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Autore: Blackmoody    13/12/2013    1 recensioni
[...] e sulla parete si delineò una fenditura dai contorni danzanti, una sorta di stretto uscio aperto su stelle e oscurità che vacillavano e svanivano a tratti. Qualcuno allora si fece avanti attraverso quel nulla, titubante e forse sorpreso, e il Dio degli Inganni distinse una robusta creatura dalla pelle cerulea coperta da una leggera armatura di cuoio scuro. Un manto di pelliccia gli pendeva dalle spalle e una corta daga dal fianco sinistro, e le sue iridi sanguigne lo fissavano prive di astio.

Circa un anno dopo l'ultima grande battaglia contro il Folle Titano, la vita di Loki di Asgard ed Erin di Galway scorre pacifica – in attesa, forse, di nuove opportunità di conquista da cogliere. Ma c'è qualcosa del suo passato con cui l'Ingannatore ha ancora un conto aperto: qualcosa che giungerà dal buio di vaste e antiche lande di ghiaccio e neve.
SEGUITO DI THE MAJESTIC TALE, post-Avengers, sedici capitoli.
Genere: Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Loki, Nuovo personaggio, Thor
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Majestic Tale of the Mischief Maker and the Flute Maiden'
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7.

Mad man with a mad plan

 

 

 

 

 

 

Il concerto dedicato a Beethoven e Stravinskji era andato molto bene.

Non che Erin vi avesse fatto troppo caso: dal ritorno di Loki ad Asgard aveva fatto ben poco, salvo rimirare la fede che ora sfoggiava con sommo compiacimento e cantare a squarciagola a giornate intere canzoni significative come You and me di Alice Cooper, Mamma mia degli Abba e soprattutto Will you love me tomorrow? di Carole King – in maglione di lana, mutande e calzettoni a giro per casa, le giornate che oltre le finestre del suo appartamento si facevano via via più lunghe. E aveva bevuto e suonato come una disperata, e si era distratta a suon di libri e serie televisive, arrivando a pensare, birra e telecomando alla mano, che il suo divino consorte avrebbe apprezzato molto Dexter, se avesse accettato di guardarlo. Si era lasciata tentare da Owen e persino da Francis, in onore dei tempi andati delle loro strane storie, e tutto solo per distrarsi e non rovinarsi le giornate affogando in dubbi e sospetti e timori, e in fondo le era servito. Poi c’era stato il gran concerto, appunto: un trionfo strepitoso che aveva sommerso d’applausi la Boston Opera House e colmato le testate dei giornali della metropoli con entusiastiche recensioni e splendide foto degli orchestrali.

Ripresasi dall’ultima sbronza aveva quindi deciso che era tempo di tornare a Galway, approfittando delle ferie concesse a tutti i musicisti della BPO, e carica solo di bagaglio a mano e borsa contenente il flauto magico, un biglietto last minute in tasca, aveva di buon’ora preso la metro fino all’aeroporto, la mattina del lunedì dopo l’esibizione. L’aria era limpida e luminosa, ventilata e pulita in prossimità dell’oceano nonostante il caos cittadino: due settimane erano passate dalla visita di Loki, e la primavera era davvero alle porte.

