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Autore: HellWill    12/12/2013    0 recensioni
Questa one-shot è una delle scene che per motivi di lunghezza – ed importanza marginale – ho dovuto tagliare dal mio libro: si tratta del momento in cui Sue conosce i propri figli per la prima volta. Difatti, pur essendo Sue la madre, i due bambini sono stati partoriti da Tarish, di razza Erita, una creatura che presenta aspetto maschile con organi femminili: la fecondazione avviene per osmosi, attraverso il contatto con i corpi altrui, e quando Tarish e Sue si sono baciati almeno otto mesi prima, lui dopo un po' ha intuito di essere in dolce attesa. Da allora Sue non lo ha più rivisto, interpretando la sua fuga come una ritirata di vergogna per averle rubato quei baci.. ma in realtà Tarish era altrove, a prepararsi ad avere quei due magnifici bambini che ora lei si ritrova davanti. E anche se odia il padre, Sue non può fare a meno di provare un profondo istinto materno alla vista dei suoi figli...
Genere: Fantasy, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Cross-over, Missing Moments | Avvertimenti: Mpreg
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Stava tentando di riordinare Irnokan già da un po’: erano almeno due mesi che si era trasferita lì dall’Isola di Nessuno e, anche se tutto ciò che le serviva era al suo posto, la casa era abbandonata da più di cinque anni e necessitava di pulizia. Tuttavia, quella mattina poteva dirsi oltremodo soddisfatta: le foglie morte erano svanite dal pavimento, la palestra era ritornata ad avere delle finestre – precedentemente occultate da rami e sporcizia – e persino la sua camera aveva un aspetto decente. Per quanto riguardava la cucina, invece, se ne era occupata sin da subito: mangiare in un ambiente lercio era una cosa che l’aveva sempre disgustata.
Erano due giorni che non vedeva Yukab, ma sapeva che l’amico se la stava cavando; dopotutto, non a caso aveva chiesto l’aiuto di quel Sayn... qualora le cose si fossero complicate, il Sayn le avrebbe sbrogliate. Si diresse in giardino, decisa a dare un aspetto decente ai cespugli di rovi cresciuti senza remore qua e là, e tentò di potarli senza farli sembrare troppo ‘umani’, per facilitare la mimetizzazione ma anche il passaggio. Ciò che al di sopra di qualsiasi cosa non si aspettava, era di ricevere visite; fu per questo che, avvertito un rumore sospetto che non aveva alcuna possibilità di appartenere un animale, si acquattò fra le siepi di rovi, le spine che le graffiavano il viso, e attese che l’intruso si palesasse sfoderando un pugnale. Per questo, fu assolutamente stupita quando vide far capolino dagli alberi del bosco il faccino di un bimbo di due anni. Era alto circa un metro e aveva morbidi capelli castani – la morbidezza le sembrava quasi visiva, non sapeva come spiegarselo –, e gli occhi di un azzurro abbacinante; per qualche assurda motivazione, quegli occhi gli ricordarono all’istante Tarish e il cuore le balzò in gola: ricordava fin troppo bene quei baci rubati, e la scoperta da altre fonti che lui non era affatto umano, bensì un Erito.. e gli Eriti avevano figli con il solo contatto fisico. Per oltre otto mesi aveva ignorato quel pensiero, ma ora era pressante e le toglieva il respiro: quello era il figlio di Tarish?
Una figura, decisamente più alta, le tolse ogni dubbio: i capelli neri gli erano cresciuti sino a superare la spalla, leggermente mossi, e gli occhi azzurri erano di un azzurro appena più scuro di quelli del bambino; sì, era suo figlio. Sue, a quel punto, non sapeva davvero che fare: alzarsi nuovamente in piedi? Che cosa sciocca, nascondersi da un padre con il figlio... Rinfoderò il pugnale, sentendosi lievemente in colpa nel rimanere ulteriormente nascosta, e palesò la propria attenzione riemergendo dalle siepi di rovo.
