ATTENZIONE! (appunti
scritti solo nel primo capitolo)
1: Anche se potrà sembrare io NON voglio spingere
nessuno verso una determinata religione (credo infatti che si capisca che ho
fatto un miscuglio fra Dante e tutte le cose che mi venivano in mente), ergo
non nego né scrivo dell’esistenza di un dio.
2: La mia storia non l’ho plagiata ed è
pubblicata solo nel mio profilo.
3: Non voglio offendere nessuno né parlare di
cose delicate, come la morte, solo per scherzarci sopra. Mi rendo conto che
sono argomenti da prendere con le pinze – perché molto pericolosi se non
trattati con cura – e vi chiedo di scrivermi (anche in un messaggio privato)
se, leggendo la mia storia, crederete anche in minima parte che io scriva di
questi argomenti con leggerezza.
4: Nei vari
capitoli SI VERIFICHERANNO DELLE MORTI. Già nella trama si può capire che tratta
di morti che vivono nel confine con la vita (niente zombie, per carità J). Chi ha qualche problema con
questi argomenti per favore non legga nemmeno la storia, perché avrei paura di
offendere.
5: Ho messo il
raiting arancione, non per violenza o sesso ma perché appunto tratto di questi
argomenti anche in modo ironico. Non voglio passare al rosso perché mi pare un
bel po’ esagerato.
6: I miei personaggi sono tutti inventati, tranne
quelli storici, ai quali ho assegnato un carattere che trovo giusto per la
persona.
7: Saranno presenti anche molti pensieri
filosofici, che potrete accettare come no. Spero che non dubitiate della mia
sanità mentale, ma che capiate che io scrivo perché mi piace, per divertirmi e
per ironizzare la mia vita. Da qui si può capire il lato quasi satirico che
prenderà la storia nei capitoli più avanti, tra il terzo e il quarto.
8: I primi due
capitoli sono d’introduzione. Ho cercato di alleggerirli nello scriverli, ma mi
sono comunque venuti molto lunghi e (abbastanza) pesanti. Spero che questo non
vi faccia cambiare idea sull’intera storia.
Ok, ho finito. Buona lettura :)
Capitolo I
Il tempo vuole ciò che il nulla
stringe
Mi guardavo attorno,
senza proferire parola. Dov’ero? Che diamine era tutto quel bianco abbagliante?
Come ci ero finita in un posto simile?
Ultima ora di scuola. Sto
per morire.
Non ce la potevo fare. Rimanere dentro sei mura per ore e
ore era qualcosa che non riuscivo a sopportare; la sola idea di dover restare
ferma a lungo mi faceva salire un brivido lungo la schiena, figurarsi stare
attenti a più spiegazioni di più professori, stando magari con la perfetta
postura del bravo alunno.
Schiena diritta, mani sul tavolo, sguardo assente puntato
costantemente sull’insegnante, penna in mano e si, magari anche una scopa nel culo, perché no? Stare ferma
non faceva per me. Non per niente proprio in quel momento il mio docente di
chimica mi riprese per l’ennesima volta.
«Valenti! Che cosa devo fare con te?»
Alzai la testa dal banco su cui era molto comodamente
poggiata per rivolgerlo verso di lui. Il mio cuscino immaginario era il più
morbido di tutti gli altri.
«Non si preoccupi prof. Continui, continui. Io la ascolto.»
Lo rassicurai. Il che era anche vero, o almeno in parte. Mi piaceva imparare in
generale cose nuove, di qualunque materia fossero. Se me l’avessero chiesto
avrei sicuramente detto che la mia disciplina preferita era filosofia, ma non
ne disprezzavo nessuna in particolare.
Quindi, teoricamente parlando, io prestavo attenzione a
tutte le ore della mattina, che poi mi mettessi a prendere appunti come molti
secchioncelli in classe mia erano un altro paio di maniche.
«Se non prendessi voti tanto alti nei questionari, credo
che il preside ti avrebbe già buttato fuori.»
Sorrisi a quel commento innocente del mio insegnante.
