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Autore: Agapanto Blu    04/12/2013    7 recensioni
Osservai l’auto fare retromarcia e poi mi voltai verso la scuola. Prima di entrare, però, lanciai un’occhiata verso l’alto: il moro non c’era più ma il biondino sì e continuava a fissarmi come se fossi stato la promessa vittima di un film horror.
Quando Mathieu decide di rivelare al padre la sua omosessualità spera in un aiuto per risolvere la confusione e la paura nella sua testa, nonostante i suoi non ci siano mai stati per lui. L'ultima cosa che il ragazzo si aspetta è di essere cacciato per questo e iscritto alla Chess Academy, una scuola maschile molto esclusiva in Inghilterra.
Ma è qui che arriva il peggio, perché nella scuola esistono due soli colori, o bianco o nero, e le vie di mezzo vengono brutalmente soppresse.
Mathieu non vuole questo, non vuole essere un sovversivo e non vuole lottare, certo non vuole l'oppressione che sente addosso e spesso pensa di chinare la testa e smettere di resistere.
Sarebbe facile, quindi perché non farlo? Semplice: perché gli occhi di Gregory, ragazzo spigliato e decisamente ribelle, sono troppo azzurri.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Scolastico
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Capitolo 23: Fammi l’amore
 
Mi passai la mano tra i capelli, scompigliandoli per l’ennesima volta, e alla fine strinsi le dita sulle ciocche, sbuffando per l’ennesima volta nel tentativo di ignorare il grumo d’ansia che mi pulsava dolorosamente nel petto. Chiusi gli occhi, mordendomi la lingua, e posai i gomiti sulle ginocchia senza però sollevare la testa.
È tutto sbagliato, tutto! Ma non potevo farci niente.
Sospirai. Sembrava quasi che la mia condanna fosse l’impotenza su qualsiasi cosa importante per me, come punizione per aver avuto fin troppo potere sul destino della Chess e della Checkers Academies. Doveva essere quello per forza, perché era stata la chiusura delle scuole a dare inizio al domino che mi aveva portato fin lì, in quel corridoio silenzioso e seduto su quella panca.
 
Rimango a fissare l’aereo che si allontana come se il mio semplice sguardo possa impedirgli di lasciarmi ed è solo quando sparisce sopra le nuvole che mi accorgo di quanto rumore si sta svolgendo attorno a me. La sicurezza alle mie spalle non mi sta arrestando soltanto perché una voce continua ad arrivare dai loro walkie-talkie avvisandoli che non sono pericoloso. Una parte di me si chiede come fanno a saperlo.
“Mattie…”
Mi volto, confuso, e incrocio gli occhi verdi, grandi e luminosi, di mia madre.
Non so perché, ma mi costringo a sorridere. Non che ottenga quel gran risultato e infatti a metà del gesto lei inizia ad abbracciarmi, qualcosa in me cade e io mi appoggio totalmente al suo corpo esile, nascondendo il viso nella massa di capelli che ha spostato su una spalla.
Stringo gli occhi con tutta la forza che ho pur di non piangere.
 
Provo decine, centinaia, migliaia di volte!, a contattare Gregory. Mail, ricerche su internet o tra i contatti di mio padre, qualsiasi cosa, ma benché la famiglia Gray sia molto conosciuta, il loro erede adottivo sembra scomparso nel nulla, sottratto ai riflettori da due genitori amorevoli che tentano di risparmiargli altre sofferenze mentre lui, piegato nello spirito, cerca di rimettersi dall’esperienza traumatica subita nella scuola degli orrori.
Ma andate al diavolo, bugiardi doppiogiochisti.
 
