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Autore: Yssel    11/12/2013    2 recensioni
A volte dovevi andare in contro alla morte per temerla davvero, no? Perché è ovvio, tutti siamo bravi a fare i gradassi, “chi se ne frega se muoio”, poi ti dicono che ti stai ammalando e tutti si rovescia.
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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La campanella appesa sopra la porta suonò quando la aprii e dal retro sì sentì improvvisamente svanire il rumore di una macchinetta per tatuaggi che si fermò di botto. Rimasi sulla porta a fissarmi i piedi mentre ascoltavo il rumore di passi di qualcuno che si dirigeva verso di me, avevo paura della persona che sarebbe spuntata fuori, mi aspettavo qualcosa come un enorme vichingo, largo quanto un armadio a sei ante, alto quanto un palazzo e con la barba, appunto, da vichingo.
“Ti sei persa, bambina ?” disse dopo qualche istante di silenzio una voce che, nonostante fosse abbastanza bassa, riconobbi come quella di una donna. La voce era particolare, mi piaceva come suonava.
Mi fermai a riflettere, qualcuno mi aveva appena chiamata “bambina” ? Io non ero più una bambina da un bel po’ di tempo e odiavo quando mi chiamavano così, alzai di scatto gli occhi verso la persona che aveva parlato, pronta a divorarla ma mi bloccai. Davanti a me, in piedi e leggermente piegata per scrutare meglio il mio viso, stava una ragazza sui 20 anni, abbastanza alta e particolarmente muscolosa, indossava una canottiera nera che sembrava una maglia di una squadra di rugby con il numero 8 davanti bianco e dei pantaloncini bianchi anch’essi, larghi, sopra il ginocchio, braccia e gambe erano ricoperte di meravigliosi tatuaggi. Alzai poco di più lo sguardo e mi soffermai sul suo viso, i capelli erano corti, portava un taglio da ragazzo con un ciuffo di capelli alzato, degli occhiali con una montatura nera, spessa, contornavano i suoi meravigliosi occhi verdi, accesissimi. Nonostante quell’aria mascolina i suoi lineamenti erano morbidi, fin troppo.
Non riuscii a spiccicare parola e neanche a staccare gli occhi da quella meraviglia che avevo davanti.
“ Ehi, bambina, ci sei ? Tutto bene ?” disse lei, avvicinandosi un po’ di più.
“Non sono una bambina.” Sussurrai.
“Come scusa ?”
“Non sono una bambina, ho 17 anni.” Dissi, alzando un po’ di più il tono della voce e tornando a guardarmi la punta dei piedi.
“Oh, scusa! E’ che sembri... beh... ecco...” iniziò a farfugliare.
“Sembro piccola, mi daresti si e no 10 anni dato il mio aspetto fisico, me lo dicono tutti.” Dissi, giocherellando con il foglio che avevo in mano. La ragazza di fronte a me scoppiò a ridere
“Beh, scusami lo stesso. Posso aiutarti in qualche modo ?”
Presi un profondo respiro poi, senza mai, neanche per sbaglio, incrociare il suo sguardo, iniziai a parlare.
“Ho questo disegno qui” le porsi il foglio “e vorrei farmelo tatuare, a chi devo chiedere per un appuntamento ?”
“A me.” disse, con un mezzo sorriso, poi prese il foglio e lo aprì, iniziò a scrutarlo. “Accidenti, bel disegno!” poi si girò a guardarmi e mi porse di scatto la mano, gesto a cui non ero affatto preparata infatti balzai all’indietro come una perfetta idiota. Non ero abituata a gesti del genere, di solito quando qualcuno faceva un mezzo scatto verso di me tutto ciò che sentivo dopo era il dolore e il sapore del sangue. La ragazza rimase a fissarmi senza capire, con la mano a mezz’aria per qualche istante, titubante mi avvicinai e strinsi debolmente la sua mano.
Mi sorrise e disse: “Sono Sam, piacere.”
“Fannie.” Sussurrai per poi staccare frettolosamente la mano dalla sua ed infilarla in tasca “Allora, quando posso tornare per avere questo tatuaggio ?” chiesi infine. Sam mi guardò per qualche istante con una malcelata curiosità nello sguardo, probabilmente anche lei mi trovava fin troppo strana, come tutto il resto del mondo.
