi.
Myrcella si era già rannicchiata nell'alienante cratere della follia, intenta ad esplorare con infervorata frenesia, con appassionato impeto l'unica fuga che le sarebbe stata concessa, frugando con le dita nell'accogliente buio della sua mente spenta. Una fuga facile, in fin dei conti, e felice, se penetrata soltanto in superficie. Una fuga più che legittima, forse obbligatoria per mantenere la coscienza confinata nella mente ed il cuore nel petto, perchè al termine del dolore c'è un limite in cui l'anima arretra atterrita e chiede soltanto ovatta attorno a sè, per lenire le sue ferite, per imbrattarle di rosso e soffocare nel proprio sangue. Perchè, anche se il corpo stava subendo tale tortura, l'anima non tollerava di rimanere segregata in quella realtà di cemento e muffa e di lasciarsi schiacciare. Nei suoi occhi inariditi, l'incapacità di comprendere diventava incapacità d'esprimere.
Ad un punto qualunque di quell'agonia immobile, uguale a se stessa in ogni sua dimensione, una figura divise le tenebre scostandole al suo passaggio, vincendole senza combattere. Cersei era preziosa, dorata e bellissima, eterea e leggiadra nel suo corpo d'armonia come la figlia sapeva di non poter più essere. Ella si chinò su Myrcella -qualsiasi cosa fosse rimasto di lei, un grumo di fango nero o uno scheletro scavato da artigli- la contagiò con il suo tiepido, baluginante chiarore e le disse che lei poteva uscire di lì -doveva uscire di lì. C'era un modo. Sì, c'era. Myrcella, forte di quel morbido lume di ragione, aprì gli occhi e vide il viso di sua madre. Ella non sorrideva, nè sembrava arrabbiata. Ma i suoi occhi parlavano -stoici, saldi, eloquenti. Inclementi. Irremovibili. Myrcella capì, e d'un tratto nel pastoso squilibrio del suo inferno senza colore nè dolore comparve qualcosa di distinto, di definito, di determinato; una matassa di filo, un intento, un progetto. L'inizio di un percorso, l'impostazione di uno schema. Un'idea. Che, per una volta, sapeva più di vita che di morte.
Non è troppo tardi. Guarda. La tua pelle è ancora bianca sotto la cenere. Cersei percorse con il polpastrello dell'indice la lunghezza del braccio nudo della figlia. Immediatamente, una sinuosa linea candida prese vita sotto il suo dito, come un rivolo di latte, una goccia di neve. Myrcella, attonita ed incantata, seguiva con lo sguardo i suoi gesti. Perchè sì, il nero si poteva violare altrettanto rapidamente del bianco. Il tuo cuore è ancora illibato sotto questa cenere. Myrcella avvertì lacrime d'emozione ravvivare i suoi occhi rugginosi, in uno spasmo d'emozionante vivacità. Era vero. Era ancora vero. C'era la vita sotto quegli stracci, fra quelle catene, che lei lo volesse riconoscere o no. Finchè si respira non è mai troppo tardi per sopravvivere, Myrcella.
E Myrcella ritrovò il suo respiro. Perchè quando una linea divide, niente è più come prima -perchè quando una linea viene cancellata, non si può negare che sia esistita.
Il giorno successivo, Rickon dovette trattenere lo stupore nel vedere, sul nero viso della sua prigioniera, un sorriso mite e benevolo come il primo soffio di primavera, piccolo e casto come la più fresca corolla d'un bucaneve. Un sorriso che il ragazzo associò ad una lacerazione -ad una resa. Ad uno sbocco in nuove acque.
-Buongiorno, mio piccolo abominio. Spero che durante la notte tu abbia ricordato il linguaggio umano, perchè è una gran noia non sentirti più spiccicare una parola.- Ad un gesto brusco delle sue mani, le sbarre sbottarono arrugginite dietro di loro.
Myrcella perseguiva con quel sorriso strano, carezzevole quanto malsano. La luce della candela feriva la giada deteriorata dei suoi occhi sgranati e ancora belli, ancora odiosi nonostante tutto.
-L'ho ricordato, mio signore.-
Rickon inarcò un sopracciglio, interrogativo. -Cos'è questa novità? Da quando in qua sono il tuo signore?-
La risposta della prigioniera fu pronta, limpida, e fu quella giusta. -Da sempre. Soltanto che ci ho impiegato parecchio tempo a capirlo.-
Myrcella avvertì un premeditato rossore imporporarle le gote e storse le labbra in una pudica dissimulazione dei sentimenti -intanto fra i denti consumava la frustrazione di quelle parole a cui si costringeva brutalmente, quasi che, dopo essere stata violentata nel corpo e nell'anima da Rickon, lo stesse facendo lei stessa con il proprio orgoglio. Prima che il ragazzo potesse ribattere qualcosa, il mostruoso lupo dal folto pelo nero che lo accompagnava ovunque fece per avvicinarsi a Myrcella, fissandola con degli occhi spaventosamente espressivi -addirittura consapevoli, e la prigioniera si ritrovò a fantasticare assurdamente che l'animale avesse fiutato il suo inganno. La fanciulla indietreggiò strisciando sulle ginocchia, le sue esili spalle sussultarono e il capo si chinò in una schiva manifestazione d'allarme; ma il lupo si accostò nuovamente a lei fino a che le fu impossibile retrocedere. Myrcella rispondeva sbalordita e timorosa a quello sguardo fisso ed insostenibile; Rickon non diceva nulla e rimaneva ad osservare cosa stava accadendo, con espressione insondabile. Allora il lupo si allungò fino a raggiungere il volto di Myrcella e le leccò una guancia con la lingua rasposa, con imperturbabile tranquillità, come se la conoscesse da tempo. Da parte sua, Rickon avvampò di sdegno.
-Ma cosa fai, Cagnaccio?! Passi dalla parte del nemico?!- lo sgridò, con la fronte corrucciata; Myrcella, presa in contropiede, allentò la tensione con una risata imbarazzata e giocosa, di protesta e solletico, una risata fresca ed esuberante che la scosse nel profondo. Da quanto tempo non lo faceva? Come poteva essersi dimenticata la liberazione che si prova quando si ride, come se la vita all'improvviso fosse qualcosa di facile, da non prendere troppo sul serio? Ella affondò una mano nella pelliccia scura del lupo e gli accarezzò la testa, allietata da quell'imprevisto.
Fu allora che gli occhi della prigioniera e del carnefice s'incontrarono. Myrcella racchiuse la risata di un attimo prima in un sorriso mite, pacato, contegnoso, ma sincero; le sue lunghe ciglia sussurrarono abbassandosi in una dolce curva e minimizzando l'ilarità in tenera, incerta curiosità circa la bizzarra atmosfera che vibrava fra loro quel giorno, quasi che anche lei fosse confusa e stupita quanto lui, ma piacevolmente, e provasse una qualche certa inaudita emozione. Rickon replicò con uno sguardo tagliente ed acutizzato di sospetto.
-Volevo chiedervi perdono per il mio comportamento, che finora è stato un po'... scostante.- confidò Myrcella, con un filo di voce intimidita, distogliendo gli occhi con ritegno, riguardosamente.
