1.
Can I take you, baby, to the show?
New York, 26 Luglio 1973
Apro gli occhi,
inspirando così forte da cacciar fuori uno sbadiglio. Mi
passo una mano tra i
capelli, soffermandomi sulla nuca tornata scoperta dopo anni passati
sotto una
nuvola corvina che non sopportavo più, le mie dita che
trovano un lieve sudore.
- Svegliati, Page, stiamo
per atterrare!
La voce di Peter rompe
l’aria come un tuono, facendomi sobbalzare, un colpo di tosse
che irruento mi
rimbomba nella gola.
- Cazzo. Volete abbassare
l’aria condizionata? – dico, alzandomi in piedi, un
brivido che attraversa la
mia schiena sudata facendomi imprecare sottovoce.
- Sei sempre il solito,
Jimmy. – afferma una voce all’improvviso
– Stai sempre a lamentarti.
- Parli facile, Plant! –
esclamo, superando i sedili di fianco al mio e raggiungendolo sul
corridoio –
Tu potresti camminare sul ghiaccio a petto nudo e non faresti uno
starnuto. Io
sono un po’ più … delicato. –
concludo con ironia, facendolo ridere.
- Delicato un cazzo,
Page. Sedetevi tutti che stiamo atterrando! – annuncia Peter
tornando dalla
cabina di controllo – E tu. – esclama puntandomi un
dito contro – Vedi di non
buscarti qualche malanno. Ho la sensazione che le cose non andranno
bene a New
York, quindi non ti ci mettere pure tu.
- Tranquillo Peter. –
dico, poggiando una mano sulla sua spalla – Nel caso mi
dovessi ammalare,
sicuramente sapresti trovarmi delle infermiere competenti, o sbaglio?
– aggiungo
ghignando, mentre Robert applaude in segno di approvazione.
- Tienitelo nei pantaloni
Page o a furia d’infilarlo ovunque te lo scordi tra le gambe
di qualcuna! –
tuona improvvisamente un’altra voce provocando le risate
dell’intero Starship.
- Buongiorno finezza,
Bonzo! – esclama un’altra somigliante ad uno
squittio.
- Menomale che ci sei tu,
Jonesy. – dice Peter lasciando una violenta pacca sulla
spalla del nostro
bassista facendolo barcollare – Mettili in riga e vedi di
farli sedere, o
appena l’aereo s’inclina li ritroviamo tutti sul
vetro della cabina di
controllo schiacciati come moscerini.
- E tu, mio caro Peter. –
inizia Robert, passandogli un braccio sulle spalle minuscole rispetto
all’enorme ventre che si ritrova Grant – Cerca di
non metterti sulla coda
dell’aereo, altrimenti lo sbilanci e non atterriamo
più! – esclama, facendo
diventare la faccia di Peter scarlatta.
- Ringrazia tutte quelle
ragazzine che ti guardano nei pantaloni e sganciano la grana per un
vostro
album. – sputa rabbioso – Altrimenti a
quest’ora rimarresti senza lavoro e
senza gioielli di famiglia, Plant. – conclude,
allontanandosi, mentre noi
continuiamo a ridere, Robert che cerca di chiedergli scusa, ma tra una
risata e
l’altra fallisce miseramente.
Venti minuti dopo,
finalmente, atterriamo, io che continuo a tossire contro
l’aria afosa e rovente
di New York, la mia camicia verde che mi si appiccica addosso per via
del
sudore, mentre a terra ci aspettano le nostre auto e quelle della
polizia,
Robert che mi segue nei sedili posteriori con la sua giacchetta avana
completamente sbottonata. Partiamo subito e venti minuti dopo siamo
all’entrata
posteriore del Madison Square Garden.
- Vestiti e strumenti
sono nei camerini, ragazzi. Diamoci una mossa! – esclama
Grant una volta scesi
dalle auto, facendo tintinnare i suoi anelli tra le mani enormi, mentre
il
braccio di Robert si fa strada sulle mie spalle e insieme ci dirigiamo
all’interno del palazzetto, noncuranti di fotografi, fan e
agenti della
polizia, tutti urlanti intorno a noi.