Così quella sera stessa, stordita dal jet-lag e dal desiderio di dormire, mise piede sul suolo irlandese. Chiamò a casa per avvisare, lievemente in ritardo, che stava tornando e che si aspettava una lauta cena da riscaldare in forno; sua madre salutò la notizia con una colorita imprecazione, in lontananza udì suo padre congratularsi con lei per il consueto tempismo e riconobbe la risata congiunta di suo fratello e suo nonno. Se li immaginò comodamente stravaccati in salotto, in attesa del telegiornale, e sorrise nel salire sull’Éireann Bus che l’avrebbe condotta all’altro capo dell’isola. Il cielo era ormai scuro sopra Dublino, le luci della città che baluginando andavano a sfumare e farsi sporadiche man mano che la corriera avanzava verso le campagne, ma a ovest permaneva una striscia del colore del crepuscolo, sospesa tra le nuvole e l’orizzonte oltre la distesa indefinita di praterie e colline. Il vento profumava di terra bagnata e di pioggia e il petto di Erin si gonfiò di nostalgia: quasi non pensò nemmeno al marito e a tutte le incognite a lui legate, mentre guardava il buio verde d’Irlanda scivolare rapido fuori dai finestrini, e si lasciò cullare dall’andamento della vettura. Superarono Kinnegad, Athlone con le acque placide del Lough Ree che s’indovinavano alle sue spalle e il piccolo centro di Athenry, e alle nove entrarono infine a Galway, fermandosi al capolinea in Eyre Square. Nonostante la fame e la stanchezza, e nonostante Grattan Road non fosse esattamente dietro l’angolo, la flautista raggiunse a piedi la sua casa natale – con le mani cacciate nelle tasche del parka imbottito e le borse a tracolla si godette la camminata lungo i canali del Corrib e le strade lucide per il piovasco e il salmastro, respirando l’aria di mare a pieni polmoni. A giro c’era pochissima gente, essendo lunedì sera, e ciò acuì il piacevole senso d’estraniamento di Erin: in quei giorni si comportava come se tutto fosse normale, come se fosse rimasta la rutilante, giovane musicista di sempre, quella senza troppe beghe per il capo, quella che beveva e suonava e faceva la spola tra Boston e l’Irlanda andando in deliquio di fronte al minimo accenno di paesaggio natìo. E lo era, in effetti, e tuttavia adesso era anche una sorta di eroina intergalattica, la moglie del Dio degli Inganni e principessa asgardiana d’adozione, e mai come quel periodo in solitaria le era parso tanto difficile riuscire a far collimare i diversi, inconciliabili tasselli della sua nuova vita. Quando si spremeva le meningi non si chiedeva soltanto cosa poteva essere successo nel Reame Eterno durante la sua assenza e cosa aveva in mente Loki di preciso, ma anche per quanto ancora avrebbe potuto portare avanti quello sdoppiamento, quel saltare da un mondo all’altro usando un fottuto ponte dimensionale che rassomigliava a un enorme arcobaleno, e non contava il fatto che essendo mortale presto o tardi avrebbe comunque esaurito il tempo a sua disposizione: sentiva che prima di quel giorno avrebbe dovuto fare una scelta, e non sarebbe stata facile. Sperava almeno che sarebbe dipesa da lei e non da accadimenti trascendentali di cui, stando laggiù su Midgard come un’idiota, non avrebbe ricevuto facilmente notizia.

La villetta degli Anwar-McNulty, con la sua facciata dipinta di giallo tenue che dava sull’oceano e sui prati di Claddagh Park, spiccava nella notte grazie alle molte luci accese e alle voci allegre che fuoriuscivano dai vetri socchiusi della finestra della cucina. Erin si affacciò a essa chiamando rumorosamente i familiari, e subito questi corsero ad aprirle il portoncino d’ingresso ridendo e facendo una gran confusione: la accolsero i loro abbracci, il tepore interno della casa e i suoi pavimenti di legno rossiccio, e uno stuzzicante odore di zuppa di cipolle e patate arrostite, e lei lasciò cadere i bagagli a terra con notevole sollievo.

 

 

Sotto il sole di mezzodì inoltrato il verde dell’erba e l’azzurro dell’acqua erano straordinariamente vividi, e gettavano riflessi cangianti sulle pareti della vecchia stanza da letto di Erin. Le ultime volte che assieme al divino consorte si era recata dai genitori aveva dormito con lui nella camera degli ospiti, dunque era da molto che non trascorreva la notte affondata tra la confortevole montagna di cuscini e trapunte in cui si era rotolata per i primi diciotto anni della sua esistenza. Le lenzuola sapevano di bucato come allora.

«Via quel culo dal materasso, signora Inganni! Il pranzo è quasi pronto e hanno già chiamato due o tre tuoi amici reclamandoti con ardore per strimpellare in qualche pub.»

Seamus spalancò la porta con un calcio, asciugamano gettato sulle spalle e spazzolino da denti brandito a mo’ di spada, e la flautista gli lanciò d’istinto una pantofola, centrandolo:

«Via tu dalla mia stanza, decerebrato! Ti sembra questo il modo di dare il buongiorno a una dama altolocata come me? E poi che cazzo di nome è “signora Inganni”?» grugnì.

Suo fratello scoppiò a ridere: «Come dovrei chiamarti? Su ad Asgard non hanno cognomi.» rispose tirandole indietro la ciabatta; «Dai, ti aspetto giù con il nonno.»