-Scostante è dire poco.- confermò lui, esaminandola, senza esprimere alcuna impressione.
-Voi mi avete trattato con indulgenza, mentre io sono stata davvero scorbutica e... e villana. Mi rincresce incredibilmente.- Myrcella deglutì a fatica, ostentando incertezza e soggezione, la gola rappresa per tutte le spudorate atrocità che stava pronunciando. -Se potessi farmi perdonare, in qualche modo...-
-Non piangi più per i tuoi poveri genitori squartati?- La voce di Rickon tradiva ludico sarcasmo, ma anche un pizzico di diffidenza; la fanciulla si rese conto di dovergli fornire l'estrema conferma, in seguito alla quale egli non avrebbe pensato più a niente, e tutto sarebbe andato come previsto. La cosa più importante era mostrare di non essere turbata da questo genere di affermazioni; quindi ella si sporse verso di lui e gli circondò il collo con le braccia, sempre guardando per terra per reverenziale ritrosia.
-Il dolore di una Lannister sarebbe un insulto al tuo,- bisbigliò ossequiosamente al suo orecchio, stando ben attenta a sfiorargli il lobo con le labbra, -mio signore.-
All'udire ciò, Rickon reagì esattamente come pronosticato: fremette e si slanciò contro di lei, la scagliò sul pavimento e la bloccò lì gettandovisi sopra.
-Finalmente hai capito cosa deve fare una donna intelligente, ovvero sottomettersi e tacere.- sibilò, con un sorriso feroce, prima di addentarle le labbra con foga.
Myrcella lo lasciò fare senza opporsi, ed anzi gli cinse il bacino e reclinò docilmente la testa all'indietro, in modo da esporre il collo al percorso dei baci e dei morsi di Rickon. Sì, ho capito cosa deve fare una donna intelligente, ma ti assicuro che non è nè sottomettersi nè tacere, pensò fra sè. È fingere.
Non era mai stata brava a fingere, Myrcella; eppure aveva imparato tante cose, in quel vuoto che racchiudeva il principio primo della vita a cui aggrapparsi spasmodicamente e quello della morte in cui sperare tante volte per qualche istante. Il buio è una questione di abitudine; e Myrcella, nel buio, stava cominciando a vedere tante cose -un nuovo mondo a delinearsi fra le tenebre, dove un tempo non c'era che il panico.
Ella non pensò quale fosse quella pelle che stava sfiorando con le labbra, nè quante carni avesse dilaniato quella bocca così impetuosamente avventata sulla sua, nè a chi appartenesse il sangue che aveva bagnato quelle braccia che la stavano traendo violentemente contro di sè. Non ci pensò, altrimenti il furore l'avrebbe lacerata per emergere da sotto la polvere. In compenso, non appena le mani di lei scivolarono al bacino, Myrcella non riuscì ad evitare di conficcargli le unghie nei fianchi -e per qualche istante si spaventò della propria imprudenza, del proprio azzardo, e temette rigida la reazione di lui. Ma, contro ogni aspettativa, Rickon ansimò contro la sua pelle e premette impazientemente il corpo contro quello di lei, fino a farla arrossire sul serio per ciò che percepì. Sulle sue labbra ruvide, si faceva strada un sorriso spregiudicato.
-Tutto sommato, ti sono rimasti gli artigli.- ringhiò egli, prima di leccare avidamente il sangue estirpato da una ferita sul petto di lei. Myrcella sorrise, chiuse gli occhi ed attese. Oh, sì. Non ti rendi nemmeno conto di quanto sia vero. Dare all'aguzzino quello che vuole: ecco l'unico modo per la prigioniera di tentare una fuga. Indurlo a fidarsi di lei abbastanza da abbassare le difese e poi, quando meno se lo aspetta, colpire. Forse era soltanto un sogno, però nei suoi piani lei stessa riusciva a sottrarre la spada al ragazzo e trafiggerlo prima che potesse realizzare l'accaduto -sebbene si rendesse conto di quanto Rickon fosse più forte, più cosciente, più guardingo, più agile di lei, e di quanto breve sarebbe stata la sua ipotetica fuga. Non era così sciocca da credere davvero di scappare, dato che c'era il lupo, visto quante guardie c'erano a Grande Inverno in ogni corridoio, però il solo fatto di uccidere Rickon sarebbe stata una vendetta sufficiente a farla morire con il cuore in pace -perchè fortunatamente, lassù, non ci sarebbe stato più nessuno a volerla viva per il proprio divertimento, ma senza troppe cerimonie l'avrebbero ammazzata con un colpo di spada, e poteva esistere fuga più rapida ed indolore, più struggente, poetica e gloriosa? I posteri avrebbero scritto ballate su di lei, l'intrepida principessa Myrcella che, pur di sfuggire dalle grinfie del suo carceriere e riscattare la morte dei suoi familiari, rubò una spada e si gettò fra le braccia confortanti della morte... Mille, mille e ancora mille volte meglio morire subito e senza più soffrire, dopo aver rivisto per l'ultima volta la luce del sole, piuttosto che soffocare per anni d'inedia, stenti e follia in una cella buia e claustrofobica sottoterra, fino a sputare l'ultimo respiro fra la cenere. Mi riprenderò il mio mondo, Rickon Stark. Non ti darò la soddisfazione di avermi rubato la vita. No, Myrcella non voleva morire, voleva Tommen, voleva sua madre, voleva suo zio Tyrion e suo zio Jaime... ma volere serviva a meno che a niente. Tacere, obbedire, fingere: e poi il destino avrebbe deciso per lei.
Quando Rickon si rivestì e riprese la scalata verso la vita in superficie, riflettè che lo eccitava parecchio prima l'idea di prenderla contro la sua volontà, di vincere le sue vane e fragili difese, però quella sua nuova maniera di toccarlo, di baciarlo, di concedersi, di mormorargli pianissimo mio signore con la voce distorta dal piacere, era lo stesso estremamente gratificante; in definitiva, il suo piccolo abominio biondo aveva la capacità di non farlo mai annoiare.
Il principe di Grande Inverno decise di tornare nelle sue stanze, per evitare scomodi incidenti quali incontrare Bran; gli pareva che quel mattino il fratello gli avesse detto qualcosa a proposito di ospiti che sarebbero dovuti arrivare, ma non poteva importare di meno. Si avviò su per le scale, fischiettando fra sè, e varcò ignaro la porta della camera. Però interruppe il passo alla soglia basito, perchè, seduta al tavolo adiacente alla finestra, c'era una fanciulla. Rickon ne vedeva soltanto il profilo, quindi non la riconobbe come una figura familiare: i capelli ricadevano appena a metà della schiena ed erano lisci, d'un castano vacillante fra chiaro e scuro, mentre la carnagione era rosea. Il naso aveva una forma aquilina ed i lineamenti erano ordinari, però tutto sommato le fossette, il colorito e la morbidezza delle gote le attribuiva un'infantile, romantica dolcezza, che la faceva automaticamente apparire graziosa. Indossava un abito piuttosto semplice ma non umile, di velluto color amaranto, che fasciava una figura minuta, le spalle compostamente drizzate da una nobile educazione.
