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Autore: Libra Prongs    13/12/2013    4 recensioni
[OS - Angst - Fluff - Sentimentale - Drammatico]
"Avrei voluto innamorarmi di te in un viale parallelo all’Avenue Jean Jaurès, la strada per il Conservatorio, quattro o cinque anni fa, inciampando sull’acciottolato per quella mia abitudine di trascinare un po’ i talloni, la custodia del violino in bilico sopra una spalla e quell’aria malaticcia da lunedì mattina scolpita tra gli zigomi e le occhiaie, un ricciolo cascante dal basco in lana cotta blu, blu come le rose sintetiche che Betsy vende al crocicchio.[...]Avremmo parlato a lungo, ti avrei raccontato della mia passione per i vecchi film muti, o forse no, e tu avresti colto al volo l’occasione per sottolineare quanto ti rilassi la musica classica sperando – chissà? – nell’invito a un mio concerto … ma ti avrei assicurato che no, no, non sono poi questo granché, più che suonare strimpello e piango quando alla radio danno un pezzo di Bach."
Genere: Angst, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il pesciolino d’argento
 
Nda: ogni riferimento a fatti, luoghi e persone è puramente casuale. 
Il racconto è frutto delle tante suggestioni che, da lungo tempo, esercitano il proprio fascino sulla mente della sottoscritta e che sarebbe tedioso e superfluo illustrare. Per altre note, rimando alla fine della storia. Buona lettura!

***
 
Avrei voluto innamorarmi di te alle venti di un qualche piatto venerdì sera di ritorno dalla casa dei Dumont. Sarebbe stato casuale abbastanza e altrettanto inatteso, dal momento che i Dumont vivono in un quartiere a tal punto periferico da essere popolato da sole gatte in calore, a quell’ora. Fossi stato un felino avresti avuto perfino un tuo perché, a ben vedere, con le iridi screziate d’ocra che ti ritrovi incastonate tra le palpebre lievemente allungate. 
 
Avrei voluto innamorarmi di te in un viale parallelo all’Avenue Jean Jaurès, la strada per il Conservatorio, quattro o cinque anni fa, inciampando sull’acciottolato per quella mia abitudine di trascinare un po’ i talloni, la custodia del violino in bilico sopra una spalla e quell’aria malaticcia da lunedì mattina scolpita tra gli zigomi e le occhiaie, un ricciolo cascante dal basco in lana cotta blu, blu come le rose sintetiche che Betsy vende al crocicchio. 
Mi avresti porto una mano guantata – fa quasi sempre freddo nei miei pensieri – e ti avrei rivolto il peggiore dei sorrisi, storto timido distratto come i testi delle canzoni che non ho mai davvero scritto, ridotti in carta straccia ancor prima di vedere la luce.  Ti saresti grattato la tempia – lo fai sempre quando fisso nei tuoi i miei occhi troppo a lungo – e in un impeto di ardimento mi avresti offerto una tazza di caffè macchiato e un croissant fragrante di quelli di Lemoine, la pasticceria minuscola all’angolo, proprio quella con l’insegna color panna montata e la proprietaria dai fianchi generosi ( La vedi anche tu? ). Avremmo parlato a lungo, ti avrei raccontato della mia passione per i vecchi film muti, o forse no, e tu avresti colto al volo l’occasione per sottolineare quanto ti rilassi la musica classica sperando – chissà? – nell’invito a un mio concerto … ma ti avrei assicurato che no, no, non sono poi questo granché, più che suonare strimpello e piango quando alla radio danno un pezzo di Bach. 
 
Avrei potuto innamorarmi di te in coda all’ufficio postale, tormentandomi le nocche in una tasca sdrucita e compilando il modulo sbagliato, per giunta con la goffaggine dell’inesperienza e di una miopia trascurata, così da meritarmi il rimbrotto biasimevole della signora impaziente alle mie spalle e uno dei tuoi sorrisi a metà corredato dalla galante offerta di una biro funzionante – del cui inchiostro mi sarei macchiata indice e medio, puoi giurarci, a causa dell’inclinazione mai corretta di reggere la penna a un millimetro dalla punta con una pronunciata pendenza a destra. 
 