Quando mai in una scuola pubblica avevano sbattuto fuori qualcuno solo perché
non ascoltava i suoi professori?
Avrei capito se fossi stata una che si metteva a dipingere
di sparaflesciante i muri più bianchi, casti e puri della scuola con delle
bombolette spray, magari scrivendo anche frasi in stile apocalittico, ma ero
una semplicissima ragazza mica un terrorista di primo livello.
A dirla tutta quel professore mi stava anche da un certo
punto di vista simpatico: non era come tutti gli altri che si mettevano a
sbraitarmi in faccia tutto quello che pensavano, magari sbattendomi in muso
ugola, tonsille e stomaco annessi. Non era un gran bello spettacolo.
Questo si limitava a scherzare allegramente, a darmi
pacchette d’incoraggiamento e a proclamare la mia intelligenza ai sette mari. O
agli altri sette insegnanti, chi lo sa. Non mi dava note gioiosamente,
utilizzando le scuse più disparate. Era umano.
Probabilmente era per questo che in quel momento mi
limitai ad assentire, alzarmi dalla mia posizione di sono-sul-divano-da-ore e a mettermi seduta, con un accenno di
smorfia.
«Ecco, brava. Così mi piaci. Comunque cosa stavamo
dicendo? Ah si; gli elettroni hanno doppia funzionalità: da recenti studi si è
scoperto che sono allo stesso tempo particelle e onde…»
Mi lasciai nuovamente scivolare con il sedere lungo la
sedia appena il professore si girò, anche se c’era la possibilità che mi avesse
anche vista con la coda dell’occhio. Ma cosa importava? Tanto lo sapevamo
entrambi che avrei preso il massimo dei voti anche sul questionario successivo.
Sarà che io contavo troppo sulla mia intelligenza, ma ogni
singola volta riuscivo sempre a scamparla. Come dire, la piena riuscita in
tutto quello che facevo era una sorta di legge; si poteva quasi definire un
assioma matematico.
«Scusa.» Uscendo dalla porta dell’aula di chimica, per
caso andai a sbattere contro un altro ragazzo, facendogli cadere un quaderno.
«Non preoccuparti.» Mi sorrise gentilmente e io gli
risposi allo stesso modo.
Dopo essermi chinata per raccoglierlo, glielo diedi e
quella volta lo feci passare prima di me. Mentre s’incamminava dalla parte
opposta alla mia, lo guardai con la coda dell’occhio.
Com’è che si chiamava? Matteo? No, quello era il mio
vicino di banco. Ah ecco, era Jack. Un ragazzo abbastanza distaccato che se ne
stava sempre per i fatti suoi al limitare dell’aula; non era uno studente
modello ma non aveva nemmeno grandi insufficienze.
Non sapevo molte cose su di lui, come per il resto non le
sapevo nemmeno di tanta altra gente che mi passava davanti agli occhi ogni
giorno.
Come Matteo. Ragazzo abbastanza carino, quel che bastava
per essere notato ma sicuramente non tanto per essere sopportato. Sempre a parlare del cane, della sorella piccola che
gli riempiva la cartella di fango, della madre che lo rimproverava anche
troppo, dell’ormai nota sorella che gli dava i bacini della buonanotte prima di
infilarsi sotto le coperte.
Cristo, se aveva così tanto fiato da sprecare per parlarmi
della piccola peste che gli correva per la casa, che se la sposasse e se ne
stesse zitto! Il che non era nemmeno un’ipotesi da escludere come possibile
svolta per il futuro. Chissà, magari la pedofilia tra fratelli entro pochi anni
a quella parte sarebbe diventata una moda e lui avrebbe potuto saltarle addosso
a ogni ora del giorno.
Bah, stronzate.
Girai l’angolo e notai tre ragazzi che stavano parlottando
davanti al bagno maschile. Uno lo conoscevo di vista e lo salutai, mentre lui
faceva lo stesso banalmente con un occhiolino.
«Ciao Anna.» Quando trovai una mia amica aspettarmi appena
fuori dalla scuola, la salutai come al solito: due baci sulle guance e un
sorriso appena accennato.
