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Autore: Anime fanatic    04/12/2013    0 recensioni
A chi di voi non è mai capitato di fare un incontro, destinato ad essere il più significativo? basta poco, come l'amore per le parole... essere vicini senza essersi mai toccati..
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Incontro. Riflettevo su questa parola. O meglio, sulla vita in generale e sugli incontri. Mettiamo il caso che non ci siano incontri, ovvero che altre persone non entrino nelle nostre vite. Cosa ne sarebbe del sapore dell’esistenza?
Per prima cosa, rimarremmo sempre gli stessi. Magari avremmo i nostri interessi, come la musica, libri, film ecc. Per un po’ di tempo, avremmo dell’ intrattenimento. Ma poi? Che si fa, senza qualcuno che ti apra un po’ gli orizzonti? .. Potremmo comunque avere qualcosa da fare con le persone che già conosciamo; potremmo imparare comunque cose nuove. Ma io, parlando di “incontri” intendevo proprio persone nuove, che si portano il loro bagaglio di cose, la loro vita, a cui ovviamente non si ha mai avuto accesso prima. Le persone che già conosci, per quanto interessanti, hanno poco da offrirti che possa considerarsi “novità”. Possono darti tanto, ma è sempre limitato. Rischi di non scoprire mai chi sei veramente, limitando le tue conoscenze, di non sapere fino a dove ti puoi spingere. Per conoscere te stesso, devi conoscere gente nuova.
 
Questa è la mia ultima massima. Mi sento un po’ un genio quando esco frasi-citazioni a questo modo. “Per conoscere te stesso, devi conoscere gente nuova”. Che frasona. Mi alzo dal letto e la scrivo sul mio stato di facebook. Ci metto le virgolette, e di sotto scrivo “Claus  Garfunkel”, regista tedesco. Aspetto la tempesta.
Spiego: che io sappia, non esiste nessun regista tedesco chiamato Claus Garfunkel; a dire la verità non so neanche se si scriva così “Claus”. Ma non importa. Raramente leggiamo i nomi, o riconosciamo qualcuno, piuttosto ci fidiamo sulla parola. “Vabbè c’è scritto li, sarà una frase sua per forza, chi se ne frega”. Di sicuro, quella citazione è del regista pluripremiato Garfunkel, celebre per l’opera “Drift inside banane”, film introspettivo ambientato nella Norvegia del XXIV secolo. E’ solo una citazione su uno stato di facebook, perché mai dovrei prendermi il disturbo di andare a vedere chi è Claus Garfunkel?
In effetti è così, nulla di pretestuoso. E badate, non è che il pubblicare frasi fatte su facebook architettando perfidi inganni alle spalle di artisti intellettuali inesistenti sia un mio gesto di protesta verso il sistema o gli utenti che invece si fanno portatori di verità assolute di altri, spesso senza capirne il senso, o celebrando frasi che invece sono solo particolarmente prive di concretezza, del genere “Io vivo per me stessa e per l’amore. Credo nella pace, ma se tocchi le persone che amo sei morto”.  In realtà mi piacciono molto le citazioni dei network: sono delle piccole perle, che trovi improvvisamente, che dicono qualcosa di te, che non sapevi di sapere, che sapevi e non sapevi (una cosa confusa!). Però, mi piace anche pensare e trovarle da me le mie perle, non lasciarle dimenticare per strada da nomi di morti. Per tenerle a mente, e soprattutto per comprovarne il successo “editoriale”, le metto su facebook, e in base ai pollici in su, comprendo quanto filosofo io sia. E’ un passatempo come un altro, non ci spreco più di tanto, ma ormai è diventata un abitudine. Mi ricollego: ben 37 mi piace. Mi va di lusso: se campassi di mi piace, oggi avrei vinto un premio Nobel. E non 37 mi piace qualunque: abbiamo Susanna Perri, compagna di classe al liceo, ora in giurisprudenza, come il padre e la madre, che ama i gatti e le torte che fa; Claudio Timbro, anche lui compagno, intellettuale in Lettere, filosofo poeta perduto nella sua foresta di canne; Simona Devoto, cantantessa conosciuta a una festa di matricole universitarie di cui l’hanno colpita i miei grandi occhioni marroni che le ricordavano il suo cane (ero un po’ brillo è non avevo capito fosse un complimento, se non dopo la sua richiesta d’amicizia e le sue innumerevoli foto col suo cagnolone Gigio); Pierferdinando Arena, un grande attivista per gli studenti, in medicina dal lontano 2001 e sempre in viaggio per Amsterdam per amore di Van Gogh  (ma Van Gogh almeno era di Amsterdam??). Insomma, gente seria ha accolto tra i suoi pensieri la mia citazione, qualcuno l’ha pure ricamata di complimenti: “ verissimo”, “una verità”. Ma quello che merita tutta la mia stima, per avermi strappato un sorriso smisurato è Carlo Prischi, che scrive “Garfunkel è un grande”. Che cavolo significa? Magari l’ha scambiato per il compare di Simon, ma comunque non è certo una citazione sua, non esiste! In realtà, il riso esagerato è provocato dal fatto che conosco fin troppo bene Carlo. Ha la mia età, nulla facente, attivista solo nei giorni pari, un beota buono come il pane, che non appena apre bocca fa cadere braccia, testa, naso e se possibile anche piedi. Il tipo che, mentre consoliamo il ragazzo tradito dalla sua ex, spera di consolarlo dicendo “comunque era una bella ragazza, generosa, io me la sarei fatta”. Un tizio d’oro, raro  per la sua genuinità. Non capisco come non abbia successo con le donne. O che abbia avuto successo con una donna.
Conoscendolo, so per certo che quando scrive “Garfunkel è un grande”, lo penso sul serio.
Tornando alla citazione, sorrido rileggendo e abbandono la postazione alla scrivania per ributtarmi sul letto. Se il mio pubblico letterario fosse composto dai miei amici di facebook, potrei essere considerato un intellettuale. Se non avessi un account, sarei un cretino che scrive frasi fatte in un quadernetto. Questione di “darsi un tono”, nella vita.
 