«Cosa ci fai qui?» gli chiese, perentoria, accigliata. Tarish si voltò di scatto verso di lei, allarmato, poi sorrise.
«Sono tornato» le annunciò, sollevando un braccio. Il bambino la osservò voracemente, curioso, e Sue si chiese se fosse un Erito anche lui: gli occhi, in teoria, non lasciavano adito a dubbi.
«E chi te l’ha chiesto?» rise lei sprezzante. «Vattene. Questa è casa mia» sibilò, volgendogli le spalle. Ma se anche il suo tono di voce appariva così sicuro e categorico, lei sentiva il proprio animo ondeggiare fra l’estasi e la paura: cosa voleva Tarish? Dopo quei baci rubati, che Sue vedeva quasi come un’umiliazione, lui era sparito, come se fosse fuggito chissà dove, e ora ricompariva con un bambino. Cosa si aspettava che facesse? Che lo accogliesse a braccia aperte? E il bambino, poi? Sue strinse i denti e indicò il bambino con un cenno del capo. «E lui?».
Negli occhi di Tarish brillò un lampo di trionfo e Sue si rese conto del proprio errore: dando attenzione a suo figlio, lo obbligava a rimanere quel tanto per spiegare chi fosse e da dove venisse. Al pensiero Sue arrossì di rabbia, e trovò straordinario quanto la sua condotta riguardo le emozioni potesse essere diversa sul lavoro e nella vita personale.
«È nostro figlio» disse l’Erito, spingendo il bambino avanti con un buffetto. Lui camminò per qualche passo, giusto per essere al limitare del giardino, e la studiò pensoso. Lentamente la ragazza si avvicinò e lo osservò anche lei: i capelli erano castano scuro, un colore che non sapeva da dove venisse: forse suo padre o sua madre avevano i capelli di quel colore, o i loro antenati, oppure si trattava di antenati di Tarish.. non sapeva dirlo. In ogni caso, forse non era un Erito: i suoi occhi azzurri brillavano di quel colore, certamente, ma fu fiera del suo DNA per avergli dato delle strane pagliuzze viola all’interno dell’iride: scommise che nessuno aveva degli occhi così, in tutti i mondi. E mentre rifletteva in questi termini, non poté fare a meno di pensare che inevitabilmente era orgogliosa di suo figlio, o forse di avere un figlio.. senza nemmeno una gravidanza.
Certo, aveva avuto degli uomini, anche donne se è per questo, ma era sempre stata attenta a come faceva quel che faceva: non ci teneva a ritrovarsi con un poppante fra i piedi proprio sugli inizi della sua carriera di assassino; già sul lavoro doveva fingere di essere un uomo, se poi doveva anche restare inattiva causa gravidanza/poppante, per lei sarebbe stata la fine. E invece di una gravidanza e un neonato, ora si ritrovava un ometto di un metro di altezza con gli occhi azzurri. Pensò che, dopotutto, poteva andarle peggio.. poteva essere un frignone, e dal suo sguardo dalla profondità abissale intuì che la natura di quel bambino era quanto di più lontano ci potesse essere dal bambino che piange sempre.
Si sfregò le mani l’una con l’altra: era ormai arrivato gennaio da qualche giorno, e con lui il freddo era peggiorato, trasformando tutta l’acqua di novembre e dicembre in neve ed insidioso ghiaccio. Per un momento valutò se far entrare in casa il bambino – no, suo padre no, si sarebbe contraddetta da sola – e propendé più per il sì che per il no.. dopotutto le dispiaceva fargli prendere freddo per questioni fra adulti.
«Non dici nulla?» Tarish inarcò le sopracciglia, guardandola divertito, e il bambino si voltò verso di lui, poi di nuovo verso di lei, osservandola compito: effettivamente non aveva parlato per diversi minuti, e Sue si rese conto che non aveva nemmeno elaborato quello che le aveva detto Tarish.