Quasi saltai in piedi quando la porta di legno alla destra della ormai mia panca si aprì.
Raddrizzai la testa, sottraendola alla presa delle mani, e puntai gli occhi sulla figura che usciva in quel momento, ma mi sgonfiai come un palloncino nel momento stesso in cui mi accorsi che era uno degli studenti Universitari venuto ad assistere che si allontanava per rispondere al cellulare.
Al diavolo, avrebbe dovuto spegnerlo!
Sospirando, mi passai le mani sul viso. Ero quasi certo di apparire come uno zombie alle cinque di mattina il giorno dopo una sbronza colossale finita in rissa con una squadra di rugby. Se non peggio.
Cautamente, passai la mano sul cerotto all’angolo della fronte, sulla destra, per controllare che non si fosse staccato. Potevo sentire il taglio, abbastanza piccolo ma non poco profondo, pulsare lieve sotto la plastica lucida e chiusi gli occhi.
Questo era stata la fine di un ciclo fatto di grida e porte sbattute e porte sbattute e grida. Io contro mio padre, mio padre contro di me; mia madre contro di lui, lui contro di lei. I tre mesi successivi al mio rientro a casa erano stati l’Inferno e mi avevano impietosamente rivelato quanto rapidamente mio padre si fosse abituato a non avermi tra i piedi: a differenza di mia madre, non provava alcun fastidio nel non vedere alcuna traccia di me per casa, al contrario sembrava infuriarsi al solo vedere qualcosa di mio. O me, direttamente. Non potevo dire di essere lo stesso Mathieu di prima e forse era stato quello a rendere la nostra già difficile convivenza praticamente insostenibile. Alla fine, era inevitabile che entrambi, all’apice della rabbia, scoppiassimo…
 
Stringo forte i pugni e le mie braccia tremano sotto i desideri contrastanti nella mia mente: una parte di me vorrebbe colpirlo, l’altra sa che sarebbe una dichiarazione di guerra sulla quale Charles Legris non potrebbe mai passar sopra.
Lui urla e urla e urla e non so nemmeno perché. Stavo studiando per l’esame di ammissione al quarto anno della nuova scuola, ero seduto per terra in salotto di fronte al camino con il quaderno sulle gambe incrociate quando mio padre è entrato. Poi non ricordo, forse ha fatto un commento lui o forse sono stato io, ma dopo un attimo eravamo in piedi, l’uno di fronte all’altro, ad urlarci contro tutto l’odio che gli anni avevano saputo donarci.
“Basta, Charles!” interviene mia madre, arrivando alle spalle di mio padre con un’espressione furiosa.
Di tutte le battaglie di questi giorni, neanche una l’ho dovuta combattere senza che lei arrivasse ad aiutarmi ad un certo punto. A volte sedava tutto sul nascere, a volte si limitava a separarci prima che la sola vista reciproca ci portasse ad esplodere, ma nella maggior parte dei casi iniziava ad urlare anche lei.
Questa volta, però, mio padre la scaccia via con un gesto del braccio all’indietro.
“Bada, Mathieu!” urla, furibondo, “Sto perdendo la pazienza!”
“E allora?!” ribatto, sarcastico, “Cosa vuoi fare?!, spedirmi di nuovo alla Chess?! Toh guarda, l’hanno chiusa e la preside è in galera!”
Questo argomento lo fa sempre imbestialire, lo so: non riesce a sopportare l’idea che io mi sia dimostrato più bravo di lui, che abbia trovato il modo di scappare da una scatola sigillata.
“Non tirare troppo la corda!” mi avvisa e le sue parole sono il segnale che fa scattare mia madre più vicina a lui per impedirgli di perdere il controllo come ultimamente è sempre più solito fare.
“Sono tutti in galera!” continuo, ignorandolo e senza neanche aspettare che mia madre l’abbia raggiunto, “E indovina un po’?! Dovresti esserci anche tu!”
A malapena finisco la frase che la sua furia esplode. Il limite è rotto, l’argine spezzato, e adesso nulla lo trattiene.
La sua mano si abbatte sulla mia guancia, è così grande che aperta coprirebbe tutto il mio viso, e quando il colpo arriva è tanto forte da farmi perdere l’equilibrio. Prima che possa anche solo accorgermene, girando il torso incrocio le caviglie e così perdo l’equilibrio e cado di lato. La mia fronte impatta contro il mattone arancio del camino leggermente rialzato prima che le mie mani possano toccare terra per reggermi. Mi scappa un gemito quando il dolore inizia a bruciare sulla destra, sopra il sopracciglio, e il mio occhio si chiude d’istinto quando un liquido inizia a scivolargli sopra. Lo tocco con il palmo della mano ma so cos’è prima ancora di vedere il rosso sulla pelle: sto sanguinando.
“MATTIE!” L’urlo di mia madre è il più forte tra tutti quelli lanciati oggi e ci vuole una notevole forza di polmoni e di gola per ottenere un simile risultato.
Le sue mani sono sulle mie spalle in un attimo mentre io mi tiro su a quattro zampe e, appena riesco a sollevare la testa per incrociare l’espressione di mio padre, i suoi occhi ispezionano la ferita. Ciò che vede la manda fuori di sé e si volta verso di lui.
La sua rabbia è tanto grande che, benché lei sia in ginocchio accanto a me e lui in piedi a sovrastarci, mio padre indietreggia di un passo.
“Sei impazzito?!” urla mia madre.
Mio padre non dice nulla ma la guarda negli occhi con espressione sgomenta, come se non capisse. È solo quando lei si volta verso di me che anche io inizio ad intuire che quello che è appena successo ha spezzato la capacità di sopportazione di mamma.
“Mathieu, va’ nella tua stanza. Arrivo subito con i medicinali.” È così gelida, così fredda, che non oso far altro se non alzarmi in piedi, un po’ barcollante, ed obbedire.
 