Bazzicavo parecchio nei bagni del liceo, tipo un paio d’anni fa. La vera popolazione, la vera vita era li. Io ci stavo soprattutto per non annoiarmi con l’ego mastodontico dei professori, e trovare rifugio. Ma li, in un paesino di provincia,  il bagno era la cosa più simile a un ritrovo giovanile, una discoteca, o un ostello per studenti; le ragazze si piastravano i capelli e fumavano le prime sigarette, i maschi intenti a parlare di calcio e qualcos’altro, non ricordo. Non mi sono mai mischiato, ma si respirava un’aria di complicità (oltre al fumo che non mi attizzava provare), di odio contro i grandi, di scoperta per canne  e sesso, di certo più interessante delle lezioni. Ora, so che se avessi impiegato meglio il mio tempo al liceo, non sarei a spasso, a evitare l’università manco fosse lebbra, campando di piccoli spiccioli ricavati da lavori part-time, e grandi spiccioli dai miei. Ma all’epoca era sereno, e stavo attento a tenermi distaccato dalle cose.
Distaccato. Non mi sono mai messo in mezzo a qualcosa, non mi sono mai messo in gioco. E non mi sono mai messo neanche al sicuro: non so, sarebbe stato geniale iscrivermi all’università, scienze politiche (che per me vuol dire “supercalifragili”), e impiegare il mio tempo in qualcosa di utile, far credere ai miei che avessi interessi o ambizioni. Invece ho scelto di non frequentare niente, di non cominciare niente.
Sono sempre stato dalla parte del nulla, per il vuoto. Uno psicologo da quattro soldi direbbe che sono in cerca della mia identità, una credibile possibilmente;  cosa dimostrabile dalla mia propensione nel pubblicare frasi sotto falso nome, in cerca dell’approvazione di gente con un minimo di bagaglio culturale.
In effetti, di natura sono distaccato, uno che non racconta volentieri o comunque spontaneamente fatti di se, pensieri o anche solo citazioni. Rivelarmi. Mi è capitato solo una volta di sentire il bisogno di parlare, nel vero senso della parola. In fondo, proviamo a contare quante volte parliamo, anche in solo giorno, di cose di cui non ci importa granché, che comunichiamo senza anima, spirito. Solo per non ascoltare il silenzio, o non sentirci soli.
Ho preso prestissimo coscienza di questo fatto. Avevo sette anni forse, e da solo nella mia camera, mentre giocavo con i lego, ho sentito il silenzio, e ho avvertito un gelo tremendo, che mi fece piangere per le successive sei ore, nel tentativo di non sentirlo più. Che strano dire “sentire il silenzio”. Eppure è la frase più esaustiva, più vicina al significato che intendo io: dire semplicemente “non sentivo niente” non crea lo stesso terrore del considerare il silenzio come una presenza muta, che ti sta alle spalle, parla una lingua incomprensibile alle tue orecchie umane, poiché il silenzio è una forza soprannaturale, non di questo mondo. Forse quando le persone parlano senza sentirne la necessità, quando comunicano senza anima, in realtà hanno paura di ascoltare il silenzio, mentre gli entra nella testa, e cova li il seme della solitudine.
Ma dopo i sette anni e il pianto disperato, non ho avuto più paura del silenzio. Irrazionalmente continuavo a considerarlo una presenza, fino a quando non è diventato parte di me. Nel silenzio, ho trovato la mia dimensione. Potrei dire senza esagerare, che nella mia vita non ho mai sprecato una parola.
E ai tempi del liceo, nei periodi di odio verso il mondo (a 16 anni ne avevo parecchi),  quando vedevo le pareti del bagno ricoperti di scritte inutili, mi veniva una gran nausea. Per entrarci c’era una stanza comune, con lavandini e specchi, poi due porte che davano ad altre due stanze, coi gabinetti, separati per sesso ovviamente. Ma la stanza a cui si doveva accedere obbligatoriamente per andare al gabinetto, era orrendamente ricoperta di parole, di frasi stupide, filastrocche idiote, giochi di parole con doppi sensi, che potevano solo disgustare. Non tanto per il senso, ma solo perché inevitabilmente occupavano la mente di pensieri stupidi e superflui, attaccando la muraglia del silenzio che mi costruivo. Nel bagno, dove le pareti mi schiaffeggiavano con lettere colorate e deformate, mi sentivo stranamente indifeso.
Quello che ho appena spiegato potrebbe sembrare in contraddizione con quanto detto prima: caso strano, i discorsi dei miei compagni mi aiutavano a rafforzare la dimensione silenziosa molto più di quanto potessero fare le parole semplicemente scritte sui muri. In mezzo agli altri, non ho mai avuto difficoltà a trovare il silenzio.
 