-E tu cosa ci fai qui dentro?! Evapora!- sbraitò il ragazzo, irascibile com'era, bellicosamente in attesa di ricevere delle sentitissime e terrorizzatissime scuse. Ma la fanciulla non pareva avere l'intenzione di gettarsi ai suoi piedi invocando clemenza in lacrime. Senza scomporsi si voltò e, quando anche l'altra parte del suo viso fu esposta, Rickon si rese conto di due cose. La prima era che ella non pareva essersi offesa per quanto le era stato detto -non pareva quasi aver sentito- perchè sorrideva imperturbata e i suoi occhi, d'un turchese forte e scuro, baluginavano vispi ed intelligenti. La seconda era che metà del viso era divorata da irregolari e frastagliate scaglie di pelle grigia, dura e ruvida, a scendere fino allo scollo dell'abito ed alla spalla destra. Grottesca, forse. Spaventosa, per qualcuno. Ma decisamente non era una servetta, non con quel vestito, non se osava a tal punto. La ragazza sorrise mesta.
-Mi dispiace, non era mia intenzione introdurmi qui così di soppiatto come una ladra, Rickon. È un vero piacere conoscerti. Perchè sei Rickon, non è vero?-
-In persona.- sbottò lui, innervosito. -Ma sono io ad avere il diritto di fare domande. Insomma, si può sapere chi accidenti sei o aspetti un invito scritto?!-
Lei ridacchiava fra sè, trovando spiritosa la meschina, spavalda franchezza del ragazzo. -Rickon Stark.- ripetè con tenerezza fra sè, rivolgendogli una lunga occhiata penetrante e concentrata ch'egli non comprese. -Avremo davvero molto di cui parlare, tu ed io.-
***
Catelyn era bella. Petyr Baelish la ricordava così come si ricordano le preghiere, con la stessa devozione -e lo stesso distacco. Perchè, per quanto egli si fosse avvicinato a lei, di più, sempre di più, per quanto l'avesse baciata ed avesse scorto il proprio riflesso distorto nelle sue pupille, in tutti i loro ricordi v'era qualcosa che s'opponeva, che sfumava e cancellava. Catelyn era sempre al di là, abbastanza vicina per essere ammirata, mai a sufficienza per essere raggiunta. Gli sorrideva, a quella maniera condiscendente e malinconica ed insopportabilmente dolorosa, e il suo sorriso si deformava in un ghigno beffardo nella contaminazione di ricordi che Baelish, con l'andare del tempo, cominciava a sospettare di starsi inventando. Perchè Catelyn non era mai stata così bella come nella sua mente -nemmeno nella mente di Brandon Stark, nemmeno nella mente di Eddard. Loro l'avevano avuta, l'avevano conquistata, s'erano appropriati di lei. Lui no. Lui era sempre così lontano. E gli veniva spesso voglia di prendere una spada e smembrare quell'ostacolo, quell'impedimento, quella nebbia, quelle remore, e sorgeva spesso l'impeto di supplicare, urlare, sbraitare, fare rumore, rompere lo schermo impenetrabile di quella mente senza segreti eppure così ardentemente desiderata, prenderle il cuore fra le mani e diventare -per un istante- il centro gravitazionale del suo universo. Un secondo. Un momento soltanto di sguardi veri, sorrisi veri. Amore vero, in un istante. Amore e basta, perchè Catelyn non s'era mai nemmeno costretta a fingere con lui. Non ti amo. Frivolo era stato quel rifiuto, niente meno che un bacio respinto e rossore di disagio sulle guance, però non era stata frivola quell'infatuazione che non ebbe mai l'occasione di sbocciare in un sentimento più profondo. Avrebbe dovuto crederci, Catelyn, perchè se ne avesse avuto la possibilità egli le avrebbe concesso la vita ch'ella davvero meritava -meno sontuosa e più felice, meno emozionante e più serena. Non ti amo. Era bastato poco per annullare la speranza nel biancore devastante del cimitero dei sogni, e d'un tratto quella gioia che a lui era sembrata un diamante aveva rivelato la sua natura, nient'altro che un sasso, e lo aveva colpito in mezzo alla fronte. Ma la cosa peggiore sopra tutte le altre, il difetto fatale del suo rancore, lo scoglio insolubile del suo dolore, era che Catelyn, in tutta questa storia, aveva la ragione dalla sua parte. Cosa le si poteva rimproverare, in fondo?
E visto che nella vita le umiliazioni sono schiaffi che scacciano rimasugli di sogni e lezioni di fantasia, Petyr aveva compreso con vacua lentezza che le parole dominano il mondo -però il mondo può imparare a dominare le parole. Un giorno pronuncerò questa sentenza davanti ad una donna, Catelyn Stark, e quando lo farò la colpa sarà unicamente tua, stupida anima innocente ed atrocemente sincera -ma non lo sai che ciascuno di noi durante la sua esistenza ha diritto ad una bugia? Catelyn non lo sapeva, e molti anni dopo Baelish sussurrò al capezzale di Lysa Tully quelle tonde, sporche parole, fomentate nell'animo come conti in sospeso. Non ti amo. Servì soltanto a fargliele odiare ancora di più.
Sansa era una fanciulla posata, graziosa; mai, se la sua esistenza avesse percorso il dolce sentiero delle storie già lette e delle ripercussioni tipiche, avrebbe dovuto sentire quei disarmonici suoni orribilmente connessi fra loro. Però eccola là, vulnerabile, disillusa, rifiutata dagli agi di una vita comoda e dall'amore d'un principe dal mantello macchiato di sangue, inerme davanti a quel giudizio che l'avrebbe rotta in frantumi. E qual era l'unica persona a poterla salvare dal suo tragico destino?
Sansa non era come sua madre. Sansa era fragile, apatia fuori ed emorragia nel petto, Sansa aveva l'appassionato istinto di sopravvivenza della giovinezza, tremava sotto la neve senza cedere al sonno, teneva gli occhi aperti anche se non voleva più guardare. Sansa era adorabile, bianca, fiduciosa, e fra le sue mani. Sansa era la rivincita -il riscatto, e a quel punto il ricordo di Cat si poteva sciogliere dai vincoli d'un sentimento vano e lasciare andare. Adesso era Baelish ad avere la responsabilità dei sentimenti di qualcuno, l'onore di poter decretare la salvezza e la rovina in un debole organismo di nervi e vene. Adesso era Baelish ad essere armato di quelle letali parole, rese accessibili da un solo schiocco di lingua -così come fa la corda di un arco nel liberare una freccia. Perchè Sansa non aveva chi l'amasse nella Fortezza Rossa, e ricercava sorrisi e benevolenza come indotta da un'inedia pressante, elargendo fiducia con il panico delle bestie negli occhi smarriti.
Poi, come sempre nei momenti in cui la sua vita stava andando proprio come egli desiderava, Petyr Baelish aveva rovinato tutto, dandola in sposa a quel verme di Robin Arryn -che aveva passato le precedenti due ore e mezza a fargli la ramanzina per questo e quel motivo, per il solo gusto di strillare.