«Ehi. Come stai?» Era simpatica e dolce, ma insolitamente diretta.
Nel complesso quella ragazza mi piaceva. Non avevamo tutta questa amicizia che
ci univa, ma eravamo legate almeno quel che bastava per fare la strada la
mattina e all’uscita della scuola fino a casa, visto che eravamo vicine.
Stessa età, stessa scuola ma indirizzi diversi. Io facevo
quello scientifico, lei quello linguistico.
«Va. Oggi non sono proprio in vena di far niente.» Le
risposi.
E credo anche che quel che avevo detto si potesse notare a
un miglio di distanza. Solitamente ero più allegra di quel giorno, in cui
sembravo avercela con il mondo. Sarà stato che quella mattina mi ero svegliata
con il piede o la luna storti.
«Vedo sì. N’altra nota?» La mia fama, come ragazza con la
condotta con il minor voto, era estesa per tutta la scuola.
«No, non so. Oggi gira male.»
«Sarà.»
Scendemmo i gradini in silenzio, ognuna persa nei propri
pensieri. Non dico che normalmente toccavo il cielo con un dito dalla felicità,
ma facevo battute, ero più umana. Sembravo meno un pagliaccio depresso con il
morale sprofondato all’inferno.
«Allora, com’è andata trigonometria?» Le chiesi tanto per
iniziare una conversazione.
Quel giorno aveva avuto un test e, visto il suo grande
amore per le materie scientifiche, c’era anche la possibilità che mi rifilasse
uno sguardo omicida dei suoi solo per averglielo chiesto.
«Uno schifo. Uno. Schifo.» Risi per la sua espressione.
In tutta risposta lei alzò le mani al cielo e fece una
faccia da chi ha appena ingurgitato un limone intero.
«Perché? Perché non mi mandi un segno? Un sei e poi andrò
sempre a messa. Sarò buona, lo prometto.»
Mi sistemai meglio lo zaino sulla spalla destra, dove
stava iniziando a pizzicarmi.
«Sì e poi sarai buona e smetterai di dire parolacce.
Regalerai ciambelle a tutti ed io diventerò
Alla mia battuta sarcastica mi puntò un dito contro, come
se si fosse appena accorta di una cosa.
«Ah! Visto? Ti ho fatto tornare come al solito: stronza.» E
sorrise.
Storsi un sopracciglio. Non mi ricordavo in che film
l’avevo visto, ma ero sicura che in uno veniva detto che farlo dava un senso di
serietà alla persona. Sarà, ma a me sembravano un sacco di stronzate.
«Non so se ritenerlo un complimento o un’offesa.» Dicevo
così, ma tanto sapevamo entrambe che non mi sarei mai arrabbiata. Con lei era
impossibile anche pensare di provare un sentimento simile: era una ragazza
troppo piena di vita per prenderla in giro.
«Prendilo come vuoi. A me basta che tu sia tu.» Sorrisi
alla sua innocente simpatia.
«Oh che dolce. Mi commuovo.» Ci guardammo per un’altra
volta e scoppiammo a ridere.
«Comunque che chiedeva il test?» Sghignazzai compiaciuta
quando ritornò ad avere un colorito pallido e senza vita.
«Tu mi vuoi morta a pensare sempre queste cose. Pi grechi
del cavolo! Ucciderei chi l’ha inventato. Porca troia!»
«Certo che tu sei la mia amica più sboccata che ho, sai?» Si
passò una mano fra i capelli corti di un magnifico biondo cenere. Fece
un’espressione da finta imbarazzata, con linguaccia allegata.
«Non si dicono queste cose, scema.»
Alzai le mani in segno di resa. Andammo avanti a
punzecchiarci finché non arrivammo all’incrocio dove ci fermammo. Anna premette
il pulsante per prenotare il semaforo e aspettammo tre minuti.
«Hai visto quella che leggings?» Le indicai una ragazza
davanti a noi. Glieli avevo fatti notare perché erano color arcobaleno,
orribili in ogni minimo filo. Certa gente che portava cose sparaflescianti con
i quali potevi essere identificata a due migli di distanza come una cometa,
proprio non la capivo.