«Tu non dovresti essere all’università invece che qui a cazzeggiare?» lo provocò Erin emergendo dalla massa di coperte, i capelli gonfi e scarmigliati come un nido.

«Esami. Faccio quello che voglio.» trillò Seamus scendendo le scale.

La cucina profumava di caffè appena fatto e la vecchia radio d’epoca sopra il frigorifero trasmetteva una canzone italiana che Erin amava molto, Le piccole cose. Enoch McNulty sedeva al tavolo con il giornale del mattino sotto il naso e una sigaretta tra le labbra, i folti capelli canuti simili a una nuvola nella luce che entrava dalla finestra:

«Buongiorno, bella nipote. Ti sei ripresa dal viaggio?» la accolse solenne.

«Ho dormito dodici ore, nonno, direi che mi sono ritemprata a sufficienza.» sghignazzò lei prendendo posto e guardandosi intorno; «Cosa c’è da mangiare?»

Seamus le versò un’abbondante tazza di caffè fumante: «Fidati di quel cuoco di tuo fratello, donna! Piuttosto, credevamo che saresti tornata subito ad Asgard, dopo il concerto. Invece eccoti qui, a sorpresa e da sola. Non vi sarete mica lasciati, tu e il signor Inganni?» domandò.

«Mus, andiamo. Non vedi che tua sorella porta la fede, ora? E non penso si sia risposata.» lo interruppe Enoch gettandogli una rapida occhiata di avvertimento.

Erin continuò a ridacchiare, divertita dal fatto che tutti imputassero a un fantomatico divorzio il suo trovarsi sulla Terra, e si ricordò di non aver ancora raccontato alcunché ai familiari: non li aveva mai chiamati, da quando era giunta a Boston, salvo la sera dell’esibizione.

«In realtà non torno ad Asgard da quasi un mese.» cominciò a spiegare con un sospiro, sorseggiando l’espresso bollente: «Stanno succedendo cose assai gravi e Loki ha ritenuto opportuno allontanarmi per tenermi al sicuro. È venuto a trovarmi due settimane fa.»

Enoch abbassò il quotidiano, ripiegandolo: «Quali cose gravi?»

La musicista fece un gesto vago: «Minacce di guerra, piani contorti. C’è un popolo, storico nemico degli Æsir, che ha proposto a mio marito un’alleanza nascosta volta a distruggere Asgard in nome di una vecchia vendetta. Lui ha finto di accettare e ha elaborato un controinganno, di cui sia Odino che Thor sono al corrente, per togliere di mezzo i suddetti nemici una volta per tutte. Ha motivi molto personali per non sopportarli.» riassunse.

«Chi sarebbero questi tizi?» volle sapere Seamus. Aveva le sopracciglia aggrottate e sembrava affascinato dalla vicenda, che doveva apparirgli dannatamente epica.

«Jotun, Giganti di Ghiaccio. Mai visti in vita mia, ma mi dicono che sono dei grandi figli di puttana.» borbottò Erin da dentro la tazza.

«C’è già stata battaglia? Oppure è quello che stanno aspettando prima di farti tornare? E quale sarebbe il piano contorto di cui parli?» interloquì il nonno in tono grave.

Una delle pentole sul fuoco sfrigolò e Seamus si affrettò a controllarne il contenuto, distraendo per un minuto i congiunti dal difficile discorso e dando campo libero alla radio, che adesso stava diramando le ultime notizie nazionali.

«Vorrei tanto sapere se c’è stata o no. Potrebbe essere esploso l’intero regno, per quel che ne so, e finché qualcuno non si degnerà di scendere quaggiù ad aggiornarmi non potrò far altro che inventarmi le peggiori ipotesi al riguardo.» sbottò Erin abbandonandosi contro lo schienale della sedia e rovesciando la testa all’indietro; «Il piano contorto prevede che Loki se ne vada su Jotunheim a intervalli regolari portando false informazioni ai Giganti sugli armamenti asgardiani, mentre in realtà preparerà una trappola ai danni dei Giganti e a vantaggio degli asgardiani. Non che mi convinca, ma lui è sicuro che quegli stronzi blu non abbiano dubbi sulla sua presunta sincerità.»

«Sono veramente blu?» se ne uscì suo fratello mentre rimestava nella casseruola.