-Buongiorno, Petyr.- La ragazza era china sulla piccola scrivania di cedro intagliata, nella sua stanza; l'uomo sapeva quanto le piacesse quel posto, perchè sollevando un poco la testa ella poteva rimirare l'azzurro incontaminato del cielo e gli arabeschi lattiginosi delle nuvole, attraverso una piccola finestrella pentagonale. Baelish non potè fare a meno di notare quanto fosse bella, anche nella mite noncuranza della quotidianità: una treccia lieve e sottile come lo stelo d'una margherita le carezzava una gota rosata dal vento acuto e lambiva il foglio su cui ella stava scrivendo, mentre il resto dei capelli le ammantavano la schiena, lasciata scoperta da un abito rosa perlato. Il turchese terso e vivace degli occhi stava in equilibrio su ogni lettera che la mano affusolata tracciava -non era più il celeste limpido d'un tempo, ma non per questo aveva perso il suo splendore. Sì, c'era decisamente Catelyn nei suoi lineamenti, così morbidi ed arrotondati e fini, raffinatezza modesta e senza arroganza, quella bellezza un po' timida ma fresca come un giglio, priva della drastica austerità dei geni Stark; soltanto il suo pallore diafano rievocava in qualche modo il Nord.
-Buongiorno a te, Alayne.- rispose Baelish affabilmente, avanzando nella stanza a lunghi passi. -Che cosa stai facendo di così appassionante?-
Alayne si voltò, in uno svolazzo di merletti ricamati e ciocche castane, un sorriso scherzoso a fior delle labbra carnose. -Mi sembra che sia evidente anche ad una mente meno brillante della tua.-
-Hai sviluppato un sarcasmo sorprendentemente efficace.- commentò l'uomo, senza fare una piega. Qualcosa di simile ad un taglio sardonico rovinò la franchezza del suo sorriso. La voce suonò quasi indifferente, quando disse: -È un peccato che Robin non riesca mai a coglierlo. Se così fosse, ti apprezzerebbe anche di più di quanto già non faccia.-
La ragazza non smise di sorridere. -Robin è un'anima ingenua.-
-Robin ha lo sviluppo cerebrale di una stella marina.- tagliò corto Baelish, annoiato. -L'ultimo ospite che è salito a Nido dell'Aquila ti ha scambiata per la sua balia.-
-Cosa che non succederà più, quando stringerò fra le braccia suo figlio.- precisò Alayne, lanciando un ultimo sguardo per verificare la reazione di Ditocorto. Egli non le diede motivo di sogghignare e si limitò ad inarcare un sopracciglio, in segno di lieve e disinteressato stupore.
-Significa che sei incinta?-
-Forse sì.- La fanciulla si girò a soffiare delicatamente sul suo foglio, dove l'inchiostro si stava asciugando ed imprimendo sulla carta. -Forse no.-
-Lo dici soltanto nello sfrontato tentativo di farmi innervosire.- insinuò Baelish, gettando là quell'accusa con disinvoltura. Col passare del tempo i loro ruoli non s'erano definitivamente invertiti, ma piuttosto equiparati: questo perchè Alayne, così come Catelyn al suo tempo, aveva cominciato ad esercitare un certo potere su di lui, più o meno consapevolmente, pur non riconoscendo appieno la natura del sentimento che legava Baelish a lei, confondendolo talvolta per l'amore verso la madre morta anzichè verso sè stessa. Da quando Alayne aveva scoperto quanto fastidio gli desse l'idea di lei e Robin insieme, fraintendendo quella gelosia come paterna, non mancava di punzecchiarlo spesso e volentieri.
-Non vedo perchè dovrebbe farti innervosire.- replicò melliflua. -Ma insomma, Petyr, sei venuto qui soltanto per insultare il mio sposo?- Impossibile non decodificare la risatina che percorse le sue parole e contagiò la sua bocca.
-Prima che quel ridicolo lattante riesca ad ingravidarti, qualcuno dovrebbe insegnargli come si fa.- malignò Petyr, con un movimento misurato e sprezzante della mano dall'alto verso il basso, quasi a scacciare quelle ridicole considerazioni. Poi si rianimò e sorrise a sua volta. -Ad ogni modo... lo ammetto, mi hai fornito su un piatto d'argento l'occasione perfetta per divagare. La discussione è cominciata perchè mi stavo informando circa ciò che fino ad un attimo fa scrivevi con tanto entusiasmo.- Il suo sguardo scivolò sul foglio.
-Effettivamente, sono abbastanza soddisfatta.- confermò Alayne, rimirando la propria opera con compiaciuta ed ammiccante approvazione.
-Chi è il destinatario?- chiese Baelish, ancora una volta con tono assolutamente privo d'inflessioni.
La ragazza si chinò ad aggiungere qualcosa, brandendo la piuma con maestria, poi rispose. -È re Tommen. Ma ciò su cui ti invito a prestare attenzione è l'identità del mittente.-
Baelish ispezionò rapidamente il foglio con gli occhi, la fronte distesa.-Tu?-
-Damon Marbrand di Ashemark, alfiere dei Lannister.- lo corresse Alayne, imperturbabile, indicando la firma con la piuma. -Sta annunciando che le truppe si rifiutano di combattere per un re che intende sbarrarsi nel suo castello, appena la guerrà avrà inizio... un re codardo, o almeno questo si desume fra le righe.-
Un sorriso divertito e po' sinistro incurvò le labbra dell'uomo. -Hai intenzione di stanare il leone e gettarlo fra le fauci dei lupi, Alayne?-
-Precisamente. Se Tommen prende atto della propria situazione e delle diffamazioni che minacciano di scagliarlo giù dal trono, scende in campo. E se scende in campo, per mio fratello Bran sarà più facile ucciderlo avendolo a vista d'occhio, piuttosto che andandolo a cercare nei meandri della Fortezza Rossa.- La sua voce, inesorabile e compassata fino al cinismo, e l'austera freddezza del suo ragionamento dimostravano appieno quanto le tragedie del suo passato ed il tempo che aveva avuto per assimilarle l'avessero cambiata: la sua freddezza non era apparenza, finzione, ma il prevedibile risultato di un graduato logoramento. Il volto aveva perso lo splendore della sua innocenza, adombrandolo, ma il dolore l'aveva levigato, scolpito, cesellato d'una fiera alterezza, d'una calma benchè funesta risolutezza, e la sua volontà era così manifestamente aguzza nei tratti perchè era stata scritta dai pugnali.
Baelish portò una mano al pizzetto sul mento, com'era solito fare. -Astuto, ma se il re decide di rispondere a questo presunto alfiere, oppure viene in qualche maniera a scoprire che la lettera è un falso, come la mettiamo?-
-È molto difficile che sorga questo dubbio. In fondo, perchè non dovrebbe essere quel che sembra? Se ogni volta che giunge una lettera si pensasse che non è autentica, questo sistema di comunicazione avrebbe vita breve.- osservò Alayne. -E comunque non ci sarebbe abbastanza tempo per chiarire la questione ed ipotizzare la verità. Sarebbe già troppo tardi.-
-Come credi. Ti stai mobilitando per venire in soccorso alla tua famiglia, vedo.- disse Baelish. Era un buon segno: magari presto avrebbe espresso il desiderio di ricongiungersi con la sua famiglia, e allora loro due avrebbero potuto lasciare il castello di quel pidocchietto antipatico di Robin.