Prese un respiro, guardò di nuovo il foglio e poi disse “Anche domani.”
“Seriamente ?” dissi io, con fin troppa enfasi nella voce.
“Seriamente.” Annuì, sorridendo.
“Oh, ecco, io... Grazie! Va bene per le 16.30 ?”
“Perfetto, aspetta che segno l’appuntamento.” Disse, passando dietro il bancone e tirando fuori una piccola agenda, poi si mise a rovistare sul bancone aprendo ogni cassetto e alzando tutti i fogli che c’erano sussurrando ‘ma dove l’ho messa ? era qui! Ne sono sicura!’ istintivamente tirai fuori dalla borsa la mia penna nera e gliela porsi “Ecco”, dissi. Sorridendomi prese la mia penna e appuntò qualcosa nell’agenda per poi restituirmi la penna “Grazie mille, sono una disordinata cronica! Dunque, domani alle 16.30 qui e avrai il tuo primo tatuaggio.” Disse.
“Chi ti dice che è il mio primo tatuaggio ?”, chiesi.
“Te lo leggo negli occhi.” Rimasi qualche istante a fissarla poi mi sentii ribollire le guance, capii subito di star arrossendo così mi girai di scatto “Ehm, io devo andare, ci vediamo domani e grazie mille.” Dissi frettolosamente.
“Prendi questo, c’è il numero del negozio per ogni evenienza” disse, porgendomi un bigliettino.
“Grazie.” Presi il bigliettino poi mi voltai e uscii sparata dal negozio, senza voltarmi ripresi la mia strada e accesi di nuovo la musica. “Do you know ? I count you heartbeats before you sleep.” Gridò Vic nelle mie orecchie. Quel giorno i Pierce The Veil proprio non volevano lasciarmi stare. Continuai a camminare accendendomi una sigaretta. Che stupida ero stata, rimanere li a fissare in quel modo stupido ed insensato una persona, che diavolo mi era passato per la testa ? Chissà quella ragazza cosa stava pensando di me.
Sospirai.
Sam aveva attirato fin troppo la mia attenzione, quei suoi occhi poi erano magnetici. Per tutta la strada dal negozio a casa non smisi di pensare a Sam e ogni volta l’ansia per il pomeriggio successivo saliva. Arrivai davanti alla porta della mia casa, la aprii e subito fui assaltata da Amethyst che mi saltò addosso ed iniziò a farmi le feste.
“Ehi, piccolina, ciao, sì, ti sono mancata ? Anche tu!” Quanto potevo sembrare stupida da mille ad infinito quando parlavo con il mio cane ? Entrai in casa, chiusi la porta e subito mi diressi in salotto dove attaccai l’iPod alle casse dello stereo e feci ripartire la riproduzione casuale, venti minuti dopo ero scalza a saltare sul divano con Amethyst mentre gridavo le parole di Second Heartbeat a ritmo con Matt e suonavo la mia chitarra invisibile affiancata da un Synyster Gates immaginario. Finita la canzone mi sdraiai sul divano ed accesi il portatile, mentre aspettavo che quest’ultimo caricasse mi accesi una sigaretta ed Amethyst si addormentò sul divano di fianco a me.
Accesi il computer ed aprii Skype per controllare se quelle due scansafatiche fossero connesse, non feci in tempo ad aprire Skype che mi arrivò una chiamata. Risposi e sullo schermo, dopo qualche istante di buio, spuntarono Margaret e Kelly “DISAGIATA DEL NOSTRO CUORE!” gridarono all’unisono le due ragazze.
“Ehi, troiettine mie.” Sorrisi.
“Allora, come va ?” chiese Margaret mentre Kelly si accendeva una sigaretta. Io e Kelly avevamo iniziato a fumare insieme, all’età di 13 anni ma Margaret no. Lei era un po’ la mammina di entrambe, ma non rompeva eccessivamente le scatole.
“Tutto bene, Mar, voi ?”
“Starei meglio se non fossi obbligata a respirare il veleno di questa stronzetta!” disse Margaret tossendo tra la nuvola di fumo che Kelly le aveva prontamente soffiato addosso.