Dai discorsi fatti, vi sarà chiaro che io sono uno che ci tiene parecchio alle parole, ancor più se usate ad arte. Sarà per questo che gli incontri più importanti della mia vita sono, avvenuti con le parole, quelle vere..
 
Era un giorno di assemblea al liceo. Il che si traduceva in uno spostamento di massa dai bagni alle aule. Si svolgevano le stesse attività, cambiava solo il luogo d’azione. In quei giorni d’assemblea, sinonimo di casinismo autorizzato, il bagno tornava alle sue funzioni primarie, perdendo l’aria di complicità e serenità a cui alludevo prima. Ma con Carlo ne approfittammo, perché doveva darmi una splendida notizia, e non voleva farla sapere agli altri. “Ho una ragazza!! Ci credi? Io ancora no!!”. Per me non era così strano, poiché di certo non era un ragazzo dall’aspetto così orrido da non poter sperare nell’amore di qualche ragazza. Era la sua testa che lasciava a desiderare, ma con la giusta anima gemella probabilmente non si sarebbe notato. Ero sinceramente felice per lui, gli chiesi di raccontarmi come era nato quest’amore. Lui mi rispose, che si erano conosciuti una sera, lei “ci stava” e l’hanno fatto. Poi rimase in silenzio, aspettando qualche mia approvazione. “…Nient’altro?? Tutto qui?”
“E che altro vuoi?? Non ti basta??”
“Ma quando è successo?”
“Venerdì sera..”
“E da quando non la senti?”
“Da venerdì sera..”
“…Ma sai almeno come si chiama?”
“Stefania credo..”
“Credi?? Senti… ho paura che non sia la tua ragazza!”
“Ma si ti dico!!! Lo abbiamo fatto, poi per forza si è innamorati”, sembrava di parlare a un bimbo capriccioso; sorridendo:
“Carlo, non basta quello.. cercala e vedi cosa ti dice, se almeno ti ricambia!”
“Ma veramente, io lascerei così… sono troppo impegnato, non mi va proprio di avere un ragazza ora… Magari la cerco e la lascio..!”
Dentro di me morivo dalle risate, ma concentrai le energie e mi sforzai di fare un discorso serio, portandolo fuori dal bagno e tornando dagli altri. E invece no.
“Senti, tu vai avanti, io un attimo uso il bagno”. Carlo uscì, e io rimasi li, chiudendo gli occhi e godendomi un po’ il silenzio.
 