-Famiglia, dovere, onore, ricordi? Questo,- e Sansa toccò una busta gonfia e già sigillata, -è il resoconto di una ragazzetta al seguito dell'esercito che ho pagato in forma anonima per aggiornarmi circa l'umore dell'esercito e gli spostamenti delle truppe. Certo, non è molto, contando che quanto una giovane schiava può sapere è soltanto il giro delle chiacchiere e i movimenti vengono segnalati solamente nel momento in cui avvengono, però è meglio di niente: fare altrimenti sarebbe stato troppo pericoloso. Se la beccheranno intenta a scrivermi una lettera, perlomeno non potrà confessare nulla nemmeno se vorrà. L'unica cosa che deve fare è inviare le lettere a una torre abbandonata a qualche lega da qui, e provvede un servo a portarmele. È un piano semplice, ma conto sulla sua complessiva efficacia.-
-Non hai imparato da te stessa a non fidarti delle lettere? Non sei la sola a poter gabbare il mittente, Alayne...- obiettò Ditocorto a quel punto.
Sansa si mostrò scettica circa quell'eventualità. -Una schiava non ripone fedeltà in nulla, se non nel denaro che la ripara dal freddo e le riempie la pancia. A che pro dovrebbe decidere di dare false informazioni ad una persona che non conosce?-
Baelish sorrise. Questa non è più tua figlia, Cat. Questa ragazza l'ho addestrata io. E guarda, se ancora da lassù puoi rivolgere lo sguardo alle miserie umane, che cosa è diventata.
-Tempo fa mi dicesti che Tommen, Myrcella e Margaery erano gli unici ad averti trattata con gentilezza, alla Fortezza Rossa. È solo grazie alla giovane Tyrell, inoltre, se non hai sposato quell'orribile ragazzino, Joffrey. E tu adesso stai complottando alle loro spalle? Sleale da parte tua...-
Il viso di Sansa si rabbuiò. Quando parlò, la sua voce era piatta e monocorde. -Non m'importa più di chi è la colpa, Petyr. Non è mai importato a nessuno. Perchè dovrebbe importare a me?! So chi sono le persone che devo amare, qual è la fazione in favore della quale mi devo schierare. Tutto il resto è relativo. Io sono una Stark, ed a mio tempo ho pagato per questo. È venuto il giorno che anche i Lannister lo facciano. Non sono più una bambina, Petyr, e ho imparato a fare distinzioni fra chi sarà sempre al mio fianco e chi sprecherà soltanto parole. Questo è tutto.-
Era davvero tutto. Lo sguardo di Sansa era ancora fisso sulla lettera, ma gli occhi non leggevano più, immobili in un silenzio irrevocabile. Baelish notò che un singulto le scosse la gola bianca, mentre le labbra si serravano -quasi a costringersi a non concedere più pietà a nessuno.
Bealish capì ch'ella aveva bisogno di stare un po' sola e si congedò con poche parole inascoltate. Mentre scendeva le scale, l'idea del rapporto di reciproca necessità che lo univa a Sansa gli parve un superamento del punto dolente ch'era sempre stato il rifiuto di Catelyn; però non riusciva ancora a dissolvere quel fantasma con un sincero, tagliente, noncurante non ti amo, e Catelyn Tully continuava a seguirlo impassibile, confondendosi con la sua ombra, respirando sul suo collo -sempre troppo lontana.
***
Sicuro della sua esperienza di otto anni passati insieme, nel bene e nel male, Tyrion -nella sua evidente e riprovevole ingenuità- era convinto d'essere in grado di prevedere le reazioni ed i comportamenti di Shae, perciò s'armò d'una ventina di risposte che dall'umorismo tragicomico sfociavano nell'autoironia e della sua più commovente espressione da: "oh-Shae-per-gli-dèi-quanto-mi-sei-mancata-non-ci-crederai-è-stato-un-inferno-non-vedevo-l'ora-di-riabbracciarti"... servì a ben poco, dal momento che la donna di fronte a lui, dopo alcuni istanti di accusatorio silenzio, gli mollò un ceffone che gli girò letteralmente la faccia.
-Lo sai cosa stavo facendo, stamattina?- sibilò con voce che non si sarebbe potuta definire in altro modo, se non oscura. -Stavo meditando su come dire a nostra figlia che d'ora in poi avrebbe vissuto senza padre.-
Ella indossava un pesante cappuccio di lana blu sopra il capo, ad ombreggiarle il volto perlaceo. La notte si dispiegava rossastra nei bassifondi di Approdo del Re, riflettendosi sinistra nelle pozze d'acqua torbida come l'anima di quella città, graffiando i muri e carezzando con dita fredde le schiena dei passanti.
-E sai cosa stavo facendo io, stamattina? Stavo appresso al letto di mio fratello moribondo.- bofonchiò Tyrion. -Da come mi hai apostrofato, sembra che abbia passato il tempo ad ubriacarmi in osteria in braccio alle tue amichette.- Il che, pensò, non significa che non sia ciò che avrei tanto voluto fare in realtà.
Shae non parve neppure per un attimo pentita dei proprio modi bruschi. -Neanche. Un. Messaggio. Neanche un misero "Hey, tanto per avvertire, sono ancora vivo". Lo sai che nottatacce mi hai fatto trascorrere?!-
Per un istante, quella maschera di rabbia s'incrinò, lasciando trasparire la sua apprensione.
-Ohh, quanto sei dolce, Shae. Davvero, nessuno ti impedisce di perseverare nella... solitudine in mia assenza. Anzi. Lo sai che voglio soltanto la tua felicità.-
Tyrion le sorrise pigramente ed ella lo ricompensò con un'occhiata fulminante. -Per una volta che cercavo di... che pensavo... che mi stavo davvero... ahh, lascia stare.- S'imbronciò. -Sei l'essere più laido che io conosca.-
-Non credo proprio, purtroppo. Allora, andiamo dalla piccola oppure rimaniamo qui a parlare della tua... come definirla? astinenza di compagnia?-
Dette quelle parole, Shae gli fece secco cenno di seguirlo e cominciò a camminare a passo affrettato davanti a lui, ritirando le mani sotto il lungo mantello. Tyrion era impaziente di rivedere sua figlia. L'ultima volta che era andato a trovarla era stato quasi un mese prima; egli non aveva avvertito Shae che non sarebbe partito per Runestone, perciò, quando la donna aveva sentito dello sterminio di Lannister consumatosi là e da quel momento non aveva avuto più sue notizie, era legittimo ch'avesse temuto ch'egli fosse morto. Tyrion si era sentito in dovere di stare accanto a Jaime, non soltanto per la gravità delle ferite ma soprattutto perchè, al risveglio, il fratello avrebbe dovuto confrontarsi con un trauma molto più grave: la morte della gemella. Però, per adempiere a quel fraterno dovere, aveva trascurato quello paterno. Il fatto era che non aveva mai potuto assegnare a Shae ed alla piccola una casa soltanto loro, per paura che Cersei finisse con lo scoprire tutto e mandasse qualche suo scagnozzo, perciò le due erano costrette a cercarsi ogni due settimane un luogo diverso in cui dormire, che come requisito fondamentale presentasse una via di fuga sempre accessibile. Per questo Tyrion doveva ogni volta chiedere a Shae dove recarsi, non sapendo in che posto alloggiassero in un determinato periodo, e non poteva semplicemente andare a trovarle quando aveva un po' di tempo a disposizione. Tale era uno dei problemi che la scomparsa di Cersei aveva risolto. Mentre continuavano a camminare spediti, Tyrion si guardò intorno circospetto: Fondo delle Pulci non gli pareva un luogo sicuro, nè il più adatto per portarci una bambina.