Risi poi chiesi “E tu, Kells ?” “Io benissimo!” rispose, dedicandomi un gigantesco sorriso. Guardandola sorridere ripensai a Sam e improvvisamente, come mio solito, arrossii. Le due ragazze rimasero in silenzio per qualche istante poi Kelly saltò in piedi gridando “EHI!” e Margaret si fece più vicina allo schermo “GUANCE ROSSE, GUANCE ROSSE, GENTE, SIGNIFICA CHE ALLA NOSTRA FANNIE E’ SUCCESSO QUALCOSA!” Mi conoscevano fin troppo bene e dopo svariati minuti passati tra i miei “Non mi è successo nulla” e le loro minacce, raccontai della decisione di andare a fare il tatuaggio, dell’incontro con Sam e della strana reazione che avevo avuto nel vederla.
“Secondo me ti innamorerai di lei.” Disse alla fine Margaret. Mi strozzai con il fumo. Margaret sapeva cosa pensavo dell’amore, dei fidanzamenti e delle cose di quel genere e una tale affermazione detta da lei e rivolta a me mi stupì.
“Ma non dire sciocchezze, Marghy.” Disse Kelly, lasciando uscire il fumo dalla bocca.
“Kells ha ragione, hai appena detto una stronzata colossale.” Conclusi.
Margaret sbuffò “Smettetela tutte e due. Fannie, tesoro, non rimarrai sola tutta la vita. Smettila con questa storia. Non ti ho mai vista reagire così ad una persona, non ho mai visto i tuoi occhi brillare in quel modo mentre parlavi di qualcuno, eccetto quando parlavi di tua nonna. Non puoi sapere cosa accadrà ma non puoi neanche, e NON DEVI, chiudere le porte ad ogni possibilità.” Abbassai lo sguardo e sospirai.
“Margaret ha ragione, Fannie.” Disse Kelly, attirando la mia attenzione “Per una volta lascia che il destino faccia il suo corso, parlale, facci conoscenza, non impedirle di parlarti o guardarti, vedi come va, non chiuderti in te stessa come sempre. Non tutti sono lì per ferirti e odiarti.” Risi amaramente.
“Ci proverò.” Mentii. Le mie amiche sospirarono poi sentii il padre di Margaret parlare dall’altra parte della telecamera ma non capii cosa disse.
“Fannie, noi dobbiamo andare, abbiamo una cena con i colleghi di lavoro di papà e non possiamo fare tardi” disse Margaret “Rifletti su ciò che ti abbiamo detto, ci vediamo domani.” Disse “We love you.” Conclusero in sincrono.
“I love you, too.” Sospirai, le salutai e poi chiusi il pc. Accesi di nuovo la musica e me ne andai in cucina, spaccai un uovo e lo buttai in padella, accesi i fornelli e aspettai che si cuocesse. Finii di mangiare poi mi misi sul divano a fare i compiti e studicchiare le quattro cose per il giorno successivo e, come al solito, mi addormentai sui libri.
Quando mi svegliai erano le due di notte e la musica ancora era alta. Spensi la musica, raccolsi le mie cose e mi trascinai fino al piano di sopra, mi spogliai, misi in carica il telefono, impostai la sveglia e poi mi buttai a capofitto sul letto seguita da Amethyst che si sdraiò al mio fianco sbuffando, nel giro di qualche secondo mi addormentai di nuovo mentre accarezzavo la testa della mia cagnolina.
 

 
 



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Tossicchiai e tirai un lungo sospiro non appena la ragazza uscì dal negozio. Mi concentrai sulle punte verdi dei suoi capelli, le osservai ondeggiare e mi poggiai nuovamente sul bancone. Doveva esserci stampata l’ impronta dei miei gomiti, sul legno. Comunque, non staccai gli occhi di dosso a quella piccola creatura fino a che non scomparve dietro la strada. Jason comparve dalla stanza dove lo avevo lasciato, mi toccò una spalla ed io mi voltai di scatto, ringhiando.
“Hei, hei, tigre, sono io. Non si mollano le persone così, sai?”, scherzò. Lo fulminai con lo sguardo e gli feci cenno di tornare di là. Jason non dissentì, abbassò il capo, scrollando le spalle, e tornò sul lettino.