«’A troia. Causa persa dell’abbigliamento.» Mi rispose,
guardandola male.
«Cristo, orribili.» Sentenziai alla fine, storcendo ancora
di più il naso quando vidi anche la sua maglietta. Ok, forse quella era ancora
più brutta.
Ormai era diventato
verde e iniziammo a camminare sulle strisce pedonali, mentre tiravo fuori l’mp3
dalla tasca esterna dello zaino. Dall’altra parte della strada Anna ed io ci
saremmo dovute separare e io non avevo voglia di non far niente camminando. Un
po’ di sana musica ogni tanto ci stava, soprattutto se si trattavano dei miei cari
e amati Beatles. Un po’ di sana musica novecentesca, per non essere costretti ad
ascoltare quelle stupide del presente.
«E muoviti! Vuoi schiattare qui?» Scherzò lei, vedendo che
mi ero fermata in mezzo alla strada per tirarlo fuori. Non avevo per niente
manie suicide, solo che in quel momento non girava un cane e fermarmi due
secondi non mi avrebbe di certo uccisa.
«Non c’è nessuno, dai. Tutte le macchine sono già
passate.» E poi non ero nemmeno a un metro dal marciapiede.
«Sarà ma vieni di qua dai. E’ pericoloso.» Le sorrisi. Mi
fissava dal’altra parte della strada preoccupata.
«Ok mamma.» Mi avvicinai di nuovo a lei e passai un
braccio sulle sue spalle, strizzandole un orecchio, come si fa con i bambini
più piccoli.
«Che dolce la mia amichetta, mi vuole così bene!» Ridendo
non mi accorsi della mini sberla che mi arrivò sul braccio.
«Che scema. E’ che non mi vorrei ritrovare senza la vicina
che mi riaccompagna a casa. Mica lo dico per te.» Faccia imbronciata, sguardo
rivolto al cielo e il terzo dito che accompagnava la frase, come a porre
l’accento sul suo menefreghismo in tutta la faccenda.
«Ripeto: sei una scaricatrice di porto.» La guardai
sconsolata, mentre mi passavo con una mano i capelli mori dietro l’orecchio.
«Come vuoi, come vuoi.» Diceva così, ma dalla sua
espressione indifferente lo capivo che un po’ lo pensava anche lei.
«Dio, quanto sono stanca!» Risi alzando le mani e la testa
verso il cielo.
«Non ne posso più. E’ tutta la mattina che penso casa-cibo-letto-film. Si è incantato il
disco.»
Ridacchiò anche lei, per poi guardarmi male.
«Almeno tu sai che domani non sarai interrogata in
matematica. Io invece devo studiarmi i quattro capitoli della verifica di cui
non ho capito ‘na mazza.»
Poverina. La piccola bambina che non ci capiva niente di
equazioni, disequazioni, trigonometria e robe varie. Sbuffai per il pensiero
autolesionista che mi era appena venuto in mente.
«Facciamo così: tu oggi vieni a casa mia che ti aiuto a
studiare e tu da domani non mi rompi più con sta roba, ok?» Le proposi.
Ovviamente mi aspettavo un salto di gaudio nemmeno Ian
Somerhalder fosse davanti a noi, ma non ero preparata al suo assalto
finalizzato al baciarmi da per tutto.
«Quanto ti voglio bene! Quanto ti voglio bene! Se fossi uomo
ti sposerei! Anzi no, chi se ne frega: partiamo subito per Las Vegas che ti amo
troppo!» Me la staccai di dosso con fare disgustato, mentre lei cercava ancora
di allungare le mani verso di me, neanche fossimo la fan incallita contro il
suo cantante preferito.
«Ok, va bene. Ho capito che sei felice, ma contieniti!» La
ammonii, non riuscendo però a sopprimere un altro sorriso.
«Hai ragione. Si, ti amo, ok. Facciamo a casa mia alle tre?»