“Nostro figlio”. Certo, continuava a considerarlo perlopiù figlio di lui per gli occhi, il faccino serio, lo sguardo penetrante.. insomma, era figlio di Tarish. E probabilmente qui stava l’errore. Quello che Sue avrebbe detto in quel momento avrebbe segnato per sempre l’infanzia – forse la vita – di quel bambino: sarebbe stata la madre che si inginocchiava davanti a lui e diceva “Mio figlio” oppure quella che guarda freddamente il padre dicendo “No, è tuo figlio”? All’idea di incarnare la seconda figura, la ragazza rabbrividiva; e il freddo non c’entrava nulla.
«Come ti chiami?» mormorò Sue, mordendosi il labbro screpolato, rivolta al bambino. Lui parve disorientato, come stupito: forse persino lui aveva ipotizzato solo due scenari – l’accettazione e il rifiuto. Quell’indugio poteva significare tutto, probabilmente, o nulla. Ma il bambino non rispose, e Sue si diede della sciocca: forse non sapeva ancora parlare. La ragazza diresse una fugace occhiata all’uomo, quindi, quando notò che dietro di lui qualcosa si muoveva. Agghiacciata, sperando che non fosse un lupo o qualche altro predatore del Bosco del Re, fece un passo avanti, superando il bambino e piazzandosi davanti a lui, come per proteggerlo da misteriosi assalitori.
«C’è un’altra sorpresa» disse lentamente Tarish, e il movimento cessò: lui si fece da parte e un’altra testolina – bionda, stavolta – fece capolino da dietro il padre. Gli occhi verdi erano curiosi ma molto timidi, come del resto sembrava la bambina. Il cuore della ragazza ebbe un tuffo: due bambini. Non uno, due. Due bellissimi bambini.
«I-Io..» balbettò, indietreggiando, e sentì la manina di Kaleb infilarsi nella propria. Scioccata, la ragazza abbassò lo sguardo e fissò il bambino che la osservava con un sorriso timido.
«Ci inviti ad entrare?» chiese Tarish, passandosi una mano fra i capelli, e Sue si ritrovò ad annuire, sbigottita. Non aveva idea di quali pensieri le frullassero per la testa, ma sentiva le proprie emozioni: entusiasmo, gioia, ma anche preoccupazione, paura, senso di tradimento. Mentre entravano tutti in casa, Sue vagò come trasognata fino alla cucina, dove tirò fuori dalla dispensa delle caramelle al miele che si era procurata a Ther: le offrì ai bambini, che ci si fiondarono in completo silenzio, con gli occhi che brillavano e dei sorrisi stampati sui piccoli visi. Dopodiché, Sue li confinò in salotto e si dedicò a fissare Tarish. Lui si era seduto sulla sedia a capotavola, che era rivolta verso la finestra con le spalle alla porta, e lei si appoggiò ai mobili della cucina mentre lo guardava insistentemente. Non aveva la minima idea di come dovesse sembrare il proprio sguardo, ma Tarish lo ricambiava con un sorriso.
«Penso tu abbia studiato la nostra razza..» cominciò lui, e Sue annuì piano.
Altro silenzio, altro scambio di sguardi.
«Hanno superato la fase critica» le disse, aspettandosi evidentemente dei complimenti. Ma Sue non aveva alcuna intenzione di farlo sentire a proprio agio.
«Cos’è la fase critica?».
«Fino ai due mesi, i piccoli Eriti crescono esponenzialmente fino a somigliare a bimbi umani di due anni, dopodiché crescono molto più lentamente. Questa crescita così veloce falcia centinaia di bambini appena nati, tanto che fra di noi è considerato di cattivo gusto dare un nome ai bambini quando sono appena nati».
«Quindi hanno già due mesi?» mormorò lei, inarcando un sopracciglio. Ne poteva dedurre che fossero nati intorno a novembre.
