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Autore: EffieSamadhi    09/12/2013    5 recensioni
{Su YouTube è disponibile il trailer della storia: http://www.youtube.com/watch?v=diyTY0QZwSA}
Contrariamente a quanto pensa la gente, la vita di un rocker non è tutta 'sesso, droga & rock'n'roll': ci sono momenti in cui, come ogni persona normale, ci sentiamo stanchi e solitari e stufi del mondo, e se a volte ci capita di sembrare scostanti e scontrosi è solo perché vogliamo andare a casa, perché vogliamo infilarci sotto una doccia bollente o perché vogliamo spalmarci sul divano a guardare un programma trash in tv. [...] Mi chiamo Shannon Leto, ho quarantatré anni e mezzo e non vedo l'ora di andarmene a letto.
Tutti hanno bisogno di tempo per se stessi, e nessuno lo sa meglio di Shannon, che così preso dalla ricerca di un attimo di respiro si trova coinvolto in qualcosa che di privato e personale ha ben poco. Ma alla fine di tutto, Shannon si accorgerà che a volte la pace non si trova soltanto nella solitudine e nel buio, ma anche nella luce degli occhi di chi ci sta accanto.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Shannon Leto, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Direzioni ostinate e contrarie.'
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Portagioie di tristezza | 1 Piccola nota prima di procedere con il capitolo.
Vorrei ringraziare di cuore Love_in_London_night per le splendide e puntuali recensioni, e DadaOttantotto per il supporto morale (in poche parole, grazie per sopportare i miei deliri).
Grazie anche a tutte le persone che hanno aggiunto questa storia tra le preferite, le ricordate o le seguite. (E colgo l'occasione per ricordarvi che le recensioni non servono solo a dire all'autrice quanto è bella, brava e intelligente, ma anche per far presenti eventuali problemi, per proporre suggerimenti eccetera... quindi fatevi sentire anche se non avete cose belle da dire!)
EffieSamadhi






Portagioie di tristezza






Capitolo quinto
Perché io sono reale,
e tu sei reale.1


Torino, 04 novembre 2013


    Sono le due e ventiquattro minuti di lunedì quattro novembre, e io sono ferma davanti ai tabelloni degli arrivi e delle partenze della stazione di Torino Porta Nuova, indecisa se dirigermi al binario quattordici, sul quale tra un paio di minuti dovrebbe arrivare il Freccia Rossa da Milano Centrale, oppure fiondarmi sul binario diciotto e saltare sul regionale in partenza per Bardonecchia. L'idea di rivedere Shannon mi fa una paura del diavolo, soprattutto perché temo che appena sbarcherà dal treno sarà preso d'assalto da un gruppo di fan e gli sarà impossibile raggiungermi – insomma, le star come lui non sono vittima dei fan un passo sì e uno no?
    Raggiungo a passo malfermo la testa del binario, tenendomi un po' in disparte per evitare la fiumana di gente che scenderà dal treno appena le porte si apriranno, e sfrutto questi ultimi minuti di attesa per cercare di raggiungere la pace interiore e non sembrare così una ragazzina sull'orlo di una crisi isterica quando lui mi comparirà di fronte. Alla fine ho deciso di mantenere il segreto con tutti – tenerlo nascosto alla mia famiglia era scontato, ma ho deciso di non dire nulla nemmeno ad Alice, perché so che sarebbe stata capace di pedinarci per l'intero pomeriggio armata di fotocamera e taccuino per appunti. La chiamerò stasera per raccontarle tutto, sempre ammesso che per allora sia ancora in grado di formulare qualche frase di senso compiuto.
    Mi scosto, tenendo la testa bassa, lasciando che un numero infinito di pendolari mi passi davanti senza curarsi di me, e quando sto per rialzare lo sguardo sento una grande mano callosa posarsi sul mio fianco, e prima di poter dire qualunque cosa, un bacio sulla guancia si mangia ogni parola. «Buongiorno» sento sussurrare da una voce profonda, e finalmente alzo lo sguardo: un paio di sobri occhiali scuri, capelli sciolti, sorriso bianco e perfetto...
    «Ciao» pigolo, sicura che se non ci fosse la mano di Shannon a tenermi in piedi mi sarei già sciolta sul marciapiede. Sul serio, ci vorrebbe una patente speciale per portare in giro tanta figaggine – perché in fondo mia sorella ha ragione, è principalmente di questo che si parla. «Sei arrivato senza problemi, vedo.»
    «Sì, è stato molto più facile del previsto» risponde, allentando impercettibilmente la presa sul mio fianco. «In proporzione, ci ho messo di più a percorrere il tragitto tra l'albergo e la stazione che non la distanza tra Milano e Torino. Come stai?»
    «Beh, io... bene, credo. Sì, sto bene.» Sto iniziando a sudare come un cammello, e non riesco a capire se sia per la sua vicinanza o per le temperature al di sopra della media stagionale. «E tu come stai? Siete riusciti a riposare dopo il concerto?»
    «Sì, ieri ho passato mezza giornata dormendo. Non si può dire che non abbia recuperato le forze. Ah, tanto per la cronaca, alla fine Jared ti ha perdonato. Devi stargli simpatica, è già la seconda volta che ti perdona pur senza conoscerti» aggiunge con un sorriso. «Piuttosto, spero che tu riesca a perdonare me per aver sconvolto i tuoi progetti.»
    «Non ti preoccupare, posso sempre rimandare ad un'altra settimana. Le case da affittare sicuramente non scappano. Vogliamo andare?» aggiungo, spostandomi un po' per sottolineare il concetto. Non credo di poter restare ferma così vicina a lui per molto ancora.
    «Ma certo, andiamo» risponde, muovendo un paio di passi. «Aspetta solo un attimo» aggiunge, armeggiando con una tasca. Soltanto adesso mi rendo conto che reggeva, nella mano che non mi stava stringendo il fianco, una copia in lingua originale di Aspettando Godot, una delle mie opere preferite.
    «Leggi Samuel Beckett?» gli domando, forse sorprendendolo un po'.
    «Lo hai letto?» mi domanda, mostrando la copertina.
    «Alle superiori» rispondo. «Era uno dei miei libri preferiti. Adoro Beckett, lo trovo semplicemente geniale. In generale, mi piacevano tutti gli autori legati al teatro dell'assurdo.»
    «Anche a me è sempre piaciuto. Era un sacco di tempo che volevo rileggerlo, ma non trovavo mai l'occasione. Per fortuna lo porto sempre con me. Ieri sera l'ho trovato in valigia e ho pensato di prenderlo. Sai, per tenermi occupato durante il viaggio.»
    «Mi sembra appropriato, visto che entrambi fatichiamo a credere che quello che sta accadendo sia reale
    «Non l'avevo vista in questi termini, sinceramente, però in effetti hai ragione. È una lettura appropriata.» Abbassa gli occhi sulla copertina, che tiene con entrambe le mani, e dopo averla accarezzata con i pollici la infila in una tasca interna del giubbotto. «Non avrei dovuto prendere il giubbotto di Jared» commenta, ruotando le spalle come per sciogliersi i muscoli. «Ha un sacco di tasche e la cosa è utile, ma abbiamo smesso di avere la stessa taglia all'incirca quindici anni fa.»