Alzai gli occhi per guardare l’orologio sul muro di fronte a me. Erano passate due ore e ancora non sapevo nulla di come stesse andando dentro. Sfregai le mani l’una con l’altra e tornai ai miei ricordi.
 
Quando la porta della mia camera si apre, sto tenendo una benda premuta sul taglio che sembra solo ora finalmente iniziare a smettere di sanguinare. Alzo subito gli occhi sulla figura che entra e rimango sorpreso nel vedere che mia madre è vestita in modo elegante e ha la sua borsa sulla spalla oltre alla valigetta dei medicinali nella mano.
“Cosa succede?” chiedo, confuso. Lei scuote la testa. Posa la borsa, si siede sul letto accanto a me e mi prende la benda per poter controllare. “Mamma?” provo di nuovo mentre lei inizia a medicare.
“Voglio che tu faccia una cosa, Mattie.” mi dice mentre spruzza lo spray per la cicatrizzazione delle ferite sul taglio e poi inizia a ritagliare un cerotto delle giuste dimensioni dalla garza adesiva.
“Cosa?” chiedo tra i denti mentre me lo preme sul taglio.
Mia madre mi premia con un sorriso quando finisce le sue operazioni e mi guarda negli occhi.
“Prepara un borsone con la tua roba, il minimo indispensabile per un paio di giorni e poi il resto lo porterà Albert.”
Deglutisco, sgranando gli occhi.
“Cosa…vuol dire?” Ma che diavolo succede?!
“Nulla di cui ti debba preoccupare, piccolo.” mi rassicura lei posando un bacio leggero sul cerotto appena applicato, “Però fai quello che ti ho chiesto, va bene?”
Annuisco, come in trance, e lei, sorridente, riprende la sua borsa ed esce.
 
Mezz’ora dopo io e mamma saliamo in auto. A due ore dall’incidente con mio padre, siamo sistemati in un albergo in centro e io fisso con sgomento la chiave elettronica della stanza che mia madre ha prenotato fino a data da destinarsi.
 
