7.
Mad
man with a mad plan
Il
concerto dedicato a Beethoven e Stravinskji era andato molto bene.
Non che
Erin vi avesse fatto troppo caso: dal ritorno di Loki ad Asgard aveva fatto ben
poco, salvo rimirare la fede che ora sfoggiava con sommo compiacimento e
cantare a squarciagola a giornate intere canzoni significative come You and me di Alice Cooper, Mamma mia degli Abba e soprattutto Will you love me tomorrow? di Carole
King – in maglione di lana, mutande e calzettoni a giro per casa, le giornate
che oltre le finestre del suo appartamento si facevano via via più lunghe. E
aveva bevuto e suonato come una disperata, e si era distratta a suon di libri e
serie televisive, arrivando a pensare, birra e telecomando alla mano, che il
suo divino consorte avrebbe apprezzato molto Dexter, se avesse accettato di guardarlo. Si era lasciata tentare
da Owen e persino da Francis, in onore dei tempi andati delle loro strane
storie, e tutto solo per distrarsi e non rovinarsi le giornate affogando in
dubbi e sospetti e timori, e in fondo le era servito. Poi c’era stato il gran
concerto, appunto: un trionfo strepitoso che aveva sommerso d’applausi la
Boston Opera House e colmato le testate dei giornali della metropoli con
entusiastiche recensioni e splendide foto degli orchestrali.
Ripresasi
dall’ultima sbronza aveva quindi deciso che era tempo di tornare a Galway,
approfittando delle ferie concesse a tutti i musicisti della BPO, e carica solo
di bagaglio a mano e borsa contenente il flauto magico, un biglietto last minute
in tasca, aveva di buon’ora preso la metro fino all’aeroporto, la mattina del
lunedì dopo l’esibizione. L’aria era limpida e luminosa, ventilata e pulita in
prossimità dell’oceano nonostante il caos cittadino: due settimane erano
passate dalla visita di Loki, e la primavera era davvero alle porte.
Così
quella sera stessa, stordita dal jet-lag e dal desiderio di dormire, mise piede
sul suolo irlandese. Chiamò a casa per avvisare, lievemente in ritardo, che
stava tornando e che si aspettava una lauta cena da riscaldare in forno; sua
madre salutò la notizia con una colorita imprecazione, in lontananza udì suo
padre congratularsi con lei per il consueto tempismo e riconobbe la risata
congiunta di suo fratello e suo nonno. Se li immaginò comodamente stravaccati in
salotto, in attesa del telegiornale, e sorrise nel salire sull’Éireann Bus che
l’avrebbe condotta all’altro capo dell’isola. Il cielo era ormai scuro sopra
Dublino, le luci della città che baluginando andavano a sfumare e farsi
sporadiche man mano che la corriera avanzava verso le campagne, ma a ovest
permaneva una striscia del colore del crepuscolo, sospesa tra le nuvole e
l’orizzonte oltre la distesa indefinita di praterie e colline. Il vento
profumava di terra bagnata e di pioggia e il petto di Erin si gonfiò di
nostalgia: quasi non pensò nemmeno al marito e a tutte le incognite a lui
legate, mentre guardava il buio verde d’Irlanda scivolare rapido fuori dai
finestrini, e si lasciò cullare dall’andamento della vettura. Superarono
Kinnegad, Athlone con le acque placide del Lough Ree che s’indovinavano alle
sue spalle e il piccolo centro di Athenry, e alle nove entrarono infine a
Galway, fermandosi al capolinea in Eyre Square. Nonostante la fame e la
stanchezza, e nonostante Grattan Road non fosse esattamente dietro l’angolo, la
flautista raggiunse a piedi la sua casa natale – con le mani cacciate nelle
tasche del parka imbottito e le borse a tracolla si godette la camminata lungo
i canali del Corrib e le strade lucide per il piovasco e il salmastro, respirando
l’aria di mare a pieni polmoni. A giro c’era pochissima gente, essendo lunedì
sera, e ciò acuì il piacevole senso d’estraniamento di Erin: in quei giorni si
comportava come se tutto fosse normale, come se fosse rimasta la rutilante,
giovane musicista di sempre, quella senza troppe beghe per il capo, quella che
beveva e suonava e faceva la spola tra Boston e l’Irlanda andando in deliquio
di fronte al minimo accenno di paesaggio natìo. E lo era, in effetti, e
tuttavia adesso era anche una sorta di eroina intergalattica, la moglie del Dio
degli Inganni e principessa asgardiana d’adozione, e mai come quel periodo in
solitaria le era parso tanto difficile riuscire a far collimare i diversi,
inconciliabili tasselli della sua nuova vita. Quando si spremeva le meningi non
si chiedeva soltanto cosa poteva essere successo nel Reame Eterno durante la
sua assenza e cosa aveva in mente Loki di preciso, ma anche per quanto ancora
avrebbe potuto portare avanti quello sdoppiamento, quel saltare da un mondo
all’altro usando un fottuto ponte dimensionale che rassomigliava a un enorme
arcobaleno, e non contava il fatto che essendo mortale presto o tardi avrebbe
comunque esaurito il tempo a sua disposizione: sentiva che prima di quel giorno
avrebbe dovuto fare una scelta, e non sarebbe stata facile. Sperava almeno che
sarebbe dipesa da lei e non da accadimenti trascendentali di cui, stando laggiù
su Midgard come un’idiota, non avrebbe ricevuto facilmente notizia.