- Amo l’America. –
sussurra Robert una volta arrivati nel backstage, liberandosi subito
della
giacca per poi dirigersi in bagno, l’idea di chiudere la
porta che non lo
sfiora minimamente, mentre Jonesy e Bonzo ci raggiungono affannati,
quest’ultimo che, appena nota la figura di Robert nel bagno,
ne approfitta per
avvicinarlo silenziosamente. Veloce come un fulmine, gli tira un
calcetto sul
dietro delle ginocchia, facendolo piegare leggermente in avanti,
l’imprecazione
che arriva chiara e forte anche a me e Jonesy che scoppiamo a ridere.
- Fanculo, Bonzo! –
esclama Robert, guardandosi in basso – Guarda come mi hai
ridotto.
- Ma smettila di
lamentarti per un po’ d’acqua. – tuona
lui, uscendo dal bagno per poi
stravaccarsi su una panchina con una risata soddisfatta.
- Eh certo, parla quello
nascosto dietro una batteria …
Il battibecco continua,
le loro frasi che sfociano nel classico repertorio d’asilo,
mentre io e Jonesy
ci avviamo nei camerini, lasciando che i due idioti se la vedano da
soli e,
arrivati davanti alle nostre porte, John si lascia sfuggire un sospiro
sommesso. Credo non ci sia nemmeno bisogno di chiedergli
cos’abbia, è così
evidente, ma far finta di nulla sarebbe un gesto egoista.
- Ti mancano, vero? –
dico dolcemente, rivolgendogli un sorriso.
- Non puoi nemmeno
immaginare quanto. – sospira, mettendosi le mani sui fianchi
mentre il mio
pensiero va subito a Scarlet. L’ultima volta che
l’ho vista, circa tre mesi fa,
dormiva beata sotto le coperte lilla del suo lettino, il naso che
sporgeva dal
lenzuolo e la mia voglia mal frenata di stringerla forte, limitandomi a
un
bacio sulla sua fronte fresca, tenera d’innocenza, il suo
odore così simile al
mio.
- Scusami, Jim. – dice
Jonesy improvvisamente arricciando le labbra e mi accorgo di aver
cambiato umore,
lo sguardo perso altrove e la faccia del mio amico sinceramente
dispiaciuta.
- Tranquillo, John. –
dico, dandogli una pacca sulla spalla – Non me la sono presa.
- Meno male! – sorride
lui, grattandosi la testa.
- Dai, muoviamoci. – lo
incito, per poi aprire la porta del mio camerino – Prima che
arrivi Grant a
farci la predica.
E così, ridendo piano, ci
chiudiamo le porte alle spalle.
*
- New York! Goodnight!
E New York risponde con
un urlo al saluto di Robert e sento che sarà davvero una
buona notte per tutti
quanti, sia per loro sotto il palco, sia per noi che
l’abbiamo calcato, tutti
uniti nella stessa stanchezza ed estasi, la musica che continua a
rimbombare
nei timpani esattamente come il rullante di John che, nonostante non
stia
suonando più, continua a vibrare impercettibilmente. Felici
e tremendamente
sudati, scendiamo dal palco, io che mi passo una mano sul petto
accaldato,
Robert dietro di me che ha già iniziato a fare battute
idiote e io che ne rido.
Ormai sono in preda all’euforia nonostante le gambe tremanti
per la stanchezza,
così senza tanti preamboli raggiungo l’auto che
riporterà in albergo,
fiondandomi sul sedile posteriore con un verso di sollievo. Pochi
secondi dopo,
l’abitacolo s’illumina, il sorriso di Robert che si
accende contagiandoci
tutti, Peter compreso, che inizia a darci strette di mano e complimenti.
Tre giorni sono passati
in fretta e finalmente si torna a casa, lasciandoci alle spalle questi
tre mesi
passati a chiedermi continuamente dove cazzo fossi, la stanchezza, la
folla e
le loro urla. Credo che me le porterò nel cervello per tutta
la vita come un
disco in loop. A volte ho quasi paura di dimenticare ciò che
succede fuori dal
palco, che ogni cosa mi sfugga di mano e che ogni singolo gesto si stia
svolgendo in qualche posto remoto della mia mente, dove un burattinaio
immaginario riesce a muovere le fila contorte della mia vita. E poi i
sogni.