    «Beh, per quel che può valere, io credo che ti stia bene» commento senza pensare. In effetti, forse il giubbotto è un po' stretto, ma il modo in cui la pelle color cuoio si tende sulle sue spalle è semplicemente... no, Daria, no. Recupera un po' di dignità. Non che sia semplice fare pensieri dignitosi, se stai passeggiando accanto ad un quarantenne che sembra un ragazzino, e che porta un paio di jeans che gli fanno un fondoschiena semplicemente... no, Daria, no. Hai una reputazione di brava ragazza da difendere. «Andiamo?»
    «Andiamo» risponde lui, ricominciando a camminare al mio fianco. «Dove hai in mente di portarmi?»
    «Beh, non ho avuto molto tempo per organizzare la cosa, quindi pensavo di farti fare un bel giro della città. Sarebbe stato bello farti vedere qualche monumento o qualche museo, ma per quasi tutti ci vuole un sacco di tempo per fare il biglietto, ed è già relativamente tardi, perciò...»
    «Non preoccuparti, va bene qualunque cosa. E poi sono sicuro che sarai una guida migliore di qualsiasi tour operator professionista.»
    «Non nutrire troppa fiducia in me, ho la sfortunata tendenza a deludere le persone» ribatto mentre attraversiamo la stazione.
    «Io non credo. Non credo che qualcuno possa rimanere deluso da te. Forse una persona stupida potrebbe sentirsi delusa per qualche motivo. Ma per tua fortuna, io ho la sfortunata tendenza a considerarmi l'opposto della stupidità. Quindi non credo mi deluderai.»
    Dovrei considerarlo un complimento, rispondere e ringraziare, ma tutto ciò che riesco a fare è sorridere e continuare a camminare. Lo guido fuori dalla stazione, oltre i portici e le impalcature dei cantieri, e mi fermo accanto a lui vicino ad uno dei semafori. «Questa è piazza Carlo Felice» gli spiego, facendo un cenno tutto intorno con la mano. «La piazza ha una forma vagamente ovale, e proprio di fronte a noi inizia via Roma, che è una delle vie principali della città. Alcuni dei negozi più in sono situati in questa strada.»
    «Via Roma...» ripete lui, soppesando le parole. «Sbaglio o l'ho già sentita in altre città?»
    «Beh, praticamente ogni città ha la sua via Roma, anche le cittadine più piccole. Ha a che fare con il proverbio 'Tutte le strade portano a Roma'. È una specie di tributo, se vogliamo metterla in questi termini.»
    «Un po' come Main Street negli Stati Uniti, quindi?»
    «Sì, immagino che si possa dire così.» Scatta il verde e ci lanciamo in avanti sulle strisce pedonali, mischiati ad un mucchio di gente a cui non importa assolutamente niente di noi. Francamente, mi sembra quasi strano che nessuno abbia ancora cercato di saltargli addosso, di aggredirlo per avere una foto o un autografo. Continuo ad aspettarmi il peggio.
    «Tutto a posto?» mi sento chiedere dopo un po'. Alzo la testa e mi accorgo di essere partita in quarta senza più considerarlo, come se mi stessi trascinando dietro una valigia, e non una persona in carne ed ossa.
    «Ma certo. Certo, è tutto a posto» cerco di rassicurarlo. Ma dev'essere un tentativo piuttosto patetico, perché lui si ferma davanti a me, bloccandomi il passaggio, e con gesto sicuro si sfila gli occhiali da sole, guardandomi dritta negli occhi come faceva mio padre quando ero bambina e dicevo una bugia troppo assurda per essere creduta. «Se vuoi la verità, no. È solo che mi sento un po'... mi sento un po' a disagio.»
    «Ho detto o fatto qualcosa di sbagliato?» mi domanda, in tono evidentemente preoccupato. Mentre penso a come spiegargli la mia situazione, mi viene da pensare che se è così allarmato, forse allora tiene davvero molto a questo pomeriggio con me.
    Scuoto la testa, sperando di liberarmi di un'idea così assurdamente romantica. «Non hai fatto niente di sbagliato» lo rassicuro, senza trovare la forza di guardarlo negli occhi. «Tu sei praticamente perfetto, e il problema è solo mio.» Mi gratto brevemente la fronte, cercando le parole giuste. «Pensa pure che sono una stupida, ma sono a disagio perché ho paura che dietro ogni angolo ci sia appostato un manipolo di fanatici pronti a riconoscerti e saltarti addosso, e io non so come dovrei comportarmi in un simile frangente. Insomma, tu probabilmente ci sei abituato, ma io non saprei... io non saprei proprio che pesci prendere. Scusa, è una cosa stupida, ma... insomma, è quello che sto pensando.»
    A questo punto mi aspetterei una risata, una battuta, una cosa del genere 'Andrà tutto bene, ma di che cosa ti preoccupi', e invece Shannon mi stupisce di nuovo. Lo vedo abbassare lo sguardo e mordicchiarsi il labbro inferiore, come se stesse cercando le parole giuste per esprimersi. «Se può consolarti» dice poi, rialzando la testa, «anch'io ho paura che dietro ogni angolo ci sia appostato un manipolo di fanatici pronti a riconoscermi e saltarmi addosso. Li odierei, e probabilmente li tratterei malissimo. Non tanto per aver attentato alla mia privacy o roba del genere, ma perché... beh, sicuramente mi interromperebbero mentre sto passando un bel momento con te. E la cosa mi farebbe imbestialire, lo giuro.» Questa sua dichiarazione mi scalda il cuore e allo stesso tempo mi imbarazza, togliendomi il fiato – che cosa si risponde in questi casi? Perché non esiste una guida specifica per momenti come questo? Per fortuna, lui riprende fiato e aggiunge: «Sai qual è la soluzione? Non pensarci, e smettere di avere paura. Se continui a pensare a che cosa potrebbe aspettarti dietro il prossimo angolo, la paura potrebbe paralizzarti e impedirti di andare a scoprire che cosa c'è davvero
    «Quindi suppongo che dovremmo... ricominciare a camminare.»
    «Esattamente. Altrimenti stasera saremo ancora qui, e tutto quello che avrò visto della tua bellissima città sarà la stazione» replica rimettendosi gli occhiali. «Forza, guida, andiamo alla scoperta di Torino!» Si rimette in marcia con passo sicuro, e tutto quello che posso fare è alzare la testa e svoltare con lui dietro l'angolo.



    «Torino è abbastanza facile da vivere, come città» mi spiega mentre camminiamo sotto i larghi portici di via Roma. «È una città quadrata, se vogliamo definirla così: quasi tutte le strade si incrociano perpendicolarmente, quindi è abbastanza facile dare indicazioni e spostarsi da un luogo all'altro. Non è necessario avere un grande senso dell'orientamento, se ti perdi di solito basta chiedere a qualche passante. Milano è molto più complicata da questo punto di vista.»
    «Di solito ti sposti in macchina?» le chiedo quando ci fermiamo in prossimità di un altro semaforo.