La
villetta degli Anwar-McNulty, con la sua facciata dipinta di giallo tenue che
dava sull’oceano e sui prati di Claddagh Park, spiccava nella notte grazie alle
molte luci accese e alle voci allegre che fuoriuscivano dai vetri socchiusi
della finestra della cucina. Erin si affacciò a essa chiamando rumorosamente i
familiari, e subito questi corsero ad aprirle il portoncino d’ingresso ridendo
e facendo una gran confusione: la accolsero i loro abbracci, il tepore interno
della casa e i suoi pavimenti di legno rossiccio, e uno stuzzicante odore di
zuppa di cipolle e patate arrostite, e lei lasciò cadere i bagagli a terra con
notevole sollievo.
Sotto il
sole di mezzodì inoltrato il verde dell’erba e l’azzurro dell’acqua erano
straordinariamente vividi, e gettavano riflessi cangianti sulle pareti della
vecchia stanza da letto di Erin. Le ultime volte che assieme al divino consorte
si era recata dai genitori aveva dormito con lui nella camera degli ospiti,
dunque era da molto che non trascorreva la notte affondata tra la confortevole
montagna di cuscini e trapunte in cui si era rotolata per i primi diciotto anni
della sua esistenza. Le lenzuola sapevano di bucato come allora.
«Via quel
culo dal materasso, signora Inganni! Il pranzo è quasi pronto e hanno già
chiamato due o tre tuoi amici reclamandoti con ardore per strimpellare in
qualche pub.»
Seamus
spalancò la porta con un calcio, asciugamano gettato sulle spalle e spazzolino
da denti brandito a mo’ di spada, e la flautista gli lanciò d’istinto una
pantofola, centrandolo:
«Via tu
dalla mia stanza, decerebrato! Ti sembra questo il modo di dare il buongiorno a
una dama altolocata come me? E poi che cazzo di nome è “signora Inganni”?»
grugnì.
Suo
fratello scoppiò a ridere: «Come dovrei chiamarti? Su ad Asgard non hanno
cognomi.» rispose tirandole indietro la ciabatta; «Dai, ti aspetto giù con il
nonno.»
«Tu non
dovresti essere all’università invece che qui a cazzeggiare?» lo provocò Erin
emergendo dalla massa di coperte, i capelli gonfi e scarmigliati come un nido.
«Esami.
Faccio quello che voglio.» trillò Seamus scendendo le scale.
La cucina
profumava di caffè appena fatto e la vecchia radio d’epoca sopra il frigorifero
trasmetteva una canzone italiana che Erin amava molto, Le piccole cose. Enoch McNulty sedeva al tavolo con il giornale del
mattino sotto il naso e una sigaretta tra le labbra, i folti capelli canuti
simili a una nuvola nella luce che entrava dalla finestra:
«Buongiorno,
bella nipote. Ti sei ripresa dal viaggio?» la accolse solenne.
«Ho
dormito dodici ore, nonno, direi che mi sono ritemprata a sufficienza.»
sghignazzò lei prendendo posto e guardandosi intorno; «Cosa c’è da mangiare?»