Cacciai le mani in tasca e srotolai dalla carta l’ ennesima gomma per poi ficcarla letteralmente in bocca. Per poco non mi strozzai. Non mi preoccupavo della figura fatta chiamando quella ragazza “bambina”, ormai andavo per i ventisette anni e vedevo chiunque fosse più piccolo di me come un bambino- piuttosto mi preoccupavo di toccare quel corpicino con un ago. Quella ragazza era magra, molto magra, aveva il viso scavato ed i suoi zigomi si intravedevano fra le ciocche di capelli di cespugli, le braccia che spuntavano dalla maglietta erano quasi scheletriche. Mi erano scappati parecchi sorrisi anche solo a leggere i nomi stampati su quella maglietta: Pierce The Veil. Ascoltavo anche io quella band, ma la giudicavo un complessino se si saliva in superficie e si individuavano i grandi. Avevo sempre avuto un orecchio particolare riguardo la musica, non mi era mai piaciuta quella troppo pesante ma neanche quella troppo commerciale, solo che il commerciale era anche nel mondo della musica alternativa. I piccoli gruppetti, quelli che si registravano le canzoni nei propri studi messi insieme da un paio di microfoni e dei pezzi di cartone, quelli erano preferiti. Cercavo le scintille nei quartieri bassi, erano sempre state un mio debole. Però, dopo le mie attente riflessioni su quanto fossi complicata persino in fatto di gusti musicali, mi resi conto che potevo lasciar passare tutto a quella ragazza. E poi la voce di Vic Fuentes non era malaccio. Se fosse capitata in casa mia, si sarebbe persa.
In ogni caso, io alla sua età non ero così. Sarei voluta esserlo, questo senza la minima ombra di dubbio, ma avevo sempre avuto parecchi chili in più rispetto alle altre ragazze della mia classe. Avevo sempre avuto i miei fedeli polpacci allenati che, anche se vi battevi su un martello, il livido faticava a spuntare fuori dalla carne, avevo sempre avuto le mie spalle da nuotatrice che stonavano se mettevo un capo femminile, e poi avevo sempre avuto la faccia gonfia.
Tremai, mi resi conto che mentre io avevo diciassette anni, la ragazza dai capelli inusuali nasceva.
Guardai il disegno che mi aveva portato e mugugnai. Era bello, glielo avevo detto, c’ era qualche pecca ma non era affatto male. Non avrei cambiato niente, avrei lasciato tutte le imperfezioni. Perché doveva rimanere in quel modo, con i contorni sbavati e a tratti più leggeri, perché tale doveva essere. Non doveva avere una continuità ben definita ma doveva essere debole e forte al contempo. Imperfetto.
Mi sorressi la fronte con una mano e raggiunsi Jason, che si risvegliò da un apparente sonno, mi sedetti e ricominciai a lavorare. Lui non emise alcun lamento, chiuse gli occhi.
Era prassi, avrei dovuto chiedere a quella ragazza il perché di quel tatuaggio in quanto consideravo questi come cose importanti e mi rifiutavo categoricamente di sprecare inchiostro per delle emerite cazzate. Oh, quanti insulti avevo ricevuto al riguardo- ma se permettete, mi rifiutavo di tatuare stemmi di bambole o auto. Non ero mai stata brava né interessata a farmi i fatti degli altri, ma si diceva che se i clienti parlavano, mentre io svolgevo il mio lavoro, si sentivano compiaciuti nel parlare con una perfetta sconosciuta che figurarsi se avrebbe anche solo pensato di andare a raccontare in giro le loro vite private. In questo compiacimento, inoltre, le persone trovavano pace  e rimedio al dolore concentrandosi sulla parola. Io buttavo lì una domanda e loro facevano il resto.
Facile.