Sembra che nemmeno lì mi sia concesso un briciolo di pace e
lucidità, mentre
davanti ai miei occhi passano le immagini di terrore vissute sul Falcon
Jet, il
mio corpo che sobbalza sul sedile proprio come è successo un
mese fa e poi, ogni maledetta volta,
il sogno si
conclude col mio corpo abbandonato al centro della strada, morente e
bagnato
dalla pioggia.
- Jimmy? – la voce di
Robert mi riporta alla realtà e stancamente mi volto a
guardarlo – Jimmy, amico
mio, non è il momento di dormire. Siamo al Drake!
- Cosa? – chiedo con la
voce impastata dal sonno. Non mi ero nemmeno accorto di essermi
addormentato,
così mi stropiccio gli occhi focalizzando il volto di Robert
di fianco al mio,
la sua espressione stanca ma felice allo stesso tempo.
- Siamo in albergo,
compare! – esclama – Stiamo tornando a casa.
Istintivamente, gli
sorrido. Poi lo sportello posteriore si apre, la faccia di Peter che
scruta
dentro.
- Smettetela di fare le
checche voi due e datevi una mossa!
- Sembri geloso, Grant! –
risponde Robert prontamente e, una volta sceso dall’auto,
inizia ad infastidire
Peter imitando moine degne di donnicciole da quattro soldi. Senza che
se ne
accorgano, scendo dal lato opposto al loro, guardandomi in giro e
avvertendo un
morso di malinconia. In fondo, l’America mi
mancherà. Nonostante i clacson
assordanti e la puzza del fumo di scarico delle auto, i problemi e il
costante
senso di disorientamento, sentirò comunque uno spazio vuoto
all’altezza del
petto, anche se misero in confronto a quello lasciato dalla lontananza
da
Londra. Mi mancherà il cielo limpido del Texas e le notti
calde della Florida.
Mi mancherà il tramonto della California, vedere il sole
calare nel mare prima
del concerto col naso nascosto tra i capelli di lei, le lenzuola
stropicciate e
il loro profumo di bucato che si mescola coi nostri odori.
- Jimmy!
Un paio di braccia esili
e perfette si stringono attorno al mio collo, mentre avverto il calore
di un
seno accennato sulla mia schiena.
- Lori. – esclamo
staccando lo sguardo dalla strada per posarlo sui suoi occhi che
brillano
intensamente, la mia mano destra che si stringe attorno al suo braccio
– Non
dovresti comportarti così in strada, lo sai …
- … che se ci vedono
siamo fottuti. Sì, lo so. – risponde, con voce
acutissima, imitando quella di
una bambina – Ma non m’importa. –
aggiunge con fare impertinente.
- Oh, sì, tanto quello
che se ne va in gattabuia se lo beccano con una minorenne sono io. Che
t’importa. – dico, pizzicandole
l’avambraccio stretto ancora attorno il mio
collo, Robert e Peter che discutono ancora mentre aspettiamo
l’arrivo di Jonesy
e Bonzo rimasti indietro.
- Non sono così
insensibile.
- Oh, certo che non lo
sei. Lo so bene. – dico con fare malizioso, allungando il
collo per posarle un
bacio sulle labbra – Sei solo egoista, bambina impertinente.
– concludo severo,
la sua bocca che subito si spalanca per poter replicare, quando viene
interrotta
dal rumore sinistro e angosciante delle ruote che frenano bruscamente
sull’asfalto, seguite da un tonfo sordo, morbido, secco. Poi,
solo il suono di
qualcosa (o qualcuno) che striscia
lontano, un gemito debole, lieve. Mi volto di scatto verso la strada
sulla
quale ora sono puntati decine di occhi, compresi i nostri. Il tempo di
capire
di cosa si tratti e già le prime urla rompono il silenzio,
la prima quella di
un’autista fermo al centro della strada, il parabrezza della
sua auto
completamente crepato e sporco di sangue, le sue mani nei capelli
ispidi e gli
occhi sgranati contro una figura a pochi metri da noi.