-Ha fatto qualche progresso?- s'informò egli ad un certo punto, incuriosito. Shae contrasse le labbra imbarazzata, come se stesse per annunciare qualcosa di sgradevole.
-Ha imparato definitivamente a leggere.- confessò infine, turbata. Tyrion inarcò le sopracciglia, sorpreso.
-Naturale, ha sei anni. Più lodevole è il fatto che da sola abbia deciso di applicarsi, e che abbia studiato da autodidatta...-
-Ha imparato a leggere prima di me.- protestò la donna con sdegno, contrariata all'idea di dover misurare la propria intelligenza con quella di sua figlia.
-Mi sembra ovvio, lei è mia figlia. Mentre tu...- cominciò Tyrion, prima di rendersi conto dell'enormità del guaio in cui si stava cacciando.
Shae serrò gli occhi, battagliera. -Mentre tu...?!- lo incalzò a proseguire, minacciosamente.
-... mentre tu sei la mia piccola dolce Shae.- rispose egli, giulivo, con un amabile sorriso. -Dai, su, lo sappiamo che il tuo talento si manifesta in altri campi...-
-Mi fai più schifo ogni minuto che passa.- borbottò lei.
-Sì, anch'io ti amo. E per inciso, se anche ci fossero dei doppi sensi nascosti fra le mie parole, li hai intesi solo tu.-
Fra una frecciata e l'altra accelerarono progressivamente il passo; Shae svoltò ad un vicolo, scansando i gorgoglianti rigagnoli d'acqua che gocciolavano da una vecchia grondaia, e fu subito avvolta dalla penombra. Tyrion lanciò un'occhiata agli edifici che vi si affacciavano: muri anneriti dal tempo, compatti ed uniformi, perchè soltanto due o tre finestre erano visibili -e tutto quel che si poteva intravedere era una vacua, disabitata assenza.
-Lo sai che ad essere davvero nascosto non è chi si isola, ma chi si confonde fra la folla?- commentò. Per tutta risposta, Shae bofonchiò qualche insulto improponibile. All'improvviso la sua mano trovò una ringhiera e vi si aggrappò, mentre scendeva un paio di gradini ricoperti di muschio verdastro; Tyrion la seguì. Proprio lì, in quella nicchia sette o otto piedi sotto il livello del suolo, v'era una porta di legno pesante e in parte marcio, come il Folletto notò -persino al buio.
Shae bussò energicamente. -Tesoro? Sono io. Mi apri?-
-Qual è l'unica verdura che io non voglio mangiare?- replicò una vocina petulante, in tono quasi beffardo. La donna alzò lo sguardo al ritaglio di cielo che si poteva scorgere da lì.
-I broccoli sono quelli che odi più di tutto, però non sono le uniche verdure che non mangi, signorina. Cosa mi dici delle melanzane e dei piselli?-
Seguì un silenzio interdetto, addirittura deluso, e subito dopo un rumore sferragliante di chiavistelli strattonati da una parte, di catenacci slegati, di paletti rimossi e spranghe levate e poggiate sul pavimento; soltanto allora la porta s'aprì, sempre un po' cautamente.
Anche se il giudizio di Tyrion non avrebbe mai potuto essere completamente obiettivo, egli riteneva senza dubbio vero il fatto che Cailee Waters era una bambina adorabile. I lineamenti del viso, più tipici delle città libere che di Westeros, li aveva ereditati dalla madre: gli occhi dolcemente allungati, scuri e densi come vino aromatico, gli zigomi alti e un po' pronunciati, il naso dritto e la piccola bocca. I capelli invece erano Lannister, biondi, pallidi come i primi raggi dell'alba ma squillanti come grano esposto al sole battente; Shae glie li tagliava corti, all'altezza del collo, ed una scriminatura centrale li divideva, facendo sì che due ciocche ricadessero sulla fronte, una a sfiorare l'occhio destro e l'altra il sinistro. La pelle non era nè diafana nè olivastra, ma un buon compromesso fra le tonalità. Di corporatura era gracile e mingherlina, anche troppo, ma il padre sapeva quanto fossero scattanti quei piedi minuscoli all'occorrenza.
Vedendo la madre sulla soglia, Cailee aggrottò la fronte accigliata. -Avevi detto che venivano le guardie a prendermi, però! L'avevi detto! E allora perchè non vengono mai?-
-Ti piacerebbe forse che venissero qui?- ribattè lei, sorridendo. La bimba mise il broncio.
-Io voglio vedere le guardie. E anche le spade.-
-E non hai paura che ti portino via da me e non ti restituiscano mai più?- la stuzzicò Shae. -Le guardie non ti preparerebbero mica il pane con la marmellata a merenda come faccio io.-
La bambina non parve molto impressionata dalle minacce. -Guarda che non mi faccio rapire. Io le guardie le mordo!-
-Che gli Dèi ce ne scampino!-
Appena Cailee vide la figura di suo padre comparire da dietro Shae, il suo visetto minuto s'illuminò come una stella. Al grido di "papà!", balzò ad abbracciarlo con impeto. Non si poteva certo dire che fosse nana: Tyrion si rese conto che era quasi alta come lui.
-Sai che adesso leggo veloce come te?- annunciò fiera, scostando distrattamente un ciuffo biondo dietro l'orecchio. Il padre scosse la testa.
-Ne dubito. Scommetto che sei molto più veloce di me. Aspetta, cos'è questa storia delle spade?-
Cailee lo prese per mano e lo strattonò nel cuore della sua casupola; l'interno era squallido -le pareti erano spoglie, le assi del pavimento accidentate e la mobilia consisteva in una credenza, un tavolo e pochi sgabelli- eppure accogliente allo stesso tempo, ed era sorprendente come, in così poco tempo, le due inquiline fossero riuscite a renderlo tanto familiare. Probabilmente erano l'innata allegria e l'entusiasmo di Cailee a riscaldare così tanto anche la più sciatta manifestazione della miseria. Quando sedettero al piccolo tavolo al centro della stanza,
-Ho deciso che da grande farò il cavaliere, come lo zio Jaime.- annunciò solennemente la bambina, gonfiando il petto, con fare cerimonioso.