Seamus le
versò un’abbondante tazza di caffè fumante: «Fidati di quel cuoco di tuo
fratello, donna! Piuttosto, credevamo che saresti tornata subito ad Asgard,
dopo il concerto. Invece eccoti qui, a sorpresa e da sola. Non vi sarete mica
lasciati, tu e il signor Inganni?» domandò.
«Mus,
andiamo. Non vedi che tua sorella porta la fede, ora? E non penso si sia
risposata.» lo interruppe Enoch gettandogli una rapida occhiata di avvertimento.
Erin
continuò a ridacchiare, divertita dal fatto che tutti imputassero a un
fantomatico divorzio il suo trovarsi sulla Terra, e si ricordò di non aver
ancora raccontato alcunché ai familiari: non li aveva mai chiamati, da quando
era giunta a Boston, salvo la sera dell’esibizione.
«In
realtà non torno ad Asgard da quasi un mese.» cominciò a spiegare con un
sospiro, sorseggiando l’espresso bollente: «Stanno succedendo cose assai gravi
e Loki ha ritenuto opportuno allontanarmi per tenermi al sicuro. È venuto a
trovarmi due settimane fa.»
Enoch
abbassò il quotidiano, ripiegandolo: «Quali cose gravi?»
La musicista
fece un gesto vago: «Minacce di guerra, piani contorti. C’è un popolo, storico
nemico degli Æsir, che ha proposto a mio marito un’alleanza nascosta volta a
distruggere Asgard in nome di una vecchia vendetta. Lui ha finto di accettare e
ha elaborato un controinganno, di cui sia Odino che Thor sono al corrente, per
togliere di mezzo i suddetti nemici una volta per tutte. Ha motivi molto personali
per non sopportarli.» riassunse.
«Chi
sarebbero questi tizi?» volle sapere Seamus. Aveva le sopracciglia aggrottate e
sembrava affascinato dalla vicenda, che doveva apparirgli dannatamente epica.
«Jotun,
Giganti di Ghiaccio. Mai visti in vita mia, ma mi dicono che sono dei grandi
figli di puttana.» borbottò Erin da dentro la tazza.
«C’è già
stata battaglia? Oppure è quello che stanno aspettando prima di farti tornare?
E quale sarebbe il piano contorto di cui parli?» interloquì il nonno in tono
grave.
Una delle
pentole sul fuoco sfrigolò e Seamus si affrettò a controllarne il contenuto,
distraendo per un minuto i congiunti dal difficile discorso e dando campo libero
alla radio, che adesso stava diramando le ultime notizie nazionali.
«Vorrei
tanto sapere se c’è stata o no. Potrebbe essere esploso l’intero regno, per
quel che ne so, e finché qualcuno non si degnerà di scendere quaggiù ad
aggiornarmi non potrò far altro che inventarmi le peggiori ipotesi al riguardo.»
sbottò Erin abbandonandosi contro lo schienale della sedia e rovesciando la
testa all’indietro; «Il piano contorto prevede che Loki se ne vada su Jotunheim
a intervalli regolari portando false informazioni ai Giganti sugli armamenti
asgardiani, mentre in realtà preparerà una trappola ai danni dei Giganti e a
vantaggio degli asgardiani. Non che mi convinca, ma lui è sicuro che quegli
stronzi blu non abbiano dubbi sulla sua presunta sincerità.»
«Sono veramente blu?» se ne uscì suo fratello
mentre rimestava nella casseruola.
«Perché non
ti convince?» indagò invece Enoch.
Lei
scrollò le spalle: «Perché dubito che gli jotun siano tanto sciocchi,
considerato poi che sono nemici di Asgard da eoni, e il mio divino consorte non
è proprio quel che si definisce una personcina affidabile. Inoltre questo suo
intrappolare con loro, quando avrebbe potuto trattarli da avversari
direttamente, ora che ha di nuovo l’appoggio della famiglia reale, mi fa
sospettare che abbia qualche mira nascosta di cui nemmeno io sono al corrente.»
«Qual è
la vecchia vendetta a cui ti sei riferita prima, Erin?» chiese Seamus spegnendo
il fornello.
«L’uccisione
dell’ex re di Jotunheim, Laufey, e la tentata distruzione di Jotunheim stesso.