Tarish annuì e per qualche istante Sue poté scorgere tutta la sua stanchezza; cercò di immaginarselo alle prese con latte – a proposito: non avendo seno, come li aveva nutriti? – e pannolini, ma l’immagine gli risultava difficile da concepire: non ricordava nemmeno quando aveva visto l’ultima volta dei pannolini. Forse non ne aveva mai visti se non in pubblicità.. e da quando era lì, senza tv da almeno otto anni, nemmeno quello. Forse allora la sua stanchezza era dovuta alla gravidanza, per quanto l’idea di un uomo in dolce attesa le mettesse voglia di ridere. Certe cose, in quel mondo, erano proprio assurde.
«Dove sei stato?» gli chiese, cercando di distogliere la mente da quei pensieri ridicoli.
«In un mondo che ho scoperto tempo fa» lui sollevò lo sguardo, che gli brillava divertito. «È disabitato ed è pieno di acqua.. ma ogni acqua ha un colore e una proprietà diversa» spiegò, e aguzzò l’orecchio per sentire cosa facevano i due bambini, ma la quiete regnava sovrana nell’altra stanza. «Sono andato lì perché l’acqua bianca ha poteri rigeneranti e curativi, e hanno permesso a loro due e a me di sopravvivere indenni».
Quella rivelazione, chissà perché, le sembrava veritiera, ma ora stava elaborando le informazioni che Tarish le aveva trasmesso: quelli erano loro figli. E man mano che questa consapevolezza si faceva strada nel suo animo, montava anche la rabbia.
«Mi hai rubato dei baci e ora vuoi anche lasciarmi due bambini» gli sibilò, e lui sembrò piuttosto sorpreso dal tono di lei, tanto che la fissò per qualche istante, come per comprendere cosa esattamente avesse detto. Poi sorrise. Lei avrebbe voluto un’espressione mortificata, delle scuse, e Tarish invece sorrise come per prenderla in giro.
«E tu cosa provi nei confronti di questi bambini?».
Sue rimase interdetta. Ora come ora li avrebbe tenuti e avrebbe cacciato Tarish già solo per il fatto che erano bambini. Essendo figli suoi, oltre a ciò, li avrebbe protetti e coccolati e nutriti con tutto l’amore possibile... già in quel momento moriva dalla curiosità di conoscerli, di istruirli, di coccolarli e passar loro le mani fra i capelli che, ne era sicura, sarebbero stati morbidissimi. Tarish doveva conoscere quel tipo di insidioso istinto materno, dopotutto li aveva partoriti; Sue si chiese come fosse possibile non provare quella gamma di desideri, vedendo un bambino piccolo.
«Sono bambini» mormorò quindi lei, risentita perché lui le aveva posto quella domanda così personale. «Cosa dovrei provare nei confronti di dei bambini?» chiese ancora, lanciandogli un’occhiata penetrante. Lui sorrise e scosse la testa.
«Non sarà per sempre» le disse poi. Sue lo fissò come se avesse bestemmiato.
«Che cosa?».
«Non sarà per sempre. Ho delle faccende da sbrigare e devo viaggiare molto.. ma solo per i prossimi mesi. Dovrai tenerli solo per un po’. Qualche mese, non so. Forse di meno, o di più. Di sicuro non più di due anni, comunque» la rassicurò lui, ma Sue restò sbalordita.
«Li stai considerando pacchi!» ringhiò, indicando la porta che separava la cucina dal salotto. «Li molli da me mentre fai le tue cose, mi ringrazi e te li riporti via. È così che fai da padre ai tuoi figli?» gli gridò, e Tarish parve colpito. Qualcosa dentro di lui si era molto irritato, Sue glielo poteva leggere dallo sguardo che ardeva glaciale.
«E tu? Madre dei miei stivali? Cosa avresti fatto al mio posto?» ringhiò lui, alzandosi dalla sedia. Sue la sentì quasi come un’aggressione fisica, dunque strinse i pugni.
«Io ho già un mucchio di responsabilità sulle mie spalle, mi mancavano giusto un paio di pargoletti a completare il quadro! Mamma single e assassina, dovrebbero farci un reality!» sbottò lei, e l’uomo aggrottò la fronte senza capire l’ultima frase.
«Dici cose senza senso».
«Hanno un senso per me» ribatté lei, fredda, e lui restò in silenzio a fissarla, colmi entrambi di ostilità.