    «No, assolutamente no. Guidare in città è un vero casino, anche con le strade perpendicolari. In generale, io preferisco spostarmi a piedi, tanto non devo mai andare in posti troppo lontani. E se per caso fa brutto tempo oppure devo uscire dai miei percorsi abituali, c'è sempre il trasporto pubblico. In genere funziona piuttosto bene.»
    «E così eviti anche di contribuire all'inquinamento. Bene, mi piace questo lato ecologista di te.»
    «La Terra non si salva da sola, dico bene? Comunque non faccio queste grandi cose, quindi non credere che io sia una paladina dell'ecologia. Evito di prendere l'auto quando non è necessario e faccio la raccolta differenziata, ma mi fermo qui.»
    «Beh, ma un sacco di gente non fa nemmeno quello, quindi sì, teoricamente quello che fai può essere considerato eroico. Jared sarebbe fiero di te.» Non lo dico soltanto per farle un complimento gratuito: Jared ammira davvero le persone che fanno qualcosa anche di minuscolo per riuscire a cambiare le cose, e i piccoli dettagli che Daria mi ha appena svelato a proposito delle sue abitudini sicuramente gliela renderebbero simpatica. «Comunque per adesso la visita mi piace» aggiungo guardandomi attorno. «Mi sembra una città pulita e vivibile, al contrario di altre. Ma non c'è poco traffico, per essere una città così grande? Insomma, hai detto che questa è una delle vie principali, quindi non dovremmo essere in centro?»
    «Sì, infatti siamo in centro. Qui c'è poco traffico perché è una zona a traffico limitato: ci sono delle limitazioni all'accesso di certi veicoli e degli orari da rispettare. Più avanti ci sono zone più trafficate, ma comunque resta una città piuttosto vivibile. Non credo la cambierei per nulla al mondo.»
    «In quale zona abiti? Non te l'ho chiesto.»
    «Beh, io abito... nella zona nord, diciamo. Bisogna attraversare la Dora, che è uno dei fiumi che attraversano Torino. Abito in un palazzo piuttosto vecchio, ma ci si sta bene. Se escludi le incursioni di mia nonna, che abita dall'altra parte del pianerottolo e viene a controllare se siamo vivi almeno tre o quattro volte al giorno.»
    Il sorriso che sfodera è semplicemente adorabile, e anche a me viene da ridere al pensiero di una signora anziana che tende agguati ai nipoti su per le scale. «La tua famiglia vive tutta unita, quindi» commento. Mi è sempre piaciuta l'idea di una famiglia che abita vicina e si può riunire per le occasioni importanti: compleanni, Natale...
    «In realtà, no» replica lei, spegnendo ogni mio entusiasmo. «Mia nonna ha sempre abitato lì, e quando i miei si sono sposati hanno deciso di comprare l'appartamento accanto per stare accanto a lei e mio nonno. Sai, se in futuro avessero avuto bisogno di aiuto o altro... e invece poi è andata a finire che sono stati loro ad aiutare mio padre a crescere me e i miei fratelli. Mio nonno è morto sette anni fa, e a quel punto la sorella di mio padre, che non è sposata, è tornata a vivere a casa per stare vicino a mia nonna. Poi c'è un altro zio, ma abita in un'altra zona della città.»
    «E i parenti di tua madre, invece?»
    Daria alza le spalle, scuotendo la testa. «Non ne so più nulla. Da quando lei se n'è andata non ho più visto né sentito nessuno, né i miei nonni né mio zio. I miei nonni potrebbero anche essere morti, per quanto ne so. Poco prima che i miei divorziassero mio zio si stava per trasferire in Francia per lavoro, quindi lui potrebbe essere ancora là.»
    Si sta sforzando di sembrare il più naturale possibile nel parlarne, ma nel suo sguardo riesco a leggere il dolore che questo tipo di conversazione ancora le causa, nonostante i molti anni trascorsi. «Mi dispiace» dico, sperando che il mio sussurro riesca a raggiungerla, nonostante il brusio che ci circonda.
    «E di che, scusa?»
    «Mi dispiace di aver tirato fuori questo discorso. Parlarne ti fa ancora soffrire, lo vedo. Non mi sarei dovuto permettere di... beh, scusa. Non sono mai stato un campione di tatto. A sentire mia madre, è sempre stato Jared quello sensibile.»
    «Lascia stare, non ti devi scusare. E poi ogni tanto mi fa bene parlarne... almeno credo.» Sorride e torna a guardare avanti, ma all'improvviso il suo sguardo si fa preoccupato. «Merda, questo però no...» la sento sussurrare, e anche se non capisco una parola di quello che ha detto non ho difficoltà a capire che è stata un'imprecazione bella e buona.
    «Che succede?»
    «Non fare domande» taglia corto. «Dobbiamo levarci dalla strada» aggiunge in fretta, prendendomi per mano e trascinandomi dentro il negozio più vicino.
    Mi sfilo gli occhiali da sole, e mi rendo conto che è un negozio di biancheria intima. «Daria, mi spieghi che cosa succede?»
    «Non pronunciare il mio nome» mi zittisce, nascondendosi dietro un espositore con fare circospetto, fingendosi intenta a scegliere un reggiseno. «Piuttosto tieni d'occhio la strada. Dovrebbe passare un ragazzo biondo, alto più o meno quanto te, con un cappotto nero e uno zainetto rosso. È con altri tre ragazzi, uno dei quali dovrebbe avere la testa rasata e un piercing al naso. Lo vedi?»
    «Oh, sì, lo vedo. Ti ha vista e sta entrando nel negozio» rispondo con aria di sufficienza.
    «Che cosa?»
    «Scherzo» la rassicuro con un sorriso. «Sono fermi davanti alla vetrina, stanno commentando le forme del manichino. In realtà è quello con il piercing al naso che sta facendo commenti, gli altri ridono e basta. Adesso credo se ne stiano andando: il biondo con lo zainetto rosso sta guardando l'orologio, credo siano in ritardo. Forse devono andare a prendere il treno» osservo, chiedendomi perché Daria abbia voluto a tutti i costi evitare questo misterioso ragazzo biondo con lo zainetto rosso.
    «Fammi un favore, affacciati e controlla che siano davvero andati via. Non li voglio incontrare» mi supplica, congiungendo le mani a mo' di preghiera.
    «Va bene, ma lo faccio solo perché sei tu» mi arrendo, avvicinandomi all'ingresso e cercando di guardare fuori senza sembrare troppo sospetto. Quando vedo la combriccola attraversare la strada e allontanarsi verso la direzione dalla quale Daria ed io siamo appena arrivati torno indietro per informarla. «Tranquilla, se ne sono andati. Possiamo uscire senza problemi.»
    «Aspetta, mi devo provare questo. Dovrebbe essere della taglia giusta, ma non mi va di rischiare.» Mi prende di nuovo per mano, accompagnandomi verso il fondo del negozio, dove si trovano i camerini. «Mi reggi questa, per favore?» mi domanda, porgendomi la borsa – la stessa che portava l'altra sera al concerto.
    «Guarda che se volevi fare shopping non avevi che da dirlo» la informo mentre si chiude la tenda alle spalle. «Non sono allergico alle spese.»