La sera della nostra partenza Alfred ci ha portato tutta la nostra roba più un messaggio di mio padre: “Chiamate immediatamente”. Mamma lo ha fatto aspettare un giorno e poi ha telefonato. Credo che le urla di questa conversazione si stiano sentendo fin nella hall.
Quando entrambi riagganciarono, la decisione è presa definitivamente.
 
Erano passati sette giorni dall’incidente ed eravamo ancora in albergo.
La porta accanto a me si aprì e io sollevai di nuovo lo sguardo, ma questa volta il mio cuore perse un battito nel riconoscere la sagoma di mia madre che camminava fuori a testa alta.
Era finita, capii guardandola negli occhi. Michelle Legris aveva smesso di esistere e Michelle Cendre era rinata come una fenice.
Deglutii ma mi costrinsi ad alzarmi in piedi e ad aspettare che mamma mi venisse vicina. Non facemmo in tempo a parlare che mio padre uscì a sua volta dall’aula del tribunale, l’espressione seria come se non avesse appena divorziato dalla moglie, e si allontanò seguito dal suo avvocato senza neanche guardarmi.
“Una fine settimana al mese la dovrai passare con lui.” ammise mia madre fissandolo, “Almeno fino a quando non compirai i diciotto anni, poi potrai decidere tu. Si tratterà di solo un paio di week-end, in fondo.”
Annuii senza, a mia volta, staccargli gli occhi di dosso.
Era andata così, quindi: dopo anni di battaglie, i miei stavano divorziando. Per un qualche motivo, non riuscivo a sentirmi triste. Era come se si fossero lasciati già da anni, nonostante avessero continuato a vivere assieme.
Spostai finalmente gli occhi su mia madre e lei mi sorrise mestamente. Ricambiando il gesto, la abbracciai forte sotto lo sguardo vigile di Albert.
“Andiamo.” mormorò mia madre, rimanendo sotto la stretta del mio braccio ma trascinandomi, con il suo solo passo leggero, lungo il corridoio, diretto all’uscita e ad un nuovo inizio.
 
Mi aggiustai la giacca sulla camicia bianca e passai una mano tra i capelli per spettinarli ancora un po’. Mio padre mi avrebbe odiato e per quello un sorrisetto mi nacque sulle labbra.
Erano passati dodici mesi dal divorzio, ormai avevo imparato a camminare sul filo di lana che legava mia madre e mio padre, in modo da passare da una vita all’altra come un gatto di tetto in tetto. Non avrei mai voluto la separazione tra i miei, ma con il senno di poi mi rendo conto che era solo la parola a spaventarmi. Era definitiva, finale, immutabile: da quella, non si tornava indietro. Fino a che i miei fossero stati sposati, la speranza che qualcosa potesse cambiare, che mio padre si convertisse come mie madre, che tornasse ad amarla come lei aveva amato lui fino all’ultimo, era ancora qualcosa di possibile. In quel momento non lo era più però io avevo accettato che forse non lo era mai stato.
Scossi la testa per tornare a concentrarmi sul presente, mi guardai nello specchio e sorrisi, nonostante tutto felice e un po’ malignamente soddisfatto, lo ammetto.
Era ora che mi prendessi ciò che era mio.
Camminai a passo sicuro fuori dalla mia camera, lungo i corridoi di quella che era stata casa mia e che ora non lo era più, se non pochi giorni all’anno. Scivolai piano nel silenzio di quella costruzione troppo grande per un uomo solo e per un attimo mi chiesi come si sentisse mio padre a passarci tutta la vita.
Scrollai le spalle. In fondo, se l’era voluto lui.
Raggiunsi il suo ufficio e mi presi un momento, fuori dalla porta, per inspirare profondamente, aggiustare il sorriso cordiale ma distaccato sulle mie labbra e decidermi a fare la cosa più folle del secolo. Quindi, aprii la porta.
Mio padre rideva parlando con un altro uomo. Alto, con corti capelli brizzolati e un paio di baffi curati, il tipo in giacca e cravatta era un qualche importante imprenditore tanto anonimo da sembrare uscito da uno stampino apposta per uomini d’affari. Persino la voce aveva qualcosa di banale, ma in fondo avevo sempre saputo che aveva una sola cosa interessante con sé: il figlio.
Sollevai il mento quando tre paia di occhi si puntarono su di me mentre mi accostavo a mio padre.
“Scusate il ritardo.” dissi, tranquillo.
Charles strinse la presa sul bicchiere ma fece finta di niente e mi indicò agli altri due uomini e allora, per la prima volta dopo un anno, incrociai quelle iridi che erano fatte da frammenti di cielo presi ad ore diverse del giorno. I due caleidoscopi in blu e azzurro si sgranarono un po’, al di là del ciuffo di capelli biondi che cadeva sul lato sinistro del viso, nell’
incontrare i miei.
“Mathieu Legris.” mi presentai, irrigidendo il sorriso per non scoppiare a ridere nel parlare con lo stampino che non aveva idea di chi fossi.
Subito dopo il padre, il biondo esitò solo un attimo prima di allungare la mano a stringere quella che gli stavo porgendo, quindi la scosse con calma.
“Gregory Gray.”
 