«Perché non ti convince?» indagò invece Enoch.

Lei scrollò le spalle: «Perché dubito che gli jotun siano tanto sciocchi, considerato poi che sono nemici di Asgard da eoni, e il mio divino consorte non è proprio quel che si definisce una personcina affidabile. Inoltre questo suo intrappolare con loro, quando avrebbe potuto trattarli da avversari direttamente, ora che ha di nuovo l’appoggio della famiglia reale, mi fa sospettare che abbia qualche mira nascosta di cui nemmeno io sono al corrente.»

«Qual è la vecchia vendetta a cui ti sei riferita prima, Erin?» chiese Seamus spegnendo il fornello.

«L’uccisione dell’ex re di Jotunheim, Laufey, e la tentata distruzione di Jotunheim stesso. I Giganti imputano a Thor tutto ciò, o così almeno hanno detto a Loki, ma è stato Loki a fare entrambe le cose.» rispose la flautista guardando alternativamente il fratello e il nonno, i quali sgranarono gli occhi e si bloccarono con in mano il mestolo e l’ennesima sigaretta, fissandola: «Capite perché non sono del tutto convinta di questo maledetto piano?»

Il silenzio che calò nella cucina le confermò che capivano eccome. Enoch ritenne opportuno alzare il volume della radio, tornata a trasmettere brani leggeri, e Seamus scosse i ricci color rame chinandosi ad aprire lo sportello del forno: la straordinaria fragranza di pane alle erbe che da esso si levò ebbe il potere di rilassare Erin e di farle venire un grande appetito.

«Situazione di merda, sorella.» decretò il ragazzo.                                                                           

«Grazie, fratello, non me n’ero accorta.» lo schernì lei con un sorriso storto.

Il nonno si affrettò ad apparecchiare la tavola e a tirar fuori tre bottiglie di Guinness dal frigorifero: «Niente crucci a pranzo, nipoti. Mus ha preparato un ottimo stufato e un dolce di birra e cacao che supera i confini della comune bontà.» suggerì, e Seamus gongolò senza ritegno nell’affettare i suoi scones appena sfornati; «Ci occuperemo più tardi dei problemi di Asgard, a stomaco pieno.»

Non che ci fosse molto di cui occuparsi, pensò amaramente Erin. Quantomeno si dedicò al cibo, distraendosi, e ad altre piacevoli conversazioni, e quando ebbero finito di mangiare telefonò agli amici che l’avevano cercata durante la mattinata: erano i ragazzi del suo gruppo di musica tradizionale, e poiché quella sera al Crane era in programma una trad session e il proprietario reclamava la loro presenza, le chiesero se le andava di provare nel pomeriggio e poi recarsi direttamente là. La flautista accettò volentieri, sia per tenersi impegnata sia perché da diverso tempo non suonava brani della sua verde terra e non stava coi suoi vecchi compari.

Così indossò la sua giacca di tweed prediletta, ereditata dall’adolescenza anni Settanta di sua madre, e con la custodia del flauto in spalla si recò dagli amici. Grosse nuvole gonfie e tinteggiate di grigio andavano addensandosi all’orizzonte, simili a una flotta in rapido avvicinamento alla costa, e promettevano pioggia, ma Erin non si curò di prendere l’ombrello. Si esercitarono blandamente fino all’ora di cena, dedicandosi più alle chiacchiere che alle prove, e per le otto raggiunsero il pub in Sea Road, giusto dietro il Claddagh e dunque non lontano da casa Anwar-McNulty; c’erano già diversi altri musicisti, mescolati agli avventori, e il palco al piano superiore era adorno di microfoni e alti sgabelli. Dalle finestre si aveva una chiara visuale delle nubi sull’oceano, del Burke Park, del prato in riva al mare e dei tetti delle villette di Grattan Road. Alle nove e mezza, puntuali, iniziarono le sessioni musicali: il locale era pieno su entrambi i livelli, e le esibizioni dei gruppi professionali si alternarono a quelle degli amatori al pianterreno. La musica fluiva dall’alto verso il basso e viceversa, i clienti la seguivano e la birra scorreva copiosa, e più le pinte si colmavano più le voci si facevano allegre e in molti azzardavano danze e canti d’accompagnamento.