I Giganti imputano a Thor tutto ciò, o così almeno hanno detto a Loki, ma è stato
Loki a fare entrambe le cose.» rispose la flautista guardando alternativamente
il fratello e il nonno, i quali sgranarono gli occhi e si bloccarono con in
mano il mestolo e l’ennesima sigaretta, fissandola: «Capite perché non sono del
tutto convinta di questo maledetto piano?»
Il
silenzio che calò nella cucina le confermò che capivano eccome. Enoch ritenne
opportuno alzare il volume della radio, tornata a trasmettere brani leggeri, e
Seamus scosse i ricci color rame chinandosi ad aprire lo sportello del forno:
la straordinaria fragranza di pane alle erbe che da esso si levò ebbe il potere
di rilassare Erin e di farle venire un grande appetito.
«Situazione di merda, sorella.» decretò il ragazzo.
«Grazie, fratello,
non me n’ero accorta.» lo schernì lei con un sorriso storto.
Il nonno
si affrettò ad apparecchiare la tavola e a tirar fuori tre bottiglie di
Guinness dal frigorifero: «Niente crucci a pranzo, nipoti. Mus ha preparato un
ottimo stufato e un dolce di birra e cacao che supera i confini della comune
bontà.» suggerì, e Seamus gongolò senza ritegno nell’affettare i suoi scones appena sfornati; «Ci occuperemo
più tardi dei problemi di Asgard, a stomaco pieno.»
Non che
ci fosse molto di cui occuparsi, pensò amaramente Erin. Quantomeno si dedicò al
cibo, distraendosi, e ad altre piacevoli conversazioni, e quando ebbero finito
di mangiare telefonò agli amici che l’avevano cercata durante la mattinata:
erano i ragazzi del suo gruppo di musica tradizionale, e poiché quella sera al
Crane era in programma una trad session e il proprietario reclamava la loro
presenza, le chiesero se le andava di provare nel pomeriggio e poi recarsi
direttamente là. La flautista accettò volentieri, sia per tenersi impegnata sia
perché da diverso tempo non suonava brani della sua verde terra e non stava coi
suoi vecchi compari.
Così indossò
la sua giacca di tweed prediletta, ereditata dall’adolescenza anni Settanta di
sua madre, e con la custodia del flauto in spalla si recò dagli amici. Grosse
nuvole gonfie e tinteggiate di grigio andavano addensandosi all’orizzonte,
simili a una flotta in rapido avvicinamento alla costa, e promettevano pioggia,
ma Erin non si curò di prendere l’ombrello. Si esercitarono blandamente fino
all’ora di cena, dedicandosi più alle chiacchiere che alle prove, e per le otto
raggiunsero il pub in Sea Road, giusto dietro il Claddagh e dunque non lontano
da casa Anwar-McNulty; c’erano già diversi altri musicisti, mescolati agli
avventori, e il palco al piano superiore era adorno di microfoni e alti sgabelli.
Dalle finestre si aveva una chiara visuale delle nubi sull’oceano, del Burke
Park, del prato in riva al mare e dei tetti delle villette di Grattan Road.
Alle nove e mezza, puntuali, iniziarono le sessioni musicali: il locale era
pieno su entrambi i livelli, e le esibizioni dei gruppi professionali si
alternarono a quelle degli amatori al pianterreno. La musica fluiva dall’alto
verso il basso e viceversa, i clienti la seguivano e la birra scorreva copiosa,
e più le pinte si colmavano più le voci si facevano allegre e in molti
azzardavano danze e canti d’accompagnamento.