Mi guardò di sottecchi per poi riprendere a svolazzare – al posto di camminare,
s’intende – al mio fianco.
Eravamo quasi arrivate a casa e fra poco ci saremmo dovute
salutare. Io avrei proceduto dritta, lei invece si fermava appena prima di me.
«Ok, ma voglio i biscotti al cioccolato di tua mamma sulla
scrivania per quando arrivo.» Le puntai un dito contro, per ricordarle che su
quello non ammettevo scuse. Quei biscotti erano puro nettare divino, bontà
infinita. La bontà della pizza moltiplicata all’infinito.
«Ok, girl.» Mi
rispose. Come facesse sempre ad avere il sorriso stampato alla perfezione in
faccia proprio non lo sapevo. Era la persona più genuina e felice che avessi
mai conosciuto.
La guardai per due secondi saltellare ancora fintanto che
si dirigeva verso casa, mentre canticchiava la sua ultima canzone preferita. Di
sicuro era qualcosa di orribile o come “Starships”
della mega-culona-bratz americana,
oppure come “Baby one more time” di
Britney Spears. Cristo, quanti problemi aveva.
Le diedi le spalle e mi incamminai nuovamente verso casa,
mentre sceglievo una canzone.
Le dolci note di “Yesterday”
dei Beatles mi accolsero all’istante nel loro mondo, fatto di perfezione,
normalità e dove la realtà esisteva solo quando lo decidevamo noi.
Alle tre esatte Anna uscì fuori di casa. Era così contenta
che la sua amica le avesse proposto il suo aiuto che aveva deciso perfino di
andarla a prendere a casa e scortarla fino al suo appartamento.
Aveva già preparato sopra la sua scrivania i libri e gli
immancabili biscotti di sua mamma che la sua amica sembrava adorare. Non la
capiva: per lei facevano davvero così schifo! Ma com’è che si dice? Che sono i
figli ai quali non piace quello che fanno i loro genitori? Probabile.
Il sole splendente nel cielo, gli uccellini fischiettavano
felici e lei non faceva che pensare a quel cavolo di materia. Il suo
antagonismo alla matematica era già affiorato nei primi anni delle elementari:
la sua prima insufficienza l’aveva segnata a vita.
Si ricordava quel momento come se fosse stato il giorno
prima: la sua maestra che le riconsegnava il compito sulle divisioni e sulle
moltiplicazioni dicendo che poteva fare meglio, e tutti gli altri bambini che
la prendevano in giro chiamandola asina.
E ovviamente una bella I di insufficiente in rosso che spiccava sui fogli bianchi.
E si che lei era una delle ragazze più brave del suo
corso! L’inglese, il tedesco e lo spagnolo erano la sua vita, altro che quel
cacchio di materia piena di simboli, lettere, numeri e solo lassù sanno
cos’altro.
Alla fine la matematica che si utilizzava nel mondo reale
era molto più semplice di quella che era insegnata a scuola: serviva al massimo
a fare le somme di tre biglietti del cinema e fin lì ci arrivava anche lei.
Mica giravano persone per la strada a chiedere quando valesse il logaritmo di una
merda d’esercizio.
Si portò una mano alla fronte, sconsolata. Si vedeva
perfino le rughe crescerle a vista d’occhio per lo sforzo di studiare quella
materia. Pazienza.
Girò l’angolo e si trovò nel vicolo, dove c’era anche la
casa di Emma. Era una di quelle in fondo, quindi doveva camminare ancora per
pochi secondi.
Alzò lo sguardo dall’mp3 con il quale stava ascoltando la
sua canzone preferita, “You drive me
crazy” ma, al posto del solito cane solitario che gironzolava per la strada
sconsolato, si trovò davanti una macchina della polizia.
Si tolse velocemente le cuffie e subito il rumore delle
sirene la costrinsero a fare una smorfia e a tapparsi l’orecchio destro.
Che ci faceva là la polizia? Un vicino giocava d’azzardo e
l’avevano arrestato? Aspetta, si finiva in prigione per le scommesse? Boh.