Quando giunse il turno di Erin e i suoi, il tasso alcolemico e quello di delirio erano splendidamente elevati. Proposero brani classici come Drunken sailor e Rocky road to Dublin e alcuni più particolari come il marinaresco South Australia, e subito prima di attaccare con lo strumentale Morrison’s jig un paio di potenti fulmini squarciarono il cielo notturno, subito seguiti da rombi di tuono: la flautista, che per fortuna aveva diverse battute d’aspetto, sussultò e col cuore in gola combatté l’impulso di correre fuori per scoprire se si trattava del temporale che le nuvole e il vento del pomeriggio avevano preannunciato o se erano fenomeni che poco avevano a che fare col tempo atmosferico. La pioggia prese però a scrosciare tranquilla ed Erin si portò il flauto alle labbra e cominciò a suonare, gli occhi comunque puntati su quel che riusciva a scorgere dalle finestre. Ci furono un altro lampo e poi un altro ancora, ma il secondo non riverberò bianco nel buio né durò un istante – fu più simile a uno scroscio di luce iridescente che si riversò proprio su Claddagh Park e che strappò un grido di meraviglia agli astanti. La giga terminò un attimo dopo, quasi accompagnando alla perfezione la comparsa del Bifröst nei cieli di Galway, ed Erin non attese oltre: sapeva che qualcuno era finalmente sceso su Midgard per darle notizie e che questo qualcuno non era necessariamente suo marito; la prospettiva la terrorizzava, poiché se fosse stato Thor, o uno dei Guerrieri, o Sif, o addirittura Odino, al solo vedere il messaggero avrebbe capito che qualcosa di brutto era capitato a Loki. Afferrando la borsa dello strumento al volo e infilandosi malamente la giacca, incurante dei richiami perplessi dei compagni, abbandonò la propria quinta pinta di Guinness al suo destino e si precipitò in strada come una furia, dirigendosi a gambe levate verso casa. La pioggia fine e persistente le sferzava il volto, inzuppandole flauto, capelli e indumenti, eppure la sua attenzione era tutta per il bagliore ormai attenuatosi lasciato dal Ponte Arcobaleno.

Arrivò di fronte al portone senza fiato, gli stivali completamente annacquati che schioccavano a ogni passo, e udì i suoi parlare in soggiorno: ne scorgeva le sagome attraverso le tende tirate, e distinse almeno un ospite in piedi vicino al divano. La figura era alta e vestita di scuro, e prendendo un profondo respiro Erin entrò, seminando acqua nell’ingresso.

«Hai fatto un tuffo in mare, moglie?» la apostrofò la voce di Loki in tono sornione non appena mise piede in salotto, e il sollievo fu tale da strapparle una sonora risata.

La chioma corvina del dio era solo lievemente imperlata di gocce di pioggia, e nonostante si trovasse in terra mortale indossava una delle sue tuniche di velluto verde dai ricami dorati sui bordi e calzoni e stivali neri. Seamus, Maeve e Enoch stavano comodamente seduti, distribuiti tra i sofà e le poltrone, e Patrick fiancheggiava il genero con un bicchiere di whiskey in mano.

«Datemi dieci minuti per asciugarmi e sono da voi.» annunciò la musicista dopo aver stampato un lungo bacio sulla bocca del consorte, e con ciò sparì al piano di sopra.

 

 

«Domani?» annaspò Erin cercando di deglutire senza soffocarsi la birra che stava bevendo.

«Domani.» confermò Loki, che le sedeva accanto, guardandola di sottecchi.