Il dialogo d’affari tra mio padre e il signor Gray durò un’ora ancora, tempo durante il quale io e il biondo sconosciuto passammo a scambiarci innocue chiacchiere sul tempo e piccole curiosità. L’apice si raggiunse quando gli chiesi che scuola avesse frequentato e lui scrollò le spalle dicendo che si era trattato di una comunissima, “probabilmente senza alcuna differenza da quella che hai frequentato tu”. Come avevo immaginato, mio padre non aveva mai prestato abbastanza attenzione a Gregory per riconoscerlo ad un anno di distanza, non che potessi biasimarlo tanto visti i cambiamenti del mio...amico.
Gli occhi erano quelli, incastonati nel viso però un po’ più colorito e più pieno, cosa che mi aveva fatto ricordare quanta fame avesse patito alla Chess e per quanto tempo si fosse ritrovato in reclusione. I capelli biondi non erano più cortissimi come era stato costretto a portare, ma gli arrivavano scalati fino alle spalle, con l’ampio ciuffo che ogni tanto scivolava a coprirgli l’occhio e che lui tutte le volte rimetteva a posto con uno sbuffo esasperato. Al polso portava un nastro per capelli nero, così capii che finalmente poteva di nuovo legarli in un coda, sebbene certo non lunga come quella che aveva quando ci eravamo conosciuti. Mi sembrava un po’ più alto, le spalle e il petto un po’ più ampi e le braccia un po’ più tornite sotto la giacca elegante del completo scuro che indossava, ma forse era solo la distanza che me lo faceva apparire così. I suoi occhi così meravigliosi si illuminavano ogni volta che mi lanciava una frecciatina su quello che c’era stato tra noi nella scuola e io sentivo le mie labbra allargarsi in risposta.
Alla fine, i nostri genitori si accordarono su non ho idea di quale tipo di affare e così potei dare inizio al mio malefico piano.
“Bene, non so voi, ma io ho sete.” dissi, mentre mi alzavo in piedi.
Greg colse al volo l’imbeccata.
“Ti dispiace se vengo con te?” chiese, alzandosi, “Anche io ho un po’ di sete.”
Mio padre ci ignorò bellamente, ma notai con la coda dell’occhio che il padre di Gregory strinse molto la presa sulla propria valigetta.
Fingendo di non essermene accorto, uscii dall’ufficio seguito da Greg. Appena lui si chiuse la porta alle spalle, lo afferrai per un polso e cominciai a correre.
La risata divertita dietro di me mi fece sorridere, ma non mi fermai. Trascinai Gregory fino alla mia camera e ce lo spinsi dentro quasi a forza, prima di seguirlo.
Non ero un idiota, perciò mi premurai di chiudere a chiave prima di voltarmi, appena in tempo perché la bocca di Gregory si schiantasse sulla mia con tanta forza da farmi sbattere contro la porta con tutto il corpo, testa in particolar modo, facendomi scappare un gemito offeso.
“Non mi risulta tu abbia altre costole rotte quindi sta’ zitto e subisci, piccoletto.” Risi contro la bocca di Gregory alle sue parole, ma il biondino mi afferrò per la vita e si premette con forza contro di me. “Un anno, Mat! Un anno! E quando finalmente ti rivedo, mi incastri in un fottutissimo giochetto di ruolo davanti agli occhi dei nostri padri: è un’ora che voglio baciarti, il minimo che puoi fare è non lamentarti!”