Oppure la vicina mezza trans era una spacciatrice. Come
ipotesi era la più probabile, visto l’occhio vispo e scattante che aveva quella
cinquantenne a ogni ora del giorno. Oppure era il vicino pervertito, quello che
la spiava dalla finestra ogni volta che andava a casa di Emma, ma aveva sempre
pensato di immaginarselo, quindi non poteva essere lui.
Avvicinandosi però le sorse un dubbio. La polizia era
ferma davanti alla casa della sua amica? Si mise a correre e per poco non
inciampò dalla fretta. E se le fosse successo qualcosa? Che poteva fare?
Ma no, non poteva essere. Se fosse accaduto qualcosa di
male a lei, ci sarebbe stata un’ambulanza davanti alla sua casa, non di sicuro
agenti della polizia.
Quando arrivò però le si ghiacciò il sangue nelle vene. Un
corpo a terra, con la faccia premuta contro l’asfalto, il braccio sotto la
testa, quasi fosse in procinto di mettersi a dormire.
Le gambe aperte, la sinistra in una posizione innaturale:
il ginocchio girato verso l’esterno, con il piede sinistro al contrario,
rivolto all’altro arto inferiore. La mano destra indicava qualcosa di molto
lontano dal corpo, quasi a sottolineare la sua voglia di scappare, la sua
voglia di correre lontano.
Quasi come se non fosse un corpo morto, quasi come se la
sua vita non fosse stata tranciata all’improvviso. Quasi come se quell’alone di
sangue che andava sempre più allargandosi non esistesse, quasi come se
l’asfalto grigio non si stesse sporcando di un rosso scarlatto che trafiggeva
lo sguardo di chi solo s’azzardava ad osservarlo.
Anna si portò una mano davanti alla bocca, non volendo
credere a quello che stava vedendo.
I capelli mori e corti rovinati dall’impatto con la terra,
il viso tumefatto ma che sembrava allo stesso tempo senza un graffio. Gli occhi
chiusi, come a indicare la speranza di
non doverli riaprire mai più, di non dover essere più vittima di una crudeltà
tale da renderla inoffensiva.
Le sembrava di sentire anche la musica proveniente dal suo
mp3; aveva ancora infilate nelle orecchie le sue imperdibili cuffie,
sicuramente seguite dalle melodie dei Beatles.
La sua amica lì, distesa e accasciata a terra con persone
in divisa che le camminavano affianco, toccandole il collo, appoggiando le
orecchie sul suo torace, cercando segni di vita.
Qualcuno che urlava di chiamare il 911, qualcun altro che
prendeva in mano il cellulare e correndo via da quella folla si estraniava da
quello sprizzo di realtà crudele, una realtà che non dovrebbe mai accadere,
felice di essere stato lui ad essersene andato.
E, mentre l’ambulanza finalmente arrivava e i medici
preparavano due barelle, Anna alzò gli occhi da quel corpo sanguinante. La sua
amica, quella che era sempre stata più forte di lei era morta.
Quando realizzò questo pensiero, le si appannò la vista,
mentre sentiva qualcosa dentro di lei che si rompeva. Un suono soffuso,
cristallino, il rumore del vetro frantumato.
O forse erano state le sua ginocchia a produrlo, quando si
accasciò a terra vedendo solo nero.
Eppure, nell’ultimo barlume di lucidità prima di svenire,
riuscì a realizzare un’ultima domanda: perché?
Eccomi qui. Con una nuova storia
ho rifatto la mia entrata! Dopo un anno, o forse un po’ di più, che non
scrivevo più niente se non robetta da tre facciate al massimo, mi sono
impuntata e ho buttato giù una nuova trama.
Cosa ne pensate? Forse per essere
il primo capitolo è un po’ azzardato, ma voglio vedere se ce la faccio:
scrivere un’intera storia che mi possa veramente piacere e ovviamente riuscirla
anche a finire:)
Un’ultima cosa: è la prima storia
che scrivo di questo genere, quindi se sbaglio qualcosa per favore fatemelo
sapere.
Grazie per aver letto:),
Anna