Quando
giunse il turno di Erin e i suoi, il tasso alcolemico e quello di delirio erano
splendidamente elevati. Proposero brani classici come Drunken sailor e Rocky road
to Dublin e alcuni più particolari come il marinaresco South Australia, e subito prima di attaccare con lo strumentale Morrison’s jig un paio di potenti
fulmini squarciarono il cielo notturno, subito seguiti da rombi di tuono: la
flautista, che per fortuna aveva diverse battute d’aspetto, sussultò e col
cuore in gola combatté l’impulso di correre fuori per scoprire se si trattava
del temporale che le nuvole e il vento del pomeriggio avevano preannunciato o
se erano fenomeni che poco avevano a che fare col tempo atmosferico. La pioggia
prese però a scrosciare tranquilla ed Erin si portò il flauto alle labbra e
cominciò a suonare, gli occhi comunque puntati su quel che riusciva a scorgere
dalle finestre. Ci furono un altro lampo e poi un altro ancora, ma il secondo
non riverberò bianco nel buio né durò un istante – fu più simile a uno scroscio
di luce iridescente che si riversò proprio su Claddagh Park e che strappò un
grido di meraviglia agli astanti. La giga terminò un attimo dopo, quasi
accompagnando alla perfezione la comparsa del Bifröst nei cieli di Galway, ed
Erin non attese oltre: sapeva che qualcuno era finalmente sceso su Midgard per
darle notizie e che questo qualcuno non era necessariamente suo marito; la
prospettiva la terrorizzava, poiché se fosse stato Thor, o uno dei Guerrieri, o
Sif, o addirittura Odino, al solo vedere il messaggero avrebbe capito che
qualcosa di brutto era capitato a Loki. Afferrando la borsa dello strumento al
volo e infilandosi malamente la giacca, incurante dei richiami perplessi dei
compagni, abbandonò la propria quinta pinta di Guinness al suo destino e si
precipitò in strada come una furia, dirigendosi a gambe levate verso casa. La
pioggia fine e persistente le sferzava il volto, inzuppandole flauto, capelli e
indumenti, eppure la sua attenzione era tutta per il bagliore ormai attenuatosi
lasciato dal Ponte Arcobaleno.
Arrivò di
fronte al portone senza fiato, gli stivali completamente annacquati che
schioccavano a ogni passo, e udì i suoi parlare in soggiorno: ne scorgeva le
sagome attraverso le tende tirate, e distinse almeno un ospite in piedi vicino
al divano. La figura era alta e vestita di scuro, e prendendo un profondo
respiro Erin entrò, seminando acqua nell’ingresso.
«Hai fatto
un tuffo in mare, moglie?» la apostrofò la voce di Loki in tono sornione non
appena mise piede in salotto, e il sollievo fu tale da strapparle una sonora
risata.
La chioma
corvina del dio era solo lievemente imperlata di gocce di pioggia, e nonostante
si trovasse in terra mortale indossava una delle sue tuniche di velluto verde
dai ricami dorati sui bordi e calzoni e stivali neri. Seamus, Maeve e Enoch stavano
comodamente seduti, distribuiti tra i sofà e le poltrone, e Patrick
fiancheggiava il genero con un bicchiere di whiskey in mano.
«Datemi
dieci minuti per asciugarmi e sono da voi.» annunciò la musicista dopo aver
stampato un lungo bacio sulla bocca del consorte, e con ciò sparì al piano di
sopra.
«Domani?»
annaspò Erin cercando di deglutire senza soffocarsi la birra che stava bevendo.
«Domani.»
confermò Loki, che le sedeva accanto, guardandola di sottecchi.
Fuori la
tempesta sembrava giunta a una tregua e un forte vento si era levato, facendo
vibrare i vetri. La famiglia Anwar-McNulty pendeva dalle labbra dei Dio degli
Inganni, dai suoi racconti sul Regno dei Ghiacci e da quel che aveva appena
annunciato: l’indomani si sarebbe recato laggiù per l’ultima volta, per dare il
via libera per l’attacco. I varchi erano aperti, l’esercito di Asgard
approntato, e il tutto lievemente in anticipo rispetto a quanto aveva detto ai
Giganti; ecco perché confidava che le loro truppe non fossero ancora al
completo e che l’effettiva partenza di un contingente di Einherjar per
l’entroterra non avrebbe costituito un grosso problema. Tacque alla consorte e
ai suoi parenti il fatto che la già labile fiducia di Thor e Odino andava
assottigliandosi, il crescente nervosismo che serpeggiava a corte nonostante la
segretezza dell’operazione e la difficoltà di garantire l’efficienza delle
truppe senza che qualcuno violasse tale riserbo; tacque sui sospetti e sulle
minacce di Sif che cominciavano a contagiare, come prevedibile, anche Hogun,
Fandral e Volstagg, e tacque nuovamente al riguardo di Býleistr e della richiesta
circa l’uccisione del Dio del Tuono. Qualcosa, nelle pieghe più recondite della
sua mente, gli gridava che era uno sbaglio – minimo, ma pur sempre uno sbaglio:
Erin Anwar era sua moglie e l’unica persona di cui si fidasse, nonché l’unica
che di lui si fidava, e almeno con lei avrebbe dovuto essere completamente onesto.