    «Ti giuro che non era nei miei programmi. Anzi, in realtà sto risparmiando per i regali di Natale e non dovrei scialare, ma non posso uscire senza aver comprato qualcosa.»
    «Non credo di capire.»
    «Diciamo che è una specie di regola morale» spiega. «Quando la gente entra nel negozio dove lavoro, curiosa in giro, mette tutto a soqquadro ed esce senza comprare niente, mi dà un fastidio incredibile. Quindi quando vado in giro non esco mai da un negozio senza comprare qualcosa, anche una stupidaggine. Mi sembra una scortesia disturbare per nulla.»
    «Non ci avevo mai pensato. In effetti, per chi ha un negozio può essere una vera seccatura. È davvero carino quello che fai, lo sai?» aggiungo, voltandomi verso la tenda. Pessimo errore, avrei dovuto continuare a guardare avanti a me: la tenda non è scorsa bene fino in fondo, e tra la stoffa e il muro si è formato un piccolo spiraglio che mi permette di sbirciare dentro e di vedere la sua schiena, bianca e praticamente perfetta. Mi soffermo a guardare le sue spalle, poi scendo lungo la spina dorsale e mi fermo ai fianchi, dove la linea dei jeans interrompe la visuale. Risalgo di nuovo, e mentre si aggiusta la spallina noto il tatuaggio all'altezza della scapola sinistra: sono i glyphics, gli stessi simboli che decorano il mio avambraccio destro, ma in una versione ridotta e meno colorata. Anche da questa distanza noto che le linee sono precise, il lavoro fatto piuttosto bene – e d'istinto divento curioso: avrà altri tatuaggi in giro per il corpo? Tuttavia non ho tempo per indulgere in queste fantasie, perché lei si mette di tre quarti per guardarsi meglio allo specchio, e la mia attenzione viene come risucchiata da tutt'altra parte del suo corpo. Distolgo velocemente lo sguardo, imbarazzato e sentendomi in colpa per aver violato la sua privacy in modo così spudorato, e nello stesso momento mi tornano in mente le parole di Jared. Adesso gli potrei rispondere, e gli potrei dire che sì, Daria ha delle caratteristiche davvero interessanti. «Tutto bene, lì dentro?» le domando, schiarendomi appena la voce.
    «Sì, adesso mi rivesto e arrivo. Scusa, mi ero quasi dimenticata che fossi lì. Non sono abituata a fare spese con qualcuno che non sia Alice, e di solito sono io quella che aspetta.»
    Cinque minuti più tardi, dopo aver controllato di nuovo che la strada fosse sgombra, usciamo dal negozio, riprendendo il cammino con un minimo di imbarazzo. «Allora...» inizio, sperando di riuscire a parlare senza essere ossessionato da quanto ho visto poco fa, «chi era il biondino con lo zainetto rosso?»
    «Oh, lui... beh, è il mio ex ragazzo» risponde senza pensarci troppo su. «Se posso evitare di incontrarlo sono contenta. Non avremmo molto da dirci.»
    «Immagino che non sia finita molto bene, se ne parli così.»
    «No, non è finita bene. Anche se... beh, sono passati quasi due anni, Alice dice sempre che dovrei lasciar perdere e andare avanti. Lei detesta chi rimane troppo ancorato al passato. Il problema è che io sono una di quelle persone che proprio non riescono a lasciarsi tutto alle spalle.»
    «Due anni fa... avevi ventun anni, giusto?»
    «Sì, esatto. Perché me lo chiedi?»
    «Niente, è solo che... forse Alice ha ragione. Insomma, le delusioni che hai a ventun anni dovresti... lasciarle perdere. A ventun anni hai tutta la vita davanti a te, dovresti smettere di pensare a quello che è stato e guardare avanti. O almeno guardare al presente. Ci sono un sacco di cose belle che potrebbero accaderti, ma se continui ad aggrapparti a quello che è stato, o ai brutti ricordi che hai... beh, non ti fiderai mai abbastanza del mondo da lasciarti convincere a salirci per farti un giro.»
    Daria mi guarda con un'espressione a metà tra il dubbioso e l'incredulo. «Non è che nei fine settimana fai l'analista? Perché il mio psicologo dice praticamente le stesse cose, solo... in modo meno... poetico
    «Vedi uno psicologo?»
    «A volte. Non è un appuntamento fisso, ci vado quando ho bisogno di parlare con qualcuno che non faccia parte della mia vita quotidiana. Di solito però mi sfogo con Alice. Lei sì che sa farmi vedere le cose nella giusta prospettiva. Quasi sempre, almeno.»
    «Parlare con qualcuno fa sempre bene, dicono.»
    «Dicono così. Ma io credo che funzioni solo se parli con qualcuno che riesce a capirti, altrimenti è tutto inutile.»
    «Sì, è possibile. Allora, che mi dici di mister Zainetto Rosso? Qual è la sua vera identità?»
    «Si chiama Andrea, ha la mia stessa età. Ci siamo conosciuti alle superiori, facevamo parte della stessa cerchia di amici. Poi ci siamo diplomati, e siccome io non sono andata all'università ci siamo un po' persi. Poi ci siamo rincontrati ad una cena per ex compagni di classe, e abbiamo ricominciato a sentirci. Ci siamo messi insieme dopo un po', ma non è durata. Le sue priorità erano divertirsi e uscire con gli amici, mentre tra lavoro e casa io non ho molto margine d'errore, perciò... in realtà sarebbe finita in modo civile, se non ci si fossero messi di mezzo i suoi amici. Ci saremmo risparmiati grandi litigate, se non fosse stato per i loro interventi del cavolo.»
    «Forse non era abbastanza maturo per una relazione, o forse non aveva una personalità abbastanza forte. A volte un ragazzo può essere facilmente influenzabile dagli amici.»
    «Sì, può essere» risponde lei, svoltando un angolo sulla sinistra. «Comunque non ho perso nulla di fondamentale. Insomma, non era l'uomo che avrei sposato. Il sesso con lui era tutt'altro che stellare» aggiunge ammiccando. «Non è quello che hai detto sabato sera?»
    «Ricordi tutto quello che ho detto sabato sera?»
    «Forse tutto no, ma le cose importanti sì» risponde. «Comunque siamo arrivati in piazza San Carlo, anche nota come 'quella con il cavallo'» aggiunge mentre ci addentriamo in una piazza enorme, caratterizzata dalla totale assenza di traffico, dall'enorme statua equestre che vi troneggia al centro e dalle due chiese che sembrano messe lì apposta per chiudere il lato sud. «Alle nostre spalle abbiamo le due 'chiese gemelle', come vengono chiamate di solito: ad ovest quella di San Carlo, ad est quella di Santa Cristina» mi spiega, fermandosi per voltarsi a spiegarmi ogni cosa. «La piazza è completamente pedonale da quando ci sono state le Olimpiadi invernali nel 2006. Gli unici veicoli ai quali è consentito l'accesso sono quelli delle forze dell'ordine e quelli dei fornitori dei vari esercizi commerciali.»