-Chi ti ha messo in testa questa balzana idea? No, no, tu non devi fare il cavaliere, luce dei miei occhi... e non devi chiamare lo zio Jaime "zio Jaime", capito? Mai.-
-E allora come?- ribattè la bambina, confusa.
Effettivamente, per quanto le precauzioni fossero state molteplici, Jaime aveva finito per insospettirsi, seguire il fratello e scoprire dell'esistenza di Cailee, nonchè di Shae. Tyrion non se n'era preoccupato, perchè sapeva di potersi fidare di lui: a dirla tutta, egli era stato piuttosto contento d'essere diventato zio e aveva preso la nipotina in simpatia. "Ha un bel caratterino, proprio come te", aveva commentato ridendo con Tyrion.
Il Folletto ci pensò un po' su. -In realtà non lo devi chiamare per niente. Evita di nominarlo e tutto andrà al meglio.-
L'idea che per Approdo del Re si spargesse la voce che Tyrion Lannister aveva generato una figlia bastarda non lo entusiasmava granchè, a prescindere dal fatto che Cersei fosse morta. Finchè nessuno avesse scoperto le sue origini, la piccola sarebbe stata al sicuro; altrimenti sarebbe stato fin troppo facile rapirla per ottenere un riscatto, consegnarla a qualcuno o, ancora peggio, ucciderla per semplice ripicca verso la tirannia dei Lannister. La cosa che per Tyrion era più dolorosa era il fatto di non poterla tenere con sè alla Fortezza Rossa, sempre sott'occhio, perennemente sotto la sua vigile ala protettiva. Prima della nascita della figlia non credeva davvero che ci si potesse affezionare così ad un moccioso, però diventare genitori -esattamente come dice quel barboso luogo comune- fa cambiare la prospettiva da cui si guarda il mondo. D'un tratto tutto l'amore che gli era stato impedito -per un motivo o per un altro- di provare per Cersei e Tywin e Joanna, il tenero sentimento adolescenziale nei confronti di Tysha, la passione tutt'ora vitale per Shae s'era riversata nell'unica, straziante, insopportabile necessità di vedere le labbra di quel piccolo esserino incurvarsi ed esplodere in un sorriso che parlasse di gioia, che ignorasse le lacrime, che varcasse i confini. Perchè un genitore non è un dio, può, deve dare soltanto la vita alla sua creatura -perchè l'ombra di Tywin Lannister non poteva essere così lunga da insidiare anche l'infanzia di sua nipote.
Mentre Cailee, dalla saccoccia che conteneva tutti gli averi suoi e della madre, arraffava uno dei fogli che utilizzava per imparare a leggere ed un calamaio d'inchiostro nero, canticchiando adesso disegno lo zio Jaime con il cavallo e la spada, Shae sedette accanto a Tyrion e gli toccò la spalla, sollecita.
-A proposito di Jaime, come sta?- sussurrò piano. Dopo tanti anni insieme, aveva scoperto la tacita solidarietà e l'intensità segreta del rapporto fraterno che intercorreva fra i due. Il Folletto si limitò a lanciarle un'occhiata sconfortata.
-Male, Shae. Fisicamente, molto meglio di quanto i medici vogliano farmi credere. Interiormente, molto peggio di quanto egli riesca a farmi intendere. La ferita al petto è quasi guarita, senza troppe complicazioni, ma la riabilitazione è lenta proprio a causa della sua... totale mancanza di collaborazione.- Tyrion aveva esitato, prima di pronunciare quelle parole: in effetti, il termine esatto da adoperare sarebbe stato disperazione, inteso nella sua accezione meno banale, cioè mancanza di speranza. Jaime Lannister non sperava più, e questo era sostanzialmente l'ostacolo insormontabile. Non sperava più che il mondo avrebbe smesso di deluderlo. Non sperava più che il fuoco l'avrebbe scaldato e la luce avrebbe sbrogliato le tenebre. Non sperava più che un respiro potesse diventare un passo verso il futuro piuttosto che l'ennesimo istante dopo Cersei. Non sperava nemmeno più nel vuoto, perchè il nulla si colmava sempre di più ad ogni istante, ed ormai faceva male pure quello. Ogni cosa era in grado di ferirlo, in un circolo vizioso di specchi e strazio -povera piccola anima forte che voleva cedere alle lusinghe dell'oblio e trovava la porta sprangata.
-Non vuole guarire, capisci? Non ha intenzione di alzarsi da quel letto. E io non trovo le parole giuste per spingerlo a farlo.- ammise Tyrion. Lui, che non trovava le parole giuste? Visto ch'era l'unica cosa che avrebbe sempre saputo fare meglio degli altri, la situazione era piuttosto critica.
-Il pensiero di farla pagare al responsabile, magari.- propose Shae, che conosceva il sapore della vendetta più di quanto avrebbe desiderato.
-Se gli si piazza ancora una volta avanti, quel responsabile gli farà pentire d'essere sopravvissuto. E farà in modo di non ripetere lo stesso errore.- fu la tetra risposta. Quando Rickon Stark avrebbe scoperto che lo Sterminatore di Re era ancora vivo, si sarebbe di certo infuriato: più lontano lui e Jaime fossero rimasti l'uno dall'altro, meglio sarebbe stato. -Mettere in castigo un bambino cattivo non ridarà un senso alla sua esistenza. Il piccolo Stark ha compiuto un delitto di cui non può conoscere la portata, non nella sua effettiva interezza. Ha combinato un guaio più grande di lui, che finirà inevitabilmente per ripercuoterglisi contro... ma non ora. Ci vuole tempo. Al momento, Jaime deve pensare soltanto a riposare.-
Shae lasciò trascorrere qualche momento, prima di aggiungere: -Mi dispiace per tuo fratello, sì, però se ti dicessi che la morte della sua affabile gemella mi addolora...-
-... mentiresti spudoratamente. Siamo in due.- concordò Tyrion, impassibile. -Proprio per questo, mia cara, mi sembra il caso di discutere circa il vostro futuro... Ora che la minaccia di Cersei non incombe più, vi procurerò una casa che vi appartenga. Una casa decente, niente a che vedere con queste bettole. Una casa grande, bella e sicura. È una promessa.-
Tyrion sorrise, e Shae non potè fare a meno di imitarlo. -... è fantastico.- concluse in soffio.
-Voi siete fantastiche.- la corresse lui, prendendole una mano e fissandola negli occhi. E le parole divennero futili come pulviscoli d'aria.
-Papà?- La voce acuta di Cailee interruppe bruscamente quell'idilliaca sospensione.
Tyrion si rivolse a lei. -Dimmi.-
La bambina aveva sollevato lo sguardo dal suo disegno: teneva il palmo della mano disteso premuto sul foglio con fermezza, la mano che reggeva la piuma incerta a mezz'aria. Sul suo visino v'era un'espressione pensosa.
-Ho sentito il ragazzo delle mele al mercato che diceva: la guerra sta arrivando. La guerra arriva sul serio?-
Anche Shae guardò il marito, quasi che la risposta la interessasse. Egli osservò prima l'una, poi l'altra.