E tuttavia era così certo della riuscita delle proprie macchinazioni che si
disse che avrebbe potuto tranquillamente rivelarle quei dettagli quando tutto
fosse finito, quando finalmente avrebbero osservato, abbracciati, il Reame
Eterno divenuto ormai suo.
«Al più
tardi tra due dì tornerò a prenderti.» asserì quindi circondandole le spalle
con un braccio e sorridendole con espressione sinceramente rassicurante.
Lei
mugugnò in risposta e si accoccolò maggiormente sul divano, la fronte corrugata
sopra il bicchiere di Guinness. Seamus allora si alzò di scatto dalla poltrona
battendosi entrambe le mani sulle cosce: «Il messaggio è chiaro. Io mi ritiro.
Voi?» se ne uscì platealmente e con un sopracciglio inarcato con aria
sfrontata, rivolto ai genitori e al nonno.
«Vado a
prepararvi il letto nella camera degli ospiti!» cinguettò la madre dileguandosi
verso le scale, seguita a ruota dal coniuge che dedicò un cenno di saluto
all’asgardiano; Enoch terminò la propria sigaretta, la spense nel posacenere e
li imitò dando ai due sposi la buonanotte. Il secondogenito degli Anwar fu l’ultimo
ad andarsene e la sorella gli ringhiò dietro un secco “idiota!” a cui il
ragazzo replicò ridacchiando di gusto.
L’irlandese
e il dio rimasero soli nella stanza morbidamente illuminata e in cui l’ultima
Pall Mall di Enoch aveva tracciato un lieve alone di fumo. Il suono del vento
che giungeva ovattato dall’esterno, il comodo sofà e il calore del corpo di
Loki le misero addosso una gran voglia di starsene lì stretta a lui, a lasciarsi
cullare da quel senso di pace, dalla stanchezza e dal desiderio, e tuttavia si
costrinse a mettersi in piedi e a deambulare fino alla cucina: odiava i domani, e soprattutto i domani di quel genere. D’un tratto era
come ritrovarsi alla base dello S.H.I.E.L.D. in mezzo al deserto con la
promessa di una battaglia e di una separazione a pendere sopra le loro teste, e
sulla sua in particolare, come una fottuta spada di Damocle. Il dio le aveva
garantito che avrebbe potuto fare presto ritorno alla reggia e lei non dubitava
della sua parola, se le cose fossero andate bene – e proprio quello era il
problema: non c’era alcuna certezza, nella sua visione della faccenda, che essa
sarebbe finita nel migliore dei modi. E se Loki pareva incrollabile nella
propria confidenza, il dubbio che gli jotun fossero meno stupidi del previsto e
il timore che quella sarebbe stata l’ultima notte che trascorreva col marito
continuavano a mordere odiosamente lo stomaco di Erin, al punto di relegare in
secondo piano l’idea che lui le stesse mentendo o addirittura la stesse
imbrogliando.
«Erin. So
che sei preoccupata, e non dovresti esserlo. Credimi.» la apostrofò il principe
entrando in cucina e intuendo il suo turbamento. Si chiuse la porta alle spalle
e si avvicinò alla musicista, osservandone le belle gambe che spuntavano nude
al di sotto della casacca abbottonata e dei corti pantaloni del pigiama e
pensando a quanto aveva bramato stringerla nei giorni precedenti. Portava
ovviamente il suo anello d’oro, notò compiaciuto.
«E ti credo,
marito, ti credo. È dei tuoi dannati Giganti che non mi fido affatto.» ribatté
lei mentre sciacquava il bicchiere usato; «Come ti dissi un anno fa, però, sei
talmente sicuro di ciò che affermi che mi fiderò ancora di te.» aggiunse
guardandolo.