Avevo un’ improvviso desiderio di sentire il mio silenzio, non saprei spiegarlo meglio. Ogni tanto mi capita, e se non lo faccio, mi viene un gran mal di testa. Per un paio di minuti devo chiudere gli occhi e ascoltare il silenzio.
 
Quando riaprì gli occhi, si posarono sul lavandino, o meglio sul contenitore del sapone. Nasceva come contenitore per il sapone, ma dagli anni ’90 credo contenesse solo insetti  e forme evolute di germi. Era una piccola cassetta trasparente, attaccata alla parete, vicino al lavandino. Mi sembrò più scuro del solito. Mi avvicinai e staccai la parte inferiore. Non appena lo feci, cadde un foglio, ripiegato su se stesso. Lo aprì e lessi:
 
“..collana, sonaglio ebbro
Per le tue mani dolci come l’uva.
E le vedo ormai lontane le mie parole,
più che mie sono tue.
Come edera crescono attaccate al mio dolore antico..”
 
Il primo pensiero fu di nascondere il foglio nella mia tasca e mettere al suo posto il contenitore. Me ne scappai come fossi stato un ladro. Non parlai a nessuno della mia scoperta.
 
Arrivato a casa rilessi quelle parole. Le trovavo fantastiche. Che uso meraviglioso delle parole! Che fosse  opera di un poeta all’interno del liceo, che teneva al suo anonimato? O era un ammiratore che sperava di conquistare la sua bella alla maniera dei lirici di altri tempi? Comunque fosse, era un tesoro, che non volevo andasse perso. Solo, volevo scoprire l’origine di quelle parole. Cercai su google informazioni sulle prime frasi, e il risultato arrivò: Pablo Neruda. Nel mio liceo, c’era qualcuno che per diletto leggeva Pablo Neruda.
Personalmente, mai calcolato. L’unica volta che lo avevo sentito nominare era stata quando mio padre mi aveva costretto a vedere “Il Postino”, film intenso ma che trovai tristissimo; giurai di non rivederlo mai più. Ma del poeta, sapevo ben poco.
Trovai un sito dove c’erano diverse poesie sue, ma mi illuminai quando trovai le parole che mia avevano fatto sognare. La poesia in realtà era più lunga, ed era bella, per intero. Ma a quanto pare al nostro poeta dovevano piacer soprattutto quelle parole. Come non dargli ragione: più che mie le parole sono diventate tue, e si aggrappano al mio dolore come un edera.. il poeta deve soffrire così, pensai..
Non avevo idea di chi avesse scritto quelle parole, eppure non mi sentì mai così vicino al cuore di qualcuno come a quello del buongustaio di parole.
E dovevo farglielo sapere.
 
“Così si aggrappano alle pareti umide.
E’ tua la colpa di questo gioco cruento.”
 
Scrissi i versi successivi, nel tentativo di avvicinarmi a lui che aveva scritto per primo. Mi sentivo emozionato. Mi tremava la mano, sia quando ritagliai con precisione il foglietto, sia quando scrissi le parole, il più chiaramente possibile.
Ripiegai il foglio su se stesso,  e aspettai con ansia l’indomani.
 
Arrivai prima del solito, sperando che nel bagno non ci fosse nessuno. Fui fortunato, il silenzio fu mio complice nell’ azione. Aprì il contenitore del sapone e al suo interno posai il foglio scritto da me, mentre tenni nel portafoglio quello che avevo trovato. Quindi richiusi il contenitore e mi allontanai di pochi passi dal lavandino. Nessuno avrebbe mai scovato quel nascondiglio, il poeta che mi aveva preceduto aveva studiato bene il suo nascondiglio.
Il bagno aveva cambiato atmosfera. Le stupide parole sui muri avevano perso il loro effetto, come se con quel gesto mi fossi costruito una barriera. Il silenzio nella mia testa si era colorato di parole che solo un’altra persona nel liceo avrebbe compreso. E adesso aspettavo la sua risposta.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Vediamo se è il caso di continuare..
 
P.S. prima volta che scrivo un fan fict originale, e per giunta di getto. Se ci sono errori di qualsiasi tipo me ne scuso, appena avrò il tempo di rivederla da un computer  vero, modificherò.. ma intanto vediamo se piace la trama. Buona serata dalla giglietta
  
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