“E chi si lamenta?!” scherzai, lasciando poi la bocca aperta contro la sua per permettere l’ingresso della sua lingua.
Gemetti notevolmente a quell’intrusione che aspettavo da mesi e, nell’impeto, piantai il piede contro la porta e spinsi, facendo barcollare entrambi verso l’interno della stanza e continuando a muovermi fino a quando Greg non cadde seduto sul mio letto, permettendomi di mettermi a cavalcioni su di lui.
“Perché quando non posso venire a letto con te indossi solo un maledettissimo asciugamano e quando posso hai tutta questa roba?!” ringhia il mio biondino, faticando per aprire i piccoli bottoni della mia camicia.
“Potrei farti la stessa domanda.” ribatto, “Anche tu ti sei parato davanti a me con solo un asciugamano!”
“Già, ma tu non hai passato tutto il tempo a pregare tra te e te che cadesse, no?”
In realtà sì, ma non feci in tempo a rispondere perché Greg riuscì a sfilarmi giacca e camicia e a girarsi sbattendomi sul letto. Risi rimbalzando un po’.
“Che delicatezza!” lo presi in giro mentre armeggiavo con la sua giacca fingendo di non sentire che mi stava sfilando i pantaloni.
Greg non rispose con una battuta, come mi aspettavo, ma si sollevò un po’ per gettare giacca e camicia per terra e intanto mi guardò con serietà.
“Faccio l’idiota, Mat, ma sai che non ti farei mai male.” aggrottò la fronte, pensando a qualcosa, e poi si corresse, “Non intenzionalmente, almeno.”
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo.
“Greg, non l’hai fatto apposta” gli ricordai, poi sorrisi “e comunque hai pagato il tuo debito in astinenza, no?”
Greg scoppiò a ridere.
“A caro prezzo!”
Risi anche io mentre gli stringevo i capelli tra le dita come sempre avevo sognato di fare e allargavo le gambe per permettergli di sdraiarsi su di me e baciarmi e farmi l’amore.




Lo so, lo so, vi prego, trattenete la rabbia, non volevo saltare una settimana, ma questi ultimi dieci giorni sono stati...l'Inferno! Adesso non è che stia proprio in Paradiso, ma direi che ho iniziato la mia scalata al Purgatorio (dove non si purgano i peccati, ma la tendenza ad essi e che fu creato nel concilio del 1274 per...*bla, bla, bla, rendiamo orgoglioso il prof di Italiano, bla, bla, bla*), che è già un bel miglioramento ;)
Comunque ci siamo, ho sbagliato di poco le previsioni: il prossimo sarà l'ultimo capitolo.
Sto valutando un possibile capitolo extra dal punto di vista di Greg, ma non credo lo scriverò: quel biondino è troppo complicato per me -.-
Va bene, per una volta posso anche dirvi il titolo del prossimo capitolo, anche se ho appena finito questo e quello non esiste ancora: Epilogo.
Ci vediamo Mercoledì prossimo! ;)
Ciao ciao!
Agapanto Blu

P.S. Scusate ancora il ritardo!!!
  
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