Si spostò
al tavolo per asciugare la stoviglia e l’asgardiano le fu alle spalle, calmo e
silenzioso, senza smettere di fissarla. Erin sentì il suo fiato tiepido sul
collo e inghiottì un sospiro vibrante, agognando il suo tocco, e quando le mani
di lui scesero tranquille a sganciarle i bottoni della maglia quasi sussultò.
Poi si allontanarono per pochi secondi, il tempo di aprirsi i ganci della
tunica, e tornarono indietro, e scivolarono sulla pelle tiepida dell’irlandese
fino a infilarsi oltre l’orlo dei suoi calzoncini, e oltre ancora. Lei emise
una buffa, brevissima risata simile a un soffio e si appoggiò al consorte
rovesciando il capo per baciargli la linea del mento: era dagli anni del liceo
che non faceva clandestinamente sesso in casa dei suoi, e l’idea la divertì ed
eccitò insieme. Sentì le lunghe, forti dita di Loki risalire ai suoi seni,
tornare indietro e fermarlesi sui fianchi tenendola saldamente contro il
proprio bacino, e una morsa ben nota le trafisse il basso ventre, una voglia
tangibile che la pungeva tra le gambe.
Chinandolesi
sopra, il dio spinse la moglie ad abbassarsi, e vedendola aggrapparsi al tavolo
e chiudere gli occhi e inarcare la schiena strinse la presa sui suoi lombi e
affondò in lei con un fremito. Ed Erin si morse la lingua per non urlare
troppo, e le tristi prospettive di morte, d’ignoto, di separazione, inganno e
lontananza che la crucciavano furono spazzate via; non scomparvero del tutto,
ma non poterono competere col piacere che come una marea di lava le arroventò
ogni cellula – e che altrettanto infiammò l’asgardiano, che si tenne ai fianchi
e alle natiche della donna d’Irlanda come se temesse, segretamente, di vederla
svanire, o di svanire lui stesso. Con le mani andò a premerle sull’inguine e
più giù, e lei non seppe esimersi, stavolta, dal gridare. E poiché aveva
bisogno di guardarlo, di mirare il volto che tanto amava, si sforzò di fermare
il marito e di staccarsi da lui quel poco che bastava per girarsi, distendersi
sul tavolo e tirarlo tra le sue cosce, impossessandosi finalmente della sua
bocca.
E
continuarono così a fare l’amore, scomodamente adagiati l’uno sull’altra e
reciprocamente, completamente ebbri, nell’accogliente stanza immota colma solo
dei loro caldi respiri.
Fuori
aveva ripreso a piovere.
Note
E così finisce la quiete prima della tempesta.
Un capitolo ambientato in quel di Galway era doveroso, anche perché adoro
la famiglia (di pazzi) di Erin: nel cast ideale di un film tratto dalla storia
Seamus sarebbe Eddie Redmayne, mamma Maeve sarebbe Catherine Tate, babbo
Patrick sarebbe Tim Daly e nonno Enoch nientepopodimenoche
Clint Eastwood. E se prendete una mappa di Galway ritroverete tutte le vie, i
parchi e i locali che ho citato. L’appellativo “signora Inganni” che Mus dà
alla sorella è la traduzione migliore che ho potuto dare, in italiano, a “Ms.
Mischief” – ovvero come Mus la chiamerebbe in lingua originale, essendo Loki “Mr.
Mischief” ;)
Il titolo del capitolo è tratto da Jump
on my shoulders degli Awolnation, che nella prima strofa dice there’s a mad man looking at you / and he
wants to take you soul / there’s a mad man with a man plan / and he’s dancing
at your door. La canzone che la radio passa, Le piccole cose, è del mio vecchio gruppo, Les Griotes: dovreste
ancora trovarla su Facebook, MySpace e simili, se vi va di sentirla; anche
altri due dei brani che accompagnano questo capitolo, Planxty Davis per la parte del viaggio in autobus e Morrison’s jig, sono rintracciabili
sulle pagine del mio gruppo di musica irlandese, gli How Now Brown Cow *ora la
pianto con lo spam musicale*, mentre per la scena finale ho scelto The lightning strike degli Snow Patrol.
Cosa accadrà mai adesso, secondo voi? Eddai, una recensioncina
lasciatemela, siamo quasi a Natale :D
Grazie a tutti e ci sentiamo col prossimo (importantissimo) capitolo.
Ossequi asgardiani :)