Avrei potuto innamorarmi di te alla festa di Juliette Fournier. 
In divisa da ricevimento avrei avuto un’allure tutta speciale, ti avrei allungato un Martini senza oliva – ne avrei mangiate un po’ ancor prima di disporle in bell’ordine sui Martini glass, non vista dal caposala. Adoro le olive denocciolate, te l’avrei bisbigliato nell’istante esatto in cui avessi colto un guizzo di stupore nel tuo sguardo – e mi avresti riconosciuta come la ragazza un po’ svampita, quella dell’ufficio postale, proprio quella, che studia al conservatorio e per arrotondare lavora tre sere a settimana, in cambio di uno stipendio ridicolo, come cameriera ai ricevimenti più in di Parigi. 

 
Avrei saputo innamorarmi di te sulla banchina del binario sette un martedì piovoso alla stazione (Anche tu qui? Diretto dove?). Avrei sventolato una mano dalle dita screpolate – mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, non posso soffrire i guanti e la crema che mi hai regalato non l’ho aperta. Più – apostrofandoti in modo buffo senza conoscere il tuo nome. Ti avrei confessato, mezz’ora più tardi, incassata tra il finestrino e il braccio ben tornito di un uomo di mezz’età, ti avrei confessato, oltre lo sferragliare del treno, ti avrei confessato, con un candore che neppure avrei pensato di poter sfoggiare, che hai la classica faccia da Jerome, con quella fossetta perenne sulla guancia e le sopracciglia dritte e scure e – 
Gli occhi così. E – 
Quel neo spuntato da qualche parte verso le labbra, lì, quasi a beffarsi della logica, catalizzatore dell’attenzione di chissà quante – tante, oh, tante – ragazze che ti hanno baciato o avrebbero voluto farlo prima che le baciassi tu, magari. Magari. 
 
Avrei evitato il cliché, poi, se solo l’avessi subodorato. 
S’infiltrava nelle nostre conversazioni, ospite discreto, senza palesarsi mai. Ed era così naturale ridere con te senza pensare al come. 
L’avrei rifuggito come un insettino lucifugo – com’è che si chiama, in gergo? Il pesciolino d’argento – che sguscia via dal campo visivo e non lascia che una scia fugace e torna a nutrirsi, beandosi del buio, delle coste dei libri e della patina gelatinosa che hanno le foto nei nostri appartamenti. 
 
Avrei creduto di innamorarmi di te la prima volta che l’hai invitata a cena. 
Avrei creduto che quello fosse l’istante propizio, con la luce che filtrava in un raggio denso di pulviscolo e ti tagliava il lobo in due metà perfette cadendo fin sulla cravatta scelta per l’occasione e annodata con la minuzia che ti porti addosso applicandola alle cose grandi e piccole – alle piccole cose, in special modo, le tue piccole nevrosi che, devi credermi, ancora adesso mi fanno saltare dalla sedia per il nervoso. Perché uno non può slacciarsi le scarpe come fai tu, non può, e poi riporle nuovamente allacciate ai piedi dello specchio opaco per il gusto – inquietante, alle volte, concedimelo – di slacciarle appena prima di indossarle ancora. E così via, in un circolo vizioso. Un circolo vizioso. 
Tu. Per me. 
Ma l’hai invitata a cena. 

 
— Non capisco, non capisco il perché.
— Certo che lo capisci, Pierre. 
— Pierre. E da quando? Mi chiamavi Jerome. 
— Sei Pierre, sei sempre stato Pierre. 
— Non per te. 
— È esattamente questo il punto. 
— Cècile …
— Ti richiamo. 
— Non lo farai, vero? Non mi richiamerai. 

 
Sono sempre stata lenta. L’ultima a uscire dall’aula, l’ultima a consegnare i moduli d’iscrizione alle attività sportive, l’ultima ad attraversare la strada al verde del semaforo. Sempre perduta nel mondo in technicolor della mia testa. Forse sono stati loro, i colori, a cogliermi di sorpresa. Loro e il  modo diverso nel quale li vedevi tu. Tu, e quanto diverso fossi e quanto uguale a me. 