Ovvio che stava arrivando, la guerra. Gli Stark si erano premurati d'avvertirli piuttosto esplicitamente. L'avevano portata loro, insieme al vento del Nord, insieme alla spada dei vendicatori ed il lutto dei Lannister. La guerra era arrivata nel momento in cui il giovane regno di Tommen aveva cominciato a piegarsi su se stesso, sotto la pressione dell'inverno, a dare segni di cedimento, a cigolare e gemere; ed adesso che quel regno brancolava nell'indeterminatezza, ecco la guerra a derubare tutte le tasche per saldare i debiti non pagati.
Tyrion era già piuttosto impegnato e preoccupato, per via dei numerosi oneri che gli venivano dal titolo di stratega, occupato a fare bilanci per le spese militari e mandare corvi ai vari alfieri e trattare per il numero delle truppe ed esaminare la mappa, tentando di indovinare la prossima mossa di Brandon Stark; tutto ciò non era poco, e se poi ci si aggiungeva i deliri di Tommen, allora le circostanze diventavano ingestibili. I guai cominciarono a causa di una lettera, giunta da Ashemark, che affermava che le truppe si sarebbero rifiutate di combattere per un re che faceva altrettanto; a quanto pare, tale moto di ribellione era stato fomentato dal fatto che il Re Metamorfo aveva dichiarato pubblicamente che avrebbe partecipato alla campagna militare. Se aveva il coraggio di farlo uno storpio, i soldati del Sud si sentivano insultati all'idea di combattere sotto l'insegna d'un re vile a tal punto. Tyrion poteva anche comprendere un ragionamento di questo tipo, ma c'erano due cose da tenere a mente: la prima era che Bran Stark non per niente era il Re Metamorfo, e tanto vulnerabile dunque non pareva; la seconda era che chiunque sarebbe stato capace di fare lo spavaldo, con al fianco una macchina da guerra come Rickon. Però Tommen aveva sedici anni, che diavolo, e quella lettera l'aveva punto nell'orgoglio. Per quanto temperante e sensibile d'indole, era pur sempre un Lannister. Perciò, dopo aver sbottato "posso andarci benissimo anch'io, non c'è alcun problema" aveva ordinato di riferire il suo assenso al popolo intero tramite un editto. -Così andrò a riprendermi Myrcella, e gli farò pentire di averla sfiorata con un dito, a quel Rickon Stark!-
Inutilmente Tyrion aveva cercato di farlo ragionare, esponendogli tutte le buone ragioni per cui non dare retta a tale provocazione -perchè, se non una provocazione, cos'era la lettera?- e starsene sereno alla Fortezza Rossa: ormai il danno era irreparabile. In verità il problema c'era, e non da poco. Tommen sapeva maneggiare sì una spada in maniera passabile, grazie agli insegnamenti di Loras Tyrell, ma da qui a definirlo un combattente ci passava il mare dothraki. Era un ragazzo dall'animo dolce, impressionabile, compassionevole: la guerra, e qualsiasi altra forma di violenza, non facevano per lui. Non sarebbe mai stato in grado di dare la morte ad una persona, nemmeno ad un nemico -forse nemmeno a Rickon Stark stesso, però, come il bambino ch'era, parlava senza rendersi conto dell'impresa che stava intraprendendo, spinto soltanto dall'impeto della giovinezza, da un'ingenua speranza di gloria, dal desiderio di fare qualcosa di concreto per riavere Myrcella con sè, anzichè starsene lì con le mani in mano. Di certo Rickon Stark aveva sfiorato la ragazza con ben più che con un dito, però era altrettanto vero che avrebbe potuto uccidere il giovane Lannister con un pugno.
Tyrion era del tutto contrario a questa decisione, ma Tommen era il re e, costringendolo a cambiare idea, avrebbe dimostrato quanto egli fosse debole e smidollato e gli avrebbe tolto autorità davanti agli occhi al popolo, sminuendo ancora di più la sua immagine di re giovane, incapace ed inesperto. Persino le suppliche di Margaery, che gli aveva ricordato quanto bello sarebbe stato se Tommen avesse visto suo figlio nascere e l'avesse preso in braccio per primo, erano state vane; Tyrion avrebbe faticato a dimenticare quella scena, Margaery quasi inginocchiata davanti al marito, ad aggrapparsi alle sue ginocchia come se volesse impedirgli fisicamente di andarsene, ed aveva parlato con un filo di voce:
-Non puoi farmi questo, Tommen...- Con estrema delicatezza, ella gli aveva preso una mano e l'aveva poggiata sul proprio ventre prominente, al che il ragazzo potesse avvertire il bambino scalciare. -Non puoi farci questo.- aveva aggiunto dolcemente ella, le ciglia imperlate di lacrime, gli occhi intensi come cieli pronti a disciogliersi. Il silenzio aveva tremato come l'ultima foglia autunnale d'un nudo ramo, e sembrava che l'appello di Margaery avesse avuto la meglio sulla testardaggine del re. Ma quella speranza era stata spazzata via dal cuore della fanciulla non appena l'espressione di lui s'era contratta dolorosamente.
-Lo devo a Myrcella. Non posso fare altrimenti. Tornerò, Margaery, quant'è vero che ti amo con tutto il cuore.-
Non abbastanza, sospiravano senza muoversi le labbra di Margaery Tyrell, lo sguardo rivolto alla nuvola di polvere che avrebbe seguito l'esercito nella sua marcia verso l'inferno. Non abbastanza.
-Sì, bambina mia, la guerra sta arrivando.- risposte Tyrion, pacatamente. -Ma non qui.- Non per te, grazie agli dèi.
Sono altri quelli che devono iniziare ad avere paura.































Note dell'Autrice: Ed eccomi qua. Che dire? Ormai non so più come farmi perdonare i miei ritardi, perciò abbandono l'impresa in anticipo. u.u
Adesso è esploso il pandemonio. Come reagirà Rickon alla notizia del matrimonio? Eheh. Non tanto bene, a quanto pare. E voi, ce lo vedete più con Shireen o con Myrcella? (curiosità personale!) A proposito di Myrcella, anche lei come Sansa trama alle spalle del nemico. Ho dato più spazio a lei e Baelish, siete contenti?
So che molti avrebbero preferito vedere Meera ammazzare Jojen a colpi di sedia, ma loro non sono tipi da litigare. Si vogliono troppo bene. E la figlia di Tyrion? Vi sta simpatica? E' una tipetta un po' strana -d'altronde non poteva essere altrimenti, con Shae e Tyrion come genitori!
Lo so, lo so, vi starete chiedendo: e dov'è il pezzo lunghissimo su Jaime? ... arriverà, abbiate fede. Arriverà.
Grazie mille per avere letto fin qui, e un ringraziamento particolare va a Talia_Federer, Resha Stark e yoyobiship, che hanno recensito il terzo capitolo, nonchè a coloro che hanno messo la storia fra le preferite/seguite/ricordate! Grazie millissime! Mi piacerebbe molto sapere cosa ne pensate. ^-^
Al prossimo capitolo dunque!
Lucy
ps: l'amaranto citato nel titolo del capitolo è un riferimento al colore dell'abito di Shireen. Che complicazioni, eh?
  
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