«Prenditi cura di loro. Non sanno ancora parlare, né hanno un nome».
A quest’uscita, Sue si bloccò e lo fissò costernata.
«Non hai dato loro un nome?».
«Ti ho appena detto che..» ribatté lui, sprezzante, ma lei lo chiuse con un gesto spazientito.
«Sì, so cosa hai detto, ma pensavo che, essendo passati due mesi, tu potessi dargliene uno».
«No» disse lui a denti stretti. Sue restò immobile, valutando il da farsi.
«Cosa mangiano?».
«Di tutto. Sono già svezzati».
«Sono Eriti...?».
«No, non si nutrono di anime e il bambino è biologicamente maschio» Tarish continuò a parlare in modo glaciale, a denti stretti, e Sue finì per sentirsi lei a disagio.
«Di che colore aveva i capelli tua ma..».
«Biondi» mormorò Tarish, e la fissò. «L’altra mia madre li aveva neri. Non so da dove siano usciti gli occhi verdi o i capelli castani, mi spiace. Immagino sia qualcosa di tuo» fece spallucce lui, e Sue si sentì svuotata di forze.
«Non ho nulla per loro..» protestò debolmente, ma Tarish fece un gesto noncurante con la mano.
«Te la caverai. Riguardati» disse, uscendo dalla portafinestra della cucina e lasciando Sue da sola, avvilita con due piccole creaturine che la aspettavano nell’altra stanza.
 
La prima cosa in cui si impegnò fu tentare di comunicare con loro: tentò con i gesti – indicando, facendo strane espressioni con il volto e gorgheggiando – ma suscitò in loro solo risatine divertite per quell’adulta che cercava di comportarsi come una bambina. Lentamente, si creò un’intesa: pur non sapendo parlare, loro sapevano gorgheggiare motivetti che somigliavano a canzoncine o canti di uccelli, cosa che la soddisfò parecchio: la bambina, in particolare, aveva una vocetta bianca che la emozionava.
«Devo ancora darvi un nome» mormorò poi, colpita dalla cosa: quali scegliere? Nomi italiani, come il suo? Nomi anglo-americani, come il suo soprannome? O nomi del luogo? Aveva davvero di che scegliere e per qualche momento tacque, imbarazzata. I due bambini la guardarono in attesa: avevano visini uguali, perfetti, ovali, e Sue si sentì struggere per quanto erano belli.. ma forse era di parte, dopotutto erano figli suoi: impossibile non trovarli i bambini più belli dei mondi.
«Victoria» mormorò, sperando che quel nome desse una buona fortuna alla sua bimba, e lei sorrise gorgheggiando.
«Iiih ah!» cantò, intonando un paio di note acute che Sue dubitava che lei stessa sarebbe mai riuscita a riprodurre. Il bimbo si alzò in piedi e saltellò, ripetendo quelle due note in tonalità più bassa.
«Iiiah!» esclamò, ridendo. Sue si sentì il cuore sollevato: almeno gli piaceva. Per il bimbo, invece, non aveva idea di che nome scegliere: gliene piacevano tantissimi, a partire da Gabriel e per finire con Stepphen, ma non gliene sembrava nessuno adatto a quel maschietto che era allegro solo con Victoria e per il resto era taciturno e silenzioso, in qualche modo misterioso pur essendo un bimbo innocente.
«Kaleb» sussurrò, “oscuro” in Deniwa. Il bimbo si fermò e la fissò attentamente, poi si sciolse in un gran sorriso. Victoria si tuffò fra le braccia della madre e anche Kaleb cercò calore, isolandosi dal pavimento e salendo in grembo alla madre, un grembo che tuttavia non aveva mai abitato.
«Victoria e Kaleb» sorrise Sue, dando un bacio sulla testa di entrambi con dolcezza. I due bimbi sbadigliarono e gorgheggiarono di piacere, mentre la madre si chiedeva quante cose avrebbero ricordato, quando sarebbero stati poi grandi.
   
 
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