 
Deuteranopia.
— Non credo di riuscire a ripeterlo. Ma è … cioè, spiegati meglio. 
— Solo se smetti di guardarmi così. 
— Oh, scusa, scusa, è che … questa cosa mi affascina da morire. 
— Non sei la prima né l’ultima, purtroppo. 
— Purtroppo? Scherzi? Scherzi, vero? Dev’essere uno spasso!
— Ci risiamo. Mi stai di nuovo fissando come se fossi un fenomeno da baraccone. Non è così spassoso il daltonismo, sai? Soprattutto quando decidi di andare a far compere per una volta senza trascinarti dietro tua madre perché ti aiuti con i colori e torni a casa con un maglione rosa confetto. 
— Piccoli inconvenienti. Ma, ehi, ti rendi conto che hai la possibilità di vedere tutto da una prospettiva unica? 
— Un po’ come te, Cècile.  

 
Arrossire in quel modo, a quel punto, sarebbe stato imbarazzante se solo non avessi avuto la certezza che i tuoi occhi percepissero il mio viso nelle tonalità pressappoco di quello che noi chiamiamo verde. E non ti sono parsa un’aliena! Pierre. Jerome, Jerome, Jerome. 



 
— Sai chi si sposa, Cee? 
— Mhm … 
— Quel tuo amico, il figlio dei Guillaume … com’è che si chiama?
— Pierre, mamma. Si chiama Pierre. 
— L’hai più sentito? 
— Sono passati anni. 
— Be’, sarà sicuramente un bel matrimonio, ho sentito che lei è davvero graziosa. Ah, tesoro, quando esci ti spiace portare fuori l’immondizia? 

 
Avrei voluto, potuto, creduto. Un mucchio di cose. 
Ma avrei dovuto stringerti forte la mano nel quartiere dei Dumont, accettare quel croissant fragrante alla pasticceria all’angolo ( La vedi anche tu?) e raccontarti che oltre che per i vecchi film muti nutro un’insana, masochistica passione per le commedie sentimentali americane da blockbuster infarcite di triti stereotipi – non ultimo quello della ragazza che si rende conto troppo tardi di essere innamorata del suo migliore amico e si piange addosso trangugiando una vaschetta di gelato alla nocciola, la scatola dei Kleenex già semivuota sul pavimento. Patetico, nevvero? 
Avrei dovuto offrirti molti altri Martini senza oliva e berne in quantità bastevole a raccogliere il coraggio per baciarti, a quella festa o in quelle successive, o il Natale in cui mi hai regalato la crema vellutante per le mie mani da violinista da strapazzo. 
E … cos’altro avrei dovuto fare? Un mucchio di cose. 
Però l’hai detto anche tu, non l’avrei fatto. E tu riesci a vedere tutto da una prospettiva particolare. 
Un po’ come me. Perennemente l’ultima ad attraversare la strada. 
Ma magari non è tardi, magari questo maglione ti piacerà; è rosa confetto e lo indosserai malgrado tutto. 
Semaforo verde.
Poi il  blu, blu come le rose sintetiche che Betsy vende al crocicchio,
 
L’ultima ad attraversare la strada al verde del semaforo,
l’insegna color panna montata,
 
a udire in lontananza le imprecazioni sorde del conducente dell’autobus,
 
le sopracciglia dritte scure … iridi screziate d’ocra.
a voltarsi e –
 
Il peggiore dei sorrisi, storto timido distratto come i testi delle canzoni che non ho mai davvero scritto. 
 
 
 

Nda: Non ho la benché minima cognizione medico-scientifica degli effetti più particolari del daltonismo né di quelli della varietà qui citata, la Deuteranopia. Mi sono affidata alle cognizioni che il web può fornire, oltre che a quelle desunte da una breve quanto interessante conversazione avuta tempo fa con una persona affetta dalla patologia. Chiunque fosse incuriosito, dunque, è invitato a googlare. Buona navigazione! 
Alla prossima, 
Libra
   
 
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