Non tornai a casa molto presto. Lasciai il negozio aperto fino a tardi, quel giorno non mi interessò molto l’ orario di chiusura in quanto ero sola in quelle quattro mura, non avevo appuntamenti e consideravo quello studio come una casa. Saltai la cena, non avevo neanche fame. Però ammetto che Jason mi offrì una forchettata di spaghetti di soia che era andato a comprare al ristorante giapponese davanti al negozio ed io ne desiderai ancora ma rimasi zitta. Lui rimase con me a parlare per un po’, mi raccontò delle ultime ragazze che era riuscito a portarsi il letto schizzandomi la maglia col brodo, ed io non avevo fatto altro se non storcere il naso. Avevamo gusti diversi, mi parve normale avere un certo disappunto nei riguardi della mente degli uomini. Era basilare, per noi due, il sesso, e a quasi trent’ anni mi facevo un poco di pena. Perché, sempre alla mia età, tutte le ragazze che avevo conosciuto avevano già una relazione stabile, un marito e talvolta anche dei figli. Non dovevo considerare il fatto che non mi sentivo come loro, perché per quanto simpatizzassi per il genere femminile, non avevo mai saputo amare. Al massimo, avevo amato il cane che avevo avuto da adolescente. Era una mia completa convinzione, questa, la mia testa era soggetta a catene di effetti Placebo che travolgevano il mio pensare come onde, come le onde sugli scogli vicini a casa mia.
Mi affezionavo alle cose e mai alle persone, e per questa orribile facciata di me non avevo cura. Non mi stancavo delle persone, semplicemente non sentivo il bisogno di parlare con loro. Sarà stato il mio passato, l’ aver sempre addosso gli aculei e il pungere psicologi e compagni, esseri viventi in generale se vogliamo, però avevo sempre faticato ad esprimermi e a rapportarmi con chiunque. La mia solitudine era diventata l’ unica con la quale condividevo le mie cose. Non avevo il senso della solidarietà, ero gelose dei miei stessi possedimenti e spesso e volentieri facevo di tutto per non dare fiato alla bocca. Ero priva di affetti, e dato che ero certa di non saperli trattare, non li cercavo. E se li cercavo, gli affetti finivano, mi tradivano. Per questo me stessa mi era indifferente, perché fidarsi della mia mente o del mio cuore mi aveva sempre e solo portato ad affondare un piede nell’ acqua.
 
Chiusa la porta del negozio, infilai le chiavi in tasca e salutai Jason, che ficcò le mani nella felpa e si allontanò dalla parte opposta alla mia. Era notte, vagare per le strade era escluso e tornare a casa non mi ispirava, ma dovevo pur nascondere le tracce dell’ ultima vittima.
Perché così le chiamavo, vittime.
Quelle ragazze erano le uniche che riuscivano a non farmi svegliare con la luna- del tutto- storta. Mi lasciavano i loro numeri, ma non chiamavo nessuna. Per me erano solo notti. E se mi trovavano, se mi incontravano in un qualche locale, facevo finta di non conoscerle. Meschino, vero? Almeno avevo una tattica. Sbagliata, ma pur sempre una tattica.
Mentre camminavo, mi scartai un’ altra gomma e la cacciai in bocca, a seguito della precedente ed unendole con i denti, i miei neuroni continuavano ad essere pizzicati come corde di chitarra. A cosa pensavo? Oh, pensavo a tante cose. A cosa avrei escogitato per cena data la mia scarsa voglia di cucinare, alla lavanderia sotto casa, mi chiedevo se avessero finito di farmi il bucato, a buttare l’ ultimo pacchetto di sigarette che tenevo sul comodino accanto al letto, a che programmi scadenti ci sarebbero stati in televisione.
Avevo sempre pensato tanto, era un vizio.
E se c’ era qualcosa sulla quale potevo contare, beh, quelle erano le mie dipendenze. Come lo era stato il fumo, come lo erano diventate le gomme da masticare, come lo erano i seni piccoli, i tatuaggi, il toccare lo stomaco di qualcuno con le punte delle dita. Lo facevo sempre. Ne ero dipendente. E non avrei mai smesso di farlo.
Rientrai in casa silenziosamente, la bestemmia sparata sottovoce e a denti stretti perché la porta scrostata cominciava a fare la muffa, e non feci in tempo a chiudere la porta, perché il frutto del mio pensare esagerato era sempre dimenticarmi di ogni singola cosa pensata e chiudere gli occhi fino al mattino.
  
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