    «Mi sembra una bella cosa. È raro trovare una simile oasi di tranquillità nel centro di una città così grande» osservo. «La statua invece che cosa rappresenta?»
    «Se ricordo bene, la statua fu posta lì verso la metà del 1800 in onore di Emanuele Filiberto, uno dei principi di Savoia. Nel dialetto piemontese la statua viene chiamata Caval ëd Brons, cioè Cavallo di bronzo. Questo perché è fatta di bronzo, ovviamente.»
    «Cavallo di bronzo... mi piace, è una bella statua» commento mentre ci avviciniamo e ci fermiamo ad ammirarla. «Sai, negli Stati Uniti circola una voce sulle statue equestri. Si dice che se il cavallo poggia tutte le zampe a terra, allora il cavaliere è morto per cause naturali; se invece il cavallo poggia a terra soltanto le zampe posteriori, il cavaliere è morto in battaglia» spiego, sentendomi fiero per quel poco di cultura che sono appena riuscito a sfoggiare.
    «E se invece il cavallo poggia su una sola delle zampe anteriori, come in questo caso?»
    «In questo caso, mi sembra di ricordare che il cavaliere sia morto per le ferite riportate in battaglia. Può essere?»
    «In realtà, sono quasi sicura che Emanuele Filiberto sia morto di cirrosi epatica. Si dice che gli piacesse molto alzare il gomito.»
    «Ah, allora la mia teoria non funziona.»
    «Forse funziona per le vostre statue, ma non per le nostre.»
    «Potrebbe darsi. Comunque mi piace, è una bella statua. Aspetta, voglio farle una foto» aggiungo, sfilandomi di tasca l'iPhone. «Fatto» sussurro dopo un paio di scatti. In quel preciso momento transitano alle nostre spalle quattro o cinque turisti giapponesi completi di guide turistiche e macchine fotografiche, e un'idea che Jared definirebbe sicuramente folle mi balena in testa. «Scusate, potrei chiedervi un favore?» domando al primo che mi capita a tiro, che si volta con un sorriso. «Potrebbe farci una foto davanti alla statua?»
    Daria, concentrata sui bassorilievi che ornano la base della scultura, sembra accorgersi solo in quel momento dei giapponesi. «Shannon, che cosa stai...?»
    «Vieni qui» la interrompo, passandole un braccio attorno alla vita, mentre con l'altra mano mi sfilo gli occhiali da sole. «Già che ci sono, voglio una tua foto da mostrare a mio fratello.»
    «Ma io non...» cerca di protestare lei, arrendendosi di fronte alla determinazione del giapponese, già pronto a scattare. Si arrende, si volta verso l'obiettivo e sorride, e di fronte al suo sorriso aperto e naturale, non sono capace di distogliere lo sguardo. Sono rimasto letteralmente folgorato. È solo quando sento dire al ragazzo «Aspettate, per sicurezza ne faccio un'altra» che riesco a staccarmi da lei, voltarmi verso di lui e sorridere all'obiettivo.
    Ringraziamo il gruppetto, che si allontana sorridendo verso la prossima meta, e rimasti soli ci godiamo in pace lo scatto: «Oh, sono rimasta malissimo» sbuffa lei, coprendosi con una mano gli occhi. «Ormai dovrei aver capito che è mia sorella quella fotogenica, e non io.»
    «Ma se sei rimasta benissimo!» ribatto, cercando di convincerla che sia rimasta bene. «Piuttosto guarda me, sembro un deficiente!»
    «Mettila via, prima che ci mettiamo a litigare su chi è meno fotogenico dei due, ti prego» risponde con un altro sorriso, mettendomi una mano sul braccio come per invitarmi a riporre l'iPhone. Anche attraverso il giubbotto riesco a sentire il calore delle sue dita sulla mia pelle, e tutto quello che vorrei è poterla trattenere per sempre contro di me, sempre addosso a me, senza mai lasciarla andare.
    «Sì, guida, la metto via» obbedisco. «Dove mi porti, adesso?»
    «Adesso proseguiremo lungo via Roma» mi spiega, guidandomi di nuovo verso i portici, ma questa volta sul lato opposto rispetto a quello percorso fino ad ora. «Alla fine di via Roma c'è piazza Castello, che insieme a questa è una delle più celebri di Torino. È anche la seconda per estensione dopo piazza Vittorio Veneto, che ti farò vedere dopo.»
    Ci fermiamo ad un altro semaforo rosso, e ne approfitto per guardarmi attorno. «Dev'essere bello vivere in una città così... permeata di storia. Insomma, qui non puoi fare un passo senza inciampare in qualcosa che ha almeno un paio di secoli di vita!»
    «Sì, devo ammettere che è affascinante vivere in un luogo così pieno di cultura... anche se purtroppo la maggior parte della gente non ci fa caso. Sono tutti troppo impegnati con le loro vite per godere di tutte le cose belle che la città ci offre. Ah, subito dopo quell'angolo si raggiunge il museo Egizio» aggiunge, indicando con la mano un punto alla nostra destra. «Il museo Egizio di Torino è considerato il più importante del mondo dopo quello del Cairo, e quindi il primo in Italia e in Europa.»
    «Dev'essere bello davvero. Tu ci sei stata?»
    «Naturalmente. È una gita obbligata per ogni studente del Piemonte. Recentemente è stato ristrutturato e ingrandito, varrebbe davvero la pena vederlo. Uno di questi giorni dovrei rifare la visita, sono curiosa» aggiunge, quasi sovrappensiero.
    «Potremmo organizzarci con un po' di anticipo e potrei venire con te. Le mummie mi hanno sempre affascinato. Oh, vieni, è verde» aggiungo in fretta, approfittando dell'occasione per prenderle la mano. Tuttavia, quando arriviamo dall'altra parte della strada sono costretto a lasciarla per far passare un uomo in giacca e cravatta che evidentemente va di fretta. «Mi fa uno strano effetto passeggiare in una città così. Insomma, come mi ha fatto effetto passeggiare per Milano, o Firenze, o Parigi... a pensarci bene, ti costringe a cambiare prospettiva.»
    «Che cosa intendi?»
    «Spero di riuscire a spiegarmi bene, è un pensiero un po' contorto...» sorrido. «In generale, siamo tutti abituati a pensare a noi stessi come se le cose che ci stanno intorno facessero parte della nostra vita e della nostra storia, ma la verità è che in questo caso siamo noi a far parte della storia di questo posto, di questa città. Insomma, in questo punto prima di noi hanno passeggiato dei principi, dei re, e anche persone comuni come noi, e sicuramente in futuro accadrà che siano altre persone a passeggiare qui, dunque non è questa strada a far parte di noi, ma... siamo noi a far parte di lei. Non so se sono riuscito a spiegarmi» aggiungo, distogliendo lo sguardo. Sono preoccupato, non vorrei che mi avesse scambiato per uno che va in giro a farneticare.
    «No, io ho... ho capito, o almeno credo. Sei stato piuttosto chiaro. In effetti, qualche volta mi ci sono ritrovata a pensare anch'io. Insomma, rendersi conto che su queste strade una volta ci passavano carrozze trainate da cavalli... è vero, ti fa cambiare prospettiva.» A questo punto distoglie lo sguardo e ridacchia, coprendosi la bocca con una mano.