Fuori la tempesta sembrava giunta a una tregua e un forte vento si era levato, facendo vibrare i vetri. La famiglia Anwar-McNulty pendeva dalle labbra dei Dio degli Inganni, dai suoi racconti sul Regno dei Ghiacci e da quel che aveva appena annunciato: l’indomani si sarebbe recato laggiù per l’ultima volta, per dare il via libera per l’attacco. I varchi erano aperti, l’esercito di Asgard approntato, e il tutto lievemente in anticipo rispetto a quanto aveva detto ai Giganti; ecco perché confidava che le loro truppe non fossero ancora al completo e che l’effettiva partenza di un contingente di Einherjar per l’entroterra non avrebbe costituito un grosso problema. Tacque alla consorte e ai suoi parenti il fatto che la già labile fiducia di Thor e Odino andava assottigliandosi, il crescente nervosismo che serpeggiava a corte nonostante la segretezza dell’operazione e la difficoltà di garantire l’efficienza delle truppe senza che qualcuno violasse tale riserbo; tacque sui sospetti e sulle minacce di Sif che cominciavano a contagiare, come prevedibile, anche Hogun, Fandral e Volstagg, e tacque nuovamente al riguardo di Býleistr e della richiesta circa l’uccisione del Dio del Tuono. Qualcosa, nelle pieghe più recondite della sua mente, gli gridava che era uno sbaglio – minimo, ma pur sempre uno sbaglio: Erin Anwar era sua moglie e l’unica persona di cui si fidasse, nonché l’unica che di lui si fidava, e almeno con lei avrebbe dovuto essere completamente onesto. E tuttavia era così certo della riuscita delle proprie macchinazioni che si disse che avrebbe potuto tranquillamente rivelarle quei dettagli quando tutto fosse finito, quando finalmente avrebbero osservato, abbracciati, il Reame Eterno divenuto ormai suo.

«Al più tardi tra due dì tornerò a prenderti.» asserì quindi circondandole le spalle con un braccio e sorridendole con espressione sinceramente rassicurante.

Lei mugugnò in risposta e si accoccolò maggiormente sul divano, la fronte corrugata sopra il bicchiere di Guinness. Seamus allora si alzò di scatto dalla poltrona battendosi entrambe le mani sulle cosce: «Il messaggio è chiaro. Io mi ritiro. Voi?» se ne uscì platealmente e con un sopracciglio inarcato con aria sfrontata, rivolto ai genitori e al nonno.

«Vado a prepararvi il letto nella camera degli ospiti!» cinguettò la madre dileguandosi verso le scale, seguita a ruota dal coniuge che dedicò un cenno di saluto all’asgardiano; Enoch terminò la propria sigaretta, la spense nel posacenere e li imitò dando ai due sposi la buonanotte. Il secondogenito degli Anwar fu l’ultimo ad andarsene e la sorella gli ringhiò dietro un secco “idiota!” a cui il ragazzo replicò ridacchiando di gusto.

L’irlandese e il dio rimasero soli nella stanza morbidamente illuminata e in cui l’ultima Pall Mall di Enoch aveva tracciato un lieve alone di fumo. Il suono del vento che giungeva ovattato dall’esterno, il comodo sofà e il calore del corpo di Loki le misero addosso una gran voglia di starsene lì stretta a lui, a lasciarsi cullare da quel senso di pace, dalla stanchezza e dal desiderio, e tuttavia si costrinse a mettersi in piedi e a deambulare fino alla cucina: odiava i domani, e soprattutto i domani di quel genere. D’un tratto era come ritrovarsi alla base dello S.H.I.E.L.D. in mezzo al deserto con la promessa di una battaglia e di una separazione a pendere sopra le loro teste, e sulla sua in particolare, come una fottuta spada di Damocle. Il dio le aveva garantito che avrebbe potuto fare presto ritorno alla reggia e lei non dubitava della sua parola, se le cose fossero andate bene – e proprio quello era il problema: non c’era alcuna certezza, nella sua visione della faccenda, che essa sarebbe finita nel migliore dei modi. E se Loki pareva incrollabile nella propria confidenza, il dubbio che gli jotun fossero meno stupidi del previsto e il timore che quella sarebbe stata l’ultima notte che trascorreva col marito continuavano a mordere odiosamente lo stomaco di Erin, al punto di relegare in secondo piano l’idea che lui le stesse mentendo o addirittura la stesse imbrogliando.

«Erin. So che sei preoccupata, e non dovresti esserlo. Credimi.» la apostrofò il principe entrando in cucina e intuendo il suo turbamento. Si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò alla musicista, osservandone le belle gambe che spuntavano nude al di sotto della casacca abbottonata e dei corti pantaloni del pigiama e pensando a quanto aveva bramato stringerla nei giorni precedenti. Portava ovviamente il suo anello d’oro, notò compiaciuto.

«E ti credo, marito, ti credo. È dei tuoi dannati Giganti che non mi fido affatto.» ribatté lei mentre sciacquava il bicchiere usato; «Come ti dissi un anno fa, però, sei talmente sicuro di ciò che affermi che mi fiderò ancora di te.» aggiunse guardandolo.