L’urlo soffocato di Lori
mi riporta alla realtà e subito le porto una mano sugli
occhi e il volto contro
il mio petto, sperando che non abbia visto ciò a cui tutti
stanno assistendo
senza far nulla. Il corpo tremante, preso dagli spasmi, i lunghi
capelli biondi
impiastricciati di sangue, il volto sfigurato e il bacino rivolto su un
fianco,
evidentemente rotto. Nonostante il caldo asfissiante, un brivido mi
percorre la
spina dorsale, il sudore che torna a percorrermi le tempie come una
carezza
fredda che sa di morte. Mi sembra quasi di sentirne i passi mentre
avvicina
l’esile stelo tremante sull’asfalto, le braccia
spalancate contro il cielo come
ali di un angelo caduto, il suo petto che, ogni secondo che passa,
trova
l’immobilità dopo un ultimo sussulto.
- Merda! – sento
sussurrare al mio fianco, le mie braccia strette attorno alle spalle di
Lori.
Quando mi volto, trovo l’espressione sconvolta di Bonzo,
Jonesy di fianco a lui
che guarda la strada con aria sofferta, le mani sui fianchi, mentre
poco
lontani da noi, Grant ha passato un braccio attorno alle spalle di
Robert che,
silenziosamente e senza aggrottare il viso, piange. E mentre il suono
dell’ambulanza rompe il silenzio, mi obbligo a guardare il
cielo ormai buio
sotto il manto della notte, ricacciando indietro le lacrime che
spingono tra le
ciglia. Non un bagliore, nessun segno, solo un grande buco nero sopra
le nostre
teste.
Il cielo delle città non
ha stelle.
*
- Peter?
Questo si volta con fare
omicida, la mascella che sporge in avanti sotto la barba nera, la
guancia
poggiata sulla mano, il gomito puntellato sul bracciolo
dell’ultimo sedile in
fondo all’aereo.
- Vedi di sparire,
Richard. – sputa freddo.
E questo se ne va, senza
obiettare, sconfortato. È da ieri che tenta di parlare con
Grant, ma questo,
dopo il fattaccio del furto all’hotel, si rifiuta di
parlargli.
Il silenzio è calato
nello Starship, interrotto solo dal lieve russare di Robert seduto
dietro di
me, mentre sulla fila parallela alla mia, oltre il corridoio, Bonzo
è intento a
montare un piccolo camion giocattolo comprato apposta per Jason, mentre
Jonesy,
dopo aver impacchettato la bambola che ho comprato
per la mia Scarlet, si è immerso nella
lettura di Jake e il fagiolo magico,
intento a trovare il modo perfetto per leggerlo alle sue piccole quando
tornerà
nel Sussex.
La testa sulle mie gambe,
Lori dorme tranquilla, una sua mano poggiata sul ginocchio, le sue
gambe
raccolte sul suo sedile di fianco al mio. Sotto di noi,
l’Atlantico ci porta a
Londra. Distolgo lo sguardo, non riesco a guardarla. Ho quasi paura di
guardarmi le gambe e trovare il suo cranio costellato di sangue,
l’immagine di
quell’incidente che ritorna alla mia mente come il peggiore
degli incubi,
tant’è che ho paura di addormentarmi e dover
rivivere tutto ancora una volta.
Mi porto una mano sulle labbra, controllando una leggera nausea,
cercando di
equilibrare il mio respiro.
Stai tornando a casa, mi ripeto.
Stai tornando a casa. Al sicuro. Non avere paura.
Angolo della pazza:
Eccomi! ^^
Ehm, eccoci al primo capitolo.
Come si sarà capito, questa è una storia che si svolge più dentro Jimmy che fuori. E' un tentativo di narrazione introspettiva che vorrei diventasse estrema, sperando che funzioni.
Non voglio dire molto su questo capitolo, vorrei lasciarvi viaggiare con la fantasia.
Ci si legge al prossimo capitolo.
Un abbraccio,
Franny