    «Beh, perché ridi? Hai detto che è una cosa intelligente.»
    «Non sto ridendo per quello che hai detto, è solo che... quello che hai detto fa davvero cambiare prospettiva, ma non solo nei confronti della città. È che hai definito me e te persone comuni, ma non è che tu possa proprio essere definito un uomo comune. E poi è strano sentir fare questi discorsi da... uno come te, appunto. A uno viene sempre da pensare che siate persone fredde, che si interessano soltanto di loro stesse e del quadrato di mondo su cui poggiano i piedi, e... scusa, non sto dipingendo un bel quadro di te» conclude, ricomponendosi.
    «Il fatto che trascorra la vita agitandomi su un palcoscenico non significa che io non sia una persona normale» le faccio notare mentre continuiamo a camminare. «Sono solo normale in un modo diverso. Sempre poi che si possa costruire una definizione di normale
    «Sento che questo è un altro punto sul quale potremmo discutere per giorni senza trovare un accordo.»
    «Come il discorso sull'importanza del sesso in una relazione?»
    «Esattamente.»
    «Va bene, allora lasciamo cadere la questione. Non voglio litigare con te.» Vorrei solo baciarti, vorrei dirle. Vorrei baciarti fino a non avere più fiato in corpo, fino ad avere le labbra screpolate, e vorrei stringerti tra le mie braccia fino a farti diventare una parte di me, perché adesso che ti conosco non so come potrò fare a meno di te.
    «Bene, allora continuiamo.» Davanti a noi si apre una piazza enorme, ancora più grande di quella da cui proveniamo, ma invece di guidarmi in avanti Daria mi fa svoltare verso sinistra, verso un semaforo che diventa verde proprio mentre ci avviciniamo. «Questa è piazza Castello, quella di cui ti parlavo prima. Adesso stiamo attraversando via Roma, che è quella da cui siamo arrivati, e più avanti, sempre sulla nostra sinistra, c'è via Garibaldi, che è una delle quattro principali arterie che si sviluppano a partire da questa piazza. Le altre sono via Micca, che è laggiù in fondo» spiega, indicando il punto verso cui si sta allontanando un tram, «e via Po, che è quella che percorreremo dopo. Su questa piazza si affacciano alcuni degli edifici più importanti della città: abbiamo il palazzo Reale, che è quello delimitato dai cancelli, e palazzo Madama, dall'altra parte. Il palazzo Reale fu costruito appunto come residenza per la famiglia reale, e dicono che tra tutte le residenze reali dei Savoia fosse il più sfarzoso. Il vero fiore all'occhiello però sono i Giardini Reali, che si trovano dall'altro lato: non li ho mai visti, ma devono essere uno spettacolo davvero grandioso.»
    «Ho sempre voluto essere un reale, e adesso capisco il perché. E palazzo Madama, invece?»
    «Anche quello era una residenza, poi gli fu preferito il palazzo Reale. Ad oggi ospita più che altro musei e collezioni. Comunque sono entrambi entrati a far parte del patrimonio dell'UNESCO.»
    «Devono essere veramente magnifici, per essere entrati a far parte di quella lista. Ma toglimi una curiosità: hai studiato a memoria la guida?» la prendo in giro mentre passeggiamo per la piazza, diretti verso via Po.
    La vedo cacciarsi le mani in tasca, arrossire appena e abbassare lo sguardo: «No, è solo che la storia mi ha sempre affascinato... e poi, come ho detto prima, ci sono già troppe persone che non si occupano di queste cose. Interessarmene mi sembra quasi un dovere.»
    «Avresti dovuto studiare Beni Culturali, o qualcosa del genere... non esiste una facoltà apposita per queste cose?»
    «Beh, sì, era una delle ipotesi. Mi sarebbe piaciuto studiare Beni Culturali o Lingue, ma l'università è sempre stata fuori discussione per me.»
    «Perché dici così?»
    «Beh, non ero... la verità è che non me la potevo permettere. Non sono mai stata abbastanza brava da poter aspirare ad una borsa di studio, e non mi andava l'idea che mio padre dovesse mantenermi per tutta la durata del corso di studi. Lui le ha tentate tutte per convincermi, ma non ho accettato. Non lo so, non... non me la sono sentita. Sarebbe stato un sacrificio troppo grande.» Mi fermo per guardarla attentamente; dopo qualche passo, accortasi di essere rimasta sola, si volta e mi guarda: «Che c'è, ho detto qualcosa che non va?»
    «No, è solo che... scommetto che tuo padre è fiero di avere una figlia come te. Qualsiasi altro ragazzo della tua età avrebbe preso i soldi e se ne sarebbe fregato, e invece tu... beh, confesso che non mi sarei aspettato di meno, da te. Dai l'impressione di essere una che non scende a compromessi.»
    «Non mi piace fare patti, in effetti. Soltanto in occasioni speciali.»
    «Come quando hai accettato di far saltare i tuoi programmi per portarmi in giro a fare il turista?»
    «Quello non è stato un compromesso, è stata una decisione a lungo ragionata.»
    Riprendo a camminare, raggiungendola. «Compromesso» le sussurro, sporgendomi appena verso di lei mentre le passo accanto.



    Il primo senso ad essere colpito è l'olfatto, che registra immediatamente l'intenso aroma di caffè del suo respiro; poi è la volta dell'udito, che a fatica riesce a comporre le lettere di quel "Compromesso" appena sussurrato; e poi c'è la vista, che a malapena lo vede passare, concentrata com'era su qualunque cosa che non fosse lui. Gusto e tatto ne sono rimasti fuori, e viste le premesse forse è meglio che sia andata così. Appena realizzo che Shannon ha ricominciato a camminare parto al suo inseguimento, accelerando il passo per riportarmi al suo livello. Il fatto che mi abbia smascherata così in fretta dovrebbe darmi fastidio, perché di solito in una guerra verbale riesco sempre ad avere la meglio – a meno di non trovarmi a combattere con Alice o con mia sorella –, ma con un po' di sforzo mi convinco che se è stato lui a vincere questo round è soltanto perché stiamo parlando nella sua lingua, e quindi parto con uno svantaggio non indifferente.
    «Sbaglio o questa via è obliqua?» mi sento chiedere mentre imbocchiamo via Po. «Insomma, rispetto alla piazza è... beh, storta
    «Hai ragione, via Po si sviluppa in obliquo rispetto alla piazza. La costruirono così per riuscire a collegare direttamente il centro della città con il ponte sul fiume, che vedremo dopo. La differenza tra il lato sinistro e il lato destro della via è che su questo lato gli attraversamenti pedonali sono coperti, il che è piuttosto utile se piove e hai dimenticato l'ombrello. Sempre sul lato sinistro, che è quello sul quale stiamo camminando noi, poco più avanti si trova la sede storia dell'Università di Torino, che oggi ospita più che altro uffici. Sempre su questo lato si trovano un buon numero di bancarelle per la compravendita di libri usati, e sempre proseguendo su questo lato si arriva alla nuova sede dell'università.»