Si spostò al tavolo per asciugare la stoviglia e l’asgardiano le fu alle spalle, calmo e silenzioso, senza smettere di fissarla. Erin sentì il suo fiato tiepido sul collo e inghiottì un sospiro vibrante, agognando il suo tocco, e quando le mani di lui scesero tranquille a sganciarle i bottoni della maglia quasi sussultò. Poi si allontanarono per pochi secondi, il tempo di aprirsi i ganci della tunica, e tornarono indietro, e scivolarono sulla pelle tiepida dell’irlandese fino a infilarsi oltre l’orlo dei suoi calzoncini, e oltre ancora. Lei emise una buffa, brevissima risata simile a un soffio e si appoggiò al consorte rovesciando il capo per baciargli la linea del mento: era dagli anni del liceo che non faceva clandestinamente sesso in casa dei suoi, e l’idea la divertì ed eccitò insieme. Sentì le lunghe, forti dita di Loki risalire ai suoi seni, tornare indietro e fermarlesi sui fianchi tenendola saldamente contro il proprio bacino, e una morsa ben nota le trafisse il basso ventre, una voglia tangibile che la pungeva tra le gambe.

Chinandolesi sopra, il dio spinse la moglie ad abbassarsi, e vedendola aggrapparsi al tavolo e chiudere gli occhi e inarcare la schiena strinse la presa sui suoi lombi e affondò in lei con un fremito. Ed Erin si morse la lingua per non urlare troppo, e le tristi prospettive di morte, d’ignoto, di separazione, inganno e lontananza che la crucciavano furono spazzate via; non scomparvero del tutto, ma non poterono competere col piacere che come una marea di lava le arroventò ogni cellula – e che altrettanto infiammò l’asgardiano, che si tenne ai fianchi e alle natiche della donna d’Irlanda come se temesse, segretamente, di vederla svanire, o di svanire lui stesso. Con le mani andò a premerle sull’inguine e più giù, e lei non seppe esimersi, stavolta, dal gridare. E poiché aveva bisogno di guardarlo, di mirare il volto che tanto amava, si sforzò di fermare il marito e di staccarsi da lui quel poco che bastava per girarsi, distendersi sul tavolo e tirarlo tra le sue cosce, impossessandosi finalmente della sua bocca.

E continuarono così a fare l’amore, scomodamente adagiati l’uno sull’altra e reciprocamente, completamente ebbri, nell’accogliente stanza immota colma solo dei loro caldi respiri.

Fuori aveva ripreso a piovere.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

E così finisce la quiete prima della tempesta.

Un capitolo ambientato in quel di Galway era doveroso, anche perché adoro la famiglia (di pazzi) di Erin: nel cast ideale di un film tratto dalla storia Seamus sarebbe Eddie Redmayne, mamma Maeve sarebbe Catherine Tate, babbo Patrick sarebbe Tim Daly e nonno Enoch nientepopodimenoche Clint Eastwood. E se prendete una mappa di Galway ritroverete tutte le vie, i parchi e i locali che ho citato. L’appellativo “signora Inganni” che Mus dà alla sorella è la traduzione migliore che ho potuto dare, in italiano, a “Ms. Mischief” – ovvero come Mus la chiamerebbe in lingua originale, essendo Loki “Mr. Mischief” ;)

Il titolo del capitolo è tratto da Jump on my shoulders degli Awolnation, che nella prima strofa dice there’s a mad man looking at you / and he wants to take you soul / there’s a mad man with a man plan / and he’s dancing at your door. La canzone che la radio passa, Le piccole cose, è del mio vecchio gruppo, Les Griotes: dovreste ancora trovarla su Facebook, MySpace e simili, se vi va di sentirla; anche altri due dei brani che accompagnano questo capitolo, Planxty Davis per la parte del viaggio in autobus e Morrison’s jig, sono rintracciabili sulle pagine del mio gruppo di musica irlandese, gli How Now Brown Cow *ora la pianto con lo spam musicale*, mentre per la scena finale ho scelto The lightning strike degli Snow Patrol.

Cosa accadrà mai adesso, secondo voi? Eddai, una recensioncina lasciatemela, siamo quasi a Natale :D

Grazie a tutti e ci sentiamo col prossimo (importantissimo) capitolo. Ossequi asgardiani :)

  
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