    «Lato sinistro... quindi anche voi avete una rive gauche, come Parigi!» le faccio notare, fiero di aver trovato un paragone degno della sua cultura.
    «Beh... sì, direi di sì! Sai che non ci avevo mai pensato?»
    «Dovrò ricordarmi di raccontare di questo mio colpo di genio a Jared e Tomo, così magari la smetteranno di considerarmi una bestia illetterata. Non so perché, ma ho come l'impressione che la gente mi consideri sempre troppo preistorico per fare con me un discorso serio.»
    «Forse è la batteria. Insomma, dei tre sei tu quello che impiega la maggior forza fisica nel fare quello che fa. Il fatto che tu sia un uomo evidentemente fisico forse spinge la gente a credere che usi poco il cervello.»
    «Siamo in vena di complimenti, vedo!»
    «Aspetta, mi sono espressa male, non intendevo dire che non usi il cervello, volevo...»
    «Ehi, tranquilla, ho capito quello che intendevi dire» la interrompo, sfiorandole un braccio con due dita. «So che non intendevi dire che sono un bruto che sa farsi capire solo usando la forza.» Incontriamo le prime bancarelle, e nessuno dei due riesce a trattenersi dal dare un'occhiata. La osservo mentre curiosa in un mucchio di vecchie opere scritte in francese, e non riesco a trattenermi dal pensare che vorrei davvero essere un uomo capace di farsi capire solo con la forza, così potrei spingerla contro il muro più vicino e baciarla fino a farle mancare il respiro, come Jared mi ha chiesto di fare con quella modella ai tempi del video di Hurricane. Mi chiedo se Daria sia consapevole di quanto sia attraente la sua semplicità.



    Sono sempre stata un tipo molto sensibile, e di norma non mi piace sentirmi addosso gli sguardi della gente: cammino sempre il più vicina possibile ai lati dei marciapiedi, cercando di non dare fastidio e di non essere appariscente, sperando di non essere mai nulla più di un'immagine fugace agli occhi della gente. Per questo dovrei essere nervosa e non sopportare lo sguardo di Shannon, che, lo so, ogni due per tre è rivolto verso di me, come teso a catturare ogni dettaglio, ogni mio piccolo movimento, ogni particolare. Dovrei odiarlo, dovrei già essermi voltata per mandarlo a quel paese, ma la verità è che essere osservata da lui mi piace, mi piace come non mai. Credevo che sentirmi osservata da un uomo della sua levatura mi avrebbe infastidita, e invece mi sento bene: come sabato sera, mi sembra di essere in giro con mio fratello, o con un amico, o comunque con qualcuno che mi conosce bene e contro il quale non ho bisogno di costruire difese. Mentre continuo ad illustrargli monumenti e luoghi di interesse, non posso fare a meno di ripensare al momento in cui mi ha preso la mano, mentre attraversavamo la strada, e all'istante in cui, poco fa, le sue dita hanno sfiorato il mio braccio, come cercando di farmi capire che non avevo nulla da temere. La parte di me che somiglia ad un cucciolo spaurito fa capolino per un istante, e mi avverte che non sarei dovuta uscire con lui, perché quella che anni fa è nata come una semplice infatuazione fisica per un uomo evidentemente troppo attraente per essere ignorato sta cambiando, e rischia di trasformarsi in qualcosa di pericolosamente simile ad una cotta.
    In qualche modo siamo riusciti ad arrivare indenni al termine di via Po, abbiamo percorso piazza Vittorio Veneto e abbiamo attraversato il ponte sul fiume, arrivando nei pressi della chiesa della Gran Madre. «Questa chiesa è una delle più importanti della città» spiego mentre Shannon si appoggia di spalle al parapetto, osservando il tempio nella sua interezza. «La sua costruzione fu decisa in seguito alla sconfitta di Napoleone, nel 1814. Doveva essere un modo per festeggiare il ritorno del re dopo il periodo della dominazione straniera. La Gran Madre cui è intitolata naturalmente è Maria, la madre di Gesù.» Tra una cosa e l'altra si sono fatte le quattro, e non riesco a fare a meno di chiedermi a che ora avverrà la nostra separazione – perché, per quanto possa sognare, è improbabile che il tempo si fermi e ci cristallizzi per sempre in questo splendido pomeriggio.
    «Devono essere secoli che non entro in una chiesa» è il suo primo commento. «Sono stato cresciuto come cristiano, ma non mi sono mai sentito parte di una religione organizzata. Insomma, credo sia più una questione di cuore che di presenza, no?»
    «Capisco cosa vuoi dire» annuisco, arretrando fino ad appoggiarmi al parapetto, a poca distanza da lui. «La mia famiglia mi ha cresciuta come cattolica, sono andata in chiesa ogni domenica fino ai sedici anni, ho ricevuto tutti i sacramenti... però ho sempre pensato che per avere valore, una preghiera dovesse nascere da dentro. In realtà per un po' ho lasciato perdere, perché l'unica preghiera che rivolgevo a Dio rimaneva sempre senza risposta» ammetto, abbassando un po' il tono di voce.
    «Per che cosa pregavi, se posso saperlo?»
    «Pregavo perché mia madre tornasse a casa, perché la nostra famiglia si ricomponesse. Verso gli undici anni mi resi conto che probabilmente nemmeno Dio poteva farci molto, perciò decisi di arrendermi all'evidenza, e di accettare che mia madre non sarebbe mai tornata.»
    «Ti capisco. Anch'io da bambino desideravo avere un padre, o comunque una famiglia normale. Non dico di non essere stato felice, per carità: nessuno avrebbe potuto amarci più di mia madre. Però... non lo so, abbiamo vissuto in così tanti posti diversi che nemmeno li ricordo tutti. A volte vorrei poter circoscrivere tutti i miei ricordi ad un'unica città, un'unica casa... vorrei poter racchiudere la mia vita in un'unica scatola, se capisci che intendo.»
    Annuisco, comprendendo la portata di quella metafora. «Per racchiudere la mia, basterebbe un portagioie» commento a bassa voce, abbassando un po' lo sguardo. Poi mi scappa una risata, e sento che lui si volta verso di me.
    «Ho detto qualcosa di buffo?»
    «No, è che stavo ripensando a quello che ho appena detto, e mi è tornato in mente il soprannome che mi aveva dato mio fratello qualche anno fa» confesso. «C'è una canzone di Jeff Buckley che si intitola Jewel Box, e che inizia con il verso So che sei una donna dal modo in cui bruci dentro. Lui dice sempre che in superficie sembro calma e tranquilla, ma che non si sa mai che cosa si troverà sotto la superficie. Dice sempre che tengo tutto dentro, che faccio succedere tutto dentro di me, e che fuori cerco di mostrarmi sempre tranquilla per non spaventare le persone. Per questo mi chiama portagioie di tristezza. Perché secondo lui nascondo le cose peggiori dentro una scatola bella da vedere.»


    Per tutto il tempo di quest'ultima confessione non le ho staccato gli occhi di dosso, mentre lei teneva i suoi fissi sulle acque limacciose del Po, forse credendo che non mi importasse. «Portagioie di tristezza» sussurro quando la sento tacere. «Tuo fratello ha una bella inventiva. Dovrebbe pensare di fare il poeta, avrebbe talento da vendere.» Appena finito di parlare vorrei prendermi a calci in testa, perché non mi sembra il tipo di commento da fare ad una ragazza che ti sta aprendo il suo cuore in questo modo.
    «No, lui è un genio dell'informatica, si guadagnerà da vivere con i computer. Diventa poetico soltanto quando ascolta Jeff Buckley, ma purtroppo lo fa di rado. O per fortuna, mi viene da dire: mia sorella ed io siamo abbastanza romantiche per tutti» aggiunge con un sorriso, tornando finalmente a guardarmi negli occhi.
    È in questo momento che un raggio di sole curva verso di noi, illuminandoci in pieno e facendomi notare che nei suoi occhi azzurri si nasconde in realtà anche un po' di verde. È in questa luce che una strana consapevolezza si fa strada in me, facendomi balzare il cuore nel petto: Tomo ha ragione, mi sono pazzamente innamorato della ragazza in piedi di fronte a me. Smetto di pensare in maniera razionale, ignoro tutto quello che mi sta intorno e decido di agire: un braccio sale a circondarle le spalle, l'altra mano le sfiora le guancia, e in mezzo ai passanti che ci lambiscono con i loro cappotti e la loro fretta appoggio le mie labbra sulle sue, soffocando ogni dubbio e ogni protesta.



    Se novant'anni fa qualcuno fosse andato a dire alla mia bisnonna che un giorno l'uomo avrebbe camminato sulla Luna, oppure che un uomo di colore sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti d'America, probabilmente lei avrebbe mandato il malcapitato a farsi un giro, intimandogli di non andare in giro a dire stupidaggini. Analogamente, se una settimana fa qualcuno mi avesse detto che oggi pomeriggio Shannon Leto mi avrebbe abbracciata e baciata sul Lungo Po... beh, probabilmente gli avrei suggerito di dare un taglio ai funghetti allucinogeni e di dedicarsi a passatempi più costruttivi.
    Il guaio è che io sono più che certa di non essere strafatta, tanto più che non ho mai fatto uso di droghe; sono anche sicura di non essere ubriaca, e non ricordo di aver battuto la testa, di recente – perciò, una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta deve per forza essere la verità: sono sul Lungo Po, ai piedi della scalinata che conduce alla chiesa della Gran Madre, e chi mi stringe tra le braccia non è uno studentello impacciato, ma quello che è stato definito dalla critica 'uno dei batteristi più eclettici degli ultimi dieci anni'.
    Sento il suo braccio dietro il mio collo, la sua mano teneramente appoggiata alla mia guancia, e le sue labbra calde e umide che sfiorano le mie con cautela, quasi timidamente, come in attesa di essere respinte. Ma come potrei respingerle? Ho sognato una scena simile così a lungo da averne definito praticamente ogni dettaglio – come potrei impedire la realizzazione delle mie fantasie, ora? Trovo finalmente il coraggio di muovermi, di far risalire le mani nell'esiguo spazio che separa i nostri corpi, e di arrivare ad accarezzare le sue guance ruvide di barba, sperando di ricambiare tutte le sensazioni che lui sta trasmettendo a me.
    Mi sono appena abituata alla sensazione che il contatto tra le nostre labbra mi comunica, ed ecco che di nuovo cambia tutto: la sua bocca si dischiude lentamente, la sua lingua forza delicatamente le mie difese, e all'improvviso il suo sapore di caffè diventa mio, i nostri respiri si fondono, le sue braccia mi stringono più forte, come se temessero di vedermi scivolare via come pioggia. È tutto praticamente perfetto, proprio come in un film, tanto che inizio a chiedermi quando finirà – e soprattutto in quale traumatico modo la fine si farà sentire.



    Impiego qualche secondo a realizzare che il ronzio che sento proviene da un cellulare, ma ad interrompere definitivamente la magia del momento sono le prime note di una vecchia canzone dei Goo Goo Dolls, un pezzo che non sentivo forse da un decennio. Daria si stacca da me in fretta, con il viso arrossato e il respiro corto. «Scusa, è il mio» sussurra, frugandosi in fretta le tasche. «Pronto?» risponde, approfittandone per prendere le distanze da me. «Signora Lorenzoli, buon pomeriggio! Sì, ho parlato con suo marito, e... no, come ho già spiegato a lui, oggi avrei qualche problema per... no, si figuri, niente di grave, è solo che è arrivato in città un mio amico, e devo... ah, capisco. Sì, certo. Certo, capisco. Ma no, si immagini. Ma certo, certo. In realtà credo che potrei... beh, sì, sono in zona. Sì, in realtà sono proprio davanti alla Gran Madre, quindi tra quindici minuti potrei essere lì. Potrei passare subito, se lei è disponibile. Sì, certo. Oh, sarebbe... perfetto, grazie. Va bene, allora le suono quando sono lì. La ringrazio, signora Lorenzoli. Grazie, grazie mille. A tra poco.» La guardo chiudere la comunicazione e riporre il telefono, guardandomi con la consapevolezza che non ho capito una parola, tranne 'grazie' e 'signora'.
    «Va tutto bene?» le domando. «Sembri preoccupata.»
    «No, tutto bene, è solo che... era la proprietaria di un appartamento che avrei dovuto vedere oggi pomeriggio. Stamattina ho chiamato per spostare l'appuntamento, ma sembra che ci siano persone interessate a prenderlo in affitto, e lei ha voluto avvertirmi. Vuole darmi la possibilità di vederlo, così nel caso mi piacesse potrei... beh, farmi avanti.»
    «Mi sembra una bella cosa.»
    «Sì, solo che quelle persone hanno una certa urgenza di cercare casa, perciò se voglio vedere l'appartamento dovrei passare adesso, il prima possibile. Sarebbe ad un quarto d'ora di cammino da qui, e... ti dispiacerebbe se ci passassimo un attimo? Ci terrei molto a vederlo, dall'annuncio sembrava piuttosto carino. Magari non farà per me, ma ci terrei almeno a... sai, no?»
    «Non devi nemmeno chiedere. Ti accompagno volentieri» la rassicuro con un sorriso. «Da che parte dobbiamo andare?»
    «Dobbiamo tornare indietro, è vicino al museo Egizio. Vicino alla piazza con la statua equestre, ricordi?»
    «Sì, mi ricordo. Dove abbiamo chiesto ai giapponesi di farci la foto.»
    «Sì, esatto. Andiamo?» Si incammina a passo deciso, lasciandomi indietro come se nulla fosse successo.
    Accelero il passo, la raggiungo a metà del ponte ed esclamo: «Aspetta, Daria, vieni qui!» Senza nemmeno aspettare che si volti le prendo la mano, intrecciando le mie dita con le sue in una stretta quasi indissolubile. Non posso far finta che nulla sia successo.
    Non voglio far finta che nulla sia successo.



1Perché io sono reale, e tu sei reale. | Il titolo del capitolo è ispirato ad un verso della canzone 4 real di Avril Lavigne, contenuta nell'album Goodbye Lullaby (2011).

   
 
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